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© 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Pubblicato per accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency
Prima edizione marzo 2012
Stampato presso Mondadori Printing S.p.A.
Stabilimento N.S.M., Cles (TN)
Printed in Italy
ISBN 978-88-04-61679-5
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A mio padre.
In uno degli infiniti mondi paralleli,
prima o poi, ci ritroveremo.
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Alex Loria era pronto per il canestro decisivo.
La maglia giallo-blu impregnata di sudore, i capelli
biondi a caschetto che cadevano sulla fronte e lo sguardo di chi sapeva che avrebbe segnato.
Era il capitano. Aveva guadagnato due tiri liberi all’ultimo minuto. Il primo era entrato. Ferro-tabellone-ferro-canestro.
Mancava un solo punto. Non poteva fallire.
Alex si asciugò le mani sui pantaloncini e fissò l’arbitro mentre gli passava la palla. Una rapida occhiata
glaciale all’autore del fallo, un ragazzo che frequentava la scuola di fronte alla sua, poi tornò a concentrarsi sul tiro libero.
— Infiliamo questo canestro e vinciamo la partita,
dai Alex… — sussurrò a se stesso per incitarsi mentre col capo chino faceva rimbalzare il pallone. I compagni rimasero in silenzio, tesi e pronti a saltare. I tre
consueti rimbalzi scaramantici fecero eco nella pale7
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stra della scuola. Era solo un’amichevole, non c’erano
gli striscioni tenuti dai genitori sugli spalti e i bambini
con i pop-corn a bordo campo. Ma nessuno voleva perdere, specialmente il capitano. All’improvviso, quella
sensazione di vuoto. Le gambe molli. Un brivido lungo
la schiena. La vista annebbiata. Mentre compagni e avversari osservavano stupiti la scena, Alex cadde in ginocchio, appoggiò una mano sul pavimento sintetico
del campo e cominciò ad ansimare.
Lo sentiva.
Stava per succedere ancora.
— Vuoi venire a tavola? — gridò Clara dalla cucina.
— Un secondo, mamma!
— Sono venti minuti che dici “un secondo”, muoviti!
Jenny Graver sbuffò e scosse la testa, mentre col
mouse cominciava a chiudere le varie applicazioni in
uso sul suo MacBookPro. Alzò gli occhi verso l’orologio
a muro. Le otto e un quarto. Il tono di voce della madre
sembrava non ammettere ulteriore ritardo.
Jenny si alzò e incrociò il suo stesso sguardo nello
specchio sopra la scrivania. I capelli castani mossi cadevano sulle spalle larghe da nuotatrice professionista. Nonostante i sedici anni di età, Jenny vantava
già un ricco palmares di medaglie, tutte appese alle
pareti del corridoio, al primo piano della villetta dei
Graver. Le sue vittorie erano l’orgoglio del padre Roger, ex campione di nuoto, ai suoi tempi molto conosciuto a Melbourne.
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Jenny si lasciò la porta della camera alle spalle, poi
attraversò il corridoio per andare in bagno a lavarsi le
mani. Un profumo invitante di arrosto saliva su per le
scale.
A un tratto, quel brivido. Ormai lo conosceva fin
troppo bene.
La vista si annebbiò, la ragazza fece due passi in
avanti e cercò di appoggiarsi ai bordi del lavandino
per tenersi in piedi. Sentì il corpo cedere improvvisamente come se, escluse le braccia, tutti i muscoli
non fossero più capaci di rispondere ad alcun ordine
del cervello.
Stava per succedere ancora.
— Dove sei?
La voce rimbombava, perforandole le meningi.
Silenzio.
Qualche lamento in lontananza, sinistro e inquietante come un pianto che echeggia dal fondo di un abisso.
— Dimmi dove vivi…
— Mel… — Jenny cercò di rispondere, ma la parola
restò incompleta.
— Riesco a sentirti… Ho bisogno di sapere dove sei.
Ogni sillaba proferita da Alex era come un ago piantato nella testa. Il dolore era lancinante.
La risposta arrivò accompagnata da un groviglio di
grida e risate infantili.
Tutto ruotava nella testa come in un vortice, un miscuglio di emozioni indistinguibili.
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Ma quel nome vi era passato attraverso ed era giunto a destinazione.
— Melbourne.
— Ti troverò — fu l’ultima sentenza della voce maschile, prima che tutto diventasse nero.
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Clara Graver si sfilò i guanti da cucina e corse al piano di
sopra della villetta subito dopo aver sentito il tonfo dovuto alla caduta a peso morto di Jenny. Salì per le scale
affannata, rischiando di inciampare, e quando fu di fronte alla porta socchiusa le diede un colpo con la mano
aperta e la spalancò. Sua figlia era stesa per terra, la bava
alla bocca e un rivolo di sangue che colava dalle labbra.
— Jenny! — urlò inginocchiandosi accanto al corpo
privo di sensi.
Gli occhi della ragazza erano sbarrati. Lo sguardo perso nel vuoto.
— Amore mio… sono qui. Guardami.
Con un paio di buffetti sulle guance Clara riuscì a risvegliare la figlia. Una tecnica semplice ma efficace, ormai divenuta consuetudine.
Roger salì i gradini a due a due e arrivò di corsa in
bagno. Guardò prima la moglie, poi la figlia che stava
pian piano riprendendo conoscenza.
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— Come sta?
Clara non gli rispose, si limitò a stringersi nelle spalle.
— È successo ancora? — la incalzò lui, anche se conosceva perfettamente la risposta a quella domanda.
Jenny mise a fuoco lentamente lo sguardo preoccupato del padre, poi lo rassicurò.
— Sto bene.
— Hai battuto la testa?
— No, credo di no.
Roger le si avvicinò e le poggiò una mano sulla nuca.
Le dita si sporcarono di rosso.
— Questo è sangue, Jennifer — il tono di voce di
Roger non comunicava preoccupazione, piuttosto rassegnazione.
— Oh, mio Dio! — esclamò Clara.
— Stai tranquilla, è superficiale — la rassicurò lui
mentre Jenny si massaggiava la testa.
— Ce la fai ad alzarti in piedi? — le domandò Clara porgendo una mano alla figlia. Jenny piegò il busto
in avanti e una fitta di dolore le penetrò dal lato destro
della fronte. Quindi si alzò.
— Adesso ti metti tranquilla sul letto e io ti preparo una tisana — disse con tono affettuoso la madre, stirando le labbra in un sorriso forzato.
Roger scosse la testa.
— Dio santo, Clara, quand’è che accetterai il fatto
che con le tue tisane non cureremo di certo nostra figlia? Il dottor Coleman aveva detto che…
— Non mi importa cosa ha detto il dottor Coleman!
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— Se tu solo prendessi in considerazione la terapia…
— Ne abbiamo già parlato, la risposta è no! — lo interruppe lei risoluta. — Jenny sta… Jenny starà benissimo.
Nel frattempo la ragazza si era spostata verso la finestra e ora stava lì, lo sguardo perso nel vuoto. Oltre la
tenda ricamata a mano da sua nonna si intravedevano
i tetti delle villette a schiera di Blyth Street.
Il litigio tra i suoi genitori era un copione che Jenny
conosceva bene.
Gli svenimenti erano iniziati quattro anni prima. Lei
aveva da poco festeggiato il suo dodicesimo compleanno e stava giocando con i regali portati da amici e parenti. Sua madre stava spolverando i mobili della sala
quando lei, in piedi davanti alla televisione, era crollata a terra come un peso morto. Era riuscita a dire solo
“mamma” nell’istante in cui aveva sentito la testa diventare pesante e la vista annebbiarsi all’improvviso.
L’ultima immagine che aveva distinto prima di svenire era la laurea di sua madre, incorniciata e appesa alla
parete della sala: Clara Mancinelli, dottoressa in Lettere con la votazione di centodieci e lode. In basso, accanto alla firma del rettore, c’era il timbro dell’Università La Sapienza di Roma. La pergamena era datata
8 Maggio 1996. Esattamente una settimana prima che
Clara conoscesse Roger, in vacanza nella capitale con
un amico, e decidesse di cambiare il corso del proprio
destino, seguendolo in Australia. Spesso sua mamma
amava ricordare che se non fosse entrata in quel caffè
dell’Eur per un urgente bisogno di andare alla toilette,
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lei e Roger non si sarebbero conosciuti. E Jenny non sarebbe mai nata.
Tutti gli accertamenti medici ai quali Jenny era stata sottoposta non avevano dato alcun esito preoccupante. La bambina non aveva problemi di pressione né di
cuore, era in perfetta salute e i suoi risultati sportivi ne
davano ampia dimostrazione. Aveva vinto per due anni
di seguito la medaglia d’oro del torneo provinciale ed
era stata anche selezionata per partecipare alle Olimpiadi Scolastiche, per la gioia di Roger che la allenava
personalmente quattro pomeriggi a settimana al Melbourne Sports & Aquatic Centre.
Da allora episodi di quel tipo si erano verificati sempre più di frequente. Alcune volte avevano le caratteristiche di un attacco epilettico, altre volte sembravano
semplici svenimenti. A sentire i medici che Clara consultava, non c’erano i presupposti per una cura contro
l’epilessia. La passione della donna per i fiori di Bach
e l’omeopatia andava contro la visione tradizionale di
Roger, ma fino a quel momento l’aveva spuntata lei.
Niente farmaci, nessuna terapia.
Negli anni successivi, Jenny imparò a convivere con
quello che chiamava “l’attacco”. Le era capitato nelle situazioni più disparate. Durante la gita scolastica
a Brisbane, quando era svenuta nella hall dell’albergo
mentre l’insegnante faceva l’appello e decideva le coppie
per sistemare i ragazzi nelle stanze. Al cinema, quando neanche le sue amiche si erano accorte che, mentre
loro guardavano il film, Jenny si era accasciata sulla se14
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dia con la testa piegata verso sinistra e le braccia penzolanti. E poi in pizzeria, quando Roger l’aveva portata a festeggiare la sua prima medaglia d’oro, e al Burger
King, dove la squadra di nuoto si ritrovava il venerdì
con il coach. Per non parlare di tutte le volte che le era
capitato a casa, sul letto o in una qualsiasi stanza della villetta in Blyth Street. Per fortuna, lo pensava spesso, l’attacco non si era mai verificato in piscina. Avrebbe rischiato la vita.
Quello che i genitori non sapevano, che non avevano
mai saputo, era ciò che accadeva durante gli svenimenti.
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Il veggente lasciò cadere le carte sul tavolo, poi ruotò
la mano destra mostrando il palmo, infine stese il braccio con l’eleganza di un attore teatrale, come a indicare la realtà circostante.
Sulla spiaggia c’erano i compagni di classe di Jenny
che giocavano a pallone.
In fondo alla camminata, Valeria e Giorgio Loria, mano
nella mano, chiacchieravano seduti su una panchina.
Dall’altra parte della strada, Roger e Clara Graver passeggiavano diretti verso il porto.
Di colpo, ogni persona presente nel loro campo visivo si tramutò in un frammento di vita passata. L’uomo
di colore dietro il banco della reception del St. James.
Il bambino sul treno per Cadorna. Il vecchio che mangiava solitario e ricordava dove abitavano i Graver. Mary
Thompson. Il tassista di Altona. Il poliziotto che a Milano aveva intimato a Jenny di tornare a casa per via del
coprifuoco. Giovanni, col suo fucile in braccio, e la famiglia che aveva ospitato i ragazzi la notte prima della fine del mondo.
Erano tutti lì. Erano l’unica realtà possibile. Erano
Memoria.
Il veggente sparì, lasciando i due ragazzi persi in un
labirinto di domande.
Alex e Jenny la videro comparire dal fondo della strada.
Si avvicinava lentamente, prendendo forma a poco a
poco tra i colori violacei del tramonto spagnolo, mentre tutto attorno era una danza di volantini che balla341
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vano nel vento e di personaggi del passato che si incrociavano sul lungomare.
Alex sgranò gli occhi quando la mise a fuoco e scosse leggermente la testa, come a non credere a quanto
stava vedendo. Jenny gli prese la mano e fece un respiro profondo.
Quando la carrozzella elettrica frenò di fronte a loro,
videro lo sguardo schietto e radioso di Marco, accompagnato da un sorriso enigmatico. Le poche parole che
disse ebbero su Alex e Jenny lo stesso effetto di una
scintilla in procinto di far esplodere l’intero meccanismo. Di un passaggio segreto verso un’inspiegabile via
d’uscita. Di una parola d’ordine con cui riaprire i cancelli del Multiverso.
— Forza, ragazzi. Usciamo da questa gabbia.
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RINGRAZIAMENTI
Quando avevo sei anni, scrissi una storia sugli Exogini, dei piccoli mostriciattoli che oggi sono stati rimpiazzati dai Gormiti.
Erano ben quattro pagine di lavoro, e mi ricordo bene perché lo
feci: mia mamma mi aveva spinto a scrivere con la promessa che
avrebbe portato il “soggetto” alla Rai. Ho capito solo molti anni
dopo perché avesse usato quello stratagemma. Il mio primo ringraziamento va dunque a lei. Ha sempre avuto fiducia nelle mie
capacità, passione nel seguire ogni mia attività artistica e il suo
aiuto non è mai mancato. L’uscita di Multiversum è anche un
suo successo. Fino a dietro chiuso, rispondevo da piccolo quando mi chiedeva quanto le volessi bene. Era il mio modo di descrivere un abbraccio. Vale ancora oggi, mamma.
Ma questo libro esiste perché diverse persone hanno deciso di
viaggiare attraverso le realtà parallele, dando voce ai miei mondi.
Piergiorgio Nicolazzini, il mio agente, che ringrazio di cuore
insieme a tutto il suo staff. Una persona leale, seria e sensibile, come se ne incontrano poche. Quando ha deciso di inserirmi
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nella sua scuderia ho iniziato a credere davvero che questa passione potesse trasformarsi in una professione. Caro Piergiorgio,
la conquista di questo universo è il primo obiettivo. Poi vedremo di approdare anche a quelli alternativi!
Fiammetta Giorgi e la redazione di Mondadori Ragazzi, una
squadra di grandi professionisti che hanno tagliato, cucito e confezionato il romanzo, dimostrandomi sin dal primo giorno affetto e simpatia.
Menzione particolare per Francesco Gungui, il mio editor,
che ha messo a repentaglio la sua salute mentale per cercare di
orientarsi nel vastissimo labirinto della lavorazione di Multiversum. Sappiamo entrambi dove tutto è cominciato. In una steak
house, quando il romanzo non esisteva affatto e lui non lavorava ancora in quella redazione. Quell’incontro non era una coincidenza. Non lo è mai.
Ringrazio inoltre tutti coloro che ci hanno aiutato in fase di
editing, leggendo il libro in mega-anteprima e fornendo spunti
molto interessanti: Andrea e Stefano Brambilla, Eleonora Giupponi e Claudia Erba, Mirko Cioffi, Veronica Volpe, Giulia Forcolini
e i colleghi Francesco Falconi, Asia Greenhorn e Simona Toma.
Un sentito ringraziamento anche ad alcuni amici che in questi
ultimi anni si sono sorbiti le mie follie narrative, i miei soggetti
e le idee bislacche che prendevano forma man mano nella mia
testa. La “cricca di Port Royal”, in ordine sparso: Matun, Ema,
Mayer, la Giò, la Fra, il Vlad.
Per concludere, ringrazio la persona che ha cambiato la mia
vita. È la mia psicologa, la mia editor, la mia prima lettrice, la
mia infermiera, e potrei andare avanti all’infinito.
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Un giorno ha deciso di tendermi la mano e camminare assieme, in questa parte del Multiverso. La amo davvero, come
dice Luca Carboni. Grazie, Valeria.
P.S. In un universo parallelo, ho ringraziato anche tutti coloro
che ho disgraziatamente dimenticato in questo elenco!
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