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Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno 2 - N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Condizioni giuridiche internazionali per l 'autodeterminazione I fondamenti del diritto di secessione per la Padania La volontà di stare con chi si vuole Aspetti di Stato e Legge Longobarda Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto I Liguri-Apuani Una vita di contrabbando 5 Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana Anno II - N. 5 - Maggio-Giugno 1996 I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana, C.P. 792, via Cordusio 4, 20123 MILANO Quanto rappresenta un deputato? - Brenno 1 Condizioni giuridiche internazionali per il principio di autodeterminazione e referendum per le comunità territoriali che aspirano all 'indipendenza - Alessandro Vitale 3 I fondamenti del diritto di secessione per la Padania Alessandro Storti La volontà di stare con chi si vuole - Gilberto Oneto Alcuni interessanti aspetti di Stato e Legge Longobarda - Alberto Fossati Liutprando, un re della Padania - Maurizio Montagna Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto - Gualtiero Ciola Südtirol: cinquantanni di continua oppressione Corrado Galimberti I Liguri-Apuani, il popolo delle statue-stele di Lunigiana - Dionisio Diego Bertilorenzi Una vita di contrabbando - Gianni Sartori Biblioteca padana 6 11 17 22 26 29 31 35 38 Quanto “rappresenta” un deputato? C i raccontano che - secondo l’articolo 67 della Costituzione - nel Parlamento della Repubblica “una e indivisibile” ogni deputato rappresenta tutto il popolo italiano indifferentemente e non già i cittadini del Collegio che l’ha eletto. I deputati, ci dicono, contano tutti allo stesso modo perché ciascuno di essi “vale” un 630mo del potere complessivo della Camera. Ma se si vanno a guardare un po’ di dati si scoprono cose interessanti che fanno sorgere qualche malizioso dubbio sull’uguaglianza della rappresentatività di questi signori. Nella Rubrica Silenziosa di questo stesso Quaderno sono infatti riportati i numeri di voti che hanno determinato l’elezione dei deputati nelle varie regioni. Ci si dirà che non vuol dire nulla dal momento che i Collegi sono stati ritagliati in modo da essere assolutamente identici come numero di elettori iscritti alle liste. Resta però il fatto che ci sono Collegi nei quali più del 90% degli aventi diritto va a votare e Collegi dove ci va meno del 70%, e ancora Collegi nei quali la percentuale di “Gli inglesi uccidono l'oca dalle uova d'oro”. Caricatura amerischede bianche o nulle viaggia cana della fine del '700 attorno al 5% dei voti espressi e altri in cui il loro numero arriva quasi al 20%. sopra qualche salace disegnino goliardico. Così succede che a eleggere il deputato della Tutto questo fa sì che ci siano grosse differenze nel numero di elettori effettivi che servono a eleg- Valle d’Aosta ci sono voluti 77.024 cittadini e che gere un deputato il quale può (e in teoria dovreb- per uno del Molise sono bastati 43.650 concittabe) rappresentare anche gli elettori che non han- dini di Di Pietro. E niente riesce a toglierci dalla no votato per lui ma non può rappresentare chi testa l’idea che il primo rappresenti 77.024 cittanon vuole essere rappresentato in assoluto e cioè dini e il secondo 43.650. L’idea fino a qui solo maliziosa diventa angochi non va a votare, o vota scheda bianca o ci fa Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Quaderni Padani - 1 3 sciante se ci avventuriamo in considerazioni circa il contributo che quegli elettori forniscono al sostentamento di quella casa comune (si fa per dire) che è la Repubblica Italiana. Se si va a vedere a quanto ammonta il prelievo fiscale complessivo di ciascun Collegio, ci scappa di considerare che il deputato lì eletto in qualche modo rappresenti quella porzione di contributo al bene comune (si fa, ancora, per dire). E allora ci viene da pensare che il solito deputato della Valle d’Aosta rappresenti 2.209 miliardi e quelli calabresi 719 miliardi (circa un terzo) ciascuno. E, si badi bene, non ci facciamo prendere dalla fregola di calcolare solo il contributo dei cittadini che hanno effettivamente espresso il loro diritto-dovere di voto, perché se così fosse (ma non è) il solito valdostano dovrebbe “valere” 1.467 miliardi e i calabresi 364 miliardi, e cioè meno di un quarto. Tutto questo - ci si dirà - non ha senso ed è anzi provocatorio. Sarà anche provocatorio (e certamente lo è) ma di senso ne ha molto per chi deve contribuire più degli altri al carrozzone comune (si fa sempre per dire) e si accorge di contare meno di quelli che invece di spingere se ne stanno seduti. Perché proprio di questo si tratta: della sovrarappresentazione politica del resto d’Italia rispetto alla Padania che più di tutti contribuisce invece a tirare la carretta. I numeri li abbiamo visti e diventano ancora più significativi se si va ad aggiungere quella trentina di nati fuori della Padania che sono stati graziosamente candidati in collegi sicuri del Nord dai rispettivi partiti, nessuno escluso. 24 - Quaderni Padani Da sempre in questo paese le maggioranze di governo si giocano sul filo di una manciata di seggi: siamo maligni ma non possiamo non pensare che tutto avrebbe potuto essere diverso se non fosse stato possibile fare questi fognini e se tutte le parti della penisola avessero contato almeno allo stesso modo. Ci si dirà che sono gli inconvenienti del sistema maggioritario e che non c’è soluzione. Certo che c’è la soluzione! Innanzitutto un bel sistema federale nel quale ciascun eletto rappresenti effettivamente i suoi elettori e nel quale ogni entità federata conti per l’effettivo contributo alle casse federali. E dopo, un bel sistema elettorale proporzionale nel quale i seggi vengano distribuiti in funzione dei voti espressi e non degli iscritti alle liste elettorali compresi quelli cui non frega nulla di andare a votare (e che non pagano le tasse). Se è vero (come è vero) il principio dei padri federalisti americani della no taxation without representation, è altrettanto vero e sacrosanto anche il contrario, e cioè no representation without taxation. Facendo molta attenzione a quale e quanta representation e a quale e quanta taxation. Se una comunità deve essere tale, gli onori e gli oneri devono essere equamente divisi e gli uni devono essere proporzionali agli altri. Qui invece ci sono “tassati poco rappresentati” e “poco tassati anche troppo rappresentati”. L’è òra de mòccalla. Brenno Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Condizioni giuridiche internazionali per il principio di autodeterminazione e referendum per le comunità territoriali che aspirano all’indipendenza di Alessandro Vitale D al punto di vista internazionale, mentre con il 1989 e la riunificazione della Germania è caduto il principio dell’inviolabilità e dell’immutabilità dei confini degli Stati, non è stato cancellato da nessuna parte il diritto dei popoli all’autodeterminazione. I casi nei quali linguaggi, tradizioni storiche, istituzionali e identità non coincidono con i rigidi confini degli Stati nazionali si moltiplicano a dismisura, anche per la crescita di nuove identità e richiedono soluzioni in campo internazionale. Dal punto di vista giuridico, la risoluzione 1514 delle Nazioni Unite stabilisce il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione del proprio status politico e al perseguimento del proprio sviluppo economico, sociale e culturale, soprattutto nel caso di redistribuzione discriminatoria interna ad un Paese, di ripetuta violazione dei diritti civili e di palese rapina delle risorse economiche di una popolazione territorialmente collocata. Esistono pochi dubbi circa il fatto che “autodeterminazione del proprio status politico”, senza ulteriori aggettivi, significhi semplicemente diritto alla piena indipendenza politica. La Carta delle Nazioni Unite, (art. 1, par. 2; ma anche art. 55), la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti civili e politici, la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, proclamano anch’esse il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli e non vi è dubbio, sebbene si tratti di articoli spesso criptici, che autodeterminazione significhi indipendenza politica. L’atto Finale della Conferenza di Helsinki, nella parte relativa ai diritti dei popoli (capitolo I, par. VIII, pag. 81 del testo inglese e 4 del testo olandese) stabilisce la possibilità dei popoli di appellarsi al diritto all’autodeterminazione. Questo documento infatti parla di diritto delle popolazioni a determinare, quando e come desiderano, il loro status politico interno ed esterno, senza interferenza esterna, e di perseguire, come esse ritengano meglio, il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale. Non esiste una logica particolare o Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 una deroga formale internazionale in base alla quale la Slovenia o la Lituania sono in diritto di appellarsi a questo Atto internazionale, elaborato da tre commissioni in 2400 sedute di lavoro, dodici sottocommissioni, un comitato coordinatore, poi firmata dai massimi dirigenti di 35 Paesi e con entusiasmo persino dall’Unione Sovietica di Brezhnev, mentre altre popolazioni non possono farlo. L’Atto Finale di Helsinki proclama infatti a gran voce il principio dell’uguale accesso da parte di tutti i popoli ad uguali diritti, compreso quello all’autodeterminazione. Eppure la resistenza di fronte all’applicazione dei principi di Helsinki e l’uso di pesi e di misure differenti a seconda delle popolazioni che ad essi si appellano è quanto di più diffuso esista in campo interno ed internazionale. I ‘coerenti europeisti’ assisi nel Parlamento nostrano, ad esempio, che in mezz’ora hanno approvato l’adesione agli accordi di Maastricht (quando in Danimarca ci sono voluti ripetuti referendum, in Finlandia sono passati per il rotto della cuffia, nonostante il rifiuto di quasi metà della popolazione e in Norvegia sono stati respinti) più volte hanno negato l’applicabilità dei principi di Helsinki a casi che non andavano loro a genio, a partire dalle Repubbliche ex jugoslave, fino ai Paesi Baltici e oggi alla Padania. Hanno cioè con totale indifferenza implicitamente negato perfino quello che i giornali brezhneviani di Mosca scrivevano nel lontano 1976, e cioè che: «Nei documenti solennemente firmati alla Conferenza, è esposta una specie di Costituzione, la legge basilare internazionale d’Europa. L’atto Finale di Helsinki incarna una Dichiarazione di principi (ognuno dei quali è ugualmente importante, egualmente valido), che sono iscritti a lettere d’oro nei tesori della storia». Il diritto di autodeterminazione è un principio del diritto internazionale che venne riconosciuto dopo la Conferenza di Parigi (1919). Venne ricompreso nello Statuto della Società delle Nazioni e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne principio del diritto internazionale, quando venne affermato in determinanti Quaderni Padani - 3 5 atti internazionali quali lo Statuto dell’ONU, il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, alcune dichiarazioni dell’Assemblea generale dell’Onu, la Conferenza di Helsinki, il riconoscimento di fatto delle nuove indipendenze nell’Est europeo dopo il 1990. Oggi il diritto all’autodeterminazione da un lato indica il diritto dei popoli di darsi il regime politico interno che preferiscono e dall’altro si riferisce al diritto delle popolazioni di divenire indipendenti e di costituirsi in Stato sovrano. Dal punto di vista pratico e di fatto questa seconda accezione tuttavia presenta pesanti limitazioni, soggette alla verifica degli organismi internazionali. Fra le più importanti vi è la “necessità” (in palese contrasto logico con lo stesso principio di autodeterminazione) di rispettare l’integrità territoriale e l’unità politica di ogni Stato esistente e costituito. Spesso le dichiarazioni dell’ONU sono andate nel senso di un freno alla distruzione dell’unità nazionale e dell’integrità degli Stati. Si ha così una vera e propria limitazione di accesso al diritto all’autodeterminazione per quei popoli che fanno già parte di uno Stato unitario indipendente, dotato di un governo “rappresentativo”. L’applicazione e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione vengono generalmente limitati a quei popoli che si trovano in una condizione di dipendenza politica e giuridica da altri popoli, come nel caso di popoli soggetti ad una dominazione coloniale. Questo approccio ha fatto però fino ad oggi del diritto di “autodeterminazione” un diritto estremamente ristretto. La piena arbitrarietà in campo internazionale nel riconoscimento del diritto all’autodeterminazione (poiché il riconoscimento è un atto eminentemente politico) la si è vista all’opera prima nel caso del Kurdistan e poi in quello della Cecenia: a fronte di una guerra sanguinosissima, che ha comportato migliaia di morti, per la semplice repressione di un classico processo di secessione da uno Stato coloniale, e in presenza di tutti i requisiti richiesti internazionalmente per ottenere il riconoscimento del diritto di autodeterminazione (soprattutto quelli relativi all’omogeneità etnica della popolazione), nulla è stato concesso, del tutto ipocritamente, in quella direzione: per non dispiacere alla Russia. Il problema dell’autodeterminazione è tipico infatti di un campo nel quale prevale il criterio dei due pesi e delle due misure. Così si assiste al riconoscimento di alcune indipendenze e al rifiuto del riconoscimento di altre. Il caso del diritto all’autodeterminazione è quello più classico nel quale traspare l’assenza di certezza del diritto internazionale, che è una delle sue caratteristiche più tipiche. Il diritto internazionale è un tipo di diritto tipicamente interstatuale, creato ad uso e consumo degli Stati 46 - Quaderni Padani nazionali e per la loro autodifesa. Esso tutela gli interessi degli Stati in quanto suoi soggetti e in quanto enti superiorem non riconoscentes. Il diritto internazionale è la legge degli Stati e non certo delle popolazioni o degli individui. Gli Stati sono suoi soggetti per il fatto stesso di affermarsi come sovrani e indipendenti e per il semplice fatto che tali si dichiarano. Il “riconoscimento” che un nuovo Stato riceve dagli altri non è infatti costitutivo, ma ha un semplice valore dichiarativo. Tuttavia dopo l’89 si assiste al fatto ormai incontrovertibile che la comunità internazionale è costretta a seguire sempre più regole e principi diversi da quelli rigidi del sistema interstatuale e che da esso debordano. La realtà è che vi è un contrasto irriducibile fra principio dell’autodeterminazione internazionalmente riconosciuto e diritto naturale di secessione, che preesiste a qualsiasi formulazione giuridica e Costituzionale, che sia interna o internazionale. Il principio di autodeterminazione delle minoranze nella Politica Internazionale ha come caratteristica quella di essere una concessione calata dall’alto, in base ad un arbitrario principio di “legittimità” internazionale, da parte delle Istituzioni presenti nel sistema internazionale, ai cittadini. Questo principio è in realtà figlio del principio nazionalista (possiede cioè un’origine del tutto opposta rispetto al diritto di secessione: il primo fa parte dell’armamentario ideologico cresciuto sul tronco del legittimismo monarchico e aristocratico, il secondo appartiene alle radici democratiche dei diritti naturali) (1); il suo criterio-base principale è quello della corrispondenza fra nazione (etnica) e Stato, fra confini etnici e politici. Si tratta di un diritto che definisce arbitrariamente una popolazione senza entrare approfonditamente nel merito delle sue caratteristiche ed è ben lontano dal garantire un atto di giustizia internazionale. Se negli anni Venti il principio di autodeterminazione è stato esplosivo (2), dopo la Seconda Guerra Mondiale il Sistema Internazionale ha imposto forti restrizioni all’esercizio del diritto di autodeterminazione. In realtà, solo una piccola parte di popoli del mondo ne ha goduto. Oggi, poi, il contenuto del principio stesso è per sua natura differente da quello invocato dai nazionalisti negli anni del “periodo d’oro” per il principio stesso, di Wilson e di Lenin, che portò non a caso alla formazione di aberran(1) Su questa differente origine rimando al mio articolo Quando una comunità storica ha il diritto di andarsene, apparso sui Quaderni Padani n 4, marzo-aprile 1996. Poiché le origini sono diametralmente opposte, si può sostenere senza tema di errore che il diritto all’autodeterminazione ostacola e “rema contro” quello naturale di una comunità “ad andarsene” da una compagine statuale che non riconosce più come legittima. (2) Heraclides Alexis The Self-determination of Minorities in International Politics. Frank Cass & c. London 1991 Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 ti e artificiali formazioni statuali, quali quella della Cecoslovacchia, della Yugoslavia ecc. Si tratterebbe oggi di riconoscere un principio diverso: infatti i “nazionalismi” odierni sono qualcosa di diverso e di più profondo rispetto al ritorno al principio nazionalistico ottocentesco (3). Quest’ultimo mirava da un lato a disgregare gli imperi dinastici multinazionali, ma dall’altro tendeva alla ricomposizione unitaria e centralizzata di Stati nazionali, trovando proprio in questo obiettivo la sua giustificazione e accettabilità internazionale in base all’ideologia liberal-nazionale predominante (4), l’etnonazionalismo attuale si manifesta anche e soprattutto (come nell’Est europeo) a livello “sub-nazionale”, articolandosi su una vasta gamma di rivendicazioni e di motivi etno-politici, religiosi, culturali, linguistici, ma anche economici, che tendono a disarticolare le compagini statuali esistenti e non necessariamente a ricostituirne di nuove e di compatte politicamente, secondo i vecchi criteri dello Stato nazionale. L’apertura verso l’esterno anzi, come dimostrano i Paesi di recente indipendenza dell’Est europeo, è una condizione oggi irrinunciabile per lo sviluppo economico, che fa a pugni con la vecchia tendenza nazionalistica a costruire campi statuali trincerati entro confini invalicabili e tendenzialmente protezionisti in economia. L’aspirazione all’indipendenza e al controllo del proprio territorio (spesso, soprattutto se ricco e produttivo, sottoposto a rapina sistematica, in particolare fiscale, da parte di coloro che guidano gli Stati centralizzati) non può essere confusa con la battaglia ottocentesca per la coincidenza di Stato sovrano ed etnia (5). La coincidenza fra Stato e nazione è in realtà propria del nazionalismo ottocentesco e continua a provocare nuovi equivoci, quali quello dell’identificazione fra il diffusissimo sentimento odierno di lealtà verso la propria terra e di rivendicazione del principio “ciascuno sia padrone in casa sua”, con quello di lealtà verso l’astrazione di uno Stato come fine in sé. La molla prevalente oggi nelle rivendicazioni (3) Mistretta Stefano Forze centrifughe e forze centripete nel Continente europeo: il cammino verso l’integrazione ed il risveglio dei nazionalismi. In: “Studi Diplomatici” 7, 1995, 123. (4) Come ha spiegato Eric Hobsbawm nel suo Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, Torino 1991, 36-37, secondo quell’ideologia il principio di nazionalità avrebbe dovuto essere applicato soltanto alle nazionalità di una certa dimensione, cioè a quelle nazionalità suscettibili di costruire Stati nazionali “vitali” sia sotto il profilo economico che sotto quello culturale. Si tratta di un’idea che continua a fare da sfondo alle concezioni prevalenti nella comunità internazionale. (5) Mistretta Stefano Forze centrifughe e forze centripete nel Continente europeo: il cammino verso l’integrazione ed il risveglio dei nazionalismi. In: “Studi Diplomatici” 7, 1995, 125. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 etnonazionali è quella che spinge non certo nella direzione di un aumento della coerenza etnica degli Stati nazionali (inglobamento delle minoranze etniche al di fuori dei confini dello Stato nazionale, ristabilimento di confini nazionali, omogeneizzazione delle minoranze allogene interne), ma proprio verso la direzione opposta: verso la rivincita contro la discriminazione, contro la soppressione dell’identità negli Stati nazionali, verso la riaffermazione di caratteristiche etnografiche oggettive, a lungo spianate dalla potente macchina omogeneizzatrice degli Stati nazionali. Mentre i vecchi Stati nazionali erano dominati dal demone dell’unità e dell’omogeneità interna, l’etnonazionalismo odierno esplode proprio per l’assimilazione imperfetta operata da questo potente “schiacciasassi”. Quindi le categorie giuridiche del vecchio diritto internazionale non bastano a spiegare ed a ricomprendere le dimensioni e le multiformi caratteristiche dell’odierno etnonazionalismo. Tuttavia, queste nuove caratteristiche non hanno portato ad una coerente riformulazione del principio di “autodeterminazione”. Comunque, dal punto di vista giuridico il referendum come plebiscito determinante per la decisione dei cittadini di un territorio non necessariamente statuale, circa l’appartenenza di quello stesso territorio ad uno piuttosto che ad un altro Stato, vecchio o nuovo, rimane uno strumento riconosciuto in campo internazionale. Esso può essere indetto previo avvertimento delle Istituzioni Internazionali oppure può essere presentato come avvenimento che si impone de facto per la sua evidenza di richiesta democratica, esattamente come avviene per una proclamazione di indipendenza. La via quebecchese rimane la più normale nell’età contemporanea, sebbene abbia presentato la ovvia difficoltà di escludere dal referendum per l’indipendenza gli immigrati e i “colonizzatori”. Questa procedura venne applicata, contrariamente a quello che si pensa, per la prima volta nel corso della Rivoluzione Francese. Dopo la sua adozione ad Avignone nel 1789, per sancire l’unione della città alla Francia, venne usato nel caso di Nizza e Savoia e in seguito divenne la forma tipica di autodeterminazione dei popoli. I trattati di pace hanno previsto frequentemente il ricorso al plebiscito per definire la condizione di territori in contestazione. Oggi esso può svolgersi nelle regioni nelle quali le popolazioni ne facciano richiesta, senza prevedere la consultazione in tutto il territorio nazionale dello Stato nel quale quel territorio è inglobato. La verifica successiva delle condizioni per l’accesso ai criteri previsti per l’autodeterminazione spetta agli organismi internazionali, che in alcuni casi, proprio perché funzionali agli Stati esistenti, possono dimostrarsi in modo lampante la negazione stessa del principio democratico espresso dal referendum stesso. Quaderni Padani - 5 7 I fondamenti del diritto di secessione per la Padania di Alessandro Storti “Ogni paese, nazione o popolo, piccolo o grande, debole o forte; ogni regione, provincia o comune ha il diritto assoluto di disporre di se stesso, di determinare la propria esistenza, di scegliere le alleanze, di unirsi e separarsi secondo la volontà e il bisogno”. Mikhail Bakunin Introduzione Nell’ultimo periodo è stata posta con forza la questione della secessione della Padania. Di fronte a tale ipotesi sono due i quesiti che nascono: è possibile un reale distacco geopolitico della Padania dallo Stato Italiano? ed è giustificata questa scelta radicale? Non intendiamo dare qui risposte in merito al primo problema, per una serie di motivi: innanzitutto il confine fra indipendentismo e federalismo forte è molto sfumato nella testa dei cittadini padani, e quindi è difficile dire se, posti di fronte ad un quesito referendario dichiaratamente separatista, essi sarebbero compatti nel votarlo (1); inoltre non va dimenticato il valore anche strategico che hanno le proposte secessioniste, che, come tali, non implicano necessariamente un approdo immediato al divorzio fra Padania e Italia; infine crediamo che l’“arte” dei sondaggi e delle previsioni sia sempre potenzialmente soggetta a errori e a letture distorte, e pertanto poco utile ai fini di un discorso teorico. Riteniamo invece importante cercare di dare una risposta alla seconda questione: la Padania ha il diritto di secedere? e su quali argomenti si fonda tale diritto? È necessario, prima di inoltrarci nell’argomento, soffermarci brevemente su un punto di vitale importanza. Quando si parla di diritto di secessione non ci si riferisce a norme costituzionalmente stabilite. Non perché sia sbagliato farlo, ma per il semplice fatto che (quasi) nessuna costituzione ne prevede l'eventualità, tantomeno in uno Stato unitario e centralista come quello italiano. Per cui suscitano stupore le obiezioni che molti costituzionalisti e politici hanno posto alle (1) Lo dimostra ampiamente il fatto che l’argomento separatista coincida spesso con la cosiddetta “separazione delle casse”; tale punto è legato essenzialmente ad una questione di carattere economico-fiscale che è anche alla base di un autentico federalismo. 78 - Quaderni Padani dichiarazioni secessioniste giunte dal Parlamento della Padania. Hanno scritto e detto che i propositi separatisti non possono trovare accoglimento in quanto la Costituzione, all’articolo 5, afferma il principio di indivisibilità della Repubblica Italiana: si tratta di un approccio riduttivo alla questione, in quanto la storia procede lungo un piano metacostituzionale, e quindi non possono essere pochi uomini e le loro astratte norme a fermarla. D’altronde, se le istanze rivoluzionarie non potessero realmente trovare esplicazione per il solo fatto di non essere riconosciute dagli ordinamenti giuridici, oggi saremmo ancora fermi alle monarchie assolute: ed è curioso che le obiezioni di cui dicevamo siano state mosse proprio dai rappresentanti di quei partiti che fino a pochi anni fa si dicevano “rivoluzionari”. Ma andiamo alla questione iniziale, e cioè ai fondamenti del diritto di secessione per la Padania. Senza dubbio la problematica del diritto di secedere è ricca di sfaccettature e difficilmente sintetizzabile nello spazio di poche pagine. Si tratta infatti di un argomento che attraversa molti campi, passando dall’economia al diritto, dalla cultura alla storia, dalla geografia all’antropologia. Non è possibile pertanto tracciare un quadro di riferimento esclusivamente giuridico, è necessario invece cercare di cogliere tutte le argomentazioni che possano essere assunte come base della ipotesi secessionista per la Padania, argomentazioni che sono riconducibili proprio ai campi cui abbiamo accennato. È chiaro quindi che nella nostra esposizione cercheremo di dare una definizione possibile del diritto “morale” a separarsi da parte della Padania; abbiamo volutamente sottolineato l’aggettivo “morale” per ribadire che il discorso va oltre la sfera del diritto formale e positivo, per collocarsi su un piano sociologico e giuridico-sostanziale. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Il diritto naturale alla secessione La nostra analisi comincia dal pilastro concettuale su cui si fonda necessariamente ogni teoria della secessione: la questione dei diritti naturali e inalienabili. Secondo i teorici del giusnaturalismo esistono delle prerogative che sono superiori e preesistono a qualsiasi ordinamento. Come tali, queste facoltà non hanno bisogno di essere codificate o scritte per essere valide. Alla categoria dei diritti naturali appartengono il diritto di resistenza e quello di secessione (che, in linea teorica, è da ricomprendere nel primo, insieme alla disobbedienza civile, all’emigrazione e ad altri). Come abbiamo detto poco sopra, nessuna costituzione riconosce il diritto di secessione. È tipico infatti di ogni ordinamento giuridico tentare di preservarsi e di mantenere l’integrità del territorio su cui esercita la giurisdizione, negando la possibilità che le comunità in esso ricomprese lo abbandonino. Addirittura alcune costituzioni, come quella dello Stato Italiano, esplicitamente sanciscono l’indivisibilità territoriale e politica. Si tratta tuttavia di finzioni giuridiche, prive di reale significato nella sostanza. Infatti i diritti naturali, e fra essi il diritto di secessione, non possono essere oggetto di negoziazione all’interno del patto costituzionale fra cittadini e fra comunità politiche. Così come per il diritto civile sono nulli quei contratti che prevedono clausole lesive delle libertà individuali, ugualmente non possono essere considerate validamente esistenti quelle norme costituzionali che parlano di inscindibilità del contratto sociale che sta alla base dello Stato. Quindi non è accettabile il fatto che una Carta costituzionale neghi ai cittadini e alle comunità politiche l’esercizio dei diritti naturali, poiché, in tal modo, essa va a limitare indebitamente la sfera delle libertà personali e collettive. È vero che la battaglia per il riconoscimento giuridico del diritto di secessione non è né semplice sul piano dell’applicazione pratica (casi e procedure costituzionali), né su quello concettuale dell’accettazione politica. Basti a questo proposito l’esempio del divorzio, che è un tipico caso di scioglimento volontario di un contratto, e quindi di secessione da una unione (2). La lotta divorzista è da sempre fonte di profonde fratture ideologiche negli Stati che hanno posto sul cam(2) Sulla metafora matrimonio-federazione/divorzio-secessione v. Gianfranco Miglio, “La prospettiva teorica del nuovo federalismo”, su Federalismo & Società, anno I, n. 2, pagg.34-35 Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 po la questione. Ma il fatto stesso che battaglie libertarie di questo tipo stiano ottenendo sempre maggior successo e consenso, dimostra che anche il diritto di secessione può riuscire ad imporsi quale prerogativa riconosciuta formalmente alle comunità politiche facenti parte di una unione statuale. Resta comunque il fatto che, anche se contrastato ufficialmente dalle autorità centrali, il diritto di secessione è una facoltà di cui le comunità padane sono pienamente titolari. Questo anche a prescindere dalla questione dell’esistenza di una unità padana (o di un popolo padano). Non ha alcun valore il discorso antiseparatista fondato sulle differenze esistenti all’interno della nostra terra (del resto sempre minori rispetto a quelle fra Padania e Italia, come mostrano bene molti articoli, lavori e dati pubblicati su questa rivista e altrove). Infatti è un approccio di merito che non tocca il principio per cui ogni comunità politica ha diritto di uscita da una unione statuale che non ritiene di dover più riconoscere per una serie di motivi. È anzi opportuno sottolineare un fatto. Quando si discute di secessione, l’intento immediato è politico; di conseguenza ogni affermazione si basa su argomentici etici e utilitaristici: i fautori della separazione sostengono che essa porterà vantaggi alla nostra terra, gli avversari dicono invece che la Padania perderà posizioni economiche e, soprattutto, che in questo modo verrà meno la solidarietà. Ciò che fatica ad emergere nella discussione è però il carattere giuridico. Per questo è necessario ribadire con forza che, oltre a discutere del merito della secessione, bisogna avere il diritto di discuterne, la libertà di dirsi secessionisti, di studiare progetti secessionisti, di produrre propaganda secessionista. Queste libertà non sono riconosciute nello Stato Italiano, che anzi dispone di un buon numero di norme repressive di ogni attività separatista. È bene che queste norme vengano eliminate. Il fondamento economico Ogni teoria del diritto di secessione è destinata a scontrarsi con la difficoltà dell’applicazione pratica del principio giuridico. Infatti, teoricamente è legittima anche la secessione individuale, ma è chiaro che quest’ultima può essere ritenuta praticabile solo utopisticamente. Per tale motivo il diritto di secessione si configura, nella pratica, come diritto “morale”: si tratta, in sostanza, di definire una casistica in base alla quale si possa stabilire un iter giuridico che porti alla concreta separazione di un’entità territoriale da uno Stato. Quaderni Padani - 8 9 Quando si utilizza il termine “morale” ci si riferisce, dunque, a una serie di situazioni che giustifichino la istanza separatista. Un caso generalmente riconosciuto è quello della redistribuzione discriminatoria delle ricchezze prodotte. Siamo, cioè, nel campo del rapporto tributario fra cittadini e Stato, fra comunità politiche locali e governo centrale. Va detto che la questione fiscale, soprattutto nel caso padano, è stata la molla più forte per le spinte autonomiste, federaliste e secessioniste. Fa ormai parte della storia della comunicazione politica il celebre slogan “Roma ladrona, la Lega non perdona”, riassuntivo di tutto il rancore delle popolazioni settentrionali verso un centro divoratore di ricchezze (3). Molte ricerche hanno ampiamente dimostrato che il prelievo fiscale nelle principali regioni padane (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna) è nettamente superiore alla somma trasferita dallo Stato alle regioni stesse (4). Di converso, è stato rilevato come la spesa pubblica sia stata incentrata soprattutto su interventi di carattere assistenziale e clientelare nelle aree del Mezzogiorno. Si tratta di un tipico caso di redistribuzione discriminatoria, citato addirittura da Allen Buchanan nel volume “Secessione”(5). E si tratta di una situazione che può ampiamente giustificare, dal punto di vista della legittimità, la richiesta di separazione. Non a caso già Johannes Althusius, nella sua teoria dei diritti di resistenza, considerava giusta la separazione di quella comunità politica che venisse espropriata di gran parte delle proprie ricchezze da parte di un governo divenuto “tirannico”(6). Tuttavia la questione del fondamento economico del diritto di secessione per la Padania non è limitato al fattore della redistribuzione discriminatoria delle risorse. Il problema infatti investe anche l’aspetto della complessiva situazione finanziaria dello Stato Italiano. Anche in questo caso le statistiche e i dati numerici hanno disegnato due Italie ben distinte, sul piano del rispetto delle regole e su quello della capacità produttiva. Alla generalizzata evasione del Sud si contrappone il profondo rispetto per le regole della civile convivenza in Padania (7). E così pure alla sterilità imprenditoriale del Mezzogiorno si contrappone un trend economico delle regioni della Valle del Po che fa della Padania il primo distretto europeo. La questione separatista si pone dunque come un fatto di sopravvivenza economica e finanziaria della nostra terra all’alba della fase finale costitutiva dell’Unione europea. L’accelerazione che il dibattito ha subìto nell’ultimo periodo non è soltanto il frutto di una campagna elettorale, ma è derivata anche, e soprattutto, dall’avvicinarsi costante della data in cui le economie degli Stati europei dovranno fare i conti con la moneta unica. Il trattato di Maastricht ha avuto in questo senso un effetto notevole sul dibattito politico all’interno dello Stato Italiano. Il fatto che, ad esempio, la Lombardia da sola sia perfettamente ammissibile nell’Unione continentale secondo il parametro del Debito Pubblico, ha creato notevole imbarazzo e irritazione nella classe governativa centrale: come spiegare, infatti, a un cittadino lombardo che egli non potrà entrare dalla porta principale (se mai potrà entrare da qualsiasi altra porta) nell’Europa unita, per colpa delle regioni meridionali, che abbassano la media dei parametri richiesti da Maastricht, nell’ambito dell’“Italia unita”? E siamo così arrivati al problema delle “medie”. Da molti anni ormai i cittadini della Repubblica Italiana sono bombardati di cifre che dimostrano quanto sia lontano il loro Stato dagli altri concorrenti continentali, coi quali viene fatto il raffronto. “Italia paese dei disoccupati”, “Italia paese del debito pubblico stratosferico”, “Italia con la moneta da terzo mondo”: tutta una serie di gra- (3) A questo proposito ci pare interessante aprire una parentesi. Alcuni mesi dopo lo scoppio di Tangentopoli furono prodotti degli adesivi che recitavano “Milano ladrona, Di Pietro non perdona”. Questo gioco linguistico è stato poi utilizzato per altre città padane, con il chiaro intento di mettere sullo stesso piano Roma e il Nord. Si è trattato di un uso distorto dello slogan; infatti la “Roma ladrona” del motto leghista rappresentava il Governo centrale che sottraeva denaro ai cittadini padani e non lo restituiva più, e non, quindi, un qualsiasi politico corrotto e concussore. La medesima distorsione è avvenuta poi per le protesta antiburocratica e fiscale, che i politici centralisti si sono subito affrettati a definire questione nazionale, nel tentativo di privarla della sua matrice territoriale. È allarmante il fatto che si tenti di trasformare la questione italiana, essenzialmente orizzontale e fondata sul- la contrapposizione fra territori, in una lotta verticale fra gruppi di cittadini. (4) v. gli ultimi dati della Ragioneria dello Stato e del Ministero delle Finanze, nella tabella pubblicata dal quotidiano il Giornale del 07.06.96, a pag. 21 (5) Allen Buchanan, Secessione (Milano: Mondadori, 1994), pagg. 186-187 (6) v. Alessandro Vitale, “Quando una comunità storica ha ‘diritto di andarsene’”, su Quaderni Padani, n. 4, Anno 2, Marzo-Aprile 1996 (7) Gli indici di evasione relativi all’IRPEF e all’IVA vedono il Sud in “vantaggio” di 40-50 punti percentuali rispetto alle aree del NordOvest e del NordEst (dati G.Brosio e G.Cerea, “Il federalismo contro l’evasione”, su il Sole 24 Ore del 14.04.94) 810 - Quaderni Padani Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 tificanti notizie del genere di quelle qui riportate è stata rovesciata addosso agli abitanti di ogni regione, diffondendo una sorta di autodisprezzo che è uno dei più grandi fondamenti del crollo del sentimento unitario. Soprattutto da quando i cittadini padani hanno cominciato a sospettare che molte di quelle cifre fossero soltanto il frutto di una media che sommava i dati del Sud a quelli delle regioni della Valle del Po, ottenendo così un risultato falsato e utilizzato strumentalmente. In realtà, e lo dicono tutte le ricerche che non ci stanchiamo mai di citare, si è visto ormai come lo Stato italiano sia di fatto diviso in due sistemi socio-economici, l’uno, quello padano, nettamente superiore al livello medio europeo, e l’altro, quello mediterraneo, assolutamente inadatto alle sfide continentali (8). Questo aspetto è stato chiaramente messo in luce da Kenichi Ohmae nel volume “La fine dello Stato-nazione”, nel paragrafo significativamente intitolato “Medie problematiche”, che qui riportiamo parzialmente: “Lo Stato-nazione è divenuto una unità organizzativa innaturale -o addirittura una fonte di disfunzioni- per quanto concerne l’attività economica. Accosta infatti elementi diversi al livello di aggregazione sbagliato. Che senso ha, per esempio, pensare all’Italia come a un’entità economica coerente all’interno dell’Ue? Non esiste un’Italia ‘media’. Non c’è un’ampia fascia di popolazione che in termini socioeconomici si collochi esattamente nel punto intermedio individuato da quei calcoli. Non c’è un gruppo di interesse che tragga particolare vantaggio dai compromessi politici e sia quindi disposto a sostenerli con entusiasmo. Esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità. Da un punto di vista economico, non vi sono elementi che giustifichino la scelta di considerare l’Italia un’entità con interessi condivisi dall’intera popolazione. Un’ottica del genere, infatti, costringe il manager dell’industria privata o il funzionario pubblico a operare sulla base di medie false, inattendibili e problematiche. Si tratta infatti di dati immaginari che possono avere effetti distruttivi” (9). Il fondamento storico-culturale Ohmae ha scritto che lo Stato Italiano non può essere considerato unitariamente da un punto di vista economico. Tuttavia la distanza fra Padania e Italia è anche e soprattutto un fattore culturale. Diciamo “soprattutto” poiché il baratro economico che le divide è esattamente il frutto di una profondissima lontananza civile, cresciuta in secoli di storia. La retorica nazionalista, al fine di costruire una mitologia unitarista che legasse la penisola dalle Alpi alla Sicilia, si è sempre impegnata nella mistificazione storica. I Celti, considerati elementi estranei e scomodi, sono stati letteralmente cancellati dalle vicende padane e italiche. Il culto imperiale della romanità ha fatto eliminare dai libri di storia le vere origini della popolazione padana, e ha messo in ombra quelle degli altri popoli peninsulari. Scomparsi gli Insubri, i Cenomani, i Boi -fondatori, fra l’altro, di Milano, Mantova e Bologna!-, ridotti a elemento folcloristico i Greci delle colonie, trattati come misteriosi abitatori gli Etruschi, la scuola ufficiale si è esercitata per decenni in un futile esercizio di propaganda centralista, trasformando i “conquistatori” romani negli “abitanti indigeni” romani. E la miseria culturale di questa operazione si rivela oggi in tutta la sua essenza allorché leggiamo, sulle pagine della prestigiosa rivista di archeologia ARCHEO, che lo Stato Italiano “si divide in tre grandi aree con diverse connotazioni genetiche: il nord, con l’eredità dei Celti in eminenza; il centro, con i caratteri degli Etruschi che si conservano ancora oggi; il sud, dove prevale l’apporto dei Greci” (10). Verrebbe da chiedersi, a questo punto, dove si possano rintracciare i romani. Ed è persino troppo facile e ovvio rispondere che essi non uscirono mai dall’Urbe, se non per conquistare e controllare militarmente le provincie, tanto che, in pochi secoli, l’Impero romano passò ad essere guidato da una classe politica e burocratica che tutto era fuorché di etnia latina. E d’altronde non si capisce come avrebbero potuto poche migliaia di romani riprodursi fino a far scomparire il ceppo celtico padano, la cui diffusione ammontava certamente a diverse centinaia di migliaia di persone. (8) Posto =100 il Prodotto interno lordo medio di tutta la Comunità Europea, hanno un PIL superiore a 125 la Valle d’Aosta, la Lombardia e l’Emilia-Romagna; hanno un PIL compreso fra 100 e 125 le restanti regioni della Padania; hanno un PIL inferiore a 75 la Basilicata, la Calabria, la Campa- nia, la Puglia, la Sicilia. (Dati Eurostat 1992 - Quaderni Padani, n.2, Anno 2, Marzo-Aprile 1996) (9) Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie nazionali (Milano: Baldini&Castoldi, 1996), pag. 37 (10) ARCHEO, maggio 1996, pag.3 Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 9 Quaderni Padani - 11 Non è comunque indispensabile risalire fino ai nostri avi Celti per trovare differenze fra Padania e Italia. Anzi, è proprio nel periodo successivo alla caduta di Roma che le differenze si spostano dal campo etnico a quello socio-economico, con una ancor più evidente radicalizzazione della lontananza civile e culturale. Lo ha recentemente spiegato lo storico Cipolla sulle colonne de il Sole 24 Ore (11), dimostrando come sia impossibile avvicinare il Sud alla Padania con i tipici strumenti di emergenza predisposti dai vari governi. Secondo Cipolla, al consolidarsi della società comunale nella nostra terra è corrisposta una strutturazione totalmente feudale e verticistica nel Meridione. Mentre nella Valle del Po si sviluppavano i commerci e nascevano le istituzioni cittadine, nel Sud i nascenti germi imprenditoriali venivano definitivamente schiacciati dalla potenza dei signorotti feudali, la cui organizzazione gerarchica dava vita a una economia chiusa e non concorrenziale. Lo storico sostiene che tale profonda differenza si sia perpetuata nei secoli, aggravandosi in seguito al rafforzamento dei due opposti sistemi e finendo per influire sul piano culturale. Oggi la mentalità mafiosa, noncontrattualistica e fondata sulla legge della forza coincide con il sistema socio-economico del Mezzogiorno. Nel Sud è cresciuta irreversibilmente “la società del privilegio”, in cui al privilegio del suddito di essere difeso dal signore corrisponde il privilegio di quest’ultimo di avere dei sudditi. Al contrario, in Padania è venuta evolvendosi “la società del diritto”, fondata sulle libertà individuali, sulla cooperazione volontaria, sul rispetto per le istituzioni considerate come qualcosa di distinto da colui che le rappresenta, proprio perché eletto dai cittadini e non scelto dal precedente detentore del potere. Il sistema sociale padano è il risultato di una serie di contrattazioni, in cui le posizioni dei cittadini vengono sempre rinegoziate, in cui il consenso è parte essenziale per la buona riuscita delle azioni, così come la concorrenza ne è la garanzia. In quest’ottica soltanto è possibile capire perché non cresca una classe imprenditoriale meridionale: non può esistere libero mercato (né libera istituzione) laddove siano sconosciuti concetti come contratto, concorrenza, libera scelta, consenso volontario. Gli argomenti sui quali ci siamo soffermati sono probabilmente quelli di maggior peso per comprendere le ragioni della distanza fra Pa10 12 - Quaderni Padani dania e Italia. Tuttavia non va dimenticato che molti altri esempi potrebbero essere addotti, come dimostrano numerosi interventi già apparsi su questa rivista, e ai quali rimandiamo per ulteriori approfondimenti. Conclusioni Qualche tempo fa un membro del Governo italiano si è affrettato a dire che non ci può essere secessione della Padania perché la Padania non è un popolo. Noi non sappiamo se la nostra terra si separerà dalla Repubblica Italiana. Saranno i cittadini a deciderlo. E sarà molto probabilmente l’economia a imporre una scelta definitiva. Certo non accettiamo che il discorso secessionista venga affrontato con toni simili. Non esistono popoli, nel mondo occidentale, le cui caratteristiche siano tali da poterli definire e delimitare fino all’ultimo uomo. I movimenti delle masse, le comunicazioni e i linguaggi, gli scambi economici pressoché liberi hanno avvicinato e intrecciato le genti. Pertanto, pretendere che i cittadini padani possano secedere solo dimostrando una loro presunta purezza (razziale?, linguistica?) è discorso da Rosemberg o da Preziosi. Tanto più che non si capisce bene quale sia il messaggio subliminale che sta sotto all’affermazione “non esiste un popolo padano”: ciò dovrebbe forse significare che i nostri concittadini sono schiavi trascinati in questa terra dal mare e dal vento, privi di una propria cultura, di una comune visione della società e delle istituzioni? Il ministro di Roma ha voluto forse affermare che i padani sono uomini senza tradizioni, gente buona per essere colonizzata e rieducata? Come abbiamo scritto, le comunità politiche della Padania sono titolari del diritto di secessione in quanto facoltà precostituzionale propria di ogni cittadino e, per traslato, di ogni gruppo territoriale organizzato (12). Inoltre, la Padania può dirsi ampiamente titolare di un diritto morale a secedere, fondato su un argomento economico (redistribuzione discriminatoria, rischio di perdita del proprio status) e su uno storico-culturale (divisione geopolitica, differenza fra i sistemi sociali e, di conseguenza, culturali). (11) Carlo M. Cipolla, “Il caso Mezzogiorno? Colpa dei Normanni”, su il Sole 24 Ore del 01.05.96 (12) v. Alessandro Storti, “La secessione come facoltà prepolitica e diritto naturale”, su Quaderni Padani, n.3, Anno 2, Gennaio-Febbraio 1996 Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 La volontà di stare con chi si vuole di Gilberto Oneto appiamo che alla base dell’esistenza stessa di ogni comunità umana ci deve essere la volontà di aggregazione e che anche tutti gli altri elementi che ne possono favorire l’unione (storia, geografia, lingua, cultura e anche le comuni origini etniche) finiscono per contare ben poco se manca l’intenzione di stare assieme. Tutti gli studiosi contemporanei insistono su questo punto: quello che realmente importa di una comunità (e che ne fa una comunità) non è cosa è ma cosa crede di essere e quindi vuole essere (1); in altre parole, “una nazione è un insieme di persone che sentono di essere una nazione” (2). L’essenza di una comunità è una questione di autoconsapevolezza o di autocoscienza che trova nel principio di autodeterminazione il suo fondamento di legittimità politica. Tutte le più moderne enunciazioni sui rapporti fra i popoli si basano sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione, dalla dottrina Wilson ai trattati di Helsinki (3). S Il comune sentimento di appartenenza e la conseguente scelta di autodeterminazione riescono addirittura a superare tutti gli altri elementi un tempo ritenuti fondamentali per aggregare una comunità umana o per definire una nazione (comuni origine etniche, storia, cultura, eccetera) che finiscono addirittura per perdere di significato se non sono suffragati da una libera espressione di volontà: la Confederazione Helvetica è uno degli esempi più evidenti di questa prevalenza dell’autocoscienza e dell’autodeterminazione su ogni altro fattore. All’Italia è mancato questo collante: l’obiettivo di “fare gli italiani” si è sempre scontrato con la mancanza di una reale inclinazione e volontà da parte dei popoli che abitano la penisola italiana di “diventare italiani”. Centoquarantanni di unità non sono riusciti a generare una autoconsapevolezza (nè una voglia di averne una) che unisse le diverse comunità interessate in qualcosa di più di un entusiasmo effimero per una vittoria calcistica. La coscienza e la volontà dei vari popoli d’Italia di essere popolo (1) Walker Connor, Etnonazionalismo. Quando e perché emergono le nazioni (Bari: Edizioni Dedalo, 1995), pag.149. L’espressione della propria volontà e il convincimento della propria identità (anche se non suffragato da oggettivi riscontri etnici o storici) costituiscono per Connor il solo vero elemento di formazione e di coesione delle “nazioni”. (2) Rupert Emerson, From Empire to Nation (Boston,1960), pag.102. (3) La dottrina dell’autodeterminazione nasce con l’affermarsi del principio della sovranità popolare, soprattutto con le rivoluzioni americana e francese. L’apparizione ufficiale sulla scena politica internazionale del moderno diritto di autodeterminazione avviene nel corso della Prima Guerra mondiale. Essa è frutto delle enunciazioni sia di Lenin, con le sue Tesi sulla rivoluzione socialista e sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione, che di quelle del presidente statunitense Woodrow Wilson. Nella Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26 giugno 1945 (e in particolare agli articoli 1.2 e 55), il diritto di autodeterminazione viene descritto come uno dei fini primari della organizzazione internazionale stessa: esso è pertanto da ritenersi jus cogens per tutti gli stati membri dell’Onu. Nella Dichiarazione dei Princìpi delle Relazioni Amichevoli, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1970 si legge: “Tutti i popoli hanno il diritto di determinare, senza interferenza esterna, il proprio status politico e di perseguire il proprio sviluppo economico, sociale e culturale, ed ogni Stato ha il dovere di rispettare questo diritto in accordo con le clausole della Carta”, (..) “La creazione di uno stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o il passaggio ad ogni altro status politico liberamente determinato da un popolo costituiscono modalità di attuare il diritto di autodeterminazione da parte di quel popolo”. L’universalità del principio di autodecisione ha trovato nuova enunciazione nell’Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa del 1975 (Atto di Helsinki), ove si legge, nella “Dichiarazione sui Principi che reggono le relazioni fra gli stati partecipanti”: “In virtù del principio dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, tutti i popoli hanno sempre diritto, in piena libertà, di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico interno ed esterno senza ingerenza esterna, e di perseguire come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale”. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Quaderni Padani - 11 13 non è infatti quasi mai andata al di là di una occasione sportiva (4). L’unità d’Italia non è stata il risultato di un libero processo di autodeterminazione (5) e l’italianità non è entrata nel bagaglio culturale della gente né nelle sue aspirazioni. A creare un pur vago sentimento di italianità non bastano la retorica melensa di De Amicis, le adunate degli alpini, qualche cimitero o le banalità scolastiche che hanno annoiato generazioni di cittadini, dai sillabari fascisti a quelli repubblicani. Né servono il Codice Rocco o l’oratoria tronfia di certi politici. Oggi si riscopre il valore dell’unità perché in pericolo non è tanto l’unita (di cui in realtà non importa a nessuno) ma i privilegi grandi e piccoli e molto diffusi che sono legati all’unità o che si crede (o si vuol fare credere) che siano ad essa legati. Samuel Johnson diceva che “il patriottismo è l’ultima difesa dei mascalzoni” (“Patriotism is the last refuge of a scoundrel”) e oggi si hanno valanghe di esempi quotidiani di quanto giusta fosse quell’analisi: uomini pubblici (orfani della DC e del PCI, ma non solo) che hanno sempre bollato come fascista l’idea stessa di patria, oggi se ne riempiono la bocca, ci nascondono dietro le loro paure e le loro malefatte. La bandiera tricolore (che solo alcuni decenni addietro veniva bruciata e che si vedeva solo alle manifestazioni missine) (6) viene ora sventolata in ogni occasione con un entusiasmo che non può non essere sospetto. Oggi sono tutti patrioti, oggi si farebbero tricolori anche i pannolini dei bambini: si pensi a quanti tricolori erano presenti sui simboli elettorali alle ultime elezioni. Anche più di quante falci e martello c’erano venti-venticinque anni fa. Dietro tutto questo patriottismo si nascondono i peggiori interessi. Sembra quasi essere l’ineluttabile destino dell’Italia quello di fare da paravento ai più loschi interessi: nata per mene mas- soniche e anticlericali, per le aspirazioni eccessive di una dinastia frustrata, per dare uno sfogo coloniale al nascente capitalismo settentrionale, essa ha continuato la sua storia fra profitti di guerra e sanguinosi arricchimenti, e ora sopravvive per difendere i piccoli privilegi di milioni di nullafacenti e di assistiti senza merito loro concessi da una classe politica parassitaria che su questo consenso clientelare basa il suo potere e che ora canta il suo entusiastico e ritrovato patriottismo. In realtà, sotto le pennellate di vernice tricolore periodicamente rinfrescate, gli abitanti di questo paese sono sempre rimasti saldamente legati alle loro piccole patrie: sono sempre occitani, siciliani o triestini, sono strettamente connessi con le strutture organiche delle comunità locali di cui fanno parte. Tutto questo è stato ed è soprattutto vero in Padania, dove la dimensione del riconoscimento delle valenze comunitarie è addirittura geograficamente più limitata, dove le piccole patrie sono ancora più piccole. In Meridione o in altre parti d’Europa il sentimento di autocoscienza comunitaria (se c’è) investe primariamente aree vaste come la regione o la macroregione mentre qui esso continua a riferirsi - ancora una volta - essenzialmente alla dimensione delle antiche tribù dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che hanno fatto questo paese tanto tempo fa. Tutto questo è perfettamente leggibile nel comportamento quotidiano, sia in positivo (l’orgoglio e l’amore per il proprio paese, il pingue sbocciare di iniziative culturali locali, di musei, di pubblicazioni, eccetera) che in negativo (certo campanilismo deteriore, il tifo da stadio) e ha indubbiamente avuto una sua connotazione politica ed elettorale. Questa inclinazione all’autonomia dei Padani si è estrinsecata sia nelle strutture elettorali “nazionali” che in quelle localiste e autonomiste. Nelle prime, le peculiarità padane hanno fatto (4) La sintomatica identificazione del “patriottismo calcistico” con il patriottismo tout court viene sempre più spesso proposta dai più decisi difensori dell’unità in assenza di argomentazioni più serie. È infatti ricorrente il lamento-minaccia rivolto ai cittadini-tifosi di una Nazionale resa più debole da separazioni geografiche. Il tema è moralmente meschino, politicamente squallido e anche “calcisticamente” inconsistente: la Gran Bretagna ha quattro squadre nazionali.. (5) Quella dei Plebisciti è stata la più tragica farsa escogitata dagli unitaristi per farsi beffe della volontà popolare. Le elezioni erano prive di ogni più elementare forma di segretezza (venivano usate schede di colore diverso per le diverse risposte), erano riservate solo a una parte della popolazione e han- no fatto seguito ad una inaudita sequela di violenze e intimidazioni. I risultati sono eloquenti e fanno impallidire qualsiasi elezione “bulgara”: nelle Province Meridionali i sì sono stati 1.302.064 contro 10.312 no; in Sicilia 432.053 contro 66 e nel Veneto 647.246 contro 69! Si veda: Alessandro Porro, “Fu vero plebiscito?”, su Etnie, n. 9, 1985, pagg. 26 ÷ 28. (6) Per la verità, il tricolore era in qualche modo “passato di moda” anche presso larghe frange dell’estrema destra “tradizionalista” che avevano ripudiato i temi patriottardi e risorgimentalisti del MSI e adottato simboli e cromìe diverse tratti dalla storia lontana e recente della controrivoluzione europea. 12 14 - Quaderni Padani Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 nascere il primo fascismo (quello efficientista e strapaesano), la resistenza, la sinistra democristiana e l’efficienza amministrativa (e di fatto ampiamente autonomista) del comunismo emiliano. Le seconde sono un prodotto tipicamente padano: oltre alla Padania infatti, solo la Sardegna e - in piccola parte - la Toscana e la Sicilia hanno saputo esprimere con coerenza del- Manifestazione dell'Asar a Trento nel 1945 le strutture partitiche autonomiste (7). dosi come il partito di raccolta etnica dei tirolesi. In verità, fenomeni autonomisti non sono mai Altri partiti minori locali sono stati il Tiroler Hemancati in Padania fin dall’unità: lo “Stato di imatpartei (1964), il Soziale Fortschrittspartei Milano” propugnato nel 1895 dai repubblicani Südtirols (1966) e l’attuale Union fur Südtirol (10). federalisti lombardi (8) e le tendenze fortemente Nel Trentino, l’autonomismo si è espresso pofederaliste di Turati (ma anche di Gramsci) non liticamente fin dal 1945 con l’ASAR (Associaziosono che gli esempi più noti e le manifestazioni ne Studi Autonomistici Regionali) che è arrivata politicamente più “nobili” di una diffusa insoffe- a contare 65.000 aderenti; la sua eredità è stata renza anti-unitaria (e anti-italiana) da sempre raccolta nel 1948 dal PPTT (Partito Popolare presente in tutto il Nord (9). Trentino Tirolese) e poi dallo UATT (Unione AuQuesto senso di identità, compresso da un cen- tonomista Trentino Tirolese) che si sono nel 1988 tralismo opprimente e continuamente colpevo- fusi nel PATT (Partito Autonomista Trentino Tilizzato come “egoista”, ha fatto molta fatica a tra- rolese) (11). Nel 1946 era anche sorto anche un sformarsi in compiuta espressione politica ma - Movimento Separatista del Trentino. In Friuli nasce subito dopo la seconda guerra il sia pur per stadi faticosi - alla fine ce l’ha fatta. Le prime aree che si sono conquistate una con- MAF (Movimento Autonomista Friulano), diventinuità di espressività politica sono state il Sudti- tato più tardi il Movimento Friuli; a Trieste venrolo e la Valle d’Aosta, facilitate dalla possibilità gono formati nel 1945 il Fronte per l’Indipendendi trovare appoggi presso paesi stranieri sodali. za del Libero Stato Giuliano (poi diventato MoSoprattutto la SVP (Südtiroler Volkspartei), vimento Indipendentista del Territorio Libero di fondata nel 1945 sull’eredità della Deutsche Ver- Trieste) e l’Unione Triestina, e - in anni assai più band del primo dopoguerra, ha sempre domina- recenti - nascono il famoso Melone e il Movimento to con chiarezza la scena elettorale locale ponen- Indipendentista Triestino. Le comunità slovene (7) Nel resto d’Italia sono esistiti movimenti autonomisti solo in Sicilia, Sardegna ed Etruria. In Sardegna la presenza di forze autonomiste è più radicata e si avvale di una lunghissima tradizione risalente al primo dopoguerra; in Sicilia la sua vitalità (pur godendo di una antica tradizione) è compromessa dall’ingerenza di una forte criminalità organizzata e dal legame con l’assistenzialismo centralista che tutto compra e corrompe. Assai meno marcato è il senso di autonomia delle regioni dell’Etruria. Solo nella Toscana storica si ritrovano vitali espressioni di indipendentismo; nelle altre regioni sembra che la lunga sudditanza papalina abbia smorzato ogni idea di autonomia sostituendola con un ribellismo politico sfruttato dai partiti di sinistra. Qui (come in Romagna e, in parte, anche in Emilia) l’affermazione della propria diversità è interAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 pretata soprattutto come differenza politica che si è espressa in una autonomia di fatto, organizzata dal Partito Comunista. (8) Per gli eventi legati al movimento per lo “Stato di Milano”, si vedano: Claudia Petraccone (a cura di), Federalismo e autonomia in Italia dall’unità ad oggi (Bari: Laterza, 1995), pagg. 101 ÷ 114, e Aurelio Lepre, Italia addio? Unità e disunità dal 1860 a oggi (Milano: Mondadori, 1994), pagg. 78 ÷ 81. (9) Turati fu considerato un “settentrionalista meneghino”. Si veda, a proposito del suo antimeridionalismo: Aurelio Lepre, op. cit., pagg. 81 ÷ 84. (10) Le vicende dei movimenti politici Sudtirolesi sono ampiamente esaminate da: Claus Gatterer, In lotta contro Roma (Bolzano: Praxis 3, 1994). (11) Stefano B. Galli, “1945 ÷ 48: La meteora dell’ASAR scuote il Trentino”, su Etnie, n. 14, 1988, pagg. 6 ÷ 14. Quaderni Padani -13 15 In Piemonte è nato negli anni ’50 il MARP (Movimento Autonomista Regionale Piemontese, giunto ad avere fino a 70.000 voti) che ha avuto filiazioni lombarde (dove la P stava per Padano) e lunga vita, fino ad essere sostituito alla fine degli anni ’70 dall’Union Piemontèisa, poi da Piemônt e da Piemônt Autonomista (1987) (13). In Liguria sono comparsi l’Uniun Ligure (1988) e il Circolo Culturale Indipendentista. Nel Veneto nasce nel 1979 la Liga Veneta che riscuote un discreto successo elettorale alle politiche del 1983 Una recente manifestazione padanista. (foto Chioccia) (due parlamentari eletti) e si organizzano nella Unione Slovena - Slovenska costituisce il più sicuro riferimento dei movimenti autonomisti dell’ultima generazione. In seguiSkupnost. Nella Padania occidentale, il primo movimen- to viene fondata anche l’Union del Popolo Veneto autonomista è nato nel 1921 nell’Astigiano: il to. Nel 1984 viene ufficialmente fondata la Lega Partito dei Contadini che ha eletto un deputato nel ’21 e quattro nel 1924 estendendo la sua in- Autonomista Lombarda (in realtà “operativa” già fluenza anche in Liguria e Lombardia. Dopo la da un paio di anni), poi trasformata in Lega Lomguerra, ha riconquistato un deputato nel 1946 e barda, che nel 1987 manda a Roma due parlanel 1948 e buoni risultati soprattutto nel Piemon- mentari (14). te meridionale e in Valtellina. Il partito ha esauNel 1991 a Pieve Emanuele, i principali movimenti autonomisti regionali padani (prima solo rito la sua vita attorno al 1970 (12). Il movimento dominante dell’autonomia arpi- coordinati nell’Alleanza Nord) si uniscono per tana è sempre stato l’Union Valdôtaine (fondata dare vita alla Lega Nord che per la prima volta nel 1943 sulla tradizione della Ligue Valdôtaine costituisce un forte movimento autonomista unipour la protection de la langue française, del tario di tutta la Padania. In realtà c’erano già sta1909), mai veramante disturbato dalla Ligue des ti alcuni meno fortunati tentativi di dare struttuCampagnards, dalla Union Démocratique, dal ra politica alle mai sopite aspirazioni di “padaniRassemblement Valdôtaine (1966) o dall’Union tà” e di autonomia della Padania, intesa come Autonomiste. unità comunitaria: nel 1959 era stato fondato un Nelle valli alpine si sono affiancati in tempi di- Movimento Autonomista Padano, nel 1967 era versi alla fortissima Union Valdôtaine (che ha stata creata a Trento dagli autonomisti trentini avuto anche una funzione fondamentale nel dif- del PPTT e da delegazioni proveniemti da Milafondere le idee autonomiste in tutta la Padania, no, Genova, Brescia, Bergamo, Trieste e dal Friupresentandosi alle elezioni europee del 1982) il li la UAI (Unione Autonomisti Italiani) che aveva MAO (Mouvument Autounoumisto Ouccitan), sede a Milano, e alle elezioni del 1971 si era prel’UOPA (Unione Ossolana Per l’Autonomia, 1978), sentato in numerosi collegi l’ALP (Movimento Aula Lega Lepontina, l’UNOLPA (Unione Nord Oc- tonomista Libera Padania) (15). cidentale dei Laghi Prealpini) e altre formazioni Tutti questi movimenti politici e il crescente locali nel Varesotto e nella Bergamasca. consenso che si stà formando attorno all’organiz(12) Gustavo Buratti, “Il Partito dei contadini”, su Etnie, n. 11, 1986, pagg. 49 ÷ 51. (13) Roberto Gremmo, Contro Roma (Aosta, 1992), pagg.18 ÷ 23. 14 16 - Quaderni Padani (14) Umberto Bossi, Vento dal Nord. La mia Lega la mia vita (Milano: Sperling & Kupfer Editori, 1992), pagg. 38 ÷ 49. (15) Claus Gatterer, op. cit., pag. 1536. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 zazione politica che ne ha raccolto l’eredità e riunito le aspirazioni testimoniano della volontà dei popoli padano-alpini di dare concretezza politica alle loro aspirazioni e alla loro identità comunitaria. Se alla base di ogni aggregazione sociale ci sono la volontà di esprimere identificazione e l’autodeterminazione, queste vengono oggi espresse con estrema chiarezza dai padani attraverso la propria scelta elettorale che segue un trend sottolineato anche dalle più serie inchieste d’opinione. Da un sondaggio eseguito nel gennaio 1996 dalla rivista Limes risulta che il 23,2% dei cittadini padani (con l’esclusione degli emiliani) ritiene l’indipendenza della Padania “una prospettiva vantaggiosa ed auspicabile” e che il 29,2% la crede “una prospettiva vantaggiosa sul piano concreto, ma inaccettabile”. Complessivamente il 52,4% dei padani concorda sui vantaggi Tavola 1. Aree di influenza e di maggiore intensità operativa dei dell’indipendenza (16). Appena tre mesi dopo (alle ele- movimenti autonomisti zioni politiche del 21 aprile) il 26,4% dei cittadi- una comunità padana unita. ni delle stesse regioni oggetto della precedente Il 22,3% di Limes è diventato il 26,4% in tre indagine ha poi votato per partiti fortemente au- mesi e sarà probabilmente molto di più quando tonomisti e, in particolare, per la Lega Nord questo numero dei Quaderni verrà pubblicato: (24,8%) che ha impostato la sua campagna elet- tutto lascia pensare che quel 29,2% di dubbiosi torale su un chiaro programma indipendentista. (ma anche parte di chi riteneva l’indipendenza Questo significa che l’attitudine dei padani si “inaccettabile”) si stia rapidamente convincendo stà rapidissimamente evolvendo verso la richie- della bontà del proprio riconoscersi padano, in sta di un chiaro riconoscimento istituzionale delle un processo di liberazione più psicologico che poproprie aspirazioni identitarie, che essi si stanno litico. liberando da tutte le incrostazioni psicologiche Se si segnano su di una carta (Tav.1) le aree di con cui il condizionamento propagandistico ita- influenza e l’intensità operativa dei vari movimenlocentrico li ha ingabbiati per un secolo e mezzo. ti autonomisti del dopoguerra, si mettono in eviNon servono più le blandizie sentimentali di un denza le regioni a più forte vocazione anti-cenpatriottismo vuoto e stucchevole, non servono i tralista e si ha anche una base su cui poter ipotizricatti morali di una finta solidarietà né le accuse zare un possibile schema di organizzazione di una di egoismo, e non bastano più neppure le sempre futura federazione italiana formata da Padania, meno velate minacce di ricorso alla forza per trat- Tirolo, Etruria, Sardegna e Sicilia, oltre che natenere una evidente manifestazione di volontà po- turalmente dall’Italia più propriamente detta. polare che si esprime per una forte autonomia di La particolare ricchezza delle manifestazioni di autonomia politica padana testimonia una volta (16) Ilvo Diamanti, “Il Nord senza Italia?”, su Limes, n.1, 1996, di più la vera vocazione istituzionale dell’area, la più autentica essenza della Comunità padana bapagg. 15 ÷ 30. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Quaderni Padani -15 17 sata sulla libera e paritetica associazione di tante diversità che hanno bisogno di essere unite per poter continuare a difendere e affermare le proprie autonomie e le proprie libertà, sulla falsariga del vicino modello svizzero. La storia ci mostra da sempre che la Padania è grande, forte e prospera quando è unita (o strettamente organizzata in una federazione anche temporanea) e che - quando invece è divisa - è perdente ed esposta a dominazioni foreste. Non è un caso che i suoi nemici (proprio come i Romani di 2000 anni fa) tentino oggi di inventarsi e di fomentare divisioni artificiose al suo interno. Questa idea di “unione di diversità” costituisce invece oggi l’elemento più forte e determinante della sua nuova ricerca di identità: i popoli padano-alpini si stanno costruendo un paese dalle forti autonomie interne, con entità organiche di dimensioni diverse ma rispondenti alle più vere realtà territoriali, ma fortemente unito per difendere la propria indipendenza e le proprie comunanze dalle maggiori diversità con l’esterno. La dimensione della Padania sembra poi essere perfetta (in termini geografici, ma anche demografici ed economici) anche per affrontare il suo futuro destino, per entrare in Europa come protagonista (riprendendo un ruolo antichissimo) e per Tavola 2. I risultati dei vari movimenti autonomisti alle ultime avere una misura produttiva, elezioni politiche amministrativa ed economica adeguata al mondo moderno e alla globalizzazio- tiche (Tav.2) fornisce una interessante visione ne dei mercati. d’assieme del senso di autocoscienza che si stà Questa è l’idea che i popoli padani si stanno fa- sviluppando nelle varie identità accorpate all’Itacendo del proprio paese, questo è quello che vo- lia: ad ogni tornata elettorale, essa tende sempre gliono che sia. più a somigliare alla carta delle realtà etno-naQuesta è la versione contemporanea dell’iden- zionali e a delineare la carta del nuovo assetto tità padana. geopolitico federale della penisola. Anche la carta che evidenzia i risultati dei vari È la fisicizzazione della volontà popolare. Fimovimenti autonomisti alle ultime elezioni poli- nalmente. 16 18 - Quaderni Padani Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Alcuni interessanti aspetti di Stato e Legge Longobarda Le scelte degli avi ci influenzano tuttora e sono modello di autodeterminazione di Alberto Fossati Presentazione Inizia con questo commento l’introduzione del primo di una serie di saggi su una eredità storica, umana, civile e giuridica unica al mondo. Mi riferisco a quella dei padri Longobardi ai quali dobbiamo l’inestinguibile anelito alla Libertà, la misura umana della storia, il senso più profondo dell’autogoverno, la fondazione del Comune come unità di governo basata sul principio di sussidiarietà (pensate che questo principio fu introdotto ben sei secoli prima della tanto conclamata Magna Charta!), la elettività e la temporaneità delle cariche pubbliche, ivi comprese quella della monarchia. La storia, quella vera del faticoso e fatale incedere verso il progresso materiale, morale e spirituale, è invariabilmente l’epopea dello schiavo che combatte per riconquistare la propria condizione di uomo padrone dei propri destini e tuttavia essa è spesso impedita, occlusa, arrestata - anche se temporaneamente - dalle sconfitte. Quella dei Longobardi fu un’avventura storica di giganti che nel solo volgere di tre secoli dalla condizione di prostrazione nelle gelide pianure della Scandia, attraverso un’interminabile odissea nel cuore dell’Europa miserevole ed ostile del loro tempo (al cui confronto l’affascinante e leggendario scrutare degli argonauti alla ricerca del vello d’oro può sembrare un semplice incedere lungo un sentiero di campagna), li portò a diventare protagonisti assoluti e determinanti del risveglio dell'Europa. Prima di portare il loro contributo a quel risveglio, i nostri padri trovarono nella Padania Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 la loro nuova Patria nell’incontro con i Celti parzialmente romanizzati. Qui venne il tempo di costruire quella immane opera unificatrice che fu il regno Longobardo, le cui Istituzioni avrebbero sfidato il tempo e la fatale sconfitta Franca. Imperiture esse sono giunte a noi come il più prezioso dei doni dei nostri padri ancestrali. Un’altra potenza stava però raccogliendo l’eredità dell'imperialismo sconfitto e di nuovo Roma ricominciò a tessere la sua tela contro il libero spirito dei nostri padri: la sua alleanza con i Franchi, ormai piagati nell’anima e plagiati nella mente, risultò mortale con la completa sconfitta materiale dei Longobardi. Dunque - oggi - spetta a noi lontani pronipoti, riprendere quel cammino interrotto, su di noi incombe l’incalzante compito di rimettere in moto la storia, la storia di Europa, così come Athena la scaturì dalla mente e dal cuore di Zeus, così come Pericle la immaginò nell’Agorà ateniese così come il celtico Artù la sancì di fronte ai cavalieri della tavola rotonda e così come, infine, fu scolpita nell’editto di Rotari e nel codice di Liutprando. Come si vede si tratta di questioni assai affascinanti e ancor più cruciali per la costruzione del nostro futuro e di quello assai più importante dell’Europa del terzo millennio, poiché il risveglio alle nostre coscienze deve porre la seguente fondamentale questione ai nostri fratelli europei, a coloro cioè che sono eredi di quella costruzione longobarda di libertà, interrotta dal dispotismo e dalla tirannide franca: nel perenne contendere tra Legge e volontà popolare, le Istituzioni di governo debbono basarsi sugli statuti di potere garantiti Quaderni Padani -17 19 dalla libertà e dagli inalienabili diritti dei popoli (cosi come i nostri padri Longobardi ci hanno indicato nell’editto di Rotari), oppure quelle Istituzioni dovranno continuare soggiacere ad un governo icui gli statuti saranno garantiti da un potere la cui anima risponde all’ontologia della diversità di Aquino e non già a quella del popolo? È in altri termini l’Europa franca del potere immutabile garantito dalla legge che continuerà a prostrare la storia, oppure è tempo che l’Europa longobarda riprenda il suo cammino di libertà ricostruendo istituzioni di governo garantite dalla autodeterminazione della volontà popolare? Vi invito a leggere con grande attenzione il saggio di Alberto Fossati, che ho personalmente apprezzato per la chiarezza delle tesi. Qui siamo proprio nel cuore della Longobardia giuridica ed amministrativa. Apprezzatene la completezza di architettura, tuttora attualissima nonostante i suoi quasi 1500 anni di vita. Rivolgo un invito ad Alberto Fossati affinché prosegua nei suoi studi e nelle sue ricerche. Lui e molti altri padani, possono ricostruire le origini della nostra identitità culturale che, se rimane celtica nel corpo e nell’anima, è indiscutibilmente longobarda nella mente e nelle norme di vita individuale e collettiva. Aldo Moltifiori L sogno di regole semplici e flessibili, per vivere, onde costituire il quadro di disciplina morale necessario per lo sviluppo. Con questo, non si vogliono, né si debbono nobilitare le feroci gesta tipiche dei periodi di conquista. La fase Longobarda di conquista durò un trentennio, dal 555 al 585, ed in tale periodo la baldanza guerriera dei longobardi servì a contenere l’espansione degli Unni. Si vuole solo chiarire come, terminata la conquista del Centro-Nord d’Italia, essi crearono ed organizzarono il Regno Longobardo, costituito dai territori Padani, dalla Tuscia, dal Ducato di Spoleto (Marche-Abruzzo) e dal Ducato di Benevento (Zona Appenninica, dall’odierno Molise alla Lucania). Allora, il Papato ed i Bizantini tennero le coste Centro-meridionali, la Romagna, Bologna e molta dell’Umbria attuale. I Longobardi furono un popolo seminomade (circa 250.000 persone) che arrivò nella pianura padana, estendendo poi la propria influenza sulla penisola italica, ed adattò la struttura militare dell’insieme di famiglie combattenti, al reticolo di città e paesi occupati. La formazione dello Stato Longobardo richiese circa 60 anni (attorno al 620 d.C. ad opera dei re: Autari, Agilulfo e Rotari) dall’occupazione della penisola e trovò compimento con l’emanazione dell’Editto di Rotari, dopo la conquista della Liguria ai Bizantini da parte di questo Re (643 D.C.). L’Editto di Rotari (388 articoli) dettava norme di “diritto pubblico”, “diritto privato” e “di famiglia”. Continuarono poi le guerre per la conquista dell’intera penisola, fintantoché il Papato (e Bi- a storiografia ufficiale ed in particolare il Fascismo, hanno operato una quasi completa rimozione del fondamentale apporto, da parte del Popolo Longobardo, alla Storia ed allo sviluppo della democrazia nella Penisola. Questo perché si voleva stabilire una inesistente continuità “imperiale” del Paese, sia perché la cultura laica e libertaria di quel popolo germanico contrastava e contrasta con il verticismo e l’ideologizzazione sin qui imperanti nel Paese. Non è solo un discorso di tipo culturale; alcuni aspetti della legge Longobarda, adattati ai nostri tempi, potrebbero essere una chiave originale per affrontare problemi come l’efficienza economica nella compatibilità ecologica, della democratizzazione sociale, della semplificazione della vita dei cittadini, delle droghe, del federalismo, della trasformazione in economie di servizi ... Infatti, il primo diritto Longobardo era democratico e flessibile (per i tempi) e pertanto inadatto alle concezioni romano-bizantine della “volontà sovrana”, queste ultime oggi inadatte. Concezioni che ebbero affermazione grazie alla Scuola giuridica di Bologna, che sopravanzò quella di Pavia - anche per via del disfacimento del regno Longo-Franco d’Italia, grazie alla secolare opera del Papato che metteva l’uno contro l’altro i Nobili Longo-Franchi. La mentalità della “volontà sovrana” raggiunse il massimo con l’approccio illuministico francese (ed in seguito con gli stati di polizia “rossi” o “neri”). Infatti per Napoleone, “l’unico modo per sottrarsi all’arbitrio del Giudice è quello di porsi sotto il dispotismo della Legge”, idea che tuttora permea l’Europa. La gente comune ha invece bi18 20 - Quaderni Padani Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 sanzio) non arrivò ad allearsi con i Franchi di Carlo Magno, i quali nel 778 dopo la sconfitta di Re Desiderio, sostituirono il Governo Longobardo con propri uomini che impiegarono gran parte della struttura e Leggi longobarde, ma avviarono un inesorabile processo di frammentazione e feudalizzazione d’un Regno unitario. I princìpi Il primo Regno Longobardo si basò soprattutto su tre concetti giuridici d’ampio interesse: lo Stato-Assemblea dei Liberi Armati (con Re elettivo), il Mundio, il Guidrigildo. Erano poi previsti due soli casi di pena di morte: in caso di Faida o Tradimento (ed assimilabili). Però, vi erano una serie di casi in cui si dava modo alla gente di farsi giustizia da soli, anche se con un rituale: i duelli giudiziari, a cui si poteva delegare il più “grosso” parente della famiglia (o Fara). Il Mundio fu il grado di capacità di movimento, proprietà, compimento di negozi giuridici, ovvero: si poteva essere “Selpmund”, “con Munduald”, “Aldio” oppure schiavo. Attualmente, in tedesco, “Mundig” indica il maggiorenne. Fu “Selpmund” chi ebbe “in sui potestatem arbitrium”, ovvero, in italiano, chi ebbe autodeterminazione (in tedesco odierno “Selbstbestimmung”). Aldio era chi per nascita non longobarda (sino al 750) o per aver commesso crimini non potè avere completa autodeterminazione e, ad esempio, dovette lavorare un deteminato fondo o necessitò della presenza in giudizio del suo “Munduald”. Le donne, i minorenni ed i malati, anche se dotati di libertà di movimento, furono sotto la rappresentanza giuridica e protezione del Capofamiglia. I minori abbandonati, le donne senza capofamiglia, i vecchi senza figli, ebbero come “Munduald” il Re (ovvero il suo Gastaldo, od il Duca, nelle Città). Il Mundio implica che tutto lo stato, cioè il comportamento e la situazione fisica, d’una qualsiasi persona, vanno ad influire sul suo stato giuridico. Il separare l’autodeterminazione dalla semplice maggiore età, ovvero creare diversi livelli d’autodeterminazione a seconda dello stato morale e fisico, potrebbe creare un quadro di riferimento unitario per la “rimozione della patria potestà”, le “misure alternative alla detenzione”, le “comunità terapeutiche” o per creare riti accelerati laddove non si vadano ad imporre pene detentive, che dovrebbero essere molto meno diffuse e più brevi . Soprattutto, in un’economia di servizi, ove la Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 “parola” diventa fondamentale rispetto alla consegna dei materiali, il bloccare la capacità di compiere determinati atti giuridici per 10 anni (ad esempio essere Socio) può essere pena più grave di qualche mese di galera con la condizionale. Il Guidrigildo era una composizione predefinita per l’“inimicizia” che il reato creava verso i danneggiati od il Re. Ad esempio la composizione per l’insulto fu di 12 soldi (circa il valore d’un cavallo e comunque dovuta, a meno che l’insultante non sfidasse l’insultato in Giudizio di Dio); per l’uxoricidio fu di 1200 Soldi (quindi, l’uxoricida diventava di solito schiavo, per insolvenza, della Fara della moglie, purché i parenti non avessero “anticipato” l’azione giudiziaria). Il concetto di guidrigildo sarebbe alquanto utile per i problemi del risarcimento dei danni, in particolare biologico-ambientali, semplificando enormemente anche tutta la problematica assicurativa. Non dimentichiamoci che il concetto di Responsabilità Civile romano-bizantino favorisce le piccole truffe ripetute e crea un contenzioso enorme per i grandi danni; infatti, la Responsabilità civile è potenzialmente illimitata in valore mentre i beni personali dei rei e le polizze hanno comunque un limite. Ad esempio, si potrebbe stabilire con precisi criteri, che il rimborso per danni a persone e loro cose mobili vada da 250 a 250.000 ECU. Se poi il danneggiante fosse insolvente, oppure i danni fossero obiettivamente gravi, si potrebbero introdurre anche per i casi colposi limitazioni al mundio, come divieti di espatrio, divieti di possesso, etc. Tra l’altro, per Rotari, uno che spaccia droga e poi uccide i suoi concorrenti e/o chi non lo paghi, dovrebbe pagare ad ogni famiglia che avesse perso figli, un guidrigildo pari a 75 cavalli e poi essere giustiziato per Faida. Non ci sarebbe da faticare per stabilire se uno sia mafioso: basterebbe provare la pianificazione da parte sua di almeno 3 atti omicidi... Infine, per i Longobardi, lo Stato, originariamente era, e virtualmente non cessava mai d’essere, l’unione di tutti i liberi atti alle armi, gli Arimanni, la cui volontà si espresse nelle Assemblee Generali dell’Esercito-Stato convocate ogni marzo a Pavia, Assemblee (anche locali, per gli affari dei singoli ducati) la cui Volontà fu fonte di tutti i poteri, quello sovrano compreso. Infatti, anche se solitamente vi fu parentela tra Re consecutivi, anche la successione regale padre-figlio dovette essere sanzionata dall’“alzata di spade” in Assemblea. Lo stesso Editto di Rotari fu approvato da una di dette Assemblee. Quaderni Padani -19 21 Il Re fu capo del Potere giudiziario, dell’Esercito e dispose del Demanio regio e delle sue entrate “di giustizia”, però in ogni città ci fu la locale Assemblea degli Arimanni, grado sociale a cui furono in seguito elevati tutti i possidenti in grado di fornire cavalli e armi all’esercito, senza distinzione tra Germanici e Celto-romanici. Tali Assemblee furono l’embrione del Libero Comune. Infatti, dove ci furono forti nuclei Longobardi si crearono liberi Comuni (comprese Benevento ed Amalfi) mentre, ad esempio negli Stati Pontifici o dove la Baronia Normanna potè spadroneggiare, non vi fu tale democratica evoluzione. Oltre che a costituire un’embrione di democrazia, l’esempio dello Stato-Assemblea è tuttora in vigore nella realtà elvetica. Poi, lo sviluppo della cultura media, consentirebbe di creare un’elezione diretta non solo delle cariche di governo locale, ma anche di quelle di tipo giudiziario, che sarebbero così poste, in presenza d’una stampa abbastanza libera, sotto il migliore controllo qualitativo. La chiave di volta è una lettura coordinata degli art. 1, 29, 16 c.1,7, 8 della Dichiarazione Onu sui diritti dell’uomo del 1948. Inoltre, i Paesi con il più elevato livello etico o federale mantengono una struttura militare ancora basata in tutto od in parte sulla milizia continuata o sulle Guardie Nazionali. Struttura Per semplicità, illustriamo la struttura del Ducato di Benevento ai primi del VIII secolo, un territorio la cui struttura politica fu la più lineare essendovi stato un solo conquistatore, Zotan, nel 571. Il Ducato Longobardo di Benevento, il cui territorio era base anti-bizantina, venne retto da un Duca (od Herzog) indicato dalla Corte di Pavia. Esso era diviso in 32 Gau (Gau o Gastaldato di Lucania, Salerno, etc...). All’interno di ogni Gau, vi fu come autorità giudiziaria e militare il Gastaldo, nominato per periodi quinquennali dal Duca; il Gastado ebbe dei vice, i cosiddetti Sculdasci. Innanzitutto, il Gastaldo doveva raccogliere i singoli fanti e cavalieri residenti nel suo Gau per l’annuale assemblea - rivista delle truppe. Il Gastaldo dovette inoltre curare che le strade rimanessero praticabili. Presso ogni Gau, poi, vi erano dei notai presso cui si registravano le donazioni, le vendite, i testamenti e le doti alle famiglie delle Spose. Poi, una buona parte delle terre e villaggi di ogni Gau fecero parte delle proprietà del demanio reale o ducale, mentre la restante parte, an20 22 - Quaderni Padani che la metà, fu di proprietà di singole famiglie di guerrieri, oppure di antichi proprietari. Terre i cui coltivatori erano Aldii o Schiavi solitamente di stirpe italica (ma non mancavano i Longobardi decaduti). Il Gastaldo, tramite gli Sculdasci, percepì parte dei Guidrigildi pagati nel Gau di competenza, oppure i dazi e diritti di Piazza (la Tosap del Medioevo), oppure la rendita del “tertium” delle terre demaniali. Essa fu - per così dire - una “terzadria” che lasciava agli Aldii italici, praticamente liberi, tranne che per il dovere di coltivare il fondo, la gran parte del raccolto. Il Controvalore delle varie rendite, per la parte non impiegata localmente, venne inviato a Pavia o a Benevento, al Re o al Duca. Nella Longobardia propriamente detta, la situazione fu più complessa in quanto i Capi delle singole famiglie guerriere si installarono quali Duchi nelle singole città (Brescia, Torino, etc.), mentre i Gastaldi del Re ebbero potere solo sulle zone di campagna (ad esempio il Gau di Castelseprio). Comunque, il “Palazzo” di Pavia fu proprietario di metà della superficie coltivabile della Padania d’allora, con una struttura di riscossione di una rendita enorme che fece la fortuna della Francia dei Carolingi, paese allora prevalentemente boschivo. Anche qui i Longobardi, avevano avuto alcune buone idee: innanzitutto, avevano stabilito che gli incarichi pubblici fossero di durata limitata, salvo riconferma. Inoltre, identificarono dei territori simili per dimensioni alle nostre Province, i cui responsabili ebbero potere d’ordine pubblico, organizzativo, demaniale; quello che potrebbero diventare i Presidenti delle Province, eletti direttamente dal Popolo, se essi potessero assorbire le funzioni dei Prefetti e degli Uffici Tecnici Erariali. Posto che la separazione tra potere esecutivo e potere giudiziario è fondamentale, per quale motivo, ora, con l’informatizzazione, non si dovrebbero unificare stato civile e casellario giudiziario, sotto supervisione provinciale, destinando personale della Provincia al supporto delle Preture, anziché avere una struttura romanocentrica? Infine, i Longobardi, essendo stati razziatori, riuscivano a capire benissimo che quello che non c’è non può essere preso e quindi basavano il demanio reale soprattutto sul “tertium”; gli italici potevano coltivare come meglio volevano sui suoli demaniali. Una tassazione diretta pari ad un terzo del reddito è sicuramente il limite massimo oggi accetAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 tabile; non solo, essendo la vita moderna impossibile senza l’ampio uso dei beni demaniali quali strade, fogne, metropolitane, etc. si potrebbe stabilire che le imposte sui redditi non sono dovute come “aggio del principe”, bensì come compenso per la costruzione, uso e manutenzione delle strutture demaniali o comunque di pubblica utilità, i cui costi fissi renderebbero le tariffe enormi. Infatti, Adam Smith sosteneva che il beneficio che ogni individuo trae dagli apprestamenti sociali (dai Porti alla Polizia) è direttamente proporzionale al suo reddito; ciò sarebbe entro un più ampio disegno di politica economica liberistica, in quanto sarebbero gli utenti a pagare il necessario per l’attuazione del servizio quando lo richiedono (e non per l’apprestamento della struttura). Come finì il Regno Longobardo? Il Re Astolfo (Aistulf), del partito “intransigente”, eletto nel 749, iniziò una politica militare che avrebbe dovuto portare all’unificazione della penisola sotto la Legge Longobarda, con l’incorporazione delle nuove conquiste nel demanio reale. Fu spinto a ciò anche perché, dopo la morte del Duca beneventano Romoaldo II (731) di nomina reale, la nobiltà Longobarda del Ducato, che ormai s’era esteso sino a Taranto, rivendicò il diritto d’eleggere il suo Re o Duca, spalleggiata in questo dal Papato, che stava concependo la (falsificata) “donazione di Costantino”. Pertanto, mancò il sostegno da Sud all’attacco di Astolfo contro Ravenna e Roma. Anzi, l’esercito di Pipino il Breve, chiamato in aiuto dal Papa, varcò le Alpi e sconfisse Astolfo dopo averlo attaccato alle spalle. Bisogna dire che, nel frattempo, i Longobardi si erano ampiamente “civilizzati” e, arricchitisi, erano spesso diventati “negotiatores” (commercianti, artigiani) - anzi guardavano con benigna ironia i loro avi di cent’anni prima, come Paolo Diacono, il loro “storico”. Il Papato brigò per l’elezione di un mezzosangue, Desiderio (nel 759), il quale tentò poi di ribellarsi, ma venne sconfitto dalla maggiore forza di Carlo Magno. I Duchi di Benevento si considerarono i veri eredi della tradizione di Rotari (Benevento, la seconda Pavia) ed apportarono degli emendamenti Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 al suo Editto, mantenendone la struttura; con il tempo, la struttura Ducale si frammentò ed evolse anche nel Comune di Benevento (che ebbe tale status prima di quello di Milano, nel 1015) od in quello di Amalfi (Repubblica Marinara). La Storia è maestra di vita e qui abbiamo diversi insegnamenti circa quello che è il problema dell’azione collettiva, ovvero del mantenere l’unità d’azione di fronte ai benefici individuali della defezione, oppure dell’aspettare con calma gli incerti risultati del futuro. Bibliografia: AA.VV. “Enciclopedia Italiana” - Ist. Encicl. It. “G. Treccani” - Roma, voci: Arimanni, Astolfo, Benevento, Comune, Diritto (storia), Genova, Goti, Giustiniano, Longobardi, Illuminismo, Italia, Lombardia, Rotari, Expositio, Lex romana Wisigothorum, Milano, Mundio, Notariato, Pavia, Positivismo, Roma, Salerno, Spoleto, Napoleone, Teodorico, Vichinghi, Visigoti. AA.VV. - “Storia d’Italia” - Vol. 1 - Einaudi AA.VV. - “I Longobardi e la Lombardia” - Comune di Milano (1978) AA.VV. - “Storia di Milano” - Ist. Encicl. It. “G. Treccani “ - Roma Bonaparte N. - “Aforismi, Massime” - Edizioni T.E.N. - Roma Cipolla G. - “Storia Facile dell’economia Italiana” - Mondadori/24Ore Ed.- Milano Diacono P. - “Historia Langobardorum”- trad. it. - Editori Associati -Milano Di Tours G. - “La storia dei Franchi” /historia francorum - trad. it. -Mondadori - Milano Galgano F. - “Diritto Privato” - Cedam - Padova Misch J. - “Il regno Longobardo d’Italia” - Ed. Eurodes - Milano Putnam R. - “Le tradizioni Civiche delle regioni italiane” - Mondadori - Milano Pepe G. - “Il Medioevo barbarico d’Italia” - Einaudi Restelli E. - “Castelseprio attraverso i documenti”- Comune di Castelseprio (1980) Renne H.P. - “Storia economica e sociale del medioevo” - Garzanti - Milano Violanti C. - “La Società Milanese nell’Italia precomunale” - Laterza -Bari Quaderni Padani - 21 23 Liutprando, un re della Padania di Maurizio Montagna S i è soliti collegare il nome di Liutprando al periodo di massimo fulgore del regno longobardo. Ciò è dovuto ad una facile constatazione: sotto il regno di Liutprando (712-744), il popolo longobardo acquisì nuovi territori fino a unificare quasi completamente la Padania ed ottenne un prestigio internazionale mai raggiunto prima. Tutto questo non dovrebbe, comunque, far dimenticare il grande rinnovamento legislativo che lo stesso Liutprando operò personalmente. Prima di allora, il diritto longobardo si basava sull’Editto di Rotari (643), vera e propria codificazione scritta (con alcune importanti modifiche) delle antiche leggi germaniche tramandate oralmente per secoli. Primo tentativo di mediazione giurisprudenziale tra la tradizione nordica e il diritto romano-bizantino, il codice di Rotari riorganizzava i rapporti tra monarca e duchi, rivendicando, nel contempo, una derivazione divina all’autorità del re (secondo la consuetudine germanica, invece, il potere era conferito dal popolo in armi). Duca Longobardo (metà VII secolo). Disegno di Giuseppe Rava Se Rotari, legislatore scrupoloso ma anche capo spietato, aveva soltanto scalfito svolgere su questa terra: l’originale impostazione nordica del diritto lon“Le leggi che un principe cristiano e cattolico gobardo, Liutprando integrò, attraverso la pro- ha deciso di stabilire e valutare con saggezza, mulgazione di più di 150 nuove norme, la storica non le ha concepite nell’animo, ponderate nella legislazione ereditata dagli antenati, cambiando- mente e rese proficuamente compiute con le opene il senso in maniera incisiva. L’importante opera re per la propria previdenza, ma per volontà e legislativa fu guidata dalla forte fede cattolica del ispirazione di Dio, perché il cuore del re è nelle nuovo monarca (1), fermamente convinto che il mani di Dio” (2). suo regno fosse una vera e propria missione da A questo principio rispondeva persino l’abbellimento della capitale Pavia: la città in cui sorgeva la residenza regia (considerata sacra) doveva (1) Rotari, al contrario, professava l'eresia ariana. (2) Cit. in Jörg Jarnut, La storia dei longobardi, (Torino: Ei- presentarsi in maniera più degna possibile, anche esteriormente. Ci troviamo di fronte alla connaudi, 1995), p. 81. 22 24 - Quaderni Padani Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 cezione del re come tramite della volontà divina, da essa voluto a capo del popolo sotto la guida della grazia dell’Altissimo. La fervente fede cattolica di Liutprando lo indirizzò verso la promulgazione di norme favorevoli ai ceti meno agiati, alle donne (di cui furono maggiormente salvaguardati i diritti personali e di proprietà) e agli schiavi, che poterono godere di condizioni meno gravose e di maggiori possibilità di affrancamento; il diritto di faida (3) venne notevolmente ridotto e il guidrigildo (4) regolamentato. Inoltre, il re introdusse il diritto d’asilo all’interno delle chiese, ricuperò le reliquie di Sant’Agostino (che fece trasportare nella chiesa pavese di San Vittore in Ciel d’Oro), fece edificare nuovi monasteri e combattè con zelo l’eresia ariana proibendo, nel contempo, molti usi pagani. Tuttavia, la profonda religiosità di Liutprando non gli vietò di scontrarsi con il Pontefice quando ritenne che Roma rappresentasse un ostacolo ai suoi piani politici e militari. Nel 739, per ridurre a obbedienza Trasmondo, duca longobardo di Spoleto protetto da Papa Gregorio III, Liutprando entrò nell’Urbe con il suo esercito ed umiliò i nobili romani (5). In altre occasioni, il re di Pavia ostentò la propria cattolicità in modo eclatante. Nel 729, ad esempio, si alleò con Eutichio, esarca ravennate degli storici nemici bizantini: per ottenere un appoggio contro i ducati di Spoleto e Benevento, il re longobardo avrebbe facilitato all’esarca una campagna contro Papa Gregorio II, inviso all’Imperatore di Bisanzio. Tutto ciò mentre lo stesso Liutprando era vincolato da un patto difensivo stipulato con lo stesso Pontefice. Il doppio gioco del monarca longobardo lo portò a un finale a lui favorevole: dopo avere sbaragliato Spoleto e Benevento, Liutprando arrivò con il suo esercito ai confini di Roma e si gettò ai piedi del Papa (arrivato nel frattempo presso il suo accampamento) in segno di sottomissione; in seguito negoziò una pace tra il Pontefice e l’esarca. Come si evince chiaramente dalla sua attività di capo politico e militare, Liutprando ebbe tre nemici principali: Bisanzio e i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento. Nella sua lotta contro (3) Diritto di vendetta che le antiche leggi germaniche assegnavano alle famiglie qualora un membro delle stesse avesse subito un'offesa. (4) Istituzione del diritto germanico che permetteva all'omicida di evitare la faida attraverso il pagamento di una somma alla famiglia dell'ucciso. (5) In quell’occasione l’esercito occupante costrinse i nobili di Roma a radersi i capelli alla nuca (alla maniera longobarda). Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 l’esarcato bizantino di Ravenna, il re di Pavia si fece anche scudo della propria ortodossia cattolica. Ciò avvenne nel 726, anno in cui l’imperatore d’Oriente Leone III aveva dato inizio alla lotta iconoclasta. In seguito alle posizioni del basileus, scoppiarono aperte ribellioni all’interno dell’esarcato di Ravenna; il Papa, anch’egli residente in un territorio soggetto alla sovranità dell’Impero d’Oriente, levò la sua protesta. Alcune piccole città bizantine, tra cui Osimo, si consegnarono spontaneamente a Liutprando che, sbandierando la propria cattolicità, le annesse al suo regno, al pari di grandi centri come Bologna: prendendo come pretesto la difesa dell’ortodossia cristiana e dell’autorità spirituale del Pontefice, il re di Pavia sferrava un attacco al nemico bizantino, assottigliandone ulteriormente il territorio; nel contempo, sempre ergendosi a difensore della fede cattolica, Liutprando donò nominalmente al Papa, fortemente allarmato e contrariato dall’accresciuto espansionismo longobardo, il castello di Sutri, ponendo le basi del potere temporale dei Pontefici. Il sovrano longobardo vide dunque Bisanzio come un nemico, da attaccare solo nei momenti più propizi; il suo atteggiamento nei confronti di Spoleto e Benevento fu invece sostanzialmente diverso. I due ducati, infatti, non rappresentavano un avversario storico di Pavia, quanto un ostacolo ai progetti imperialisti del re. In conseguenza, Liutprando si adoperò in continuazione per ridurre all’obbedienza i duchi ribelli, talvolta sostituendoli con personaggi a lui fedeli. Il progetto di Liutprando si concretizzava, in pratica, nella fondazione di uno stato longobardo dai caratteri quasi unitari (Spoleto e Benevento godevano, invece, di una virtuale indipendenza). Naturalmente, tenuto conto dell’opportunismo che guidava il sovrano, i rapporti tra il centro e la provincia mutarono a seconda delle situazioni. Nel 712, ad esempio, era in vigore un trattato di pace tra Pavia e l’esarcato; le truppe spoletine, entrate nel territorio bizantino per conquistare Classe, furono costrette a ritirarsi da un preciso ordine del re, interessato al protrarsi della pace con l’Impero d’Oriente. Le carte cambiarono nel 717, anno in cui Bisanzio fu invasa da un esercito saraceno: approfittando della debolezza del nemico, Liutprando sferrò un attacco nei confronti del territorio bizantino con l’appoggio di Spoleto e Benevento. Tradizionalmente alleati del Papa, i ducati causarono scontri tra Liutprando e Gregorio III. Solo alla scomparsa di quest’ultimo e all’elezione del Quaderni Padani -23 25 più conciliante Zaccaria, il sovrano longobardo si riavvicinò politicamente al Papato. Il nuovo Pontefice ebbe un grande ascendente su Liutprando e riuscì persino a convincerlo, nel 739, a rinunciare alla conquista di Ravenna, ormai quasi in mano longobarda. Con Liutprando, il regno longobardo aveva trovato il punto di maggior splendore. Tuttavia, non seppe (o non volle fino in fondo) lasciare in eredità ai suoi successori la totale eliminazione del dominio bizantino ai suoi confini interni. Una striscia di territorio divideva la parte settentrionale del regno longobardo da quella meridionale. Proprio questa spaccatura, apparentemente insignificante avrebbe invece contribuito in modo decisivo a proiettare il Nord Longobardo verso il Centro Europa ed il Sud in direzione del mondo mediterraneo. Mentre il declino dell’esarcato sembrava inarrestabile, un altro regno, quello dei franchi, stava conquistando forza e credito. Già Gregorio III, 24 26 - Quaderni Padani durante i suoi scontri con Pavia, aveva chiesto aiuti militari al maggiordomo di palazzo del Regno dei franchi, Carlo Martello. Quest’ultimo, alleato di Liutprando, aveva rifiutato di intervenire; tuttavia era chiaro che non i longobardi ma i franchi stessi sarebbero stati destinati al ruolo, che ormai Bisanzio non poteva più ricoprire, di ‘protettori’ del Pontefice. Carlo Martello non discendeva da teste coronate. Figlio illegittimo del maggiordomo di palazzo Pipino d’Heristal, che governava per conto del sovrano merovingio, aveva conquistato il potere a forza di brillanti campagne militari (celebre la vittoria sugli arabi a Poitiers, 732) e di astute mosse diplomatiche. Nel 737, alla morte di re Teodorico IV, Carlo Martello aveva acquisito la forza di decidere che non sarebbe stato eletto alcun successore al defunto monarca. Con questa mossa, il maggiordomo di palazzo poneva fine alla dinastia merovingia, apprestandosi a comandare Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 come un re e preparando la divisione del regno franco tra i suoi figli. Il suo principale problema, quello di non avere sangue reale, gli fu risolto proprio da Liutprando. Il re di Pavia accettò di ricevere il figlio di Carlo Martello, Pipino, alla sua corte; con una cerimonia simbolica, Liutprando fece rasare il giovane ospite alla maniera longobarda, nominandolo di fatto suo figlio adottivo. Quando Pipino tornò presso Carlo Martello, la sua posizione era, di fatto, quella di un figlio di re, pronto ad occupare un trono e ad assicurare una discendenza. L’amicizia tra Carlo Martello e Liutprando si concretizzò anche, come si è già detto, in una solida alleanza militare. Nel 737, quando le truppe franche erano impegnate contro i sassoni, Carlo chiese aiuto all’alleato longobardo, affinché questo arginasse un’improvvisa incursione dei musulmani in Provenza. Liutprando accorse in soccorso dell’amico e, con l’esercito a ranghi completi, costrinse alla fuga gli invasori, che si ritirarono senza neppure combattere. La facile impresa di Provenza servì a Liutprando per acquisire, al pari dell’alleato Carlo Martello, vincitore di Poitiers, la fama di paladino e difensore della cristianità, elemento molto importante per un re dalla forte fede cattolica. Non è facile tracciare una sintesi completa del personaggio Liutprando, legislatore innovativo ma inguaribile opportunista e doppiogiochista; fervente cattolico ma, in alcune circostanze, avversario del Papa; difensore della cristianità ma pronto ad approfittare dell’invasione araba di Bisanzio per attaccare l’esarcato. È forse azzardato sostenere che Liutprando fu, in termini moderni, una sorta di monarca illuminato; sicuramen- Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 te fu un sovrano medioevale un po’ atipico ma, contemporaneamente, immerso nei cambiamenti che la sua epoca e il suo popolo stavano attraversando. Nonostante le contraddizioni che il personaggio presenta, si può senza dubbio affermare che la sua fede cattolica fu realmente sincera e genuina. Sembra dimostrarlo la sua concezione di legalità, che un episodio della sua vita politica esemplifica in modo molto chiaro. Quando il nipote Ildeprando gli fu associato al trono con procedure che seguivano correttamente la normativa longobarda (735) (6), Liutprando accettò di buon grado la decisione, pur non concordandovi. Le leggi, secondo l’interpretazione del re, erano scritte dal sovrano stesso ma ispirate dalla grazia di Dio: neppure il monarca che le aveva promulgate, quindi, avrebbe potuto trasgredirle. Non è perciò sorprendente che il grande storico dei longobardi Paolo Diacono abbia dato un giudizio estremamente positivo di Liutprando, imprimendo alle proprie parole un’enfasi degna di un elogio funebre: “Fu uomo di grande sapienza, prudente nel decidere, molto pio e amante della pace; valoroso in guerra, clemente con chi sbagliava, casto, pudico, abile oratore, generoso nelle elemosine; anche se non sapeva leggere, era da mettersi alla pari coi filosofi; premuroso nel benessere del popolo, restauratore delle leggi” (7). (6) I longobardi, con questa elezione, non intendevano colpire Liutprando. In quei tempi, il re era malato e rischiava la morte: le errate previsioni sul destino del sovrano indussero i longobardi ad anticipare i tempi della successione. (7) Paolo Diacono, Storia dei longobardi, (Milano: BUR, 1991) pag. 549. Quaderni Padani -25 27 Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto di Gualtirero Ciola La conflittualità fra le diverse etnie incomincia in Europa nel XIX secolo, con la nascita del Nazionalismo, mostro procreato dagli artefici illuministi della Rivoluzione Francese ed “esportato” nei territori occupati dalle armate napoleoniche; in Italia i governi giacobini dal 1796 al 1801, creano quel sentimento che, secondo Wolfgang Goethe, porta dall’umanità alla bestialità, attraverso la nazionalità. Non è che prima del Giacobinismo non esistesse l’idea di patria: Monaldo Leopardi, fiero oppositore della corrente di pensiero venuta dalla Francia, così la definiva: “La patria è precisamente quella terra nella quale siamo nati, e in cui viviamo insieme agli altri cittadini, avendo comuni con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi, le pubbliche proprietà e una moltitudine di interessi e rapporti.” In quest’ottica ben può parlarsi di patria veneta, lombarda, tirolese o bavarese: piccole patrie immerse in contenitori più grandi, Italia, Austria e Germania, oggi, e domani, auspichiamo, in uno ancora più grande: l’Europa. Già allora, nelle sue numerose opere politiche, il Leopardi intravedeva i pericoli di un centralismo ottuso e soffocatore delle culture originarie e del decentramento amministrativo, della massificazione livellatrice, del sorgere dello statalismo negatore dell’autonomia e della dignità dei popoli minoritari, auspicando la trasformazione dello Stato accentrato, quello giacobino, oggi più che mai superato e impotente, in uno Stato Federale pluralistico, costituito dall’unione delle regioni autonome culturalmente ed amministrativamente, entro i limiti di una Costituzione comune aggiornata ai problemi dell’oggi e non ai miti fasulli dello Stato nazionale unitario, ormai superato dalla storia. L’espressione “Pufferstaat” nacque in Germania ed Austria nella seconda metà del XIX secolo, per indicare un piccolo stato con funzioni di ammortizzatore (Stossdämpfer), creato apposta per smorzare gli urti inevitabili tra nazioni diverse e quindi potenzialmente ostili. Sarebbe interessante annotare le diverse, op26 28 - Quaderni Padani poste opinioni espresse dagli sciovinisti nostrani (ce ne sono tanti) nei confronti del problema sudtirolese e di quello istriano-dalmato: per il primo si avvalora la giusta causa di una guerra vinta nel 1918, ma si tace di quella perduta nel 1945, che ci ha privati dei territori istriani e dalmati; per questi ultimi si auspicava, giustamente, l’autodeterminazione che è stata, ingiustamente, negata ai sudtirolesi. Per carità di patria sorvoliamo su tutte le amenità ed i luoghi comuni contro i diritti della minoranza tedesca, da parte di coloro che non hanno mai vissuto nel Sudtirolo ed ai quali neghiamo l’autorità di pontificare in merito, né sul diffuso malanimo antislavo che pure ha delle profonde ragioni, da ricercare negli anni luttuosi del Fascismo e del dopoguerra; parleremo invece di una bella utopia che costituirebbe il primo tentativo di sostituire la barriera dei “sacri confini” con un ponte di fraternità teso verso il mondo germanico a Nord e lo slavo ad Est: due “Pufferstaaten” appunto, che metterebbero fine alla frammentazione violenta di due entità etno-storiche ben definite: l’euroregione del Tirolo e quella Giuliano-istriano-dalmata. Per la prima ci sono già dei progetti bene articolati, proposti da forze politiche e culturali di lingua tedesca ed italiana: anche nel Trentino, il vecchio “Welschtirol” o Tirolo italiano, ci sono delle élites che propugnano il “progetto pantirolese”, da Kufstein ad Ala, che ridia al Tirolo gli antichi confini storici, ora stravolti; basta guardare una carta geografica del 1914 ed una del 1919: con l’assegnazione al regno d’Italia di quella parte del Tirolo che va dal Brennero alla chiusa di Verona, il Nord-Tirol con Innsbruck risultò tagliato fuori dall’Ost-Tirol e dalla città di Lienz, suo capoluogo, a causa della perdita della Val Pusteria, unica via d’accesso: vero smembramento di una piccola patria, erede di una tradizione unica nell’Europa, la cui caratteristica più saliente è stato l’amore per la libertà, difesa sempre a caro prezzo. Ricostruire l’unità del Tirolo, pur senza intaccare la sovranità italiana sulle province di Trento e Bolzano, né quella di Vienna sui suoi Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 più antichi possessi, è possibile, è attuabile, non senza l’orgoglio di aver contribuito a dare un esempio di civile convivenza in un mondo dilaniato da odii e guerre crudeli, di costruire un diaframma di fratellanza e cooperazione tra il Nord e il Sud dell’Europa, di dar vita ad una regione ove tre gruppi etnici: l’italiano, il tedesco ed il ladino collaborano in armonia, con arricchimento spirituale materiale reciproco; sarebbe il primo esempio di abolizione dei confini, quali si intendevano al tempo dell’oscurantismo giacobino: una regione cuscinetto con le frontiere più aperte d’Europa ai popoli mediterranei ed a quelli germanici. Ai nostri confini orientali il nazionalismo italiano, contrapposto a quello slavo, reso ancor più virulento dall’ondata di panslavismo che si è irradiata dalla “madre Russia”, raggiungendo il suo parossismo tra Serbi e Croati, ha prodotto tanto odio da generare, negli anni dell’ultima guerra mondiale, degli episodi di tale crudeltà da fare impallidire quelli del più oscuro medioevo. Nel ’45, a guerra finita, migliaia di prigionieri di guerra, colpevoli solo di aver militato dall’altra parte, furono massacrati nel modo più barbaro; non solo di militari si trattò, ma anche di civili di ogni età e sesso, colpevoli di essere stati “fascisti” o semplicemente “italiani”. Dall’Istria e dalla Dalmazia, la maggior parte della popolazione di lingua italiana preferì abbandonare i suoi beni e trasferirsi nella penisola, ove lentamente e con altra sofferenza, si integrò. Dopo la proclamazione di indipendenza della Slovenia, Croazia e Bosnia, si è sviluppata una guerra totale, con efferatezze che hanno superato quelle dell’ultimo conflitto. Si è visto in questa occasione quanto anche i micronazionalismi possano essere virulenti; è difficile stabilire il limite di un attaccamento innato per la propria etnia, di una difesa ad oltranza della propria identità, cose sacrosante, ma che non debbono consentire di cedere alla tentazione di imporre una presunta superiorità agli altri, né di vessare altre minoranze. Croati e Serbi, dopo essersi scagliati gli uni contro gli altri, si sono alfine accordati solo per sterminare, senza pietà, altri fratelli di religione musulmana: un vero genocidio. È sperabile che tanto sangue versato possa far riflettere alla fine questi popoli e farli capire che solo la tolleranza verso le minoranze etniche e religiose potrà costituire una speranza per il futuro. Anche se pare folle sperare di smussare le punAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 te dell’acceso nazionalismo di Sloveni e Croati che hanno tagliato in due l’Istria, ove anche la popolazione slava tiene all’identità culturale istriana, come hanno dimostrato le elezioni amministrative del febbraio ’93, non bisogna stancarsi di proporre la costituzione di una macro-regione cuscinetto, nella quale l’etnia italiana possa pacificamente convivere accanto a quella slava, nel reciproco rispetto e collaborazione. Sarà dura, ma non bisogna demordere, agendo soprattutto a livello accademico, dato che l’intellighenzia slovena e croata è l’unica a recepire l’istanza coraggiosa e civile del superamento dello sciovinismo dei rispettivi popoli; sarà dura anche da parte italiana superare gli antichi rancori, ma l’esito ne varrà la pena: con la rinascita di Trieste, città prostrata per la mancanza di hinterland e per l’indisponibilità da parte del governo di Roma di farne il porto della Mitteleuropa, come fu nello scorso secolo che vide l’apogeo del suo sviluppo civile ed economico. La prima grande guerra civile europea del XX secolo aveva frantumato gli equilibri che l’impero asburgico aveva saputo creare, smorzando, con la sua efficienza amministrativa, i nascenti nazionalismi dei suoi popoli. Ora, dopo la grande crisi che si abbatterà fra le popolazioni della ex Yugoslavia stremate da quest’ultima guerra civile, saranno le motivazioni economiche a spingere sloveni e croati verso la soluzione da noi auspicata e chi, tra gli italiani, non ha dimenticato le terre perdute nel ’45, capirà che l’unico modo pacifico per rivificare e tutelare l’italianità dell’Istria, col ritorno degli esuli, non potrà che essere una rinuncia parziale di sovranità delle tre nazioni confinanti ed un impegno comune a superare le barriere dell’incomprensione e della diffidenza etnica. Oggi questa soluzione è irreale, lo sappiamo bene, ma domani essa potrà imporsi da sola, per pure ragioni di sopravvivenza; bisognerà solo creare per tempo le basi etico-culturali di quell’élite che, quando il tempo sarà maturo, sappia tracciare il percorso per la graduale realizzazione di tale fine, oltre i limiti meramente economici ed utilitaristici: un vero progetto politico di integrazione culturale della popolazione italiana, croata e slovena, nella nuova macro-regione adriatica. Solo allora il mondo slavo e quello italico potranno comunicare proficuamente attraverso questo filtro pacificatore. Due belle utopie, si dirà, belle, ma irrealizzabili, mentre questo pazzesco bailamme giuridico, amministrativo e politico che stiamo vivendo coQuaderni Padani - 27 29 stituirebbe l’unica amara realtà alla quale dovremmo inchinarci. Invece la rifiutiamo categoricamente forti del fatto che abbiamo intravisto un precedente incoraggiante: la costituzione dell’Alpe Adria, atto avvenuto evidentemente durante un momento di distrazione dei nostri governanti, poiché altrimenti nessuno si spiegherebbe, conoscendone i limiti mentali, come sia stato possibile consentirne l’attuazione. La “Comunità di lavoro Alpe Adria”, nata a Venezia il 20 Novembre 1978, raggruppava all’inizio due regioni italiane: il Friuli-Venezia Giulia ed il Veneto, tre Länder austriaci: Carinzia, Stiria ed Austria superiore, due repubbliche socialiste: la Slovenia e la Croazia; in seguito vi aderiscono il Trentino-Sudtirolo e la Lombardia, lo Stato Libero di Baviera, il Land Salisburghese ed alcune contee ungheresi. Vi si configura la ricostituzione di un’area mitteleuropea quale era, con l’eccezione della Baviera, il Reich del giovane imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo. Inizialmente Alpe Adria era nata per avere solo un ruolo economico: nel settore delle comunicazioni, trasporti, scambi energetici, agricoltura e turismo; successivamente, nel giugno-luglio 1991, con la crisi scoppiata all’indomani dell’autodeterminazione di Slovenia e Croazia, Alpe Adria assume pure un suo ruolo politico, esprimendo addirittura un incondizionato appoggio alle due nuove repubbliche, scegliendo una condotta divergente da quella del governo centrale e in aperto dissenso dal suo ministro degli esteri, dichiaratamente filoserbo. Questa politica estera regionale favorevole ai 28 30 - Quaderni Padani due stati secessionisti non ha mancato di influenzare le mosse successive di Austria e Germania: il riconoscimento delle due repubbliche, nonché di rafforzare la determinazione di sloveni e croati a stringere legami sempre più forti con l’area mitteleuropea e di accentuare lo strappo da Belgrado. Tutto questo ha determinato la reazione della Sinistra: il ministro De Michelis, di matrice giacobina, è stato fino in fondo, un ostinato difensore dell’integrità nazionale yugoslava, fingendo di ignorare che, sotto la formale vernice federativa, la dittatura comunista celava il centralismo oppressivo dell’Unione Sovietica; più eloquente e dimostrativa dell’impostazione statalista, nemica di ogni vera autonomia, specialmente in casa degli Stati a socialismo reale, come viene ancora considerata la “Grande Serbia”, è stata la rabbiosa reazione la quale Antonio Sema ha minacciosamente tuonato contro Alpe Adria, a conclusione del suo saggio su “Limes” 1/94 (“Estate 1991: gli amici italiani di Lubiana”): “In ogni caso, sarebbe forse consigliabile rivedere seriamente competenze e pretese delle regioni nel settore della politica estera, per evitare di trasformare con troppa facilità segmenti regionali dell’apparato politico e amministrativo italiano in efficienti basi di manovra a disposizione di interessi esterni, come è accaduto al Nord-Est italiano nel corso del 1991.” Una migliore difesa dello Stato centralista non l’avrebbero potuta fare nemmeno i nazionalisti di Gianfranco Fini; a noi non resta altro che identificare il nemico principale dell’idea autonomista e federalista ed additarlo a tutti coloro che la pensano come noi. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Südtirol: cinquantanni di continua oppressione di Corrado Galimberti In Italia, l’europeismo sembra essere un sentimento profondamente radicato sia tra i cittadini che nelle istituzioni. Naturalmente, quando si tratta di tradurre concretamente in fatti, le parole espresse, le popolazioni italiche dimostrano atteggiamenti che con l’Europa hanno poco in comune, ed i governi mettono in atto scelte e provvedimenti che rappresentano un vero e proprio affronto a ciò che sostengono di voler realizzare verbalmente. Un ennesimo esempio di quello che, al di là di una doverosa e più approfondita analisi politica che richiederebbe molto spazio, appare anche come un caso di inciviltà e razzismo, è la reazione del governo italiano - quello precedente l’attuale - e del presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, all’annuncio, tempo fa, dell’apertura di un ufficio di rappresentanza, sostanzialmente commerciale, in comune tra il land del Tirolo e le regioni del Sud Tirolo e del Trentino, a Bruxelles. Quando gli italiani hanno poi saputo che il funzionario che vi lavora (o lavorava?) è trentino ..., apriti cielo! Le province di Trento e Bolzano non godono così come nessun altra città situata entro i sacri confini della patria (?!) - della benché minima autonomia in campo internazionale. Non possono cioè stipulare alcun accordo a livello politico, né economico, con nessuna regione europea. Il contrario di quanto avviene in quasi tutti i paesi della UE (Unione Europea). Pertanto, tra le autorità italiane, il pensiero di un ufficio in comune tra regioni appartenenti a Stati differenti, ha alzato il tono delle polemiche, essendo stata vista come un ulteriore passo verso la ricostituzione di quella che dovrebbe essere una realtà già da molto tempo: l’Euroregione Tirolo. In primo luogo i commissari di governo di Trento e Bolzano hanno vietato ai funzionari dello Stato di partecipare alla cerimonia di inaugurazione. Ed in seAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 guito sono scese in campo autorità italiane di primo piano (con il consueto e tipico chiasso latino), Luis Durnwalder e Carlo Andreotti (presidenti delle province di Bolzano il primo, di Trento, il secondo), sono stati convocati, si è parlato di attentato all’unità nazionale (e allora?) e si sono sfiorati toni ed accenti che nulla hanno da invidiare alla peggiore retorica nazionalistica di stampo fascista. Per cercare di fermare la Storia. Parole aggressive erano già state espresse in passato, sempre da Scalfaro, per condannare la ricostituzione di una regione, unita per secoli, e smembrata con la violenza all’indomani della prima Guerra mondiale. E l’intervento dell’allora ministro degli Esteri, Susanna Agnelli, (“non è accettabile che pezzi d’Italia vadano dietro a un altro Stato”) in relazione all’apertura dell’ufficio di rappresentanza, oltre a ciò che ci è capitato di leggere sulla stampa italiana a proposito di tirolesi e serial-killer, hanno fatto riaffiorare una ferita ancora aperta. Una ferita che sanguina, intendiamoci, non solo per i tralicci fatti esplodere dagli indipendentisti sudtirolesi durante gli anni caldi, ma per la lunga scia di offese, umiliazioni, e torture, fisiche e morali, inferte alla popolazione locale da parte dell’Italia e dei suoi rappresentanti. La creazione di uno spazio economico tirolese, che sposterebbe l’asse geopolitico verso Nord, quindi verso l’Austria terrorizza le autorità di Roma che, nonostante abbia ratificato, con la legge n. 881 del 25 settembre 1977, i patti internazionali sui diritti dell’uomo, con i relativi protocolli facoltativi, si rifiuta di concedere il diritto all’autodeterminazione al popolo sudtirolese. Carlo Andreotti, per difendersi dalle accuse mossegli ha semplicemente spiegato che “Il Trentino, assieme all’Alto Adige, è impegnato nell’elaborazione di una proposta di Euro-Regione che rafforzi i già robusti vincoli di collaborazione tra Quaderni Padani -29 31 le province trentino-tirolesi dei due versanti del Brennero. Non si tratta di un rigurgito nostalgico, ma della consapevolezza che l’area trentinotirolese si trova dinanzi alla necessità di decidere se vuole ridursi a corridoio di transito tra la Padania e la Baviera, o se vuole invece giocare la carta delle particolarità, ambientale e culturale, per rilanciare il proprio ruolo non marginale nella futura Europa delle Regioni”. Come dargli torto? I giornali non ci hanno poi fornito ulteriori ragguagli sugli avvenimenti, o meglio, sulle vicissitudini, dell’ufficio tirolese a Bruxelles, ma temiamo che tutti coloro che si sono mossi per la realizzazione di un concreto esempio di cooperazione transfrontaliera non abbiano avuto, ne abbiano tuttora vita facile. Una vita comunque molto più quieta di coloro che, negli anni Cinquanta e Sessanta sacrificarono la propria vita per la libertà del Sudtirolo e che furono umiliati, torturati ed assassinati da ufficiali rappresentanti dello Stato italiano (*). Costoro hanno poi trovato degni eredi in chi minaccia l’invio dell’esercito tricolore in Padania per soffocare aneliti di libertà. Il gerarca Violante docet. Allora furono assassinati quattro patrioti, che l’Italia chiama terroristi. E che invece ebbero la forza ed il coraggio di mettere in discussione la propria esistenza in favore della propria terra in un periodo in cui, per intenderci, se si dipingevano le persiane di casa di bianco e rosso, i colori del Tirolo, si poteva essere arrestati e incarcerati. Ci riferiamo a Franz Hofler e Anton Gostner, morti rispettivamente il 22 novembre 1961 ed il 7 gennaio 1962, dopo le torture inferte loro in prigione dai carabinieri. A Luis Amplatz, assassinato da un cittadino austriaco assoldato dai tristemente famosi “servizi segreti deviati”, e che ricevette 150.000.000 (di allora), il quale cercò anche di assassinare Georg Klotz. A Sepp Kerschbaumer, morto in prigione il 7 dicembre 1964, (*) Questi episodi sono stati ufficialmene denunciati dal Ministro degli Esteri della Repubblica Federale Austriaca, Bruno Kreisky, e dal Procuratore della Repubblica Italiana di Trento, Agostini, che presentò denuncia contro dieci carabinieri alcuni dei quali furono condannati in Giudizio. 30 32 - Quaderni Padani anch’egli dopo essere stato torturato dai carabinieri, come ampiamente riferito dalla stampa locale dell'epoca. E a tanti altri semplici cittadini che opposero semplicemente se stessi e l’amore per la propria terra, all’arroganza e alla violenza tricolori. A causa delle quali si negano, ancor oggi, fondamentali diritti a diversi cittadini sudtirolesi, ma che permettono di “sorvolare” su episodi clamorosi, resi noti persino dalla televisione di Stato. Ci riferiamo, ad esempio, ad un episodio raccontato alcuni anni fa persino durante la trasmissione di Sergio Zavoli “La notte della Repubblica”, ma già noto a chi di dovere: nel 1967, dopo l’invio di 10 mila uomini inviati a presidiare il confine con l’Austria in seguito ad uno tra i più oscuri e tragici episodi degli Anni caldi in Sudtirolo, la strage di Cima Vallona, in cui persero la vita quattro militari italiani, in provincia di Bolzano si trovava il colonnello Amos Spiazzi. Il quale, parecchi anni dopo l’eccidio di Cima Vallona, rivelò alla Commissione d’inchiesta sulle responsabilità della Loggia P2, nell’ambito della strage di Bologna, quanto segue: “quando io (Amos Spiazzi, ndr), su indicazione di ambienti sudtirolesi, potei sorprendere e arrestare due uomini del Sifar (branca dei servizi segreti italiani, ndr) intenti a preparare un attentato (che sarebbe poi stato attribuito ai tirolesi, ndr), volevo trasferirli a Bolzano per consegnarli al mio comando, ma alcuni carabinieri me lo hanno impedito, prendendo in consegna loro i miei prigionieri, senza stendere nessun verbale sull’operato. Mi ringraziarono, ma il giorno dopo venni trasferito a Verona”. Potremmo - e dovremmo - soffermarci a lungo sugli episodi, gli uomini, gli atteggiamenti e gli avvenimenti che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta in provincia di Bolzano. Per il momento, ci limitiamo ad interrogarci sulla violenza - sino ad ora solo verbale - di cui ufficiali ed alti rappresentanti dello Stato italiano hanno dato prova, dopo l’apertura di un ufficio commerciale sul quale non sventola il tricolore. E su certe autorità, che quella violenza verbale, anelano a trasformare in qualcosa di più concreto che viaggia su un paio di cingoli. O, Signor... Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 I Liguri-Apuani, il popolo delle statue-stele di Lunigiana di Dionisio Diego Bertilorenzi Le Alpi Apuane sono conosciute nel mondo per la grande quantità e qualità dei marmi che ne vengono estratti (il famoso marmo di Carrara). Queste montagne che sfiorano i 2.000 metri, pur essendo vicinissime al mar Ligure, sono classificate come “Alpi” nonostante la lontananza dall’arco alpino vero e proprio. Infatti sia il tipo di rocce che l’ambiente (pareti strapiombanti, cime svettanti) le fanno più somiglianti a una piccola catena alpina che non al vicino Appennino dal paesaggio più dolce e arrotondato. Il nome di “Apuane” deriva loro dalle antiche popolazioni che ne abitarono le zone circostanti e sulle quali seguono alcune considerazioni a carattere storico e culturale. In questi ultimi decenni l’opera illuminante di vari studiosi di storia locale Lunigianese ha permesso di avere una visione più chiara e precisa del mondo e della storia dei Liguri-Apuani. Pur fra inevitabili controversie e interpretazioni un po’ differenti, si è sostanzialmente arrivati ad alcune conclusioni basilari ormai comunemente accettate. La composizione etnica dei Liguri è dovuta a una stratificazione di popolazioni. Su di un antichissimo substrato di genti indigene (tipo tarchiato, crani larghi, capelli scuri) abbastanza simile agli Iberi e distriAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 buite, grosso modo, tra la Liguria attuale e i Pirenei, si vennero a sovrapporre circa fra il 1100 e il 1000 aC popolazioni di conquistatori indoeuropei in occasione della loro prima grande migrazione nella penisola italica. Queste popolazioni, definibili “protoceltiche”, si fusero (con ruolo culturale predominante) con quelle preesistenti creando le tribù liguri di epoca storica. A questo proposito sono state ormai quasi del tutto abbandonate le vecchie teorie - tipiche della scuola tedesca degli anni ’30 - che individuavano nei Liguri un popolo mediterraneo antichissimo senza alcun apporto indoeuropeo. Oggi in base a nuovi ritrovamenti, a uno studio più attento e meditato delle fonti classiche, della toponomaQuaderni Padani - 31 33 stica e dei dialetti sopravvissuti, nonché di certe caratteristiche fisiche degli abitanti della zona apuana (“così alti, così doliocefali” li definiva il Lombroso) (1), si ammette che le grandi migrazioni celtiche nell’Italia centrosettentrionale (600 ÷ 400 aC) non fecero che accentuare, in tutti i sensi, l’indoeuropeizzazione dei Liguri (2). Una sorta di “celtizzazione” che dovette essere agevolata notevolmente da un’affinità di fondo etnica-culturale dei due popoli. Le fonti storiche non ricordano particolari guerre e violenze fra Liguri e Celti; piuttosto hanno messo in evidenza l’aiuto reciproco che questi due popoli spesso si davano: alcune tribù vengono a volte definite celtiche e a volte liguri a segno di una differenzazione non troppo accentuata (3). Gli Apuani vengono considerati appartenenti al gruppo dei Liguri orientali, ricco di influenze celtiche. Fu un popolo bellicoso e con un marcato senso del sacro. Privi di qualsiasi struttura di tipo statale, essi vivevano organizzati in gruppi tribali, in villaggi fortificati (i “castellieri”) generalmente costruiti sulle pendici dei monti o in collina, e immersi in fitte selve boscose (ne sono stati individuati oltre una quindicina). Praticavano il rito dell’incinerazione deponendo le ceneri in urne insieme al corredo del morto (4). Era una società basata sulla pastorizia, sulla caccia e pesca, e su una rudimentale agricoltura montana. Vi era assai diffuso l’uso del compascuo e della tecnica del debbio (incendio) per fertilizzare i terreni. Ma le attività che divennero centrali e attorno alle quali tutto ruotò furono, per molto tempo, la guerMuseo di Pontremoli: statua n. 48, scora e la razzia; analizperta nel 1975 a Bigliolo, nel comune di zando dal punto di viAulla. sta socio-economico gli Apuani degli ultimi secoli pri- arrestò l’avanzata. In seguito ma dell’era volgare, il Sereni par- dovettero far fronte a varie inla di “una vera e propria società cursioni e spedizioni che li coorganizzata per una guerra per- strinsero ad attestarsi sulla riva manente” (5). meridionale dell’Arno. Rari fuNella fase della loro massima rono anche gli scambi commerespansione in questa zona, gli ciali tra le due nazioni tanto diEtruschi incontrarono una verse fra di loro (6). guerriglia implacabile che ne Sono infatti pressoché inesi- (1) R. Cappuccio - E. Pioli, “Cesare Lombroso in Garfagnana, Lucchesia e Lunigiana. Motivazioni e risultanze di un itinerario scientifico”, in Studi in onore e memoria di L.Firpo (Lunigiana, 1990). (2) Sulle origini e sovrapposizioni etniche dei Liguri Apuani si vedano: - Emilio Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica Roma, 1955). - L.Marcuccetti, La terra delle strade antiche, Cap. I e II (Viareggio, 1995). - Augusto C.Ambrosi, Statue stele lunigianesi, Cap.I (Genova, 1988). - Augusto C. Ambrosi, Lunigiana la preistoria e la romanizzazione (Aulla, 1981). - Renato Del Ponte, “Sull’origine dei Liguri”, su Arthos, n.VII, VIII, X, XIII (Genova, Pontremoli d.v). (3) AA.VV. “Fontes Ligurum et Liguriae Antiquae”, in Atti della Società Ligure di Storia Patria (Genova, 1976). (4) Per l’organizzazione socio-economica e territoriale e per l’archeologia e i riti funebri degli Apuani si vedano: 32 34 - Quaderni Padani - Ircas N: Iacopetti, Pariana di Massa, Cap.I (Cremona, 1992). - U. Formentini, “Monte Sagro. Saggio sulle istituzioni demoterritoriali degli Apuani”, in Atti C.I.S.L. Bordighera 1950 (1952). - M.G. Armanini, Massa, storia degli insediamenti. Dalla preistoria al XVI secolo (Massa, 1995), pagg. 13 ÷ 41. - P.M. Conti, Luni nell’alto medioevo (Padova, 1967), pagg. 22 ÷ 35. - L.Marcuccetti, op.cit. - L. Pfanner, “Una tomba ligure a cassetta scoperta a Filicaia (Garfagnana)”, in Giornale Storico di Lunigiana (La Spezia, Gennaio-Giugno 1957). - R. Formentini, “Il toponimo “Castellaro” e lo sviluppo della tecnica costruttiva nelle opere di fortificazione degli antichi Liguri”, in Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze (La Spezia, 1951). (5) Emilio Sereni, op.cit. (6) N. Lamboglia, “I limiti dell’espansione etrusca nei territori dei Liguri”, in S.E., n.X, 1936. - G.A. Mansuelli, “Luni e il confine settentrionale dell’Etruria”, in Quaderni del Centro Studi Lunense, n.10 (Luni, 1985). Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 stenti i ritrovamenti etruschi in terra apuana e anche nella toponomastica locale la quantità di toponimi considerati di origine ligure e celtica è di molto superiore a quelli di origine etrusca. Anche la stessa Carrara deriva dalla radice ligure indoeuropeizzata kar=pietra (7). Leggendaria fu la successiva guerra contro Roma. L’asprissima lotta fu descritta da Livio, Strabone e da altri autori classici che rimasero colpiti dalla tempra e dalla tenacia degli Apuani (8). “Vale più gracile Ligure che Gallo robusto” dicevano i Romani. Livio scrive che in terra apuana i legionari avrebbero trovato “armi e solo armi e un popolo che nelle armi aveva riposto ogni speranza ...”. Virgilio parla dei robusti Liguri “avvezzi alla fatica” e lo stesso autore ci narra di un guerriero ligure apuano di nome Cupavo che aveva l’elmo adorno di penne di cigno, uccello omonimo del re ligure Cigno, di cui era figlio (9). Nell’antichità il cigno era animale sacro associato al misterioso popolo degli Iperborei e al culto dell’Apollo nordico. Tornando alla guerra con i Romani, c’è da rilevare che essa fu assai lunga. I primi scontri risalgono al 284 aC per la conquista della zona di Lucca (10). In seguito, dopo un periodo di lotte a esito incerto, gli Apuani inflissero un paio di sconfitte clamorose ad alcuni eserciti capitolini. In particolare, nel 186 aC, il rovescio che subì il console Marcio rimase profondamente impresso nell’opinione pubbli- Museo di La Spezia: statue femminili con i seni pronunciati. Quella di sinistra è stata rinvenuta nel 1905; quella di destra è dell'età del bronzo. ca dell’epoca: 4.000 uomini uc- nevento) anche se una parte delcisi, molti prigionieri, armi e la popolazione riuscì a fuggire insegne gettate alla disperata; nelle località più impervie e “si stancarono prima i Liguri inaccessibili. I villaggi furono d’inseguire che i Romani di fug- incendiati e il bestiame ucciso. gire ...” scrive Livio nella sua Non ci fu tregua né per i vecchi Storia di Roma. né per i bambini. In questa guerBraccati dalle legioni, gli ra totale i consoli si avvalsero Apuani si ritirarono in seguito degli astuti e feroci ausiliari sugli aspri monti natii per ridi- numidi che ricorsero a ogni scenderne, nei momenti favore- stratagemma per aver ragione di voli, per spedizioni e razzie nel un nemico tanto ostinato. Ciò modenese, nel bolognese e nel nonostante le incursioni degli pisano. Unitamente ai Celti ci- Apuani nelle pianure circostansalpini, essi combatterono con ti continuarono per un quarto Annibale che aveva promesso di secolo ancora. La stessa vita loro la libertà, e furono presen- della colonia romana di Luni fu ti in tutte le battaglie di quella a lungo precaria e difficile. L’ultima battaglia contro i Liguerra fino alla lontana Africa. I Romani, esasperati, ricorse- guri orientali (Apuani in testa) ro infine (fra il 180 e il 177 aC) fu combattuta nel 155 aC e si alla deportazione di migliaia di risolse con la decisiva vittoria Apuani nel Sannio (zona di Be- dei Romani (11). La pacificazio- (7) Augusto C. Ambrosi, “Toponimi stradali dell’alta valle dell’Aulella”, in M.A.L.S., n. XXIV (La Spezia, 1952). - C.A. Del Giudice, La toponomastica storica della valle del Frigido (Massa, 1993). (8) Per i Liguri Apuani nelle fonti classiche, si vedano: - AA.VV., “Fontes Ligorum et Liguriae Antiquae”, op. cit. - Tito Livio, Storia di Roma, in particolare i libri XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXIX, XL e XLI. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 (9) Virgilio, Eneide, canto X. (10) Strabone, La descrizione d’Italia, traduzione di C.O. Zuretti, pagg.24-25. ( 11) Fasti Triumphales Capitolini, Commento Storico, pag.345. - M. Lopes-Pegna, I Liguri Apuani e le loro drammatiche vicende, P.L., II, 2, 1962. - L. Marcuccetti, op.cit. Quaderni Padani - 33 35 ne definitiva dei Liguri avverrà però solo molti anni dopo. I guerrieri “dalle lunghe chiome” combatterono in seguito come mercenari e ausiliari in varie guerre e sotto varie bandiere. Furono una componente fissa e temuta degli eserciti romani della tarda epoca repubblicana e dell’inizio dell’impero. Tra le loro armi più tipiche si ricordano la fionda, l’ascia, la spada e il caratteristico scudo oblungo. Come accennato in precedenza, questi rozzi pastoriguerrieri avevano sviluppato anche un ricco patrimonio magico-religioso che ebbe la sua manifestazione più clamorosa nelle famose statue-stele di Lunigiana (nell’attuale provincia di Massa-Carrara) (12). Si tratta di una delle maggiori concentrazioni di Menhir in Europa (dal basso bretone men hir = pietra lunga). Le statuestele sono sculture a carattere antropomorfo eseguite su monoliti di pietra; rappresentano figure femminili e, soprattutto, maschili quasi tutte in armi. Caratteristica di molte è la testa a forma di “cappello di carabiniere”. La loro datazione copre un periodo assai lungo: dalle più antiche risalenti al III millennio aC alle più recenti del III secolo aC; queste ultime sono anche quelle che presentano una maggior rifinitura. Ne sono state finora rinvenute circa sessanta, sparse in tutta la Lunigiana. Si calcola che mol- te di più siano state distrutte dai preti come idoli pagani o usate come pietre da costruzione da ignari contadini. Le figure femminili potrebbero rappresentare la grande Dea Madre mediterranea, forse eredità culturale di quelle antichissime popolazioni con cui i Liguri indoeuropei si fusero in un processo di assimilazione religiosa piuttosto comune nell’antichità pagana. È interessante notare su tre statue la presenza di iscrizioni in caratteri alfabetici nordetruschi per le quali però gli specialisti - dopo aver escluso che si tratti di termini etruschi - ondeggiano fra interpretazioni etimologiche di origine celtica (o celto-ligure) e paleoligure. Molte delle figure maschili più recenti sono caratterizzate da armamenti tipici della cultura di Hallstatt, cuore della primordiale cultura celtica di tutta l’Europa. Si ritrovano in particolare pugnali, asce (su modello delle “cateie” celtiche) e giavellotti portati a due a due, proprio come i “bina gaesa” ricordati da Virgilio in occasione dell’invasione dei Galli nel Lazio. Infine in alcune statue “... si nota sul tronco un triangolo che vuol rappresentare un perizoma; sembra dunque la classica immagine di quei guerrieri che alla maniera celtica erano descritti “ignudi praecinti ...” (13). Segni di un culto della pietra (12) Per le Statue-stele si vedano: - Augusto C. Ambrosi, Statue-stele lunigianesi, op.cit. - Augusto C. Ambrosi, Corpus delle Statue-stele lunigianesi (Bordighera: Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1972) - Augusto C. Ambrosi, “Sulle Statue-stele della Lunigiana e sul probabile culto della pietra nel territorio Apuo-Lunigianese”, in Archeologia dei territori Apuo-Versiliese e Modenese-Reggiano (Modena, 1994). 34 36 - Quaderni Padani remotissimo e mai venuto meno, nonostante sovrapposizioni etniche e vicissitudini varie, le statue-stele furono utilizzate come “delimitatori” magici di aree sacrali (con funzione anche di divinità tutelari che dà loro la forma vagamente fallica, simbolo di forza e fecondità spirituale e fisica). Tali aree erano consacrate, ad esempio, a favorire la ricchezza di selvaggina e la conseguente attività di caccia oppure allo svolgimento di riti tribali di iniziazione, di fertilità o di guerra (ancora Livio nella sua Storia di Roma, ci informa che le spedizioni militari dei Liguri erano precedute da un giuramento sacro). Le statue-stele servivano forse anche per segnare zone-tabù dove si volevano imprigionare forze pericolose e terribili sul tipo di quelle che potevano essere emanate da una zona di sepoltura. Si trattava in ogni caso di simboli indubbi di un fortissimo senso magico-religioso della vita, di spie di una convinzione dell’esistenza di forze sovrumane e invisibili che avvolgono il mondo e ne permeano ogni aspetto essendo presenti in ogni cosa. Tali forze dovevano essere controllate e dirette in senso favorevole alla tribù attraverso tutta una serie di rituali, sacrifici e simboli, di autentiche tecniche sacre per vivere in armonia con le potenze del mondo che le aspre e severe montagne circostanti dovettero personificare agli occhi dei fieri Apuani (14). - R. Formentini, Le Statue-stele, mostra archeologica dell’età del ferro in Lunigiana (La Spezia, 1975). (13) Augusto C. Ambrosi, Statue-stele lunigianesi, op.cit. (14) La maggioranza delle statue-stele sono conservate presso il Museo del Castello del Pignaro a Pontremoli (MS). Alcuni esemplari sono altresì conservati nel Museo Civico di La Spezia e presso il Castello Malaspina di Massa insieme a vari reperti archeologici apuani dell’età del bronzo e dell’inizio dell’età del ferro. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Una vita di contrabbando di Gianni Sartori P roprio un anno fa, il 14 maggio, è scomparso uno degli ultimi contrabbandieri della Valsugana, Mario Pontarollo. Dopo solo un paio di mesi moriva anche la moglie, Florinda Moro. Penso non sia retorico affermare che, insieme a Mario e a Florinda, se n’è andato un pezzo di Storia. Abitavano a Sasso Stefani, in Valsugana, presso Valstagna. Ero capitato per caso in questa contrada qualche anno fa, quando il sentiero dei contrabbandieri, detto anche dei carpenedi, non era ancora stato segnalato dal CAI. Il percorso mi venne indicato da Mario che, con un certo orgoglio, raccontò di averlo percorso infinite volte (di notte, anche con la neve) con in spalla il sacco pieno di tabacco. Di contrabbando naturalmente. Dall’incontro con Mario e la moglie non ricavai soltanto le indicazioni per una nuova escursione, ma anche la consapevolezza che coltivazione e commercio del tabacco, oltre che nell’economia, sono stati alquanto rilevanti nella storia e nella cultura della vallata. Al punto che si potrebbe quasi parlare di rapporti simbiotici tra i “Canaloti” doc e l’Erba Regina (secondo altri: della Regina). Rapporti che con il tempo si rivestirono di significati e valenze simboliche, inestricabilmente intrecciati con il senso di appartenenza e di identità. Gli eventi che portarono all’introduzione della pianta (presumibilmente avvenuta tra il XVI e il XVII sec.) sono in gran parte avvolti nel mistero. Circola ancora la leggenda di un anonimo benefattore (alcuni parlano di un monaco, di un eremita...) che avrebbe fatto dono di alcuni preziosi semi ai poveri diseredati della valle, a quel tempo alquanto depressa e sottosviluppata. Dato che all’epoca vigeva una sorta di interdizione e un severo controllo, i semi sarebbero stati introdotti abusivamente, pare dalla Francia, nascosti in un bastone da pellegrino cavo all’interno. È evidente come questa storia ricalchi l’analogo racconto in merito all’introduzione nel Veneto del baco da seta. Anche in quel caso, peraltro documentato, fu un monaco a portarsi appresso dall’Oriente il prezioso lepiAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Mario Ponterollo a Sasso Stefani (Valsugana) Foto: Gianni Sartori dottero, nascondendo i bruchi (i famosi cavalieri ghiotti delle foglie del moraro) o forse le crisalidi, nel cavo di un bastone. All’inizio l’esotica solanacea veniva coltivata non per essere fumata ma per le sue qualità terapeutiche e medicamentose. Solo successivamente l’Erba (della) Regina venne “squalificata” e le sue foglie ridotte a prosaico trinciato (forte per lo più). Pare che i primi tentativi di coltivazione si registrassero proprio a Valstagna e Oliero. Forse anche a Sasso Stefani dove risiedeva il nostro contrabbandiere superstite. I primi contratti notarili tra Venezia e Valstagna risalgono al 1763. I diritti così acquisiti dai Canaloti vennero riconosciuti e convalidati persino durante la breve parentesi napoleonica. Lo stesso avvenne poi con Francesco I d’Austria. Quaderni Padani - 35 37 Ma i prezzi ufficiali restavano irrisori e i locali trovavano conveniente continuare ad “esportarlo” e rivenderlo per proprio conto. Così andarono le cose fino al 1866, quando la situazione divenne alquanto difficile. Infatti la Regia Amministrazione Italiana riuscì in breve tempo a provocare il deprezzamento del prodotto e anche il conseguente abbandono di molte masiere coltivate a tabacco. L’introduzione della nuova prassi di misurare il quantitativo in base non più al peso ma al numero delle foglie fu alquanto deleteria per i valligiani. Contemporaneamente la repressione del contrabbando divenne ancora più dura, toccando livelli mai visti in precedenza. In proposito è interessante osservare come sia sempre esistita una notevole sfasatura tra l’opinione istituzionale del contrabbandiere (considerato alla stregua di un volgare delinquente) e il prestigio di cui ancora gode tra i valligiani. E più lo Stato criminalizzava i contrabbandieri, più cresceva l’identificazione e la solidarietà della popolazione. Ovviamente tributi e balzelli non erano graditi e questo favoriva la percezione del contrabbando come un “non crimine” e una forma di ribellione. Anche perché tutti, chi più, chi meno, vi erano partecipi e ne traevano sostentamento, integrandolo nell’economia locale. La scarsa collaborazione fornita alle forze dell’ordine determinò un inasprimento della repressione che si spinse a veri e propri eccessi, anche a livello legislativo, sproporzionati rispetto all’entità del reato.Questo soprattutto con l’avvento dello stato unitario. Leggi speciali contro i contrabbandieri Dopo il 1866 si cominciò ad arrestare sistematicamente anche coloro che solo “si accingevano a compiere il crimine”. In questi casi non ci si limitava più alla confisca della merce (come avveniva precedentemente) ma il tentativo veniva equiparato alla consumazione del delitto stesso. In pratica chiunque venisse scoperto con carichi sospetti nella zona veniva quasi sempre arrestato preventivamente. Questo naturalmente non accadeva solo in Valsugana e dintorni, ma capitava un pò dovunque sulle Prealpi venete. Si contrabbandassero foglie di tabacco, fiammiferi, pietre focaie, sale, carte da gioco o altri generi di monopolio e non. Ce lo ricorda il gran numero di sentieri denominati non a caso “dei contrabbandieri”. Quello del Fumante attraverso cui si poteva accedere al Carega, quello del Pasubio ora denominato “Baglioni”, quelli che 38 - Quaderni Padani 36 collegano la Val d’Adige con la Lessinia... Proprio in questi ultimi paraggi si conserva memoria nientemeno che di un “Inno dei Contrabbandieri”, il cui testo la dice lunga sulla sostanziale divergenza di opinioni in materia di legalità tra istituzioni e masse popolari. La pratica del contrabbando non si esaurì con l’annessione del Veneto e nemmeno con la fine della prima guerra mondiale. Le magre condizioni di vita e la quasi monocoltura del tabacco (una sorta di condanna al prezzo governativo) imposero ai canaloti una continua deroga agli ordinamenti in vigore. Unica alternativa al contrabbando era, ovviamente, l’emigrazione. Esperienza questa che il nostro Mario ebbe ampiamente modo di sperimentare. Da questo punto di vista le vicende dei coniugi Pontarollo sono state emblematiche. Mi raccontava la signora Florinda che da giovane era andata regolarmente in bici fino a San Pietro in Gù (ma talvolta si spingeva fino a Treviso) con il tabacco sotto i vestiti e nella cesta, ben nascosto sotto il figlio più piccolo del momento (ne ha avuti sette). Per avviarsi doveva aspettare mezzogiorno, quando i finanzieri smettevano per un pò di controllare le strade. Era costretta a darsi al contrabbando soprattutto nei periodi in cui Mario lavorava all’estero (in Germania, in Africa...). Del resto era questa una esperienza comune a gran parte delle donne della Valsugana. I mariti emigranti per periodi più o meno lunghi e le femene casa a spetare i schei ; che qualche volta arrivavano, qualche altra no. Intanto dovevano tirar vanti e tirar su i fioi. Mario Pontarollo ricordava che le sue vicessitudini cominciarono molto presto, a quattro anni.All’epoca la sua casa venne a trovarsi praticamente in prima linea. Completamente distrutta dai bombardamenti, potè essere ricostruita solo nel dopoguerra. Nel frattempo andò sfollato (ma lui preferiva definirsi profugo) con il resto della famiglia. L’ultima volta che ci eravamo visti, Mario mi aveva chiesto notizie sullo stato del “suo” sentiero, probabilmente con un po' di nostalgia. Non ricordava di essersi mai spinto oltre il bordo soprastante dell’Altopiano, dove il sentiero sbuca in un pascolo. Arrivato lassù consegnava il carico a chi lo stava aspettando, tirava i schei e tornava in valle. Praticamente per tutta la vita aveva alternato contrabbando ed emigrazione. Tranne quando la patria si ricordò di lui per la “parentesi” in Grecia e Albania. Ma questa era un’altra storia... Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 INNO DEI CONTRABBANDIERI DELLA LESSINIA Noàntri contrabandéri vegnemo su da Ala e co la carga in spala pasemo el confin Noàntri contrabandéri semo sensa creansa bastonemo la finansa sensa farse ciapar Noàntri contrabandéri ghe disemo al brigadiere che una de ste sere la pele ghe faren No ghe sarà Vitorio e gnanca Garibaldi che co i so stronsi caldi el ne sapia fermar L’itinerario (Sentiero dei Carpenedi o dei Contrabbandieri) Come ho detto la casa di Florinda e Mario fa angolo con l’attacco del sentiero; in quel di Sasso Stefani (metri 170), nei pressi di Valstagna. Nel primo tratto l’itinerario ricalca una vecchia mulattiera. Piuttosto ripida, sembra più un impluvio lastricato che un normale sentiero. Ottimo, oltre che per far scorrere l’acqua, per “segare” subito le gambe dei domenicali. E anche per smorzare gli entusiasmi di qualche ultraquarantenne irriducibile. Non sottovalutatelo e adottate un passo regolare, cercando poi di mantenerlo per tutto il percorso. Ci si inoltra tra le masiere, protetti da alti muri a secco da dove sporgono file austere di gradini in pietra, senza sbocco dato che costituiscono l’accesso ai magri campicelli. A circa 300 metri di quota la mulattiera se ne va per conto suo sulla sinistra, mentre ai viandanti conviene proseguire lungo il solco vallivo. In questo tratto il pendio si fa meno ripido e il sentiero non è più acciotolato ma ghiaioso ed erboso, alternativamente. Punta decisamente Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 verso un accenno di selletta, una sorta di tacca,di incisione sulla vostra destra. L’intaglio rompe la continuità del crinale brullo, spoglio di vegetazione ma costellato di caratteristiche guglie, eteree nell’eventuale foschia o circonfuse di luce contro il cielo terso (salendo, al mattino il sole è alle vostre spalle). Alla vostra sinistra troneggiano imponenti e impervie le pareti del Sasso Rosso. Il valico, come vedrete, è costituito da una galleria della prima guerra mondiale che permette di accedere comodamente alla Val Calieroni. Il termine veneto di ‘caliero’ qui sta ad indicare le caratteristiche marmitte di roccia prodotte dall’erosione. Nel periodo invernale fate attenzione ai festoni di stalattiti di ghiaccio che pendono dalla volta. Per un tratto si prosegue quasi in piano, lungo un leggiadro sentierino, non esente comunque da rischi oggettivi per distratti. Il sentiero quindi si infila nel bosco e risale con decisione. Qui il percorso torna ripido, quasi scosceso. Ricalca in parte un vecchio sentiero di guerra, come testimoniano le numerose ferite mai rimarginate delle trincee. Ancor più numerose e deturpanti le tracce lasciate sui tronchi dai zelanti segnapista di professione. Le indicazioni biancorosse si sprecano. Nel senso letterale. Il percorso utilizza un sistema di cengie naturali e l’escursione si mantiene stimolante grazie ad alcuni tratti relativamente esposti: fare attenzione con neve ghiacciata. È in situazioni del genere che l’abitudine indotta a orientarsi cercando non le tracce naturali del sentiero (ovvero dove posare i piedi) ma i segni di vernice sui tronchi dei faggi, può rivelarsi alquanto controproducente. Ancora un ultimo sforzo e al vostro sguardo, presumibilmente ormai appannato dal sudore della fronte, appariranno le pareti precipiti sulla Val Gadena. Intanto il sentiero vi ha condotto nella parte sommitale della Val delle More, a due passi dalla cima del Sasso Rosso (1196 metri). Da qui ci si può spingere verso Col Carpanedi (a nord), in cerca del raccordo con Val Gadena da utilizzare per il rientro. Quaderni Padani - 37 39 Biblioteca Padana Claudia Petraccone Federalismo e autonomia in Italia dall’unità a oggi. Bari: Editori Laterza, 1995 pagg. 337, Lit. 38.000 “L’ipotesi federalistica ha riacquistato un valore di proposta politicamente attuabile nei momenti in cui le crisi che hanno colpito la società italiana sono state attribuite anche alle difficoltà e ai guasti prodotti dal ricorso all’accentramento e, di conseguenza, se n’è cercata la soluzione attraverso una trasformazione profonda delle strutture statali”. Da questo concetto che la curatrice esprime nella introduzione al lavoro (pag. 4) si potrebbe pensare che il ricorso al federalismo sia una presenza solo saltuaria nella storia italiana unitaria. Invece il contenuto del testo dimostra come il pensiero (e la tentazione) federalista e autonomista abbia caratterizzato ogni momento di questi centotrentacinque anni di “difficoltà e di guasti prodotti dal ricorso all’accentramento”, di cronica crisi cui non si è mai voluto opporre l’unico vero rimedio possibile e auspicabile. Il volume è una antologia di brani di politici e di pensatori federalisti e autonomisti che copre tutti i decenni che vanno dalla Seconda guerra di indipendenza ad oggi. Vi si trovano (brevemente ma esaurientemente inquadrati e commentati) scritti di Carlo Cattaneo, di Luigi Carlo Farini, di Giuseppe Ferrari, di Giuseppe Montanelli, di Luigi 38 40 - Quaderni Padani Sturzo, fino a Adriano Olivetti, Gaetano Salvemini, Gianfranco Miglio e Umberto Bossi, assieme a numerosi altri, magari meno noti e citati ma non meno interessanti. Molti dei pezzi erano difficilmente reperibili e il maggiore merito del volume stà proprio nell’essere riuscito a renderli agibili. Di alcuni di essi si trovavano citazioni ma non erano agevolmente disponibili alla consultazione. Così, il percorrere le pagine dell’antologia presenta numerosissimi momenti di interesse, di curiosità e di conoscenza. Si incontra il “federalismo razziale” del siciliano Alfredo Niceforo pieno di quelle stravaganti considerazioni sulla “forma del cranio” che distingue i settentrionali arï dai mediterranei che hanno scatenato feroci polemiche con Napoleone Colajanni e con altri federalisti meridionali. Ci sono illuminanti pagine di Proudhom, di Gino Luzzatto e di Oliviero Zuccarini; ci sono le opposizioni al centralismo fascista e ci sono le speranze del secondo dopoguerra. Di particolare interesse sono le pagine scritte dagli autonomisti sardi e siciliani e quelle sugli sviluppi più recenti della lotta al centralismo romano. Vale in special modo la pena di riportare un brano tratto da Movimento socialista e questione meridionale (Milano: Feltrinelli, 1963, pagg. 628 ÷ 634) nel quale Gaetano Salvemini si sofferma su di un problema che non ha mai purtroppo perso di attualità. “(...) Se Cattaneo riaprisse gli occhi alla luce, troverebbe che le divisioni politiche dei suoi tempi sono sparite, e che l’Italia è sgovernata da una masto- dontica burocrazia accentrata, la quale provvede anche alle scuole elementari nel comunello di Scaricalasino. E in cima a questa burocrazia c’è un unico Parlamento centrale, che pretende di dettare leggi a quella burocrazia, mentre in realtà è la burocrazia che gli dice quali leggi esso deve approvare, e molte volte non glielo dice nemmeno, e in ogni caso le applica a modo proprio. Cattaneo, secondo il suo metodo di concepire il sorgere di nuove istituzioni e l’evolversi delle antiche, prenderebbe come punto di partenza il presente accentramento burocratico col suo unico Parlamento pseudosovrano alla sommità; e ricercherebbe come si possa passare da questo sistema rovinoso ed assurdo ad un sistema, che si avvicini più che sia possibile al sistema federale. Comincerebbe dal prendere in esame la legge comunale e provinciale, quale esisteva alla caduta della dittatura fascista, e sopravvive tuttora. Vi troverebbe il “prefetto”. Se Lombroso preparasse una nuova edizione dell’Uomo delinquente, dovrebbe dedicare un intero capitolo a quella forma di delinquenza politica perniciosissima, che va sotto il nome di “prefetto” italiano. Anche prima di Mussolini costui poteva di diritto fare nelle provincie tutto quello che voleva, e non c’erano limiti al suo malfare (...). Occorre, dunque, togliere ai prefetti il diritto di approvare o annullare le deliberazioni dei Consigli comunali e provinciali ed i loro bilanci, e quello di sospenderli dalle funzioni, o di scioglierli addirittura mandando commissari. Cioè, affermiamo la autonomia delle Amministrazioni comunali e provinciali di fronte ai prefetti, agenti del GoAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 verno centrale nel soffocamento dei governi locali.” Un importante capitolo è dedicato al movimento cattolico del “Cisalpino”, nato a Como nel 1945. Questo gruppo, animato da Tommaso Zerbi, riproponeva la trasformazione dell’Italia in stato federale organizzato su Cantoni, uno dei quali (il “Cantone Cisalpino”, appunto) avrebbe dovuto comprendere l’Italia settentrionale e l’Emilia. Le pagine che sono riportate nella raccolta antologica (due articoli del 22 luglio 1945) sono di una sconcertante attualità. Uno dei brani che chiudono l’antologia è un articolo scritto da Gianfranco Miglio sul Corriere della Sera del 28 dicembre 1975 a commento di un intervento dell’allora Presidente comunista della Regione Emilia-Romagna che avanzava un progetto di aggregazione tra le cinque regioni della Valle Padana, che avrebbero dovuto avere un ruolo fondamentale in una politica generale di programmazione regionale e nazionale. Nell’articolo è messa in discussione la stessa sopravvivenza dello stato unitario: per Miglio, in realtà, non ci sarebbero mai state, nemmeno dopo il 1860, le condizioni per la sua esistenza. L’unica soluzione è vista nella “consapevole integrazione fra grandi aggregazioni geo-economicamente omogenee”, com’è appunto la Padania che costituisce il vero oggetto dello scritto. L’articolo è di una attualità stupefacente e delinea (come in una lucida anticipazione) quelle che vent’anni dopo diventeranno le linee guida di gran parte del movimento autonomista. Il brano si conclude con una delle brutali e brillanti trovate narrative cui Miglio ci ha da tempo abituati: “Certo, si tratta di romAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 pere con venerate tradizioni sentimentali; ma io credo davvero che sia ora di pensar meno all’“Italia” (che è un’astrazione) e piuttosto invece agli “Italiani”, che sono una realtà concreta. Del resto nelle buone famiglie di una volta, quando le cose andavano male, che cosa si faceva? Il genitore “responsabilizzava” i figli mandandoli a cercare individualmente quella fortuna che, stando tutti dentro casa, non avevano saputo o potuto trovare”. Ottone Gerboli ✱✱✱ Sergio Romano Finis Italiae. Declino e morte dell’ideologia risorgimentale. Perché gli italiani si disprezzano Milano, 1995 pagg. 65, Lit. 5.000 All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller E dito nel gennaio ’95, questo volumetto si compone di due brevi scritti di Sergio Romano, significativamente riuniti sotto il titolo “Finis Italiae” (Fine dell’Italia). Ricordiamo che il secondo, più breve, era già stato pubblicato sulla rivista culturale Limes nell’autunno del ’94. I due pezzi sono strettamente collegati, e possono essere, a grandi linee, ricondotti all’analisi dei due principali momenti della storia unitaria peninsulare: un primo che va dal 1860 all’immediato dopoguerra, cioè agli anni ’50 ÷ ’60, e un secondo che comprende tutta l’epoca repubblicana. In Declino e morte dell’ideologia risorgimentale l’autore tente di dare una spiegazione del perché, fatta l’Italia, non si sia riusciti a fare gli italiani, Biblioteca Padana secondo la celebre espressione del D’Azeglio. Romano ci spiega che fra il marzo e l’ottobre del 1861, a unificazione appena compiuta (salvo le successive annessioni del Veneto, nel 1866, e di Roma, nel 1870) il mondo istituzionale italiano passò bruscamente dalla scelta di un assetto amministrativo all’inglese al suo esatto opposto: lo stato prefettizio di stampo napoleonico. Contrariamente a quanto speravano i liberali e Minghetti, l’Italia in pochi mesi divenne uno Stato assolutamente centralizzato e fondato su un’autorità poliziesca e borocratica. Le cause che fecero fallire il progetto regionalista e municipale presentato nel marzo sono essenzialmente riconducibili da un lato alla ostilità della Chiesa e delle borghesie locali verso l’unità italiana, dall’altro alla profonda distanza socio-economica fra Nord e Sud. La paura di vedere crollare la neonata struttura statuale unitaria spinse i governanti a scegliere il modello napoleonico, già precedentemente applicato alla Lombardia dopo l’annessione del 1859. È in questo passaggio che si innesta la tesi di fondo del Romano; lo storico sostiene infatti che la cosiddetta “ideologia risorgimentale” di cui sono imbevuti i libri di scuola, non sia altro che un’invenzione, costruita dalla classe dirigente per dare un fondamento ideale ad uno stato centralista, divenuto tale non per preciso disegno politico, bensì per contingenze casuali. Quaderni Padani - 39 41 Biblioteca Padana “Anziché raccontare l’unità come effetto di circostanze impreviste e di opportunistiche adesioni, la nuova classe dirigente nazionale fu costretta a raccontarla come il risultato di un grande sforzo unitario e di una forte volontà collettiva” . Ma tutto ciò non sarebbe potuto bastare per cementare uno stato in cui le differenze erano incise nella terra, nei fiumi, nelle radici e nella vita quotidiana di ogni comunità. La politica tentò quindi di porre rimedio a una situazione di fatto; gli uomini di governo si divisero ideologicamente in due grandi “famiglie”, come dice Romano, l’una propensa a “forgiare gli italiani nel ferro e nel fuoco” (da questa deriveranno l’interventismo e il fascismo), l’altra più orientata verso una costruzione delle intime coscienze dei cittadini attraverso la scuola, le istituzioni e le riforme. Romano delinea sinteticamente le fasi dello scontro fra i due gruppi suddetti, culminato nell’intervento militare nella prima guerra mondiale e nella successiva ascesa del fascismo e relativa partecipazione al secondo conflitto. Lo scontro decisivo fra riformisti e militaristi si ebbe con la Resistenza. Nella sconfitta subita nella seconda guerra mondiale Romano individua la radice storica della fine dell'ideologia risorgimentale. Questa tesi è stata peraltro ribadita recentemente da Renzo De Felice nel volume “il Rosso e il Nero”, nelle cui pagine il celebre storico sottolinea la data dell’8 settembre come inizio 40 42 - Quaderni Padani della fine dell’identità nazionale. Secondo Romano la definitiva uscita di scena della grande famiglia politica risorgimentale andrebbe ascritta al parallelo affermarsi dei due partiti di massa, DC e PCI, divisi su un piano ideologico, ma uniti nella latente o esplicita critica alla storia unitaria, quindi a tutta l’ideologia risorgimentale. Il primo scritto di Sergio Romano, dunque, si conclude con la presa d’atto del fallimento dell’originario progetto di fare un popolo, fatto lo Stato: gli italiani non esistono, almeno nell’accezione di popolo coeso e fiero delle proprie istituzioni, legato ad esse da una definita e sentita identità nazionale. L’Italia si presenta come uno Stato diviso fra un Nord civile e produttivo e un Sud prigioniero di se stesso e dei suoi limiti. A questa netta divisione geopolitica si aggiunge la frammentazione sociale, dice Romano, in tante corporazioni (dai tassisti, ai sindacati, dalla Chiesa ai partiti), in cui gli italiani si dividono e di cui sole si fidano. L’Italia odierna è un agglomerato di tribù-corporazioni che si servono dello Stato come strumento di legittimazione; uno stato che va ormai fondandosi “sulla base di un pragmatico patto di convivenza fra popoli (!) che parlano la stessa lingua, vedono la stessa televisione, partecipano allo stesso campionato di calcio e hanno un evidente interesse a non pregiudicare, con gesti avventati o decisioni emotive, le prospettive della loro comune prosperità” (pag. 39). Resta una domanda: cosa sarebbe di questa claudicante unità statuale, qualora le “prospettive di comune prosperità” per i popoli peninsulari, e in particolare per le nazioni pa- dane, dovessero tramutarsi in visioni di un incerto futuro sociale, politico ed economico? Lasciamo il quesito aperto e passiamo al secondo scritto di Romano, perché gli italiani si disprezzano. Ci limitiamo ad accennare brevemente il contenuto, poiché si tratta di una analisi più specifica di un tema già visto; l’autore infatti ritorna sul tema dell’ostilità di DC e PCI per l’ideologia risorgimentale. Romano sostiene che se agli italiani è mancato nel dopoguerra un senso nazionale collettivo, ciò si deve principalmente ad un fatto: nonostante la sconfitta militare, non vi fu una sana autocritica e un effettivo ricambio della classe dirigente -limitato ai quadri più alti-; comunisti e cattolici presero il potere, ma tacitamente garantirono alla borghesia e alle masse popolari fasciste che non avrebbero intentato processi politici. La parola d’ordine fu “concordia nazionale”, e attraverso di essa un intero popolo si riciclò, chi passando da fascista a democratico, chi da nemico oppositore dello Stato a garante delle istituzioni. In questa anomalia storica, quasi un voluto equivoco o contraddizione, stanno gli attuali limiti dell’identità nazionale. L’Italia è uno Stato che si fonda, come abbiamo visto, su ideali unitari e collettivi artatamente costruiti; uno Stato che si è riciclato storicamente senza processi, bensì all’insegna della consociazione e del trasformismo - anche oggi sembra debbano soccombere i giudici e trionfare i soliti vecchi politici uno Stato che suscita nei cittadini quel disprezzo di cui parla Romano, un disprezzo che è lo specchio della sconfitta morale e politica. Alessandro Storti Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Massimo Viglione La “Vandea italiana”. Le insorgenze controrivoluzionarie dalle origini al 1814. Milano: Effedieffe, 1995 317 pagine. Lire 25.000 Quello delle “Insorgenze” è uno dei capitoli meno conosciuti della nostra storia. L’occupazione giacobina e poi napoleonica della penisola sono da sempre state gabbate dalla storiografia “ufficiale” come dei prodromi delle lotte per l’unità: sarebbero cioè stati gli eserciti francesi di occupazione a gettare il seme di una “coscienza nazionale italiana” abbattendo i vecchi regimi e unificando di fatto parti della penisola. E sarebbero stati i giacobini nostrani a formare il nucleo di quella élite che qualche decennio dopo avrebbe definitivamente “liberato” l’Italia. Questa teoria ha trascinato con sè una serie di corollari, alcuni dei quali - come la creazione della bandiera tricolore - sono entrati con forza nella più coriacea oleografia patriottarda. In base alla stessa interpretazione di quegli avvenimenti storici, tutti gli episodi di resistenza antifrancese sono stati bollati come fenomeni reazionari, oscurantisti, antiliberali e codini e sono stati sistematicamente demonizzati o minimizzati. Da qualche anno si stà invece assistendo ad una vitale operazione di riscoperta di quel periodo e delle lotte tutt’altro che secondarie che hanno caratterizzato la resistenza antifrancese. Questo libro si pone nel filone delle opere che analizzano l’epopea della resistenza e della guerriglia condotta da formazioni popolari organizzatesi spontaneamente in vaste aree della penisola. Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996 Le prime “insorgenze” si hanno quasi subito dopo l’apparizione sulla scena italiana delle armate francesi: nel 1796 insorgono Milano, Como, Binasco e Pavia, la Liguria e la Romagna e poi quasi tutta la Padania; nel 1797 insorgono di nuovo Urbino, la Garfagnana e Modena, poi la Bassa Romagna, Bergamo e Brescia, Venezia, Genova, la Valtellina, e - in mille piccoli e grandi episodi - gran parte della Padania fino al Tirolo, e fino alle famose e sanguinose “Pasque Veronesi”. Nel 1798 ancora tutto si infiamma fino all’Italia centrale, fino a Napoli. Il vero “anno terribile” dei francesi è però stato il 1799, quando - secondo l’autore - è avvenuta una sorta di “Controrivoluzione generale del popolo italiano”: è l’anno delle vittorie dell’armata del cardinale Ruffo che risale la penisola dalla Calabria fino a Napoli. Ma è soprattutto la lotta dei popoli padani a risvegliare oggi il nostro interesse. A marzo insorgono l’Emilia e la Romagna, poi di seguito tutte le altre terre dove si scrivono capitoli di gloria sconosciuta. Aosta è conquistata in maggio da un piccolo esercito di contadini chiamato Régiment des Soques per i grossi zoccoli di legno che avevano ai piedi; a Pavia si distingue il varesotto Brandaluccioni, il più celebre “brigante” padano, che di seguito libera Novara, Vercelli, Biella e Ivrea e assedia Torino; il capitano César Piccaduc libera Santhià; Giovan Battista Ciravegna, autoproclamatosi “Generale degli insorti” libera Cherasco; i francesi vengono spazzati dall’Appennino Ligure da schiere di montanari guidati dal cavaliere Pietro Cordero di Vonzo (detto Biblioteca Padana “il Santo”) e dal chirurgo Cerrina. Fra gli altri eroi di questa epopea sconosciuta (che l’autore chiama giustamente la nostra “Vandea”) ci sono i nobili Giacinto di Montezemolo, il Conte di Germagnano e il generale Francesco Vitale, ci sono religiosi come Monsignor Pio Vitale (vescovo di Alba), don Boetti, don Marengo e il canonico Filippone che combattono e cadono accanto al loro popolo (un esempio per certi odierni preti “patriottici”..), ci sono umili popolani come il Pagliano di Mondovì, albergatore come il più famoso Andreas Hofer. La guerriglia si addice alle nostre genti quando si tratta di difendere le proprie libertà: come gli antenati Celti e Liguri (e come faranno i loro nipoti centocinquant’anni dopo) gli abitanti di gran parte delle terre padane hanno per anni combattuto la loro eroica e disperata guerra contro un nemico molto più forte ma che veniva per togliere autonomie concrete e diritti acquisiti da millenni in nome di una ideologia astratta e sanguinaria. “Le azioni sono abilmente concordate: i contadini attaccano le retroguardie con imboscate disperdendosi poi sulle colline, per riunirsi in un altro attacco improvviso; i movimenti del nemico sono segnalati dai campanili” (pag. 199). I popoli padani devono oggi riscoprire quelle ignote e gloriose vicende che la storiografia ufficiale di una Italia troppo preoccupata di difendere i suoi fragili miti e a legittimare una uniQuaderni Padani - 41 43 Biblioteca Padana tà artificiosa ha cancellato dai libri di storia. Assieme a tutti gli altri eroi per le lotte di libertà dei popoli padano-alpini è oggi importante ricordare le gesta dei barbets arpitani (i barbetti delle valli) o di un insorgente di Fontanelle di Boves, detto “Violino”, una specie di Robin Hood padano, che tenne in scacco per mesi ingenti forze francesi e che fu catturato solo grazie ad un inganno. Le insorgenze riprenderanno con uguale vigore anche contro Napoleone imperatore, soprattutto fra il 1805 e il 1808 anco- 42 44 - Quaderni Padani ra in tutte le regioni padano-alpine. Questa volta si ricordano i nomi del rovigotto Giovanni Albieri, dei parmensi Giuseppe Brussardi (detto il “Generale Mozzetta”), Covatti e Oroboni, del piacentino Agostino De Torri (detto “Foppiano”), del piemontese Giuseppe Mayno della Spinetta (che si definiva “Imperatore della Spinetta e Re di Marengo”), del bergamasco Pacì Paciana e - naturalmente - del notissimo Andreas Hofer. Si è detto che le vicende legate alle insorgenze sono state descritte negativamente dalla storiografia risorgimentalista che ha nel tempo accreditato l’immagine dei giacobini (e di Napoleone) quali precursori dell’idea di unità italiana e - di conseguenza - degli insorgenti come reazionari, giocando anche sull’indubbio ruolo che le motivazioni di ordine religioso (e le azioni di parte del clero minore) hanno avuto nella loro azione. Di fronte all’evidente forzatura (e alle scomode implicazioni ideologiche ma anche morali che comporta ogni riferimento al giacobinismo) di tale interpretazione, si assiste oggi ad un tentativo contrario di descrivere le insorgenze come episodi di una lotta controrivoluzionaria ma anche “nazionale” contro uno straniero invasore: sarebbero perciò gli insorgenti e non più i giacobini i veri precursori delle lotte risorgimentali. Si rischia di passare da una forzatura ad un altra e l’autore non può non sottolineare che “nessun insorgente si sollevò per unificare l’Italia” o che “la Controrivoluzione nazionale (sic) del 1799 non fu un’insurrezione “risorgimentale”, nel significato liberal-massonico del termine, ma quasi una Crociata, contro i nuovi nemici di Dio” (pag. 130). Tutto questo è sicuramente vero ma non basta. Come in Vandea e in Spagna, gli insorgenti combattevano sì in nome del Trono e dell’Altare ma anche (e, forse, soprattutto) per la difesa delle proprie autonomie, libertà e antichi diritti che sentivano minacciati da un potere lontano, vessatore e accentratore. Proprio come gli chuans e i raquetées, anche i barbetti combattevano infatti per le proprie culture locali, per le proprie tradizioni (che erano in gran parte legate alla religione), e per la difesa della “differenza”. C’è un lungo filo rosso che collega i guerrieri della Selva Litana, i fanti di Legnano, i barbetti, fino a Chanoux: la difesa delle autonomie dei popoli padano-alpini. Ottone Gerboli Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996