GLOBALIZZ AZIONEIl report dell`«Economist» ha puntato i riflettori

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GLOBALIZZ AZIONEIl report dell`«Economist» ha puntato i riflettori
L’approfondimento
In tutto il mondo occidentale stanno crescendo
il disagio e le preoccupazioni per l’economia
globale. Sono state sottovalutate le tensioni
che ha prodotto. E sono stati fatti troppo pochi
sforzi per aiutare coloro che ne sono usciti
sconfitti. Ma nonostante gli errori, continuare
su questa via è la migliore delle opzioni
percorribili. La ricetta? Accordi internazionali
in grado di fissare standard condivisi
di Federica Vandini
se ci fossimo sbagliati? Se la globalizzazione non
fosse (più) un fattore positivo? Se la libera circolazioni di merci, persone, capitali fosse ormai solo a vantaggio di pochi? Sullo sfondo di uno scenario quanto mai turbolento e incerto su entrambi i lati dell’oceano (dalla Brexit
alle elezioni americane), sono le domande che si pone l’«Economist». L’influente settimanale britannico, in uno special
report, ha provato ad andare oltre le ideologie «spezzettando» il concetto di globalizzazione in singoli casi concreti, per
capire cosa sta funzionando e cosa va corretto, quali errori
sono stati fatti e da parte di chi. Alla fine l’economia aperta
ne esce con le ossa rotte, ma con la consapevolezza che rimetterla in sesto sia la migliore delle opzioni percorribili. L’unica ricetta? Accordi internazionali in grado di fissare standard condivisi, possibilmente a livello globale.
E
Clamoroso mea culpa dell’Fmi
E se si parla di errori, ce n’è uno che ha fatto scalpore.
Nella storia economica recente l’ammissione dell’errore si è
fatta strada all’interno di una delle istituzioni più autorevoli a livello mondiale, il Fondo monetario internazionale, ed è
culminata nel 2012 nel memorabile «mea culpa» dell’allora
capo economista, il keynesiano Olivier Blanchard, che ha
riconosciuto che i programmi di austerità promossi durante
gli anni di crisi hanno causato più danni di quanto previsto.
In particolare a causa di un moltiplicatore errato per valutare gli effetti sul Pil dei tagli alla spesa decisi in un contesto di
recessione.
L’economista francese, per sette anni alla guida del
La redazione dell’«Economist» a Londra
I dubbi sulla
GLOBALIZZ AZIONE
32 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017
Il report dell’«Economist»
ha puntato i riflettori
sull’economia aperta
a partire da casi concreti
GENNAIO/FEBBRAIO 2017 - OUTLOOK 33
L’approfondimento
Il parere | Francesco Saraceno:
«Fmi, bilancio di un mandato controcorrente»
I
l capo economista del Fondo monetario internazionale, l’economista
francese Olivier Blanchard, lascia il proprio incarico nell’autunno
2015, dopo sette anni dirompenti. Sia per il contesto storico (arrivò
poche settimane dopo il crash di Lehman Brothers) sia per la profonda trasformazione impressa in prima persona al dipartimento di
ricerca di quell’ente. «L’Fmi è stato a lungo uno dei pilastri del cosiddetto Washington Consensus, un corpus di prescrizioni di politica
economica basato sull’assunzione che l’efficienza dei mercati rendesse inutile la politica economica e che, indipendentemente dalle
specificità di ogni Paese, la ricetta per una crescita duratura passasse attraverso una riduzione del ruolo dello Stato nell’economia»,
ricorda, dalle colonne del «Sole 24 Ore», Francesco Saraceno, economista dell’Osservatorio sulla congiuntura (Ofce). «La crisi ha spazzato
via il consenso, e Blanchard ne ha preso atto con coraggio e umiltà.
Sotto la sua direzione i ricercatori dell’Fmi hanno scrutinato tutti gli
antichi dogmi verificandone l’inconsistenza».
Prima c’è stato il clamoroso «mea culpa» dell’ottobre 2012, quando il
Fondo ha sconfessato le proprie precedenti stime sulla dimensione
dei moltiplicatori, certificando così che l’austerità non avrebbe potuto
funzionare. «Grazie a questo studio la politica fiscale è tornata tra gli
«La crisi
ha smentito
che la crescita
passasse
attraverso
una riduzione
del ruolo
dello Stato
nell’economia»,
spiega Francesco
Saraceno
(nella foto),
economista
dell’Ofce,
«e Blanchard
ne ha preso atto
con coraggio
e umiltà»
strumenti a disposizione dei policy maker, una conclusione che in
Europa ancora fatica a farsi strada». Poi è stato il turno di un altro
pilastro del consenso, l’irrilevanza della distribuzione nel reddito nell’orientare la politica economica: «L’Fmi ha confermato i risultati di
altri ricercatori per cui società diseguali tendono a crescere meno»,
osserva Saraceno. «Altri lavori del Fondo hanno mostrato come l’austerità faccia aumentare la diseguaglianza; o ancora, che l’instabilità
politica aumenta in società più diseguali, che a loro volta tendono a
essere meno sindacalizzate».
Infine, le ultime picconate a quello che fu il Washington Consensus:
«Nell’ottobre 2014 l’Fmi ha mostrato che nelle condizioni attuali l’investimento pubblico è un “pasto gratis”, che si autofinanzierebbe grazie ai bassi tassi di interesse e ai significativi aumenti di produttività
che consentirebbe». Nell’ultima edizione del World Economic
Outlook, la spallata finale al dogma dell’efficienza dei mercati: «Le
riforme sul mercato del lavoro, su cui i leader europei stanno investendo così tanto del loro capitale politico, non hanno gli effetti sperati
sulla crescita di lungo periodo», conclude l’economista dell’osservatorio parigino. «Per aumentare la crescita potenziale occorre piuttosto
concentrarsi sulle liberalizzazioni del mercato dei prodotti».
dipartimento economico dell’Fmi, ha letteralmente e
clamorosamente rivoluzionato l’apparato teorico con
cui l’ente ha tentato di gestire la peggior crisi dal secondo dopoguerra. Come ha ricordato sulle pagine del «Sole 24 Ore» l’economista Francesco Saraceno, «John Maynard Keynes difendeva l’idea che quando le informazioni di cui disponiamo cambiano bisogna avere il coraggio di rivedere anche le nostre opinioni. Questa sana
cultura del dubbio è probabilmente il lascito più prezioso di Blanchard al Fondo monetario internazionale, istituzione spesso criticata per l’arroganza con cui tende
ad applicare sempre la stessa cura a Paesi in situazioni
diverse. Con la certezza inscalfibile che esista una e
una sola medicina: liberalizzare, tagliare la spesa pubblica, privatizzare». Almeno sulla carta, ricorda Saraceno, i cambiamenti sono stati notevoli: una rivalutazione del ruolo della spesa pubblica, un approccio più
morbido verso i Paesi in difficoltà finanziaria, un ripensamento sulla liberalizzazione del mercato del lavoro,
il dubbio sul fatto che sia sempre meglio mantenere
l’inflazione su livelli molto contenuti.
Dopo questo scossone intellettuale, sotto la supervisione di Blanchard il Fondo ha avviato una serie di conferenze sul tema «ripensare le politiche economiche» a
cui hanno partecipato i più importanti economisti del
mondo. Il premio Nobel all’economia Paul Krugman ha
34 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017
più volte espresso il suo compiacimento per l’attività e
la «sorprendente flessibilità intellettuale» di Blanchard, che era salito al timone del dipartimento
economico dell’Fmi due settimane prima del fallimento
Lehman Brothers, e ha speso gli anni successivi tentando di fornire al Fondo le munizioni intellettuali per
fronteggiare la crisi drammatica che si è propagata a livello globale.
Una questione facile facile
Il report speciale dell’«Economist», ironicamente
intitolato «The world economy. An open and shut case»
(ovvero «L’economia mondiale, una faccenda facile facile») parte dalla constatazione che il consenso in favore
dell’economia aperta si sta sgretolando, e poi comincia
subito portando il lettore nel 1900 al Revolution Mill di
Greensboro, North Carolina. Un periodo florido per
l’industria del cotone, che si stava spostando a sud dal
New England grazie al minore costo del lavoro: il numero di mulini raddoppiò tra il 1890 e il 1900, sforando
quota 540, e nel 1938 il Revolution Mill era la più grande fabbrica al mondo di flanella, con la sua produzione
di 50 milioni di iarde di vestiti all’anno. L’edificio principale oggi ha ancora i pavimenti originali in legno, ma
lo schiocco dei telai non risuona lì da decenni: il mulino
ha cessato la produzione nel 1982, un avvertimento
Da sinistra: il Revolution Mill di Greensboro, che ha chiuso nel 1982, e la «Big Chair» di Thomasville, innalzata nel 1950.
Due simboli dell’industria manifatturiera nei settori del tessile e dell’arredamento del North Carolina
precoce di un’altra rivoluzione, su scala globale.
L’industria tessile stava iniziando una nuova migrazione alla ricerca di costo del lavoro più basso, questa volta in America Latina e in Asia. Il Revolution Mill, scrive l’Economist, è un monumento all’industria che con
la globalizzazione ci ha rimesso.
Nella vicina Thomasville, c’è un altro di questi monumenti alla gloria industriale passata: una riproduzione alta nove metri di una sedia di tappezzeria. La
«Big Chair» è stata innalzata nel 1950 per rimarcare
l’abilità della città nella produzione di arredamenti, in
cui il Nord Carlina era leader. «Poi negli anni 2000 metà di Thomasville andò in Cina», ricorda T.J. Stout, titolare dell’azienda locale Carsons Hospitality: artigiani,
designer e commerciali salparono alla volta dell’Asia,
dove la produzione intensiva era più economica. Lo
Stato sta però trovando ora nuove strade per riemergere: a un’ora di auto da Thomasville c’è Dhuram, una
città che ormai straripa di nuove aziende. Una di queste è la Bright View Technologies, con uffici moderni in
periferia, dove si producono film e riflettori per variare
le geometrie e la diffusione delle luci a led. L’edificio
Liggett e Myers in centro città era una volta il quartier
generale delle sigarette Chesterfield, e oggi si sta ripopolando con nuove attività, tra cui laboratori della Duke University, cuore pulsante dell’ondata di innovazio-
ne che permea la zona.
Il North Carolina testimonia bene sia le promesse
sia le vittime dell’economia aperta di oggi. Eppure,
anche le aziende più floride borbottano, lamentando
che gli Usa alla fine hanno sempre la peggio negli
scambi, e che i rivali esteri beneficiano di sussidi ingiusti e di regole lasche. Nei posti dove è stato più faticoso
adattarsi ai cambiamenti in corso, i brontolii diventano
ad alta voce. E secondo l’«Economist», attraverso tutto
il mondo occidentale sta crescendo il disagio sulla globalizzazione e su quella specie di capitalismo asimmetrico e instabile che si crede abbia creato.
I politici contro il libero commercio
Il contraccolpo contro il libero commercio sta rimodellando la politica mondiale, osserva il settimanale
britannico. Donald Trump ha agguantato una candidatura improbabile alle elezioni presidenziali grazie al
supporto dei colletti blu degli Stati del Sud e della rust
belt, la «cintura della ruggine» epicentro della crisi dell’industria pesante, dove le città deindustralizzate, un
tempo sede di alcune tra le maggiori aziende del pianeta, sono diventate deserti urbani popolati solo da fabbriche diroccate, case abbandonate e operai arrabbiati
che guardano con favore alle politiche isolazioniste e
protezionistiche del tycoon miliardario. Da Detroit, ex
Sotto la direzione
di Olivier
Blanchard
(nella foto),
gli studi
dell’Fmi
hanno mostrato
che l’austerità
fa aumentare
la diseguaglianza
GENNAIO/FEBBRAIO 2017 - OUTLOOK 35
L’economia
dei Paesi
industrializzati
è stata
fortemente
influenzata
dall’ingresso
nel 2001
della Cina
nell’Organizzazione
mondiale
del commercio.
Come si vede
dal grafico,
le importazioni
dal Paese asiatico
verso gli Stati
Uniti ha avuto
un’impennata
negli ultimi
15 anni
L’ostilità
verso il libero
scambio
e le sue
ripercussioni
sull’occupazione
sono tra le cause
che hanno portato
al successo
le dichiarazioni
politiche
isolazioniste
e protezionistiche
del tycoon
miliardario
Donald Trump
Sopra, il muro
alla frontiera
tra Stati Uniti
e Messico.
Nella pagina a fianco:
scontri di migranti
ai confini
tra Macedonia
e Grecia
locomotiva a stelle e strisce del Michigan che tra il
2000 e il 2015 ha perso un terzo della popolazione, a
Cleveland in Ohio: sono luoghi che hanno perso molto
lavoro manifatturiero a partire dal 2001, quando
l’America fu colpita da un’ondata di importazioni dalla
Cina (che Trump minaccia di tenere fuori con tariffe
punitive). Il libero scambio ora causa talmente tanta
ostilità che la candidata democratica Hillary Clinton è
stata costretta a rinnegare la Trans-Pacific Partnership (Tpp), un accordo di scambio con l’Asia che lei
stessa aveva contribuito a negoziare. E a proposito di
accordi, quello a lungo dibattuto con l’Unione europea,
ricorda il settimanale, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), è in stallo. Politici di lungo corso in Germania e in Francia si sono schierati
contro, in risposta all’opposizione popolare al patto,
che dovrebbe abbassare le barriere agli investimenti e
alla regolamentazione tra Europa e America.
Segnali di divieto
Anche l’impegno al libero movimento delle persone
all’interno dell’Unione europea è al centro di tensioni.
In giugno una delle economie europee più forti, con un
referendum, ha scelto di lasciare dopo 43 anni l’Unione.
Il supporto alla Brexit è stato decisivo nell’Inghilterra
del Nord e in Galles, dove un tempo si trovava la mag-
36 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017
gior parte della manifattura britannica. Ma ancor di
più, ha pesato l’appoggio di luoghi che hanno vissuto il
più grande incremento di immigrati in anni recenti. E
dopo il voto inglese, anche in Francia, Olanda, Germania, Italia e Austria sono stati chiesti analoghi referendum da parte di partiti che invocano la chiusura delle
frontiere, il limite agli ingressi e barriere agli scambi, e
che guadagnano voti influenzando i governi di otto
Paesi membri.
Trump, per parte sua, ricorda l’«Economist», ha promesso di costruire un muro lungo il confine con il
Messico. E c’è anche un crescente disagio nei confronti
dei movimenti di capitali senza restrizioni. La maggior
parte del valore creato dalle imprese è intangibile, e
per attività che vendono idee è più facile aprire sedi
dove le tasse sono più basse. Gli Stati Uniti hanno dato
un giro di vite alla cosiddetta «tax inversion», con cui
una grande compagnia si può trasferire in un Paese a
bassa tassazione dopo aver concordato l’acquisto da
parte di un’azienda locale più piccola.
I trucchi per evitare le tasse
Gli europei lamentano che le aziende americane
mettono in pratica troppi trucchi per aggirare le tasse:
in agosto la Commissione europea ha imposto all’Irlanda di recuperare tredici miliardi di dollari di tasse
IL MERCATO AMERICANO E LA CINA
(miliardi di dollari)
500
400
Importazioni
300
200
Esportazioni
100
0%
2000
2002
2004
Fonte: “Economist”, ufficio statistico Usa
2006
2008
2010
2012
2014 15
Una manifestazione per il lavoro a Detroit: la capitale Usa
dell’auto ha accusato molto gli effetti della crisi
non pagate da Apple, per via di una tassazione agevolata ritenuta fonte di competizione sleale.
La libera circolazione di capitale di debito ha comportato la rapida diffusione di guai da una parte del mondo (la crisi dei subprime) alle altre parti. L’instabilità di
flussi di capitale è una delle ragioni per cui è in difficoltà «l’iniziativa transnazionale più ambiziosa dell’Unione europea»: così l’«Economist» definisce l’euro. Nei
primi anni della moneta unica, oggi circolante in 19
Paesi membri su 28, Stati come la Grecia, l’Italia,
l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna hanno goduto di ampio credito e costi di prestito bassi, grazie a inondazioni
di capitali privati a breve termine dagli altri Paesi,
sostiene il report. Così, quando la crisi ha colpito, quel
credito si è esaurito ed è stato sostituito da massicci
prestiti ufficiali, dalla Bce e altri fondi di salvataggio.
Le condizioni applicate a questi salvataggi hanno inasprito i rapporti tra Paesi creditori e debitori, come nel
caso di Germania e Grecia.
Ansie più profonde
Alcuni osservatori sostengono che il crescente scontento nel mondo benestante non è proprio da imputare
tutto all’economia. Dopotutto, Usa e Regno Unito hanno goduto recentemente di un Pil dignitoso, e la disoc-
38 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017
cupazione è calata per entrambi al 5 per cento. Invece,
riporta il settimanale di Londra, la rivolta contro
l’apertura dell’economia rifletterebbe ansie più profonde di perdita di status. Alcune preoccupazioni derivano
dall’emergere della Cina a potenza globale, altre sono
radicate nelle rispettive società. L’esempio scelto dal
report è quello dell’opposizione agli immigrati scattata
con la crisi dei rifugiati siriani, che non dipenderebbe
tanto dall’effetto sui salari o sul lavoro, quanto dalla
percepita minaccia alla coesione sociale. Ma rimane
comunque materiale per il malcontento, dal momento
che la ripresa, per quanto fiacca, ha bypassato grandi
gruppi di persone. Il Council of Economic Advisers, un
pensatoio della Casa Bianca, ha stimato che negli Stati
Uniti un uomo sui sei senza un diploma non fa parte
della forza lavoro. In Gran Bretagna, sebbene sia al lavoro il maggior numero di persone di sempre, gli aumenti di salario non hanno tenuto il passo dell’inflazione. Soltanto a Londra e nel suo hinterland le entrate
per persona sono aumentate dal livello pre-crisi. L’«Economist» cita, poi, un report di McKinsey secondo cui
le entrate dei due terzi delle famiglie in 25 economie
avanzate erano piatte o in calo tra il 2005 e il 2014: quel
poco guadagnato nella ripresa debole è finito alla piccola nobiltà dei lavoratori stipendiati.
Alcuni osservatori
sostengono
che il crescente
scontento
nel mondo
benestante
non sia tutto
da imputare
all’economia
e che la rivolta
contro
la globalizzazione
rifletterebbe
ansie più profonde
di perdita
di status
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COSTRUIAMO
OGGI IL NOSTRO
Anche in Europa (nella foto Londra) crescono le proteste contro la globalizzazione,
accusata di avere distrutto, complice la crisi, sia i lavori sia il benessere
Tutto ciò ha alimentato la diffusa convinzione che
l’economia aperta va bene per una piccola élite, ma non
fa nulla per le masse: anche gli accademici e i policymaker che lodavano senza riserve questi cambiamenti stanno avendo ripensamenti. Hanno sempre saputo, ricorda l’«Economist», che il libero scambio crea vincitori e
vinti, nella convinzione però che questa disgregazione
fosse transitoria, e che i guadagni fossero abbastanza
da compensare le perdite.
In ogni caso, un nuovo corpo di ricerche suggerisce
che l’integrazione della Cina nel commercio globale ha
causato molti più danni permanenti del previsto ai
lavoratori dei Paesi ricchi, che hanno faticato a trovare
lavori alternativi dopo l’ondata di importazioni cinesi.
Non è facile stabilire un collegamento diretto tra economia aperta e salari iniqui, precisa il rapporto inglese,
ma studi recenti suggeriscono che il commercio gioca
un ruolo più grande del previsto in questo. La migrazione su larga scala confligge in maniera crescente con le
politiche di welfare necessarie a proteggere i lavoratori
dalla discontinuità portata dalla tecnologia. Il consenso nei confronti della mobilità di capitali senza restrizioni ha iniziato a indebolirsi dopo le crisi dell’Est asiatico del 1997-98. All’aumentare dei flussi di capitale,
aumenta il dubbio: anche un recente articolo degli economisti dell’Fmi ha sostento che in certi casi i costi per
le economie di aprirsi ai flussi di capitali sarebbero
maggiori dei benefici.
Nostalgia sensata?
Il report si chiude chiedendosi quanto la globalizzazione (intesa appunto come libera circolazione di commercio, persone e capitali nel mondo) sia responsabile
della malattia dell’economia, e se sia ancora una buona
cosa. Un calcolo preciso, avverte il settimanale, è più
difficoltoso di quanto sembri, e non solo perché i principali elementi dell’apertura economica hanno ripercussioni differenti: molti altri grandi sconvolgimenti
hanno colpito l’economia mondiale dei decenni recenti,
e gli effetti sono difficili da districare.
In primo luogo, lavoro e retribuzioni sono stati condizionati dal cambiamento tecnologico. Molta della crescente iniquità di salario nei Paesi ricchi deriva dalle
nuove tecnologie, che aumentano il valore dei lavoratori laureati. Allo stesso tempo, la redditività delle società si sono molto differenziate. Le piattaforme online
come Amazon, Google e Uber, che fanno da incrocio tra
consumatori e produttori o investitori pubblicitari,
fanno affidamento sull’effetto della rete: maggiori utilizzatori hanno, più diventano utili. Le compagnie che
dominano questi mercati hanno registrato ritorni spettacolari. E ciò, osserva l’«Economist», ha prodotto gua-
«L’Economist»
cita ricerche
che mostrano
come l’integrazione
della Cina
nel commercio
globale
abbia causato
molti più danni
permanenti
del previsto
ai lavoratori
dei Paesi ricchi,
che hanno faticato
a trovare lavori
alternativi
dopo l’ondata
di importazioni
cinesi
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40 OUTLOOK - GENNAIO/FEBBRAIO 2017
LOGISTICA INDUSTRIALE
SERVIZI
SERVIZI LOGISTICI
L’approfondimento
dagni inattesi nella distribuzione del reddito ai vertici. Contemporaneamente, il rapido declino del costo dell’automazione ha
comportato il rischio della perdita di lavoro
per chi ha una qualifica medio-bassa. Tutti
questi cambiamenti sono stati amplificati
dalla globalizzazione, ma sarebbero comunque stati dirompenti.
La seconda fonte di disordine è stata la
crisi finanziaria e la lunga e lenta ripresa
che tipicamente segue l’esplosione bancaria. Il boom del credito prima della crisi ha
aiutato a mascherare il problema dell’iniquità del reddito, gonfiando i prezzi delle
case e aumentando il potere d’acquisto dei
salari bassi. Il conseguente disastro ha
distrutto sia i lavori sia il benessere, anche
se i laureati si sono ripresi più in fretta
degli altri. I liberi flussi di capitale a debito
hanno giocato un ruolo nella costruzione
della crisi, ma molta della colpa di ciò risiede nella regolamentazione lassista delle
banche: i disastri bancari accadevano ben
prima della globalizzazione, ricorda l’«Economist». Sovrapposto a tutto questo c’è
stato un evento unico: il rapido emergere
della Cina come potenza economica. La crescita trainata dall’export ha trasformato la
Cina in un Paese da reddito basso a reddito
medio, portando centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. Questo risultato,
conclude il settimanale, è probabilmente
irripetibile. Al calare del prezzo dei beni di
investimento, luoghi con ampie aree di lavoro a basso costo, come l’India o l’Africa, troveranno sempre più difficile penetrare la filiera globale altrettanto velocemente, e con
successo, della Cina.
Lo special report del settimanale britannico giunge, dunque, alla conclusione che alcune delle preoccupazioni sull’apertura dell’economia sono valide. Le tensioni inflitte
da un’economia globale integrata sono state sottovalutate, e troppi pochi sforzi sono
stati fatti per aiutare coloro che ne sono usciti sconfitti. Ma molta della critica all’economia aperta è sbagliata, tira le somme l’«Economist», e minimizza i suoi benefici incolpandola di problemi che altri hanno causato. Ritornare al passato, è la conclusione,
farebbe stare peggio tutti.
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