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Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana
Anno 2 - N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Condizioni giuridiche internazionali
per l 'autodeterminazione
I fondamenti del diritto
di secessione
per la Padania
La volontà di stare
con chi si vuole
Aspetti di Stato
e Legge Longobarda
Der Pufferstaat:
lo stato cuscinetto
I Liguri-Apuani
Una vita di contrabbando
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Bollettino a diffusione interna della Libera Compagnia Padana
Anno II - N. 5 - Maggio-Giugno 1996
I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla
“Libera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a
contributi di studiosi ed appassionati di cultura padanista.
Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana,
C.P. 792, via Cordusio 4, 20123 MILANO
Quanto rappresenta un deputato? - Brenno
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Condizioni giuridiche internazionali per il principio di
autodeterminazione e referendum per le comunità territoriali che aspirano all 'indipendenza - Alessandro Vitale
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I fondamenti del diritto di secessione per la Padania
Alessandro Storti
La volontà di stare con chi si vuole - Gilberto Oneto
Alcuni interessanti aspetti di Stato e Legge
Longobarda - Alberto Fossati
Liutprando, un re della Padania - Maurizio Montagna
Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto - Gualtiero Ciola
Südtirol: cinquantanni di continua oppressione
Corrado Galimberti
I Liguri-Apuani, il popolo delle statue-stele
di Lunigiana - Dionisio Diego Bertilorenzi
Una vita di contrabbando - Gianni Sartori
Biblioteca padana
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Quanto “rappresenta”
un deputato?
C
i raccontano che - secondo l’articolo 67 della Costituzione - nel Parlamento
della Repubblica “una e indivisibile” ogni deputato rappresenta tutto il popolo italiano indifferentemente e non già i cittadini del Collegio che l’ha eletto.
I deputati, ci dicono, contano
tutti allo stesso modo perché
ciascuno di essi “vale” un 630mo
del potere complessivo della
Camera.
Ma se si vanno a guardare un po’
di dati si scoprono cose interessanti che fanno sorgere qualche
malizioso dubbio sull’uguaglianza della rappresentatività di
questi signori.
Nella Rubrica Silenziosa di
questo stesso Quaderno sono
infatti riportati i numeri di voti
che hanno determinato l’elezione dei deputati nelle varie regioni. Ci si dirà che non vuol dire
nulla dal momento che i Collegi sono stati ritagliati in modo
da essere assolutamente identici come numero di elettori
iscritti alle liste. Resta però il
fatto che ci sono Collegi nei quali più del 90% degli aventi diritto va a votare e Collegi dove ci
va meno del 70%, e ancora Collegi nei quali la percentuale di “Gli inglesi uccidono l'oca dalle uova d'oro”. Caricatura amerischede bianche o nulle viaggia cana della fine del '700
attorno al 5% dei voti espressi e
altri in cui il loro numero arriva quasi al 20%. sopra qualche salace disegnino goliardico.
Così succede che a eleggere il deputato della
Tutto questo fa sì che ci siano grosse differenze
nel numero di elettori effettivi che servono a eleg- Valle d’Aosta ci sono voluti 77.024 cittadini e che
gere un deputato il quale può (e in teoria dovreb- per uno del Molise sono bastati 43.650 concittabe) rappresentare anche gli elettori che non han- dini di Di Pietro. E niente riesce a toglierci dalla
no votato per lui ma non può rappresentare chi testa l’idea che il primo rappresenti 77.024 cittanon vuole essere rappresentato in assoluto e cioè dini e il secondo 43.650.
L’idea fino a qui solo maliziosa diventa angochi non va a votare, o vota scheda bianca o ci fa
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sciante se ci avventuriamo in considerazioni circa il contributo che quegli elettori forniscono al
sostentamento di quella casa comune (si fa per
dire) che è la Repubblica Italiana. Se si va a vedere a quanto ammonta il prelievo fiscale complessivo di ciascun Collegio, ci scappa di considerare
che il deputato lì eletto in qualche modo rappresenti quella porzione di contributo al bene comune (si fa, ancora, per dire). E allora ci viene da
pensare che il solito deputato della Valle d’Aosta
rappresenti 2.209 miliardi e quelli calabresi 719
miliardi (circa un terzo) ciascuno. E, si badi bene,
non ci facciamo prendere dalla fregola di calcolare solo il contributo dei cittadini che hanno effettivamente espresso il loro diritto-dovere di
voto, perché se così fosse (ma non è) il solito valdostano dovrebbe “valere” 1.467 miliardi e i calabresi 364 miliardi, e cioè meno di un quarto.
Tutto questo - ci si dirà - non ha senso ed è anzi
provocatorio. Sarà anche provocatorio (e certamente lo è) ma di senso ne ha molto per chi deve
contribuire più degli altri al carrozzone comune
(si fa sempre per dire) e si accorge di contare meno
di quelli che invece di spingere se ne stanno seduti. Perché proprio di questo si tratta: della sovrarappresentazione politica del resto d’Italia rispetto alla Padania che più di tutti contribuisce
invece a tirare la carretta. I numeri li abbiamo
visti e diventano ancora più significativi se si va
ad aggiungere quella trentina di nati fuori della
Padania che sono stati graziosamente candidati
in collegi sicuri del Nord dai rispettivi partiti,
nessuno escluso.
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Da sempre in questo paese le maggioranze di
governo si giocano sul filo di una manciata di
seggi: siamo maligni ma non possiamo non pensare che tutto avrebbe potuto essere diverso se
non fosse stato possibile fare questi fognini e se
tutte le parti della penisola avessero contato almeno allo stesso modo.
Ci si dirà che sono gli inconvenienti del sistema maggioritario e che non c’è soluzione.
Certo che c’è la soluzione!
Innanzitutto un bel sistema federale nel quale
ciascun eletto rappresenti effettivamente i suoi
elettori e nel quale ogni entità federata conti per
l’effettivo contributo alle casse federali.
E dopo, un bel sistema elettorale proporzionale nel quale i seggi vengano distribuiti in funzione dei voti espressi e non degli iscritti alle liste
elettorali compresi quelli cui non frega nulla di
andare a votare (e che non pagano le tasse).
Se è vero (come è vero) il principio dei padri
federalisti americani della no taxation without
representation, è altrettanto vero e sacrosanto
anche il contrario, e cioè no representation
without taxation.
Facendo molta attenzione a quale e quanta representation e a quale e quanta taxation. Se una
comunità deve essere tale, gli onori e gli oneri
devono essere equamente divisi e gli uni devono
essere proporzionali agli altri.
Qui invece ci sono “tassati poco rappresentati”
e “poco tassati anche troppo rappresentati”.
L’è òra de mòccalla.
Brenno
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Condizioni giuridiche internazionali
per il principio di autodeterminazione
e referendum per le comunità territoriali
che aspirano all’indipendenza
di Alessandro Vitale
D
al punto di vista internazionale, mentre con il
1989 e la riunificazione della Germania è caduto
il principio dell’inviolabilità e dell’immutabilità
dei confini degli Stati, non è stato cancellato da nessuna parte il diritto dei popoli all’autodeterminazione. I
casi nei quali linguaggi, tradizioni storiche, istituzionali e identità non coincidono con i rigidi confini degli
Stati nazionali si moltiplicano a dismisura, anche per
la crescita di nuove identità e richiedono soluzioni in
campo internazionale.
Dal punto di vista giuridico, la risoluzione 1514 delle
Nazioni Unite stabilisce il diritto di tutti i popoli all’autodeterminazione del proprio status politico e al perseguimento del proprio sviluppo economico, sociale e culturale, soprattutto nel caso di redistribuzione discriminatoria interna ad un Paese, di ripetuta violazione dei
diritti civili e di palese rapina delle risorse economiche
di una popolazione territorialmente collocata. Esistono pochi dubbi circa il fatto che “autodeterminazione
del proprio status politico”, senza ulteriori aggettivi,
significhi semplicemente diritto alla piena indipendenza politica.
La Carta delle Nazioni Unite, (art. 1, par. 2; ma anche
art. 55), la Convenzione internazionale delle Nazioni
Unite sui diritti civili e politici, la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sui diritti economici, sociali e culturali, proclamano anch’esse il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli e non vi è dubbio,
sebbene si tratti di articoli spesso criptici, che autodeterminazione significhi indipendenza politica.
L’atto Finale della Conferenza di Helsinki, nella parte relativa ai diritti dei popoli (capitolo I, par. VIII, pag.
81 del testo inglese e 4 del testo olandese) stabilisce la
possibilità dei popoli di appellarsi al diritto all’autodeterminazione. Questo documento infatti parla di diritto delle popolazioni a determinare, quando e come desiderano, il loro status politico interno ed esterno, senza interferenza esterna, e di perseguire, come esse ritengano meglio, il loro sviluppo politico, economico,
sociale e culturale. Non esiste una logica particolare o
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una deroga formale internazionale in base alla quale la
Slovenia o la Lituania sono in diritto di appellarsi a
questo Atto internazionale, elaborato da tre commissioni in 2400 sedute di lavoro, dodici sottocommissioni, un comitato coordinatore, poi firmata dai massimi
dirigenti di 35 Paesi e con entusiasmo persino dall’Unione Sovietica di Brezhnev, mentre altre popolazioni non
possono farlo. L’Atto Finale di Helsinki proclama infatti a gran voce il principio dell’uguale accesso da parte
di tutti i popoli ad uguali diritti, compreso quello all’autodeterminazione.
Eppure la resistenza di fronte all’applicazione dei
principi di Helsinki e l’uso di pesi e di misure differenti
a seconda delle popolazioni che ad essi si appellano è
quanto di più diffuso esista in campo interno ed internazionale. I ‘coerenti europeisti’ assisi nel Parlamento
nostrano, ad esempio, che in mezz’ora hanno approvato l’adesione agli accordi di Maastricht (quando in Danimarca ci sono voluti ripetuti referendum, in Finlandia sono passati per il rotto della cuffia, nonostante il
rifiuto di quasi metà della popolazione e in Norvegia
sono stati respinti) più volte hanno negato l’applicabilità dei principi di Helsinki a casi che non andavano
loro a genio, a partire dalle Repubbliche ex jugoslave,
fino ai Paesi Baltici e oggi alla Padania. Hanno cioè con
totale indifferenza implicitamente negato perfino quello che i giornali brezhneviani di Mosca scrivevano nel
lontano 1976, e cioè che: «Nei documenti solennemente firmati alla Conferenza, è esposta una specie di Costituzione, la legge basilare internazionale d’Europa.
L’atto Finale di Helsinki incarna una Dichiarazione di
principi (ognuno dei quali è ugualmente importante,
egualmente valido), che sono iscritti a lettere d’oro nei
tesori della storia».
Il diritto di autodeterminazione è un principio del
diritto internazionale che venne riconosciuto dopo la
Conferenza di Parigi (1919). Venne ricompreso nello
Statuto della Società delle Nazioni e solo dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne principio del diritto
internazionale, quando venne affermato in determinanti
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atti internazionali quali lo Statuto dell’ONU, il Patto
internazionale sui diritti civili e politici del 1966, alcune dichiarazioni dell’Assemblea generale dell’Onu, la
Conferenza di Helsinki, il riconoscimento di fatto delle
nuove indipendenze nell’Est europeo dopo il 1990.
Oggi il diritto all’autodeterminazione da un lato indica il diritto dei popoli di darsi il regime politico interno che preferiscono e dall’altro si riferisce al diritto delle
popolazioni di divenire indipendenti e di costituirsi in
Stato sovrano.
Dal punto di vista pratico e di fatto questa seconda
accezione tuttavia presenta pesanti limitazioni, soggette
alla verifica degli organismi internazionali. Fra le più
importanti vi è la “necessità” (in palese contrasto logico con lo stesso principio di autodeterminazione) di rispettare l’integrità territoriale e l’unità politica di ogni
Stato esistente e costituito. Spesso le dichiarazioni dell’ONU sono andate nel senso di un freno alla distruzione dell’unità nazionale e dell’integrità degli Stati. Si ha
così una vera e propria limitazione di accesso al diritto
all’autodeterminazione per quei popoli che fanno già
parte di uno Stato unitario indipendente, dotato di un
governo “rappresentativo”. L’applicazione e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione vengono generalmente limitati a quei popoli che si trovano in una
condizione di dipendenza politica e giuridica da altri
popoli, come nel caso di popoli soggetti ad una dominazione coloniale. Questo approccio ha fatto però fino
ad oggi del diritto di “autodeterminazione” un diritto
estremamente ristretto.
La piena arbitrarietà in campo internazionale nel riconoscimento del diritto all’autodeterminazione (poiché il riconoscimento è un atto eminentemente politico) la si è vista all’opera prima nel caso del Kurdistan e
poi in quello della Cecenia: a fronte di una guerra sanguinosissima, che ha comportato migliaia di morti, per
la semplice repressione di un classico processo di secessione da uno Stato coloniale, e in presenza di tutti i
requisiti richiesti internazionalmente per ottenere il
riconoscimento del diritto di autodeterminazione (soprattutto quelli relativi all’omogeneità etnica della popolazione), nulla è stato concesso, del tutto ipocritamente, in quella direzione: per non dispiacere alla Russia.
Il problema dell’autodeterminazione è tipico infatti
di un campo nel quale prevale il criterio dei due pesi e
delle due misure. Così si assiste al riconoscimento di
alcune indipendenze e al rifiuto del riconoscimento di
altre. Il caso del diritto all’autodeterminazione è quello
più classico nel quale traspare l’assenza di certezza del
diritto internazionale, che è una delle sue caratteristiche più tipiche.
Il diritto internazionale è un tipo di diritto tipicamente interstatuale, creato ad uso e consumo degli Stati
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nazionali e per la loro autodifesa. Esso tutela gli interessi degli Stati in quanto suoi soggetti e in quanto enti
superiorem non riconoscentes. Il diritto internazionale è la legge degli Stati e non certo delle popolazioni o
degli individui. Gli Stati sono suoi soggetti per il fatto
stesso di affermarsi come sovrani e indipendenti e per
il semplice fatto che tali si dichiarano. Il “riconoscimento” che un nuovo Stato riceve dagli altri non è infatti
costitutivo, ma ha un semplice valore dichiarativo. Tuttavia dopo l’89 si assiste al fatto ormai incontrovertibile che la comunità internazionale è costretta a seguire
sempre più regole e principi diversi da quelli rigidi del
sistema interstatuale e che da esso debordano.
La realtà è che vi è un contrasto irriducibile fra principio dell’autodeterminazione internazionalmente riconosciuto e diritto naturale di secessione, che preesiste
a qualsiasi formulazione giuridica e Costituzionale, che
sia interna o internazionale. Il principio di autodeterminazione delle minoranze nella Politica Internazionale ha come caratteristica quella di essere una concessione calata dall’alto, in base ad un arbitrario principio
di “legittimità” internazionale, da parte delle Istituzioni presenti nel sistema internazionale, ai cittadini. Questo principio è in realtà figlio del principio nazionalista
(possiede cioè un’origine del tutto opposta rispetto al
diritto di secessione: il primo fa parte dell’armamentario ideologico cresciuto sul tronco del legittimismo monarchico e aristocratico, il secondo appartiene alle radici democratiche dei diritti naturali) (1); il suo criterio-base principale è quello della corrispondenza fra
nazione (etnica) e Stato, fra confini etnici e politici. Si
tratta di un diritto che definisce arbitrariamente una
popolazione senza entrare approfonditamente nel merito delle sue caratteristiche ed è ben lontano dal garantire un atto di giustizia internazionale. Se negli anni
Venti il principio di autodeterminazione è stato esplosivo (2), dopo la Seconda Guerra Mondiale il Sistema
Internazionale ha imposto forti restrizioni all’esercizio
del diritto di autodeterminazione. In realtà, solo una
piccola parte di popoli del mondo ne ha goduto. Oggi,
poi, il contenuto del principio stesso è per sua natura
differente da quello invocato dai nazionalisti negli anni
del “periodo d’oro” per il principio stesso, di Wilson e di
Lenin, che portò non a caso alla formazione di aberran(1) Su questa differente origine rimando al mio articolo Quando una comunità storica ha il diritto di andarsene, apparso
sui Quaderni Padani n 4, marzo-aprile 1996. Poiché le origini sono diametralmente opposte, si può sostenere senza tema
di errore che il diritto all’autodeterminazione ostacola e
“rema contro” quello naturale di una comunità “ad andarsene” da una compagine statuale che non riconosce più come
legittima.
(2) Heraclides Alexis The Self-determination of Minorities in
International Politics. Frank Cass & c. London 1991
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ti e artificiali formazioni statuali, quali quella della Cecoslovacchia, della Yugoslavia ecc. Si tratterebbe oggi
di riconoscere un principio diverso: infatti i “nazionalismi” odierni sono qualcosa di diverso e di più profondo
rispetto al ritorno al principio nazionalistico ottocentesco (3). Quest’ultimo mirava da un lato a disgregare
gli imperi dinastici multinazionali, ma dall’altro tendeva alla ricomposizione unitaria e centralizzata di Stati
nazionali, trovando proprio in questo obiettivo la sua
giustificazione e accettabilità internazionale in base all’ideologia liberal-nazionale predominante (4), l’etnonazionalismo attuale si manifesta anche e soprattutto
(come nell’Est europeo) a livello “sub-nazionale”, articolandosi su una vasta gamma di rivendicazioni e di
motivi etno-politici, religiosi, culturali, linguistici, ma
anche economici, che tendono a disarticolare le compagini statuali esistenti e non necessariamente a ricostituirne di nuove e di compatte politicamente, secondo i vecchi criteri dello Stato nazionale. L’apertura verso l’esterno anzi, come dimostrano i Paesi di recente
indipendenza dell’Est europeo, è una condizione oggi
irrinunciabile per lo sviluppo economico, che fa a pugni con la vecchia tendenza nazionalistica a costruire
campi statuali trincerati entro confini invalicabili e tendenzialmente protezionisti in economia. L’aspirazione
all’indipendenza e al controllo del proprio territorio
(spesso, soprattutto se ricco e produttivo, sottoposto a
rapina sistematica, in particolare fiscale, da parte di
coloro che guidano gli Stati centralizzati) non può essere confusa con la battaglia ottocentesca per la coincidenza di Stato sovrano ed etnia (5). La coincidenza fra
Stato e nazione è in realtà propria del nazionalismo ottocentesco e continua a provocare nuovi equivoci, quali quello dell’identificazione fra il diffusissimo sentimento odierno di lealtà verso la propria terra e di rivendicazione del principio “ciascuno sia padrone in casa sua”,
con quello di lealtà verso l’astrazione di uno Stato come
fine in sé. La molla prevalente oggi nelle rivendicazioni
(3) Mistretta Stefano Forze centrifughe e forze centripete nel
Continente europeo: il cammino verso l’integrazione ed il
risveglio dei nazionalismi. In: “Studi Diplomatici” 7, 1995,
123.
(4) Come ha spiegato Eric Hobsbawm nel suo Nazioni e nazionalismi dal 1780, Einaudi, Torino 1991, 36-37, secondo
quell’ideologia il principio di nazionalità avrebbe dovuto essere applicato soltanto alle nazionalità di una certa dimensione, cioè a quelle nazionalità suscettibili di costruire Stati
nazionali “vitali” sia sotto il profilo economico che sotto quello culturale. Si tratta di un’idea che continua a fare da sfondo alle concezioni prevalenti nella comunità internazionale.
(5) Mistretta Stefano Forze centrifughe e forze centripete nel
Continente europeo: il cammino verso l’integrazione ed il
risveglio dei nazionalismi. In: “Studi Diplomatici” 7, 1995,
125.
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etnonazionali è quella che spinge non certo nella direzione di un aumento della coerenza etnica degli Stati
nazionali (inglobamento delle minoranze etniche al di
fuori dei confini dello Stato nazionale, ristabilimento
di confini nazionali, omogeneizzazione delle minoranze allogene interne), ma proprio verso la direzione opposta: verso la rivincita contro la discriminazione, contro la soppressione dell’identità negli Stati nazionali,
verso la riaffermazione di caratteristiche etnografiche
oggettive, a lungo spianate dalla potente macchina omogeneizzatrice degli Stati nazionali. Mentre i vecchi Stati nazionali erano dominati dal demone dell’unità e dell’omogeneità interna, l’etnonazionalismo odierno esplode proprio per l’assimilazione imperfetta operata da
questo potente “schiacciasassi”.
Quindi le categorie giuridiche del vecchio diritto internazionale non bastano a spiegare ed a ricomprendere le dimensioni e le multiformi caratteristiche dell’odierno etnonazionalismo. Tuttavia, queste nuove caratteristiche non hanno portato ad una coerente riformulazione del principio di “autodeterminazione”.
Comunque, dal punto di vista giuridico il referendum
come plebiscito determinante per la decisione dei cittadini di un territorio non necessariamente statuale,
circa l’appartenenza di quello stesso territorio ad uno
piuttosto che ad un altro Stato, vecchio o nuovo, rimane uno strumento riconosciuto in campo internazionale. Esso può essere indetto previo avvertimento delle
Istituzioni Internazionali oppure può essere presentato come avvenimento che si impone de facto per la sua
evidenza di richiesta democratica, esattamente come
avviene per una proclamazione di indipendenza. La via
quebecchese rimane la più normale nell’età contemporanea, sebbene abbia presentato la ovvia difficoltà di
escludere dal referendum per l’indipendenza gli immigrati e i “colonizzatori”.
Questa procedura venne applicata, contrariamente a
quello che si pensa, per la prima volta nel corso della
Rivoluzione Francese. Dopo la sua adozione ad Avignone nel 1789, per sancire l’unione della città alla Francia, venne usato nel caso di Nizza e Savoia e in seguito
divenne la forma tipica di autodeterminazione dei popoli. I trattati di pace hanno previsto frequentemente il
ricorso al plebiscito per definire la condizione di territori in contestazione. Oggi esso può svolgersi nelle regioni nelle quali le popolazioni ne facciano richiesta,
senza prevedere la consultazione in tutto il territorio
nazionale dello Stato nel quale quel territorio è inglobato. La verifica successiva delle condizioni per l’accesso ai criteri previsti per l’autodeterminazione spetta agli
organismi internazionali, che in alcuni casi, proprio
perché funzionali agli Stati esistenti, possono dimostrarsi in modo lampante la negazione stessa del principio
democratico espresso dal referendum stesso.
Quaderni Padani - 5
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I fondamenti del diritto
di secessione per la Padania
di Alessandro Storti
“Ogni paese, nazione o popolo, piccolo o grande, debole o forte; ogni regione, provincia o
comune ha il diritto assoluto di disporre di se stesso, di determinare la propria esistenza, di
scegliere le alleanze, di unirsi e separarsi secondo la volontà e il bisogno”.
Mikhail Bakunin
Introduzione
Nell’ultimo periodo è stata posta con forza la
questione della secessione della Padania. Di fronte
a tale ipotesi sono due i quesiti che nascono: è
possibile un reale distacco geopolitico della Padania dallo Stato Italiano? ed è giustificata questa scelta radicale? Non intendiamo dare qui risposte in merito al primo problema, per una serie di motivi: innanzitutto il confine fra indipendentismo e federalismo forte è molto sfumato
nella testa dei cittadini padani, e quindi è difficile
dire se, posti di fronte ad un quesito referendario
dichiaratamente separatista, essi sarebbero compatti nel votarlo (1); inoltre non va dimenticato il
valore anche strategico che hanno le proposte
secessioniste, che, come tali, non implicano necessariamente un approdo immediato al divorzio
fra Padania e Italia; infine crediamo che l’“arte”
dei sondaggi e delle previsioni sia sempre potenzialmente soggetta a errori e a letture distorte, e
pertanto poco utile ai fini di un discorso teorico.
Riteniamo invece importante cercare di dare una
risposta alla seconda questione: la Padania ha il
diritto di secedere? e su quali argomenti si fonda
tale diritto?
È necessario, prima di inoltrarci nell’argomento, soffermarci brevemente su un punto di vitale
importanza. Quando si parla di diritto di secessione non ci si riferisce a norme costituzionalmente stabilite. Non perché sia sbagliato farlo,
ma per il semplice fatto che (quasi) nessuna costituzione ne prevede l'eventualità, tantomeno in
uno Stato unitario e centralista come quello italiano. Per cui suscitano stupore le obiezioni che
molti costituzionalisti e politici hanno posto alle
(1) Lo dimostra ampiamente il fatto che l’argomento separatista coincida spesso con la cosiddetta “separazione delle casse”; tale punto è legato essenzialmente ad una questione di
carattere economico-fiscale che è anche alla base di un autentico federalismo.
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dichiarazioni secessioniste giunte dal Parlamento della Padania. Hanno scritto e detto che i propositi separatisti non possono trovare accoglimento in quanto la Costituzione, all’articolo 5,
afferma il principio di indivisibilità della Repubblica Italiana: si tratta di un approccio riduttivo
alla questione, in quanto la storia procede lungo
un piano metacostituzionale, e quindi non possono essere pochi uomini e le loro astratte norme a fermarla. D’altronde, se le istanze rivoluzionarie non potessero realmente trovare esplicazione per il solo fatto di non essere riconosciute dagli ordinamenti giuridici, oggi saremmo ancora fermi alle monarchie assolute: ed è curioso
che le obiezioni di cui dicevamo siano state mosse proprio dai rappresentanti di quei partiti che
fino a pochi anni fa si dicevano “rivoluzionari”.
Ma andiamo alla questione iniziale, e cioè ai
fondamenti del diritto di secessione per la Padania. Senza dubbio la problematica del diritto di
secedere è ricca di sfaccettature e difficilmente
sintetizzabile nello spazio di poche pagine. Si tratta infatti di un argomento che attraversa molti
campi, passando dall’economia al diritto, dalla
cultura alla storia, dalla geografia all’antropologia.
Non è possibile pertanto tracciare un quadro
di riferimento esclusivamente giuridico, è necessario invece cercare di cogliere tutte le argomentazioni che possano essere assunte come base
della ipotesi secessionista per la Padania, argomentazioni che sono riconducibili proprio ai campi cui abbiamo accennato. È chiaro quindi che
nella nostra esposizione cercheremo di dare una
definizione possibile del diritto “morale” a separarsi da parte della Padania; abbiamo volutamente sottolineato l’aggettivo “morale” per ribadire
che il discorso va oltre la sfera del diritto formale
e positivo, per collocarsi su un piano sociologico
e giuridico-sostanziale.
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Il diritto naturale alla secessione
La nostra analisi comincia dal pilastro concettuale su cui si fonda necessariamente ogni teoria
della secessione: la questione dei diritti naturali
e inalienabili. Secondo i teorici del giusnaturalismo esistono delle prerogative che sono superiori e preesistono a qualsiasi ordinamento. Come
tali, queste facoltà non hanno bisogno di essere
codificate o scritte per essere valide. Alla categoria dei diritti naturali appartengono il diritto di
resistenza e quello di secessione (che, in linea
teorica, è da ricomprendere nel primo, insieme
alla disobbedienza civile, all’emigrazione e ad altri).
Come abbiamo detto poco sopra, nessuna costituzione riconosce il diritto di secessione. È tipico infatti di ogni ordinamento giuridico tentare di preservarsi e di mantenere l’integrità del
territorio su cui esercita la giurisdizione, negando la possibilità che le comunità in esso ricomprese lo abbandonino. Addirittura alcune costituzioni, come quella dello Stato Italiano, esplicitamente sanciscono l’indivisibilità territoriale e
politica. Si tratta tuttavia di finzioni giuridiche,
prive di reale significato nella sostanza. Infatti i
diritti naturali, e fra essi il diritto di secessione,
non possono essere oggetto di negoziazione all’interno del patto costituzionale fra cittadini e
fra comunità politiche. Così come per il diritto
civile sono nulli quei contratti che prevedono
clausole lesive delle libertà individuali, ugualmente non possono essere considerate validamente
esistenti quelle norme costituzionali che parlano di inscindibilità del contratto sociale che sta
alla base dello Stato. Quindi non è accettabile il
fatto che una Carta costituzionale neghi ai cittadini e alle comunità politiche l’esercizio dei diritti naturali, poiché, in tal modo, essa va a limitare indebitamente la sfera delle libertà personali
e collettive.
È vero che la battaglia per il riconoscimento
giuridico del diritto di secessione non è né semplice sul piano dell’applicazione pratica (casi e
procedure costituzionali), né su quello concettuale dell’accettazione politica. Basti a questo
proposito l’esempio del divorzio, che è un tipico
caso di scioglimento volontario di un contratto,
e quindi di secessione da una unione (2). La lotta
divorzista è da sempre fonte di profonde fratture
ideologiche negli Stati che hanno posto sul cam(2) Sulla metafora matrimonio-federazione/divorzio-secessione
v. Gianfranco Miglio, “La prospettiva teorica del nuovo federalismo”, su Federalismo & Società, anno I, n. 2, pagg.34-35
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po la questione. Ma il fatto stesso che battaglie
libertarie di questo tipo stiano ottenendo sempre
maggior successo e consenso, dimostra che anche il diritto di secessione può riuscire ad imporsi quale prerogativa riconosciuta formalmente
alle comunità politiche facenti parte di una unione statuale.
Resta comunque il fatto che, anche se contrastato ufficialmente dalle autorità centrali, il diritto di secessione è una facoltà di cui le comunità padane sono pienamente titolari. Questo anche a prescindere dalla questione dell’esistenza
di una unità padana (o di un popolo padano). Non
ha alcun valore il discorso antiseparatista fondato sulle differenze esistenti all’interno della nostra terra (del resto sempre minori rispetto a quelle fra Padania e Italia, come mostrano bene molti
articoli, lavori e dati pubblicati su questa rivista
e altrove). Infatti è un approccio di merito che
non tocca il principio per cui ogni comunità politica ha diritto di uscita da una unione statuale
che non ritiene di dover più riconoscere per una
serie di motivi. È anzi opportuno sottolineare un
fatto. Quando si discute di secessione, l’intento
immediato è politico; di conseguenza ogni affermazione si basa su argomentici etici e utilitaristici: i fautori della separazione sostengono che
essa porterà vantaggi alla nostra terra, gli avversari dicono invece che la Padania perderà posizioni economiche e, soprattutto, che in questo
modo verrà meno la solidarietà. Ciò che fatica ad
emergere nella discussione è però il carattere giuridico. Per questo è necessario ribadire con forza
che, oltre a discutere del merito della secessione,
bisogna avere il diritto di discuterne, la libertà di
dirsi secessionisti, di studiare progetti secessionisti, di produrre propaganda secessionista. Queste libertà non sono riconosciute nello Stato Italiano, che anzi dispone di un buon numero di
norme repressive di ogni attività separatista. È
bene che queste norme vengano eliminate.
Il fondamento economico
Ogni teoria del diritto di secessione è destinata
a scontrarsi con la difficoltà dell’applicazione pratica del principio giuridico. Infatti, teoricamente
è legittima anche la secessione individuale, ma è
chiaro che quest’ultima può essere ritenuta praticabile solo utopisticamente. Per tale motivo il
diritto di secessione si configura, nella pratica,
come diritto “morale”: si tratta, in sostanza, di
definire una casistica in base alla quale si possa
stabilire un iter giuridico che porti alla concreta
separazione di un’entità territoriale da uno Stato.
Quaderni Padani - 8
9
Quando si utilizza il termine “morale” ci si riferisce, dunque, a una serie di situazioni che giustifichino la istanza separatista. Un caso generalmente riconosciuto è quello della redistribuzione discriminatoria delle ricchezze prodotte. Siamo, cioè, nel campo del rapporto tributario fra
cittadini e Stato, fra comunità politiche locali e
governo centrale. Va detto che la questione fiscale, soprattutto nel caso padano, è stata la molla
più forte per le spinte autonomiste, federaliste e
secessioniste. Fa ormai parte della storia della
comunicazione politica il celebre slogan “Roma
ladrona, la Lega non perdona”, riassuntivo di tutto
il rancore delle popolazioni settentrionali verso
un centro divoratore di ricchezze (3).
Molte ricerche hanno ampiamente dimostrato
che il prelievo fiscale nelle principali regioni padane (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna) è nettamente superiore alla somma trasferita dallo Stato alle regioni stesse (4). Di converso, è stato rilevato come la spesa pubblica sia
stata incentrata soprattutto su interventi di carattere assistenziale e clientelare nelle aree del
Mezzogiorno. Si tratta di un tipico caso di redistribuzione discriminatoria, citato addirittura da
Allen Buchanan nel volume “Secessione”(5). E si
tratta di una situazione che può ampiamente giustificare, dal punto di vista della legittimità, la
richiesta di separazione. Non a caso già Johannes
Althusius, nella sua teoria dei diritti di resistenza, considerava giusta la separazione di quella
comunità politica che venisse espropriata di gran
parte delle proprie ricchezze da parte di un governo divenuto “tirannico”(6).
Tuttavia la questione del fondamento economico del diritto di secessione per la Padania non è
limitato al fattore della redistribuzione discriminatoria delle risorse. Il problema infatti investe
anche l’aspetto della complessiva situazione finanziaria dello Stato Italiano. Anche in questo
caso le statistiche e i dati numerici hanno disegnato due Italie ben distinte, sul piano del rispetto delle regole e su quello della capacità produttiva. Alla generalizzata evasione del Sud si contrappone il profondo rispetto per le regole della
civile convivenza in Padania (7). E così pure alla
sterilità imprenditoriale del Mezzogiorno si contrappone un trend economico delle regioni della
Valle del Po che fa della Padania il primo distretto europeo. La questione separatista si pone dunque come un fatto di sopravvivenza economica e
finanziaria della nostra terra all’alba della fase finale costitutiva dell’Unione europea. L’accelerazione che il dibattito ha subìto nell’ultimo periodo non è soltanto il frutto di una campagna elettorale, ma è derivata anche, e soprattutto, dall’avvicinarsi costante della data in cui le economie degli Stati europei dovranno fare i conti con
la moneta unica. Il trattato di Maastricht ha avuto in questo senso un effetto notevole sul dibattito politico all’interno dello Stato Italiano. Il fatto
che, ad esempio, la Lombardia da sola sia perfettamente ammissibile nell’Unione continentale
secondo il parametro del Debito Pubblico, ha creato notevole imbarazzo e irritazione nella classe
governativa centrale: come spiegare, infatti, a un
cittadino lombardo che egli non potrà entrare
dalla porta principale (se mai potrà entrare da
qualsiasi altra porta) nell’Europa unita, per colpa delle regioni meridionali, che abbassano la
media dei parametri richiesti da Maastricht, nell’ambito dell’“Italia unita”?
E siamo così arrivati al problema delle “medie”.
Da molti anni ormai i cittadini della Repubblica
Italiana sono bombardati di cifre che dimostrano
quanto sia lontano il loro Stato dagli altri concorrenti continentali, coi quali viene fatto il raffronto. “Italia paese dei disoccupati”, “Italia paese del debito pubblico stratosferico”, “Italia con
la moneta da terzo mondo”: tutta una serie di gra-
(3) A questo proposito ci pare interessante aprire una parentesi. Alcuni mesi dopo lo scoppio di Tangentopoli furono prodotti degli adesivi che recitavano “Milano ladrona, Di Pietro
non perdona”. Questo gioco linguistico è stato poi utilizzato
per altre città padane, con il chiaro intento di mettere sullo
stesso piano Roma e il Nord. Si è trattato di un uso distorto
dello slogan; infatti la “Roma ladrona” del motto leghista rappresentava il Governo centrale che sottraeva denaro ai cittadini padani e non lo restituiva più, e non, quindi, un qualsiasi politico corrotto e concussore. La medesima distorsione
è avvenuta poi per le protesta antiburocratica e fiscale, che i
politici centralisti si sono subito affrettati a definire questione nazionale, nel tentativo di privarla della sua matrice territoriale. È allarmante il fatto che si tenti di trasformare la
questione italiana, essenzialmente orizzontale e fondata sul-
la contrapposizione fra territori, in una lotta verticale fra
gruppi di cittadini.
(4) v. gli ultimi dati della Ragioneria dello Stato e del Ministero delle Finanze, nella tabella pubblicata dal quotidiano il
Giornale del 07.06.96, a pag. 21
(5) Allen Buchanan, Secessione (Milano: Mondadori, 1994),
pagg. 186-187
(6) v. Alessandro Vitale, “Quando una comunità storica ha
‘diritto di andarsene’”, su Quaderni Padani, n. 4, Anno 2,
Marzo-Aprile 1996
(7) Gli indici di evasione relativi all’IRPEF e all’IVA vedono il
Sud in “vantaggio” di 40-50 punti percentuali rispetto alle
aree del NordOvest e del NordEst (dati G.Brosio e G.Cerea,
“Il federalismo contro l’evasione”, su il Sole 24 Ore del
14.04.94)
810 - Quaderni Padani
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
tificanti notizie del genere di quelle qui riportate
è stata rovesciata addosso agli abitanti di ogni regione, diffondendo una sorta di autodisprezzo che
è uno dei più grandi fondamenti del crollo del
sentimento unitario. Soprattutto da quando i cittadini padani hanno cominciato a sospettare che
molte di quelle cifre fossero soltanto il frutto di
una media che sommava i dati del Sud a quelli
delle regioni della Valle del Po, ottenendo così un
risultato falsato e utilizzato strumentalmente. In
realtà, e lo dicono tutte le ricerche che non ci
stanchiamo mai di citare, si è visto ormai come
lo Stato italiano sia di fatto diviso in due sistemi
socio-economici, l’uno, quello padano, nettamente superiore al livello medio europeo, e l’altro,
quello mediterraneo, assolutamente inadatto alle
sfide continentali (8).
Questo aspetto è stato chiaramente messo in
luce da Kenichi Ohmae nel volume “La fine
dello Stato-nazione”, nel paragrafo significativamente intitolato “Medie problematiche”, che
qui riportiamo parzialmente: “Lo Stato-nazione è divenuto una unità organizzativa innaturale -o addirittura una fonte di disfunzioni- per
quanto concerne l’attività economica. Accosta
infatti elementi diversi al livello di aggregazione sbagliato. Che senso ha, per esempio, pensare all’Italia come a un’entità economica coerente all’interno dell’Ue? Non esiste un’Italia
‘media’. Non c’è un’ampia fascia di popolazione che in termini socioeconomici si collochi
esattamente nel punto intermedio individuato
da quei calcoli. Non c’è un gruppo di interesse
che tragga particolare vantaggio dai compromessi politici e sia quindi disposto a sostenerli
con entusiasmo.
Esistono invece un Nord industriale e un Sud
rurale, che differiscono profondamente in ciò che
sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità. Da un punto di vista economico, non vi sono
elementi che giustifichino la scelta di considerare l’Italia un’entità con interessi condivisi dall’intera popolazione. Un’ottica del genere, infatti, costringe il manager dell’industria privata o il funzionario pubblico a operare sulla base di medie
false, inattendibili e problematiche. Si tratta infatti di dati immaginari che possono avere effetti
distruttivi” (9).
Il fondamento storico-culturale
Ohmae ha scritto che lo Stato Italiano non
può essere considerato unitariamente da un
punto di vista economico. Tuttavia la distanza
fra Padania e Italia è anche e soprattutto un
fattore culturale. Diciamo “soprattutto” poiché
il baratro economico che le divide è esattamente il frutto di una profondissima lontananza
civile, cresciuta in secoli di storia.
La retorica nazionalista, al fine di costruire
una mitologia unitarista che legasse la penisola dalle Alpi alla Sicilia, si è sempre impegnata
nella mistificazione storica. I Celti, considerati elementi estranei e scomodi, sono stati letteralmente cancellati dalle vicende padane e italiche. Il culto imperiale della romanità ha fatto
eliminare dai libri di storia le vere origini della
popolazione padana, e ha messo in ombra quelle
degli altri popoli peninsulari. Scomparsi gli
Insubri, i Cenomani, i Boi -fondatori, fra l’altro, di Milano, Mantova e Bologna!-, ridotti a
elemento folcloristico i Greci delle colonie, trattati come misteriosi abitatori gli Etruschi, la
scuola ufficiale si è esercitata per decenni in
un futile esercizio di propaganda centralista,
trasformando i “conquistatori” romani negli
“abitanti indigeni” romani. E la miseria culturale di questa operazione si rivela oggi in tutta
la sua essenza allorché leggiamo, sulle pagine
della prestigiosa rivista di archeologia ARCHEO, che lo Stato Italiano “si divide in tre
grandi aree con diverse connotazioni genetiche: il nord, con l’eredità dei Celti in eminenza; il centro, con i caratteri degli Etruschi che
si conservano ancora oggi; il sud, dove prevale
l’apporto dei Greci” (10). Verrebbe da chiedersi,
a questo punto, dove si possano rintracciare i
romani. Ed è persino troppo facile e ovvio rispondere che essi non uscirono mai dall’Urbe,
se non per conquistare e controllare militarmente le provincie, tanto che, in pochi secoli,
l’Impero romano passò ad essere guidato da una
classe politica e burocratica che tutto era fuorché di etnia latina. E d’altronde non si capisce
come avrebbero potuto poche migliaia di romani
riprodursi fino a far scomparire il ceppo celtico
padano, la cui diffusione ammontava certamente
a diverse centinaia di migliaia di persone.
(8) Posto =100 il Prodotto interno lordo medio di tutta la
Comunità Europea, hanno un PIL superiore a 125 la Valle
d’Aosta, la Lombardia e l’Emilia-Romagna; hanno un PIL
compreso fra 100 e 125 le restanti regioni della Padania; hanno un PIL inferiore a 75 la Basilicata, la Calabria, la Campa-
nia, la Puglia, la Sicilia. (Dati Eurostat 1992 - Quaderni Padani, n.2, Anno 2, Marzo-Aprile 1996)
(9) Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle
economie nazionali (Milano: Baldini&Castoldi, 1996), pag. 37
(10) ARCHEO, maggio 1996, pag.3
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
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Quaderni Padani - 11
Non è comunque indispensabile risalire fino
ai nostri avi Celti per trovare differenze fra Padania e Italia. Anzi, è proprio nel periodo successivo alla caduta di Roma che le differenze si
spostano dal campo etnico a quello socio-economico, con una ancor più evidente radicalizzazione della lontananza civile e culturale. Lo
ha recentemente spiegato lo storico Cipolla
sulle colonne de il Sole 24 Ore (11), dimostrando come sia impossibile avvicinare il Sud alla
Padania con i tipici strumenti di emergenza
predisposti dai vari governi. Secondo Cipolla,
al consolidarsi della società comunale nella
nostra terra è corrisposta una strutturazione
totalmente feudale e verticistica nel Meridione. Mentre nella Valle del Po si sviluppavano i
commerci e nascevano le istituzioni cittadine,
nel Sud i nascenti germi imprenditoriali venivano definitivamente schiacciati dalla potenza
dei signorotti feudali, la cui organizzazione
gerarchica dava vita a una economia chiusa e
non concorrenziale. Lo storico sostiene che tale
profonda differenza si sia perpetuata nei secoli, aggravandosi in seguito al rafforzamento dei
due opposti sistemi e finendo per influire sul
piano culturale. Oggi la mentalità mafiosa, noncontrattualistica e fondata sulla legge della forza coincide con il sistema socio-economico del
Mezzogiorno.
Nel Sud è cresciuta irreversibilmente “la società del privilegio”, in cui al privilegio del suddito di essere difeso dal signore corrisponde il
privilegio di quest’ultimo di avere dei sudditi.
Al contrario, in Padania è venuta evolvendosi
“la società del diritto”, fondata sulle libertà individuali, sulla cooperazione volontaria, sul rispetto per le istituzioni considerate come qualcosa di distinto da colui che le rappresenta,
proprio perché eletto dai cittadini e non scelto
dal precedente detentore del potere. Il sistema
sociale padano è il risultato di una serie di contrattazioni, in cui le posizioni dei cittadini vengono sempre rinegoziate, in cui il consenso è
parte essenziale per la buona riuscita delle azioni, così come la concorrenza ne è la garanzia.
In quest’ottica soltanto è possibile capire perché non cresca una classe imprenditoriale meridionale: non può esistere libero mercato (né
libera istituzione) laddove siano sconosciuti
concetti come contratto, concorrenza, libera
scelta, consenso volontario.
Gli argomenti sui quali ci siamo soffermati
sono probabilmente quelli di maggior peso per
comprendere le ragioni della distanza fra Pa10
12 - Quaderni Padani
dania e Italia. Tuttavia non va dimenticato che
molti altri esempi potrebbero essere addotti,
come dimostrano numerosi interventi già apparsi su questa rivista, e ai quali rimandiamo
per ulteriori approfondimenti.
Conclusioni
Qualche tempo fa un membro del Governo
italiano si è affrettato a dire che non ci può essere secessione della Padania perché la Padania non è un popolo. Noi non sappiamo se la
nostra terra si separerà dalla Repubblica Italiana. Saranno i cittadini a deciderlo. E sarà molto probabilmente l’economia a imporre una
scelta definitiva. Certo non accettiamo che il
discorso secessionista venga affrontato con toni
simili. Non esistono popoli, nel mondo occidentale, le cui caratteristiche siano tali da poterli definire e delimitare fino all’ultimo uomo.
I movimenti delle masse, le comunicazioni e i
linguaggi, gli scambi economici pressoché liberi hanno avvicinato e intrecciato le genti.
Pertanto, pretendere che i cittadini padani possano secedere solo dimostrando una loro presunta purezza (razziale?, linguistica?) è discorso da Rosemberg o da Preziosi. Tanto più che
non si capisce bene quale sia il messaggio subliminale che sta sotto all’affermazione “non esiste
un popolo padano”: ciò dovrebbe forse significare che i nostri concittadini sono schiavi trascinati in questa terra dal mare e dal vento, privi di
una propria cultura, di una comune visione della
società e delle istituzioni? Il ministro di Roma ha
voluto forse affermare che i padani sono uomini
senza tradizioni, gente buona per essere colonizzata e rieducata?
Come abbiamo scritto, le comunità politiche
della Padania sono titolari del diritto di secessione in quanto facoltà precostituzionale propria di
ogni cittadino e, per traslato, di ogni gruppo territoriale organizzato (12).
Inoltre, la Padania può dirsi ampiamente titolare di un diritto morale a secedere, fondato su
un argomento economico (redistribuzione discriminatoria, rischio di perdita del proprio status) e
su uno storico-culturale (divisione geopolitica,
differenza fra i sistemi sociali e, di conseguenza,
culturali).
(11) Carlo M. Cipolla, “Il caso Mezzogiorno? Colpa dei Normanni”, su il Sole 24 Ore del 01.05.96
(12) v. Alessandro Storti, “La secessione come facoltà prepolitica e diritto naturale”, su Quaderni Padani, n.3, Anno 2,
Gennaio-Febbraio 1996
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
La volontà di stare
con chi si vuole
di Gilberto Oneto
appiamo che alla base dell’esistenza stessa di ogni comunità umana ci deve essere
la volontà di aggregazione e che anche tutti gli altri elementi che ne possono favorire
l’unione (storia, geografia, lingua, cultura e anche le comuni origini etniche) finiscono per
contare ben poco se manca l’intenzione di stare assieme.
Tutti gli studiosi contemporanei insistono su
questo punto: quello che realmente importa di
una comunità (e che ne fa una comunità) non
è cosa è ma cosa crede di essere e quindi vuole
essere (1); in altre parole, “una nazione è un
insieme di persone che sentono di essere una
nazione” (2). L’essenza di una comunità è una
questione di autoconsapevolezza o di autocoscienza che trova nel principio di autodeterminazione il suo fondamento di legittimità politica.
Tutte le più moderne enunciazioni sui rapporti fra i popoli si basano sul riconoscimento
del diritto di autodeterminazione, dalla dottrina Wilson ai trattati di Helsinki (3).
S
Il comune sentimento di appartenenza e la
conseguente scelta di autodeterminazione riescono addirittura a superare tutti gli altri elementi un tempo ritenuti fondamentali per aggregare una comunità umana o per definire una
nazione (comuni origine etniche, storia, cultura, eccetera) che finiscono addirittura per
perdere di significato se non sono suffragati da
una libera espressione di volontà: la Confederazione Helvetica è uno degli esempi più evidenti di questa prevalenza dell’autocoscienza e
dell’autodeterminazione su ogni altro fattore.
All’Italia è mancato questo collante: l’obiettivo di “fare gli italiani” si è sempre scontrato
con la mancanza di una reale inclinazione e volontà da parte dei popoli che abitano la penisola italiana di “diventare italiani”. Centoquarantanni di unità non sono riusciti a generare una
autoconsapevolezza (nè una voglia di averne
una) che unisse le diverse comunità interessate in qualcosa di più di un entusiasmo effimero
per una vittoria calcistica. La coscienza e la
volontà dei vari popoli d’Italia di essere popolo
(1) Walker Connor, Etnonazionalismo. Quando e perché
emergono le nazioni (Bari: Edizioni Dedalo, 1995), pag.149.
L’espressione della propria volontà e il convincimento della
propria identità (anche se non suffragato da oggettivi riscontri
etnici o storici) costituiscono per Connor il solo vero elemento di formazione e di coesione delle “nazioni”.
(2) Rupert Emerson, From Empire to Nation (Boston,1960),
pag.102.
(3) La dottrina dell’autodeterminazione nasce con l’affermarsi
del principio della sovranità popolare, soprattutto con le rivoluzioni americana e francese.
L’apparizione ufficiale sulla scena politica internazionale del
moderno diritto di autodeterminazione avviene nel corso
della Prima Guerra mondiale. Essa è frutto delle enunciazioni sia di Lenin, con le sue Tesi sulla rivoluzione socialista e
sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione, che di quelle
del presidente statunitense Woodrow Wilson.
Nella Carta delle Nazioni Unite, firmata a San Francisco il 26
giugno 1945 (e in particolare agli articoli 1.2 e 55), il diritto
di autodeterminazione viene descritto come uno dei fini primari della organizzazione internazionale stessa: esso è pertanto da ritenersi jus cogens per tutti gli stati membri dell’Onu.
Nella Dichiarazione dei Princìpi delle Relazioni Amichevoli,
approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1970 si legge: “Tutti i popoli hanno il diritto di determinare, senza interferenza esterna, il proprio status politico e di perseguire
il proprio sviluppo economico, sociale e culturale, ed ogni
Stato ha il dovere di rispettare questo diritto in accordo con
le clausole della Carta”, (..) “La creazione di uno stato sovrano ed indipendente, la libera associazione o integrazione con uno Stato indipendente o il passaggio ad ogni altro
status politico liberamente determinato da un popolo costituiscono modalità di attuare il diritto di autodeterminazione da parte di quel popolo”.
L’universalità del principio di autodecisione ha trovato nuova enunciazione nell’Atto Finale della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa del 1975 (Atto di Helsinki),
ove si legge, nella “Dichiarazione sui Principi che reggono le
relazioni fra gli stati partecipanti”: “In virtù del principio
dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei
popoli, tutti i popoli hanno sempre diritto, in piena libertà,
di stabilire quando e come desiderano il loro regime politico
interno ed esterno senza ingerenza esterna, e di perseguire
come desiderano il loro sviluppo politico, economico, sociale e culturale”.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Quaderni Padani - 11
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non è infatti quasi mai andata al di là di una
occasione sportiva (4).
L’unità d’Italia non è stata il risultato di un libero processo di autodeterminazione (5) e l’italianità non è entrata nel bagaglio culturale della
gente né nelle sue aspirazioni. A creare un pur
vago sentimento di italianità non bastano la retorica melensa di De Amicis, le adunate degli alpini, qualche cimitero o le banalità scolastiche
che hanno annoiato generazioni di cittadini, dai
sillabari fascisti a quelli repubblicani. Né servono il Codice Rocco o l’oratoria tronfia di certi
politici.
Oggi si riscopre il valore dell’unità perché in
pericolo non è tanto l’unita (di cui in realtà non
importa a nessuno) ma i privilegi grandi e piccoli
e molto diffusi che sono legati all’unità o che si
crede (o si vuol fare credere) che siano ad essa
legati. Samuel Johnson diceva che “il patriottismo è l’ultima difesa dei mascalzoni” (“Patriotism is the last refuge of a scoundrel”) e oggi si
hanno valanghe di esempi quotidiani di quanto
giusta fosse quell’analisi: uomini pubblici (orfani della DC e del PCI, ma non solo) che hanno
sempre bollato come fascista l’idea stessa di patria, oggi se ne riempiono la bocca, ci nascondono dietro le loro paure e le loro malefatte. La bandiera tricolore (che solo alcuni decenni addietro
veniva bruciata e che si vedeva solo alle manifestazioni missine) (6) viene ora sventolata in ogni
occasione con un entusiasmo che non può non
essere sospetto. Oggi sono tutti patrioti, oggi si
farebbero tricolori anche i pannolini dei bambini: si pensi a quanti tricolori erano presenti sui
simboli elettorali alle ultime elezioni. Anche più
di quante falci e martello c’erano venti-venticinque anni fa.
Dietro tutto questo patriottismo si nascondono i peggiori interessi. Sembra quasi essere l’ineluttabile destino dell’Italia quello di fare da paravento ai più loschi interessi: nata per mene mas-
soniche e anticlericali, per le aspirazioni eccessive di una dinastia frustrata, per dare uno sfogo
coloniale al nascente capitalismo settentrionale,
essa ha continuato la sua storia fra profitti di guerra e sanguinosi arricchimenti, e ora sopravvive
per difendere i piccoli privilegi di milioni di nullafacenti e di assistiti senza merito loro concessi
da una classe politica parassitaria che su questo
consenso clientelare basa il suo potere e che ora
canta il suo entusiastico e ritrovato patriottismo.
In realtà, sotto le pennellate di vernice tricolore periodicamente rinfrescate, gli abitanti di questo paese sono sempre rimasti saldamente legati
alle loro piccole patrie: sono sempre occitani, siciliani o triestini, sono strettamente connessi con
le strutture organiche delle comunità locali di cui
fanno parte.
Tutto questo è stato ed è soprattutto vero in
Padania, dove la dimensione del riconoscimento
delle valenze comunitarie è addirittura geograficamente più limitata, dove le piccole patrie sono
ancora più piccole. In Meridione o in altre parti
d’Europa il sentimento di autocoscienza comunitaria (se c’è) investe primariamente aree vaste
come la regione o la macroregione mentre qui
esso continua a riferirsi - ancora una volta - essenzialmente alla dimensione delle antiche tribù
dei Celti, dei Liguri e dei Veneti che hanno fatto
questo paese tanto tempo fa.
Tutto questo è perfettamente leggibile nel comportamento quotidiano, sia in positivo (l’orgoglio
e l’amore per il proprio paese, il pingue sbocciare
di iniziative culturali locali, di musei, di pubblicazioni, eccetera) che in negativo (certo campanilismo deteriore, il tifo da stadio) e ha indubbiamente avuto una sua connotazione politica ed
elettorale.
Questa inclinazione all’autonomia dei Padani
si è estrinsecata sia nelle strutture elettorali “nazionali” che in quelle localiste e autonomiste.
Nelle prime, le peculiarità padane hanno fatto
(4) La sintomatica identificazione del “patriottismo calcistico” con il patriottismo tout court viene sempre più spesso
proposta dai più decisi difensori dell’unità in assenza di argomentazioni più serie. È infatti ricorrente il lamento-minaccia rivolto ai cittadini-tifosi di una Nazionale resa più
debole da separazioni geografiche. Il tema è moralmente
meschino, politicamente squallido e anche “calcisticamente” inconsistente: la Gran Bretagna ha quattro squadre nazionali..
(5) Quella dei Plebisciti è stata la più tragica farsa escogitata
dagli unitaristi per farsi beffe della volontà popolare. Le elezioni erano prive di ogni più elementare forma di segretezza
(venivano usate schede di colore diverso per le diverse risposte), erano riservate solo a una parte della popolazione e han-
no fatto seguito ad una inaudita sequela di violenze e intimidazioni.
I risultati sono eloquenti e fanno impallidire qualsiasi elezione “bulgara”: nelle Province Meridionali i sì sono stati
1.302.064 contro 10.312 no; in Sicilia 432.053 contro 66 e
nel Veneto 647.246 contro 69!
Si veda: Alessandro Porro, “Fu vero plebiscito?”, su Etnie, n.
9, 1985, pagg. 26 ÷ 28.
(6) Per la verità, il tricolore era in qualche modo “passato di
moda” anche presso larghe frange dell’estrema destra “tradizionalista” che avevano ripudiato i temi patriottardi e risorgimentalisti del MSI e adottato simboli e cromìe diverse
tratti dalla storia lontana e recente della controrivoluzione
europea.
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14 - Quaderni Padani
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
nascere il primo fascismo (quello efficientista
e strapaesano), la resistenza, la sinistra democristiana e l’efficienza
amministrativa (e di fatto ampiamente autonomista) del comunismo
emiliano.
Le seconde sono un
prodotto tipicamente
padano: oltre alla Padania infatti, solo la Sardegna e - in piccola parte - la Toscana e la Sicilia hanno saputo esprimere con coerenza del- Manifestazione dell'Asar a Trento nel 1945
le strutture partitiche autonomiste (7).
dosi come il partito di raccolta etnica dei tirolesi.
In verità, fenomeni autonomisti non sono mai Altri partiti minori locali sono stati il Tiroler Hemancati in Padania fin dall’unità: lo “Stato di imatpartei (1964), il Soziale Fortschrittspartei
Milano” propugnato nel 1895 dai repubblicani Südtirols (1966) e l’attuale Union fur Südtirol (10).
federalisti lombardi (8) e le tendenze fortemente
Nel Trentino, l’autonomismo si è espresso pofederaliste di Turati (ma anche di Gramsci) non liticamente fin dal 1945 con l’ASAR (Associaziosono che gli esempi più noti e le manifestazioni ne Studi Autonomistici Regionali) che è arrivata
politicamente più “nobili” di una diffusa insoffe- a contare 65.000 aderenti; la sua eredità è stata
renza anti-unitaria (e anti-italiana) da sempre raccolta nel 1948 dal PPTT (Partito Popolare
presente in tutto il Nord (9).
Trentino Tirolese) e poi dallo UATT (Unione AuQuesto senso di identità, compresso da un cen- tonomista Trentino Tirolese) che si sono nel 1988
tralismo opprimente e continuamente colpevo- fusi nel PATT (Partito Autonomista Trentino Tilizzato come “egoista”, ha fatto molta fatica a tra- rolese) (11). Nel 1946 era anche sorto anche un
sformarsi in compiuta espressione politica ma - Movimento Separatista del Trentino.
In Friuli nasce subito dopo la seconda guerra il
sia pur per stadi faticosi - alla fine ce l’ha fatta.
Le prime aree che si sono conquistate una con- MAF (Movimento Autonomista Friulano), diventinuità di espressività politica sono state il Sudti- tato più tardi il Movimento Friuli; a Trieste venrolo e la Valle d’Aosta, facilitate dalla possibilità gono formati nel 1945 il Fronte per l’Indipendendi trovare appoggi presso paesi stranieri sodali.
za del Libero Stato Giuliano (poi diventato MoSoprattutto la SVP (Südtiroler Volkspartei), vimento Indipendentista del Territorio Libero di
fondata nel 1945 sull’eredità della Deutsche Ver- Trieste) e l’Unione Triestina, e - in anni assai più
band del primo dopoguerra, ha sempre domina- recenti - nascono il famoso Melone e il Movimento
to con chiarezza la scena elettorale locale ponen- Indipendentista Triestino. Le comunità slovene
(7) Nel resto d’Italia sono esistiti movimenti autonomisti solo
in Sicilia, Sardegna ed Etruria.
In Sardegna la presenza di forze autonomiste è più radicata
e si avvale di una lunghissima tradizione risalente al primo
dopoguerra; in Sicilia la sua vitalità (pur godendo di una
antica tradizione) è compromessa dall’ingerenza di una forte criminalità organizzata e dal legame con l’assistenzialismo centralista che tutto compra e corrompe.
Assai meno marcato è il senso di autonomia delle regioni
dell’Etruria. Solo nella Toscana storica si ritrovano vitali
espressioni di indipendentismo; nelle altre regioni sembra
che la lunga sudditanza papalina abbia smorzato ogni idea di
autonomia sostituendola con un ribellismo politico sfruttato dai partiti di sinistra. Qui (come in Romagna e, in parte,
anche in Emilia) l’affermazione della propria diversità è interAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
pretata soprattutto come differenza politica che si è espressa in
una autonomia di fatto, organizzata dal Partito Comunista.
(8) Per gli eventi legati al movimento per lo “Stato di Milano”, si vedano: Claudia Petraccone (a cura di), Federalismo e
autonomia in Italia dall’unità ad oggi (Bari: Laterza, 1995),
pagg. 101 ÷ 114, e Aurelio Lepre, Italia addio? Unità e disunità dal 1860 a oggi (Milano: Mondadori, 1994), pagg. 78 ÷ 81.
(9) Turati fu considerato un “settentrionalista meneghino”.
Si veda, a proposito del suo antimeridionalismo: Aurelio Lepre, op. cit., pagg. 81 ÷ 84.
(10) Le vicende dei movimenti politici Sudtirolesi sono ampiamente esaminate da: Claus Gatterer, In lotta contro Roma
(Bolzano: Praxis 3, 1994).
(11) Stefano B. Galli, “1945 ÷ 48: La meteora dell’ASAR scuote il Trentino”, su Etnie, n. 14, 1988, pagg. 6 ÷ 14.
Quaderni Padani -13
15
In Piemonte è nato negli
anni ’50 il MARP (Movimento Autonomista Regionale
Piemontese, giunto ad avere fino a 70.000 voti) che ha
avuto filiazioni lombarde
(dove la P stava per Padano)
e lunga vita, fino ad essere
sostituito alla fine degli anni
’70 dall’Union Piemontèisa,
poi da Piemônt e da Piemônt
Autonomista (1987) (13). In
Liguria sono comparsi
l’Uniun Ligure (1988) e il
Circolo Culturale Indipendentista.
Nel Veneto nasce nel 1979
la Liga Veneta che riscuote
un discreto successo elettorale alle politiche del 1983
Una recente manifestazione padanista. (foto Chioccia)
(due parlamentari eletti) e
si organizzano nella Unione Slovena - Slovenska costituisce il più sicuro riferimento dei movimenti autonomisti dell’ultima generazione. In seguiSkupnost.
Nella Padania occidentale, il primo movimen- to viene fondata anche l’Union del Popolo Veneto autonomista è nato nel 1921 nell’Astigiano: il to.
Nel 1984 viene ufficialmente fondata la Lega
Partito dei Contadini che ha eletto un deputato
nel ’21 e quattro nel 1924 estendendo la sua in- Autonomista Lombarda (in realtà “operativa” già
fluenza anche in Liguria e Lombardia. Dopo la da un paio di anni), poi trasformata in Lega Lomguerra, ha riconquistato un deputato nel 1946 e barda, che nel 1987 manda a Roma due parlanel 1948 e buoni risultati soprattutto nel Piemon- mentari (14).
te meridionale e in Valtellina. Il partito ha esauNel 1991 a Pieve Emanuele, i principali movimenti autonomisti regionali padani (prima solo
rito la sua vita attorno al 1970 (12).
Il movimento dominante dell’autonomia arpi- coordinati nell’Alleanza Nord) si uniscono per
tana è sempre stato l’Union Valdôtaine (fondata dare vita alla Lega Nord che per la prima volta
nel 1943 sulla tradizione della Ligue Valdôtaine costituisce un forte movimento autonomista unipour la protection de la langue française, del tario di tutta la Padania. In realtà c’erano già sta1909), mai veramante disturbato dalla Ligue des ti alcuni meno fortunati tentativi di dare struttuCampagnards, dalla Union Démocratique, dal ra politica alle mai sopite aspirazioni di “padaniRassemblement Valdôtaine (1966) o dall’Union tà” e di autonomia della Padania, intesa come
Autonomiste.
unità comunitaria: nel 1959 era stato fondato un
Nelle valli alpine si sono affiancati in tempi di- Movimento Autonomista Padano, nel 1967 era
versi alla fortissima Union Valdôtaine (che ha stata creata a Trento dagli autonomisti trentini
avuto anche una funzione fondamentale nel dif- del PPTT e da delegazioni proveniemti da Milafondere le idee autonomiste in tutta la Padania, no, Genova, Brescia, Bergamo, Trieste e dal Friupresentandosi alle elezioni europee del 1982) il li la UAI (Unione Autonomisti Italiani) che aveva
MAO (Mouvument Autounoumisto Ouccitan), sede a Milano, e alle elezioni del 1971 si era prel’UOPA (Unione Ossolana Per l’Autonomia, 1978), sentato in numerosi collegi l’ALP (Movimento Aula Lega Lepontina, l’UNOLPA (Unione Nord Oc- tonomista Libera Padania) (15).
cidentale dei Laghi Prealpini) e altre formazioni
Tutti questi movimenti politici e il crescente
locali nel Varesotto e nella Bergamasca.
consenso che si stà formando attorno all’organiz(12) Gustavo Buratti, “Il Partito dei contadini”, su Etnie, n.
11, 1986, pagg. 49 ÷ 51.
(13) Roberto Gremmo, Contro Roma (Aosta, 1992), pagg.18 ÷ 23.
14
16 - Quaderni Padani
(14) Umberto Bossi, Vento dal Nord. La mia Lega la mia vita
(Milano: Sperling & Kupfer Editori, 1992), pagg. 38 ÷ 49.
(15) Claus Gatterer, op. cit., pag. 1536.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
zazione politica che ne ha raccolto l’eredità e riunito le aspirazioni testimoniano della volontà dei popoli padano-alpini di
dare concretezza politica alle
loro aspirazioni e alla loro identità comunitaria.
Se alla base di ogni aggregazione sociale ci sono la volontà
di esprimere identificazione e
l’autodeterminazione, queste
vengono oggi espresse con
estrema chiarezza dai padani
attraverso la propria scelta elettorale che segue un trend sottolineato anche dalle più serie
inchieste d’opinione.
Da un sondaggio eseguito nel
gennaio 1996 dalla rivista Limes
risulta che il 23,2% dei cittadini padani (con l’esclusione degli emiliani) ritiene l’indipendenza della Padania “una prospettiva vantaggiosa ed auspicabile” e che il 29,2% la crede “una
prospettiva vantaggiosa sul piano concreto, ma inaccettabile”.
Complessivamente il 52,4% dei
padani concorda sui vantaggi
Tavola 1. Aree di influenza e di maggiore intensità operativa dei
dell’indipendenza (16).
Appena tre mesi dopo (alle ele- movimenti autonomisti
zioni politiche del 21 aprile) il 26,4% dei cittadi- una comunità padana unita.
ni delle stesse regioni oggetto della precedente
Il 22,3% di Limes è diventato il 26,4% in tre
indagine ha poi votato per partiti fortemente au- mesi e sarà probabilmente molto di più quando
tonomisti e, in particolare, per la Lega Nord questo numero dei Quaderni verrà pubblicato:
(24,8%) che ha impostato la sua campagna elet- tutto lascia pensare che quel 29,2% di dubbiosi
torale su un chiaro programma indipendentista. (ma anche parte di chi riteneva l’indipendenza
Questo significa che l’attitudine dei padani si “inaccettabile”) si stia rapidamente convincendo
stà rapidissimamente evolvendo verso la richie- della bontà del proprio riconoscersi padano, in
sta di un chiaro riconoscimento istituzionale delle un processo di liberazione più psicologico che poproprie aspirazioni identitarie, che essi si stanno litico.
liberando da tutte le incrostazioni psicologiche
Se si segnano su di una carta (Tav.1) le aree di
con cui il condizionamento propagandistico ita- influenza e l’intensità operativa dei vari movimenlocentrico li ha ingabbiati per un secolo e mezzo. ti autonomisti del dopoguerra, si mettono in eviNon servono più le blandizie sentimentali di un denza le regioni a più forte vocazione anti-cenpatriottismo vuoto e stucchevole, non servono i tralista e si ha anche una base su cui poter ipotizricatti morali di una finta solidarietà né le accuse zare un possibile schema di organizzazione di una
di egoismo, e non bastano più neppure le sempre futura federazione italiana formata da Padania,
meno velate minacce di ricorso alla forza per trat- Tirolo, Etruria, Sardegna e Sicilia, oltre che natenere una evidente manifestazione di volontà po- turalmente dall’Italia più propriamente detta.
polare che si esprime per una forte autonomia di
La particolare ricchezza delle manifestazioni di
autonomia politica padana testimonia una volta
(16) Ilvo Diamanti, “Il Nord senza Italia?”, su Limes, n.1, 1996, di più la vera vocazione istituzionale dell’area, la
più autentica essenza della Comunità padana bapagg. 15 ÷ 30.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Quaderni Padani -15
17
sata sulla libera e paritetica associazione di tante diversità che
hanno bisogno di essere unite
per poter continuare a difendere e affermare le proprie autonomie e le proprie libertà, sulla
falsariga del vicino modello svizzero.
La storia ci mostra da sempre
che la Padania è grande, forte e
prospera quando è unita (o strettamente organizzata in una federazione anche temporanea) e
che - quando invece è divisa - è
perdente ed esposta a dominazioni foreste.
Non è un caso che i suoi nemici (proprio come i Romani di
2000 anni fa) tentino oggi di inventarsi e di fomentare divisioni artificiose al suo interno.
Questa idea di “unione di diversità” costituisce invece oggi
l’elemento più forte e determinante della sua nuova ricerca di
identità: i popoli padano-alpini
si stanno costruendo un paese
dalle forti autonomie interne,
con entità organiche di dimensioni diverse ma rispondenti alle
più vere realtà territoriali, ma
fortemente unito per difendere
la propria indipendenza e le proprie comunanze dalle maggiori
diversità con l’esterno.
La dimensione della Padania
sembra poi essere perfetta (in
termini geografici, ma anche demografici ed economici) anche
per affrontare il suo futuro destino, per entrare in Europa
come protagonista (riprendendo
un ruolo antichissimo) e per Tavola 2. I risultati dei vari movimenti autonomisti alle ultime
avere una misura produttiva, elezioni politiche
amministrativa ed economica
adeguata al mondo moderno e alla globalizzazio- tiche (Tav.2) fornisce una interessante visione
ne dei mercati.
d’assieme del senso di autocoscienza che si stà
Questa è l’idea che i popoli padani si stanno fa- sviluppando nelle varie identità accorpate all’Itacendo del proprio paese, questo è quello che vo- lia: ad ogni tornata elettorale, essa tende sempre
gliono che sia.
più a somigliare alla carta delle realtà etno-naQuesta è la versione contemporanea dell’iden- zionali e a delineare la carta del nuovo assetto
tità padana.
geopolitico federale della penisola.
Anche la carta che evidenzia i risultati dei vari
È la fisicizzazione della volontà popolare. Fimovimenti autonomisti alle ultime elezioni poli- nalmente.
16
18 - Quaderni Padani
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Alcuni interessanti aspetti
di Stato e Legge Longobarda
Le scelte degli avi ci influenzano tuttora
e sono modello di autodeterminazione
di Alberto Fossati
Presentazione
Inizia con questo commento l’introduzione
del primo di una serie di saggi su una eredità
storica, umana, civile e giuridica unica al mondo.
Mi riferisco a quella dei padri Longobardi ai
quali dobbiamo l’inestinguibile anelito alla Libertà, la misura umana della storia, il senso
più profondo dell’autogoverno, la fondazione
del Comune come unità di governo basata sul
principio di sussidiarietà (pensate che questo
principio fu introdotto ben sei secoli prima
della tanto conclamata Magna Charta!), la
elettività e la temporaneità delle cariche pubbliche, ivi comprese quella della monarchia.
La storia, quella vera del faticoso e fatale incedere verso il progresso materiale, morale e
spirituale, è invariabilmente l’epopea dello
schiavo che combatte per riconquistare la propria condizione di uomo padrone dei propri
destini e tuttavia essa è spesso impedita, occlusa, arrestata - anche se temporaneamente
- dalle sconfitte.
Quella dei Longobardi fu un’avventura storica di giganti che nel solo volgere di tre secoli
dalla condizione di prostrazione nelle gelide
pianure della Scandia, attraverso un’interminabile odissea nel cuore dell’Europa miserevole ed ostile del loro tempo (al cui confronto
l’affascinante e leggendario scrutare degli argonauti alla ricerca del vello d’oro può sembrare un semplice incedere lungo un sentiero
di campagna), li portò a diventare protagonisti assoluti e determinanti del risveglio dell'Europa.
Prima di portare il loro contributo a quel risveglio, i nostri padri trovarono nella Padania
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
la loro nuova Patria nell’incontro con i Celti
parzialmente romanizzati.
Qui venne il tempo di costruire quella immane opera unificatrice che fu il regno Longobardo, le cui Istituzioni avrebbero sfidato il
tempo e la fatale sconfitta Franca. Imperiture
esse sono giunte a noi come il più prezioso dei
doni dei nostri padri ancestrali.
Un’altra potenza stava però raccogliendo
l’eredità dell'imperialismo sconfitto e di nuovo Roma ricominciò a tessere la sua tela contro il libero spirito dei nostri padri: la sua alleanza con i Franchi, ormai piagati nell’anima
e plagiati nella mente, risultò mortale con la
completa sconfitta materiale dei Longobardi.
Dunque - oggi - spetta a noi lontani pronipoti, riprendere quel cammino interrotto, su
di noi incombe l’incalzante compito di rimettere in moto la storia, la storia di Europa, così
come Athena la scaturì dalla mente e dal cuore di Zeus, così come Pericle la immaginò nell’Agorà ateniese così come il celtico Artù la
sancì di fronte ai cavalieri della tavola rotonda e così come, infine, fu scolpita nell’editto di
Rotari e nel codice di Liutprando.
Come si vede si tratta di questioni assai affascinanti e ancor più cruciali per la costruzione del nostro futuro e di quello assai più
importante dell’Europa del terzo millennio,
poiché il risveglio alle nostre coscienze deve
porre la seguente fondamentale questione ai
nostri fratelli europei, a coloro cioè che sono
eredi di quella costruzione longobarda di libertà, interrotta dal dispotismo e dalla tirannide
franca: nel perenne contendere tra Legge e
volontà popolare, le Istituzioni di governo debbono basarsi sugli statuti di potere garantiti
Quaderni Padani -17
19
dalla libertà e dagli inalienabili diritti dei popoli (cosi come i nostri padri Longobardi ci
hanno indicato nell’editto di Rotari), oppure
quelle Istituzioni dovranno continuare soggiacere ad un governo icui gli statuti saranno
garantiti da un potere la cui anima risponde
all’ontologia della diversità di Aquino e non già
a quella del popolo?
È in altri termini l’Europa franca del potere
immutabile garantito dalla legge che continuerà a prostrare la storia, oppure è tempo che
l’Europa longobarda riprenda il suo cammino
di libertà ricostruendo istituzioni di governo
garantite dalla autodeterminazione della volontà popolare?
Vi invito a leggere con grande attenzione il
saggio di Alberto Fossati, che ho personalmente apprezzato per la chiarezza delle tesi.
Qui siamo proprio nel cuore della Longobardia giuridica ed amministrativa. Apprezzatene la completezza di architettura, tuttora attualissima nonostante i suoi quasi 1500 anni
di vita.
Rivolgo un invito ad Alberto Fossati affinché prosegua nei suoi studi e nelle sue ricerche. Lui e molti altri padani, possono ricostruire le origini della nostra identitità culturale che, se rimane celtica nel corpo e nell’anima, è indiscutibilmente longobarda nella mente e nelle norme di vita individuale e collettiva.
Aldo Moltifiori
L
sogno di regole semplici e flessibili, per vivere,
onde costituire il quadro di disciplina morale
necessario per lo sviluppo.
Con questo, non si vogliono, né si debbono
nobilitare le feroci gesta tipiche dei periodi di
conquista. La fase Longobarda di conquista durò
un trentennio, dal 555 al 585, ed in tale periodo
la baldanza guerriera dei longobardi servì a contenere l’espansione degli Unni. Si vuole solo chiarire come, terminata la conquista del Centro-Nord
d’Italia, essi crearono ed organizzarono il Regno
Longobardo, costituito dai territori Padani, dalla
Tuscia, dal Ducato di Spoleto (Marche-Abruzzo)
e dal Ducato di Benevento (Zona Appenninica,
dall’odierno Molise alla Lucania). Allora, il Papato ed i Bizantini tennero le coste Centro-meridionali, la Romagna, Bologna e molta dell’Umbria attuale.
I Longobardi furono un popolo seminomade
(circa 250.000 persone) che arrivò nella pianura
padana, estendendo poi la propria influenza sulla
penisola italica, ed adattò la struttura militare
dell’insieme di famiglie combattenti, al reticolo
di città e paesi occupati.
La formazione dello Stato Longobardo richiese circa 60 anni (attorno al 620 d.C. ad opera dei
re: Autari, Agilulfo e Rotari) dall’occupazione della
penisola e trovò compimento con l’emanazione
dell’Editto di Rotari, dopo la conquista della Liguria ai Bizantini da parte di questo Re (643 D.C.).
L’Editto di Rotari (388 articoli) dettava norme
di “diritto pubblico”, “diritto privato” e “di famiglia”.
Continuarono poi le guerre per la conquista
dell’intera penisola, fintantoché il Papato (e Bi-
a storiografia ufficiale ed in particolare il Fascismo, hanno operato una quasi completa
rimozione del fondamentale apporto, da parte del Popolo Longobardo, alla Storia ed allo sviluppo della democrazia nella Penisola. Questo
perché si voleva stabilire una inesistente continuità “imperiale” del Paese, sia perché la cultura
laica e libertaria di quel popolo germanico contrastava e contrasta con il verticismo e l’ideologizzazione sin qui imperanti nel Paese.
Non è solo un discorso di tipo culturale; alcuni
aspetti della legge Longobarda, adattati ai nostri
tempi, potrebbero essere una chiave originale per
affrontare problemi come l’efficienza economica
nella compatibilità ecologica, della democratizzazione sociale, della semplificazione della vita
dei cittadini, delle droghe, del federalismo, della
trasformazione in economie di servizi ...
Infatti, il primo diritto Longobardo era democratico e flessibile (per i tempi) e pertanto inadatto alle concezioni romano-bizantine della “volontà sovrana”, queste ultime oggi inadatte. Concezioni che ebbero affermazione grazie alla Scuola
giuridica di Bologna, che sopravanzò quella di
Pavia - anche per via del disfacimento del regno
Longo-Franco d’Italia, grazie alla secolare opera
del Papato che metteva l’uno contro l’altro i Nobili Longo-Franchi.
La mentalità della “volontà sovrana” raggiunse
il massimo con l’approccio illuministico francese (ed in seguito con gli stati di polizia “rossi” o
“neri”). Infatti per Napoleone, “l’unico modo per
sottrarsi all’arbitrio del Giudice è quello di porsi
sotto il dispotismo della Legge”, idea che tuttora
permea l’Europa. La gente comune ha invece bi18
20 - Quaderni Padani
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
sanzio) non arrivò ad allearsi con i Franchi di
Carlo Magno, i quali nel 778 dopo la sconfitta di
Re Desiderio, sostituirono il Governo Longobardo con propri uomini che impiegarono gran parte della struttura e Leggi longobarde, ma avviarono un inesorabile processo di frammentazione
e feudalizzazione d’un Regno unitario.
I princìpi
Il primo Regno Longobardo si basò soprattutto
su tre concetti giuridici d’ampio interesse: lo Stato-Assemblea dei Liberi Armati (con Re elettivo),
il Mundio, il Guidrigildo. Erano poi previsti due
soli casi di pena di morte: in caso di Faida o Tradimento (ed assimilabili). Però, vi erano una serie di casi in cui si dava modo alla gente di farsi
giustizia da soli, anche se con un rituale: i duelli
giudiziari, a cui si poteva delegare il più “grosso”
parente della famiglia (o Fara).
Il Mundio fu il grado di capacità di movimento,
proprietà, compimento di negozi giuridici, ovvero: si poteva essere “Selpmund”, “con Munduald”,
“Aldio” oppure schiavo. Attualmente, in tedesco,
“Mundig” indica il maggiorenne. Fu “Selpmund”
chi ebbe “in sui potestatem arbitrium”, ovvero,
in italiano, chi ebbe autodeterminazione (in tedesco odierno “Selbstbestimmung”). Aldio era chi
per nascita non longobarda (sino al 750) o per
aver commesso crimini non potè avere completa
autodeterminazione e, ad esempio, dovette lavorare un deteminato fondo o necessitò della presenza in giudizio del suo “Munduald”.
Le donne, i minorenni ed i malati, anche se
dotati di libertà di movimento, furono sotto la
rappresentanza giuridica e protezione del Capofamiglia. I minori abbandonati, le donne senza
capofamiglia, i vecchi senza figli, ebbero come
“Munduald” il Re (ovvero il suo Gastaldo, od il
Duca, nelle Città).
Il Mundio implica che tutto lo stato, cioè il comportamento e la situazione fisica, d’una qualsiasi
persona, vanno ad influire sul suo stato giuridico.
Il separare l’autodeterminazione dalla semplice maggiore età, ovvero creare diversi livelli d’autodeterminazione a seconda dello stato morale e
fisico, potrebbe creare un quadro di riferimento
unitario per la “rimozione della patria potestà”,
le “misure alternative alla detenzione”, le “comunità terapeutiche” o per creare riti accelerati laddove non si vadano ad imporre pene detentive,
che dovrebbero essere molto meno diffuse e più
brevi .
Soprattutto, in un’economia di servizi, ove la
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
“parola” diventa fondamentale rispetto alla consegna dei materiali, il bloccare la capacità di
compiere determinati atti giuridici per 10 anni
(ad esempio essere Socio) può essere pena più
grave di qualche mese di galera con la condizionale.
Il Guidrigildo era una composizione predefinita per l’“inimicizia” che il reato creava verso i
danneggiati od il Re. Ad esempio la composizione per l’insulto fu di 12 soldi (circa il valore d’un
cavallo e comunque dovuta, a meno che l’insultante non sfidasse l’insultato in Giudizio di Dio);
per l’uxoricidio fu di 1200 Soldi (quindi, l’uxoricida diventava di solito schiavo, per insolvenza,
della Fara della moglie, purché i parenti non avessero “anticipato” l’azione giudiziaria).
Il concetto di guidrigildo sarebbe alquanto utile per i problemi del risarcimento dei danni, in
particolare biologico-ambientali, semplificando
enormemente anche tutta la problematica assicurativa. Non dimentichiamoci che il concetto di
Responsabilità Civile romano-bizantino favorisce
le piccole truffe ripetute e crea un contenzioso
enorme per i grandi danni; infatti, la Responsabilità civile è potenzialmente illimitata in valore
mentre i beni personali dei rei e le polizze hanno
comunque un limite. Ad esempio, si potrebbe stabilire con precisi criteri, che il rimborso per danni a persone e loro cose mobili vada da 250 a
250.000 ECU. Se poi il danneggiante fosse insolvente, oppure i danni fossero obiettivamente gravi, si potrebbero introdurre anche per i casi colposi limitazioni al mundio, come divieti di espatrio, divieti di possesso, etc. Tra l’altro, per Rotari, uno che spaccia droga e poi uccide i suoi concorrenti e/o chi non lo paghi, dovrebbe pagare ad
ogni famiglia che avesse perso figli, un guidrigildo pari a 75 cavalli e poi essere giustiziato per
Faida. Non ci sarebbe da faticare per stabilire se
uno sia mafioso: basterebbe provare la pianificazione da parte sua di almeno 3 atti omicidi...
Infine, per i Longobardi, lo Stato, originariamente era, e virtualmente non cessava mai d’essere, l’unione di tutti i liberi atti alle armi, gli
Arimanni, la cui volontà si espresse nelle Assemblee Generali dell’Esercito-Stato convocate ogni
marzo a Pavia, Assemblee (anche locali, per gli
affari dei singoli ducati) la cui Volontà fu fonte di
tutti i poteri, quello sovrano compreso.
Infatti, anche se solitamente vi fu parentela tra
Re consecutivi, anche la successione regale padre-figlio dovette essere sanzionata dall’“alzata di
spade” in Assemblea. Lo stesso Editto di Rotari
fu approvato da una di dette Assemblee.
Quaderni Padani -19
21
Il Re fu capo del Potere giudiziario, dell’Esercito e dispose del Demanio regio e delle sue entrate “di giustizia”, però in ogni città ci fu la locale Assemblea degli Arimanni, grado sociale a
cui furono in seguito elevati tutti i possidenti in
grado di fornire cavalli e armi all’esercito, senza
distinzione tra Germanici e Celto-romanici.
Tali Assemblee furono l’embrione del Libero
Comune. Infatti, dove ci furono forti nuclei Longobardi si crearono liberi Comuni (comprese
Benevento ed Amalfi) mentre, ad esempio negli
Stati Pontifici o dove la Baronia Normanna potè
spadroneggiare, non vi fu tale democratica evoluzione.
Oltre che a costituire un’embrione di democrazia, l’esempio dello Stato-Assemblea è tuttora in
vigore nella realtà elvetica. Poi, lo sviluppo della
cultura media, consentirebbe di creare un’elezione diretta non solo delle cariche di governo locale, ma anche di quelle di tipo giudiziario, che sarebbero così poste, in presenza d’una stampa abbastanza libera, sotto il migliore controllo qualitativo. La chiave di volta è una lettura coordinata
degli art. 1, 29, 16 c.1,7, 8 della Dichiarazione
Onu sui diritti dell’uomo del 1948. Inoltre, i Paesi con il più elevato livello etico o federale mantengono una struttura militare ancora basata in
tutto od in parte sulla milizia continuata o sulle
Guardie Nazionali.
Struttura
Per semplicità, illustriamo la struttura del Ducato di Benevento ai primi del VIII secolo, un territorio la cui struttura politica fu la più lineare
essendovi stato un solo conquistatore, Zotan, nel
571. Il Ducato Longobardo di Benevento, il cui
territorio era base anti-bizantina, venne retto da
un Duca (od Herzog) indicato dalla Corte di Pavia. Esso era diviso in 32 Gau (Gau o Gastaldato
di Lucania, Salerno, etc...).
All’interno di ogni Gau, vi fu come autorità giudiziaria e militare il Gastaldo, nominato per periodi quinquennali dal Duca; il Gastado ebbe dei
vice, i cosiddetti Sculdasci. Innanzitutto, il Gastaldo doveva raccogliere i singoli fanti e cavalieri residenti nel suo Gau per l’annuale assemblea
- rivista delle truppe. Il Gastaldo dovette inoltre
curare che le strade rimanessero praticabili. Presso ogni Gau, poi, vi erano dei notai presso cui si
registravano le donazioni, le vendite, i testamenti e le doti alle famiglie delle Spose.
Poi, una buona parte delle terre e villaggi di
ogni Gau fecero parte delle proprietà del demanio reale o ducale, mentre la restante parte, an20
22 - Quaderni Padani
che la metà, fu di proprietà di singole famiglie di
guerrieri, oppure di antichi proprietari.
Terre i cui coltivatori erano Aldii o Schiavi solitamente di stirpe italica (ma non mancavano i
Longobardi decaduti). Il Gastaldo, tramite gli
Sculdasci, percepì parte dei Guidrigildi pagati nel
Gau di competenza, oppure i dazi e diritti di Piazza
(la Tosap del Medioevo), oppure la rendita del “tertium” delle terre demaniali. Essa fu - per così dire
- una “terzadria” che lasciava agli Aldii italici,
praticamente liberi, tranne che per il dovere di
coltivare il fondo, la gran parte del raccolto. Il
Controvalore delle varie rendite, per la parte non
impiegata localmente, venne inviato a Pavia o a
Benevento, al Re o al Duca.
Nella Longobardia propriamente detta, la situazione fu più complessa in quanto i Capi delle singole famiglie guerriere si installarono quali Duchi nelle singole città (Brescia, Torino, etc.), mentre i Gastaldi del Re ebbero potere solo sulle zone
di campagna (ad esempio il Gau di Castelseprio).
Comunque, il “Palazzo” di Pavia fu proprietario
di metà della superficie coltivabile della Padania
d’allora, con una struttura di riscossione di una
rendita enorme che fece la fortuna della Francia
dei Carolingi, paese allora prevalentemente boschivo.
Anche qui i Longobardi, avevano avuto alcune
buone idee: innanzitutto, avevano stabilito che
gli incarichi pubblici fossero di durata limitata,
salvo riconferma. Inoltre, identificarono dei territori simili per dimensioni alle nostre Province,
i cui responsabili ebbero potere d’ordine pubblico, organizzativo, demaniale; quello che potrebbero diventare i Presidenti delle Province, eletti
direttamente dal Popolo, se essi potessero assorbire le funzioni dei Prefetti e degli Uffici Tecnici
Erariali.
Posto che la separazione tra potere esecutivo e
potere giudiziario è fondamentale, per quale motivo, ora, con l’informatizzazione, non si dovrebbero unificare stato civile e casellario giudiziario, sotto supervisione provinciale, destinando
personale della Provincia al supporto delle Preture, anziché avere una struttura romanocentrica?
Infine, i Longobardi, essendo stati razziatori,
riuscivano a capire benissimo che quello che non
c’è non può essere preso e quindi basavano il demanio reale soprattutto sul “tertium”; gli italici
potevano coltivare come meglio volevano sui suoli
demaniali.
Una tassazione diretta pari ad un terzo del reddito è sicuramente il limite massimo oggi accetAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
tabile; non solo, essendo la vita moderna impossibile senza l’ampio uso dei beni demaniali quali
strade, fogne, metropolitane, etc. si potrebbe stabilire che le imposte sui redditi non sono dovute
come “aggio del principe”, bensì come compenso per la costruzione, uso e manutenzione delle
strutture demaniali o comunque di pubblica utilità, i cui costi fissi renderebbero le tariffe enormi. Infatti, Adam Smith sosteneva che il beneficio che ogni individuo trae dagli apprestamenti
sociali (dai Porti alla Polizia) è direttamente proporzionale al suo reddito; ciò sarebbe entro un
più ampio disegno di politica economica liberistica, in quanto sarebbero gli utenti a pagare il
necessario per l’attuazione del servizio quando
lo richiedono (e non per l’apprestamento della
struttura).
Come finì il Regno Longobardo? Il Re Astolfo
(Aistulf), del partito “intransigente”, eletto nel
749, iniziò una politica militare che avrebbe dovuto portare all’unificazione della penisola sotto
la Legge Longobarda, con l’incorporazione delle
nuove conquiste nel demanio reale. Fu spinto a
ciò anche perché, dopo la morte del Duca beneventano Romoaldo II (731) di nomina reale, la
nobiltà Longobarda del Ducato, che ormai s’era
esteso sino a Taranto, rivendicò il diritto d’eleggere il suo Re o Duca, spalleggiata in questo dal
Papato, che stava concependo la (falsificata) “donazione di Costantino”.
Pertanto, mancò il sostegno da Sud all’attacco
di Astolfo contro Ravenna e Roma. Anzi, l’esercito di Pipino il Breve, chiamato in aiuto dal Papa,
varcò le Alpi e sconfisse Astolfo dopo averlo attaccato alle spalle. Bisogna dire che, nel frattempo, i Longobardi si erano ampiamente “civilizzati” e, arricchitisi, erano spesso diventati “negotiatores” (commercianti, artigiani) - anzi guardavano con benigna ironia i loro avi di cent’anni
prima, come Paolo Diacono, il loro “storico”. Il
Papato brigò per l’elezione di un mezzosangue,
Desiderio (nel 759), il quale tentò poi di ribellarsi, ma venne sconfitto dalla maggiore forza di
Carlo Magno.
I Duchi di Benevento si considerarono i veri
eredi della tradizione di Rotari (Benevento, la seconda Pavia) ed apportarono degli emendamenti
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
al suo Editto, mantenendone la struttura; con il
tempo, la struttura Ducale si frammentò ed evolse anche nel Comune di Benevento (che ebbe tale
status prima di quello di Milano, nel 1015) od in
quello di Amalfi (Repubblica Marinara).
La Storia è maestra di vita e qui abbiamo diversi insegnamenti circa quello che è il problema
dell’azione collettiva, ovvero del mantenere l’unità d’azione di fronte ai benefici individuali della
defezione, oppure dell’aspettare con calma gli
incerti risultati del futuro.
Bibliografia:
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Treccani” - Roma, voci: Arimanni, Astolfo, Benevento, Comune, Diritto (storia), Genova, Goti,
Giustiniano, Longobardi, Illuminismo, Italia,
Lombardia, Rotari, Expositio, Lex romana Wisigothorum, Milano, Mundio, Notariato, Pavia,
Positivismo, Roma, Salerno, Spoleto, Napoleone,
Teodorico, Vichinghi, Visigoti.
AA.VV. - “Storia d’Italia” - Vol. 1 - Einaudi
AA.VV. - “I Longobardi e la Lombardia” - Comune di Milano (1978)
AA.VV. - “Storia di Milano” - Ist. Encicl. It. “G.
Treccani “ - Roma
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T.E.N. - Roma
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- Editori Associati -Milano
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Eurodes - Milano
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italiane” - Mondadori - Milano
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Restelli E. - “Castelseprio attraverso i documenti”- Comune di Castelseprio (1980)
Renne H.P. - “Storia economica e sociale del medioevo” - Garzanti - Milano
Violanti C. - “La Società Milanese nell’Italia precomunale” - Laterza -Bari
Quaderni Padani - 21
23
Liutprando, un re della Padania
di Maurizio Montagna
S
i è soliti collegare il nome di
Liutprando al periodo di massimo fulgore del regno longobardo. Ciò è dovuto ad una facile
constatazione: sotto il regno di Liutprando (712-744), il popolo longobardo acquisì nuovi territori fino a
unificare quasi completamente la
Padania ed ottenne un prestigio internazionale mai raggiunto prima.
Tutto questo non dovrebbe, comunque, far dimenticare il grande rinnovamento legislativo che lo stesso Liutprando operò personalmente. Prima di allora, il diritto longobardo si basava sull’Editto di Rotari (643), vera e propria codificazione scritta (con alcune importanti
modifiche) delle antiche leggi germaniche tramandate oralmente per
secoli. Primo tentativo di mediazione giurisprudenziale tra la tradizione nordica e il diritto romano-bizantino, il codice di Rotari riorganizzava i rapporti tra monarca e
duchi, rivendicando, nel contempo,
una derivazione divina all’autorità
del re (secondo la consuetudine
germanica, invece, il potere era
conferito dal popolo in armi).
Duca Longobardo (metà VII secolo). Disegno di Giuseppe Rava
Se Rotari, legislatore scrupoloso
ma anche capo spietato, aveva soltanto scalfito svolgere su questa terra:
l’originale impostazione nordica del diritto lon“Le leggi che un principe cristiano e cattolico
gobardo, Liutprando integrò, attraverso la pro- ha deciso di stabilire e valutare con saggezza,
mulgazione di più di 150 nuove norme, la storica non le ha concepite nell’animo, ponderate nella
legislazione ereditata dagli antenati, cambiando- mente e rese proficuamente compiute con le opene il senso in maniera incisiva. L’importante opera re per la propria previdenza, ma per volontà e
legislativa fu guidata dalla forte fede cattolica del ispirazione di Dio, perché il cuore del re è nelle
nuovo monarca (1), fermamente convinto che il mani di Dio” (2).
suo regno fosse una vera e propria missione da
A questo principio rispondeva persino l’abbellimento della capitale Pavia: la città in cui sorgeva la residenza regia (considerata sacra) doveva
(1) Rotari, al contrario, professava l'eresia ariana.
(2) Cit. in Jörg Jarnut, La storia dei longobardi, (Torino: Ei- presentarsi in maniera più degna possibile, anche esteriormente. Ci troviamo di fronte alla connaudi, 1995), p. 81.
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24 - Quaderni Padani
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
cezione del re come tramite della volontà divina,
da essa voluto a capo del popolo sotto la guida
della grazia dell’Altissimo. La fervente fede cattolica di Liutprando lo indirizzò verso la promulgazione di norme favorevoli ai ceti meno agiati,
alle donne (di cui furono maggiormente salvaguardati i diritti personali e di proprietà) e agli
schiavi, che poterono godere di condizioni meno
gravose e di maggiori possibilità di affrancamento; il diritto di faida (3) venne notevolmente ridotto e il guidrigildo (4) regolamentato. Inoltre,
il re introdusse il diritto d’asilo all’interno delle
chiese, ricuperò le reliquie di Sant’Agostino (che
fece trasportare nella chiesa pavese di San Vittore in Ciel d’Oro), fece edificare nuovi monasteri e
combattè con zelo l’eresia ariana proibendo, nel
contempo, molti usi pagani. Tuttavia, la profonda religiosità di Liutprando non gli vietò di scontrarsi con il Pontefice quando ritenne che Roma
rappresentasse un ostacolo ai suoi piani politici e
militari. Nel 739, per ridurre a obbedienza Trasmondo, duca longobardo di Spoleto protetto da
Papa Gregorio III, Liutprando entrò nell’Urbe con
il suo esercito ed umiliò i nobili romani (5).
In altre occasioni, il re di Pavia ostentò la propria cattolicità in modo eclatante. Nel 729, ad
esempio, si alleò con Eutichio, esarca ravennate
degli storici nemici bizantini: per ottenere un
appoggio contro i ducati di Spoleto e Benevento,
il re longobardo avrebbe facilitato all’esarca una
campagna contro Papa Gregorio II, inviso all’Imperatore di Bisanzio. Tutto ciò mentre lo stesso
Liutprando era vincolato da un patto difensivo
stipulato con lo stesso Pontefice. Il doppio gioco
del monarca longobardo lo portò a un finale a lui
favorevole: dopo avere sbaragliato Spoleto e Benevento, Liutprando arrivò con il suo esercito ai
confini di Roma e si gettò ai piedi del Papa (arrivato nel frattempo presso il suo accampamento)
in segno di sottomissione; in seguito negoziò una
pace tra il Pontefice e l’esarca.
Come si evince chiaramente dalla sua attività
di capo politico e militare, Liutprando ebbe tre
nemici principali: Bisanzio e i ducati longobardi
di Spoleto e di Benevento. Nella sua lotta contro
(3) Diritto di vendetta che le antiche leggi germaniche assegnavano alle famiglie qualora un membro delle stesse avesse
subito un'offesa.
(4) Istituzione del diritto germanico che permetteva all'omicida di evitare la faida attraverso il pagamento di una somma
alla famiglia dell'ucciso.
(5) In quell’occasione l’esercito occupante costrinse i nobili
di Roma a radersi i capelli alla nuca (alla maniera longobarda).
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
l’esarcato bizantino di Ravenna, il re di Pavia si
fece anche scudo della propria ortodossia cattolica. Ciò avvenne nel 726, anno in cui l’imperatore
d’Oriente Leone III aveva dato inizio alla lotta iconoclasta. In seguito alle posizioni del basileus,
scoppiarono aperte ribellioni all’interno dell’esarcato di Ravenna; il Papa, anch’egli residente in
un territorio soggetto alla sovranità dell’Impero
d’Oriente, levò la sua protesta. Alcune piccole città
bizantine, tra cui Osimo, si consegnarono spontaneamente a Liutprando che, sbandierando la
propria cattolicità, le annesse al suo regno, al pari
di grandi centri come Bologna: prendendo come
pretesto la difesa dell’ortodossia cristiana e dell’autorità spirituale del Pontefice, il re di Pavia
sferrava un attacco al nemico bizantino, assottigliandone ulteriormente il territorio; nel contempo, sempre ergendosi a difensore della fede cattolica, Liutprando donò nominalmente al Papa,
fortemente allarmato e contrariato dall’accresciuto espansionismo longobardo, il castello di Sutri,
ponendo le basi del potere temporale dei Pontefici.
Il sovrano longobardo vide dunque Bisanzio
come un nemico, da attaccare solo nei momenti
più propizi; il suo atteggiamento nei confronti di
Spoleto e Benevento fu invece sostanzialmente
diverso. I due ducati, infatti, non rappresentavano un avversario storico di Pavia, quanto un ostacolo ai progetti imperialisti del re. In conseguenza, Liutprando si adoperò in continuazione per
ridurre all’obbedienza i duchi ribelli, talvolta sostituendoli con personaggi a lui fedeli. Il progetto di Liutprando si concretizzava, in pratica, nella fondazione di uno stato longobardo dai caratteri quasi unitari (Spoleto e Benevento godevano, invece, di una virtuale indipendenza). Naturalmente, tenuto conto dell’opportunismo che
guidava il sovrano, i rapporti tra il centro e la provincia mutarono a seconda delle situazioni. Nel
712, ad esempio, era in vigore un trattato di pace
tra Pavia e l’esarcato; le truppe spoletine, entrate
nel territorio bizantino per conquistare Classe,
furono costrette a ritirarsi da un preciso ordine
del re, interessato al protrarsi della pace con l’Impero d’Oriente. Le carte cambiarono nel 717, anno
in cui Bisanzio fu invasa da un esercito saraceno:
approfittando della debolezza del nemico, Liutprando sferrò un attacco nei confronti del territorio bizantino con l’appoggio di Spoleto e Benevento.
Tradizionalmente alleati del Papa, i ducati causarono scontri tra Liutprando e Gregorio III. Solo
alla scomparsa di quest’ultimo e all’elezione del
Quaderni Padani -23
25
più conciliante Zaccaria, il sovrano longobardo
si riavvicinò politicamente al Papato. Il nuovo
Pontefice ebbe un grande ascendente su Liutprando e riuscì persino a convincerlo, nel 739, a rinunciare alla conquista di Ravenna, ormai quasi
in mano longobarda. Con Liutprando, il regno
longobardo aveva trovato il punto di maggior
splendore. Tuttavia, non seppe (o non volle fino
in fondo) lasciare in eredità ai suoi successori la
totale eliminazione del dominio bizantino ai suoi
confini interni. Una striscia di territorio divideva
la parte settentrionale del regno longobardo da
quella meridionale. Proprio questa spaccatura,
apparentemente insignificante avrebbe invece
contribuito in modo decisivo a proiettare il Nord
Longobardo verso il Centro Europa ed il Sud in
direzione del mondo mediterraneo.
Mentre il declino dell’esarcato sembrava inarrestabile, un altro regno, quello dei franchi, stava conquistando forza e credito. Già Gregorio III,
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26 - Quaderni Padani
durante i suoi scontri con Pavia, aveva chiesto
aiuti militari al maggiordomo di palazzo del Regno dei franchi, Carlo Martello. Quest’ultimo,
alleato di Liutprando, aveva rifiutato di intervenire; tuttavia era chiaro che non i longobardi ma
i franchi stessi sarebbero stati destinati al ruolo,
che ormai Bisanzio non poteva più ricoprire, di
‘protettori’ del Pontefice.
Carlo Martello non discendeva da teste coronate. Figlio illegittimo del maggiordomo di palazzo
Pipino d’Heristal, che governava per conto del
sovrano merovingio, aveva conquistato il potere
a forza di brillanti campagne militari (celebre la
vittoria sugli arabi a Poitiers, 732) e di astute
mosse diplomatiche. Nel 737, alla morte di re Teodorico IV, Carlo Martello aveva acquisito la forza di decidere che non sarebbe stato eletto alcun
successore al defunto monarca. Con questa mossa, il maggiordomo di palazzo poneva fine alla
dinastia merovingia, apprestandosi a comandare
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
come un re e preparando la divisione del regno
franco tra i suoi figli. Il suo principale problema,
quello di non avere sangue reale, gli fu risolto
proprio da Liutprando. Il re di Pavia accettò di
ricevere il figlio di Carlo Martello, Pipino, alla sua
corte; con una cerimonia simbolica, Liutprando
fece rasare il giovane ospite alla maniera longobarda, nominandolo di fatto suo figlio adottivo.
Quando Pipino tornò presso Carlo Martello, la sua
posizione era, di fatto, quella di un figlio di re,
pronto ad occupare un trono e ad assicurare una
discendenza. L’amicizia tra Carlo Martello e Liutprando si concretizzò anche, come si è già detto, in una solida alleanza militare. Nel 737, quando le truppe franche erano impegnate contro i
sassoni, Carlo chiese aiuto all’alleato longobardo, affinché questo arginasse un’improvvisa incursione dei musulmani in Provenza. Liutprando accorse in soccorso dell’amico e, con l’esercito a ranghi completi, costrinse alla fuga gli invasori, che si ritirarono senza neppure combattere.
La facile impresa di Provenza servì a Liutprando
per acquisire, al pari dell’alleato Carlo Martello,
vincitore di Poitiers, la fama di paladino e difensore della cristianità, elemento molto importante per un re dalla forte fede cattolica.
Non è facile tracciare una sintesi completa del
personaggio Liutprando, legislatore innovativo
ma inguaribile opportunista e doppiogiochista;
fervente cattolico ma, in alcune circostanze, avversario del Papa; difensore della cristianità ma
pronto ad approfittare dell’invasione araba di Bisanzio per attaccare l’esarcato. È forse azzardato
sostenere che Liutprando fu, in termini moderni, una sorta di monarca illuminato; sicuramen-
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
te fu un sovrano medioevale un po’ atipico ma,
contemporaneamente, immerso nei cambiamenti
che la sua epoca e il suo popolo stavano attraversando. Nonostante le contraddizioni che il personaggio presenta, si può senza dubbio affermare che la sua fede cattolica fu realmente sincera e
genuina. Sembra dimostrarlo la sua concezione
di legalità, che un episodio della sua vita politica
esemplifica in modo molto chiaro. Quando il nipote Ildeprando gli fu associato al trono con procedure che seguivano correttamente la normativa longobarda (735) (6), Liutprando accettò di
buon grado la decisione, pur non concordandovi.
Le leggi, secondo l’interpretazione del re, erano
scritte dal sovrano stesso ma ispirate dalla grazia
di Dio: neppure il monarca che le aveva promulgate, quindi, avrebbe potuto trasgredirle. Non è
perciò sorprendente che il grande storico dei longobardi Paolo Diacono abbia dato un giudizio
estremamente positivo di Liutprando, imprimendo alle proprie parole un’enfasi degna di un elogio funebre:
“Fu uomo di grande sapienza, prudente nel
decidere, molto pio e amante della pace; valoroso in guerra, clemente con chi sbagliava, casto,
pudico, abile oratore, generoso nelle elemosine;
anche se non sapeva leggere, era da mettersi alla
pari coi filosofi; premuroso nel benessere del popolo, restauratore delle leggi” (7).
(6) I longobardi, con questa elezione, non intendevano colpire Liutprando. In quei tempi, il re era malato e rischiava la
morte: le errate previsioni sul destino del sovrano indussero
i longobardi ad anticipare i tempi della successione.
(7) Paolo Diacono, Storia dei longobardi, (Milano: BUR, 1991)
pag. 549.
Quaderni Padani -25
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Der Pufferstaat: lo stato cuscinetto
di Gualtirero Ciola
La conflittualità fra le diverse etnie incomincia
in Europa nel XIX secolo, con la nascita del Nazionalismo, mostro procreato dagli artefici illuministi della Rivoluzione Francese ed “esportato” nei territori occupati dalle armate napoleoniche; in Italia i governi giacobini dal 1796 al 1801,
creano quel sentimento che, secondo Wolfgang
Goethe, porta dall’umanità alla bestialità, attraverso la nazionalità.
Non è che prima del Giacobinismo non esistesse l’idea di patria: Monaldo Leopardi, fiero oppositore della corrente di pensiero venuta dalla Francia, così la definiva: “La patria è precisamente
quella terra nella quale siamo nati, e in cui viviamo insieme agli altri cittadini, avendo comuni
con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi,
le pubbliche proprietà e una moltitudine di interessi e rapporti.”
In quest’ottica ben può parlarsi di patria veneta, lombarda, tirolese o bavarese: piccole patrie
immerse in contenitori più grandi, Italia, Austria
e Germania, oggi, e domani, auspichiamo, in uno
ancora più grande: l’Europa.
Già allora, nelle sue numerose opere politiche,
il Leopardi intravedeva i pericoli di un centralismo ottuso e soffocatore delle culture originarie
e del decentramento amministrativo, della massificazione livellatrice, del sorgere dello statalismo negatore dell’autonomia e della dignità dei
popoli minoritari, auspicando la trasformazione
dello Stato accentrato, quello giacobino, oggi più
che mai superato e impotente, in uno Stato Federale pluralistico, costituito dall’unione delle
regioni autonome culturalmente ed amministrativamente, entro i limiti di una Costituzione comune aggiornata ai problemi dell’oggi e non ai
miti fasulli dello Stato nazionale unitario, ormai
superato dalla storia.
L’espressione “Pufferstaat” nacque in Germania ed Austria nella seconda metà del XIX secolo,
per indicare un piccolo stato con funzioni di ammortizzatore (Stossdämpfer), creato apposta per
smorzare gli urti inevitabili tra nazioni diverse e
quindi potenzialmente ostili.
Sarebbe interessante annotare le diverse, op26
28 - Quaderni Padani
poste opinioni espresse dagli sciovinisti nostrani
(ce ne sono tanti) nei confronti del problema sudtirolese e di quello istriano-dalmato: per il primo si avvalora la giusta causa di una guerra vinta
nel 1918, ma si tace di quella perduta nel 1945,
che ci ha privati dei territori istriani e dalmati;
per questi ultimi si auspicava, giustamente, l’autodeterminazione che è stata, ingiustamente,
negata ai sudtirolesi.
Per carità di patria sorvoliamo su tutte le amenità ed i luoghi comuni contro i diritti della minoranza tedesca, da parte di coloro che non hanno mai vissuto nel Sudtirolo ed ai quali neghiamo l’autorità di pontificare in merito, né sul diffuso malanimo antislavo che pure ha delle profonde ragioni, da ricercare negli anni luttuosi del
Fascismo e del dopoguerra; parleremo invece di
una bella utopia che costituirebbe il primo tentativo di sostituire la barriera dei “sacri confini”
con un ponte di fraternità teso verso il mondo
germanico a Nord e lo slavo ad Est: due “Pufferstaaten” appunto, che metterebbero fine alla
frammentazione violenta di due entità etno-storiche ben definite: l’euroregione del Tirolo e quella Giuliano-istriano-dalmata.
Per la prima ci sono già dei progetti bene articolati, proposti da forze politiche e culturali di
lingua tedesca ed italiana: anche nel Trentino, il
vecchio “Welschtirol” o Tirolo italiano, ci sono
delle élites che propugnano il “progetto pantirolese”, da Kufstein ad Ala, che ridia al Tirolo gli
antichi confini storici, ora stravolti; basta guardare una carta geografica del 1914 ed una del
1919: con l’assegnazione al regno d’Italia di quella
parte del Tirolo che va dal Brennero alla chiusa
di Verona, il Nord-Tirol con Innsbruck risultò
tagliato fuori dall’Ost-Tirol e dalla città di Lienz,
suo capoluogo, a causa della perdita della Val
Pusteria, unica via d’accesso: vero smembramento
di una piccola patria, erede di una tradizione unica
nell’Europa, la cui caratteristica più saliente è
stato l’amore per la libertà, difesa sempre a caro
prezzo. Ricostruire l’unità del Tirolo, pur senza
intaccare la sovranità italiana sulle province di
Trento e Bolzano, né quella di Vienna sui suoi
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
più antichi possessi, è possibile, è attuabile, non
senza l’orgoglio di aver contribuito a dare un
esempio di civile convivenza in un mondo dilaniato da odii e guerre crudeli, di costruire un diaframma di fratellanza e cooperazione tra il Nord
e il Sud dell’Europa, di dar vita ad una regione
ove tre gruppi etnici: l’italiano, il tedesco ed il
ladino collaborano in armonia, con arricchimento spirituale materiale reciproco; sarebbe il primo esempio di abolizione dei confini, quali si intendevano al tempo dell’oscurantismo giacobino:
una regione cuscinetto con le frontiere più aperte d’Europa ai popoli mediterranei ed a quelli
germanici.
Ai nostri confini orientali il nazionalismo italiano, contrapposto a quello slavo, reso ancor più
virulento dall’ondata di panslavismo che si è irradiata dalla “madre Russia”, raggiungendo il suo
parossismo tra Serbi e Croati, ha prodotto tanto
odio da generare, negli anni dell’ultima guerra
mondiale, degli episodi di tale crudeltà da fare
impallidire quelli del più oscuro medioevo.
Nel ’45, a guerra finita, migliaia di prigionieri
di guerra, colpevoli solo di aver militato dall’altra parte, furono massacrati nel modo più barbaro; non solo di militari si trattò, ma anche di civili di ogni età e sesso, colpevoli di essere stati “fascisti” o semplicemente “italiani”. Dall’Istria e
dalla Dalmazia, la maggior parte della popolazione di lingua italiana preferì abbandonare i suoi
beni e trasferirsi nella penisola, ove lentamente e
con altra sofferenza, si integrò.
Dopo la proclamazione di indipendenza della
Slovenia, Croazia e Bosnia, si è sviluppata una
guerra totale, con efferatezze che hanno superato quelle dell’ultimo conflitto. Si è visto in questa occasione quanto anche i micronazionalismi
possano essere virulenti; è difficile stabilire il limite di un attaccamento innato per la propria
etnia, di una difesa ad oltranza della propria identità, cose sacrosante, ma che non debbono consentire di cedere alla tentazione di imporre una
presunta superiorità agli altri, né di vessare altre
minoranze.
Croati e Serbi, dopo essersi scagliati gli uni
contro gli altri, si sono alfine accordati solo per
sterminare, senza pietà, altri fratelli di religione
musulmana: un vero genocidio.
È sperabile che tanto sangue versato possa far
riflettere alla fine questi popoli e farli capire che
solo la tolleranza verso le minoranze etniche e
religiose potrà costituire una speranza per il futuro.
Anche se pare folle sperare di smussare le punAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
te dell’acceso nazionalismo di Sloveni e Croati che
hanno tagliato in due l’Istria, ove anche la popolazione slava tiene all’identità culturale istriana,
come hanno dimostrato le elezioni amministrative del febbraio ’93, non bisogna stancarsi di proporre la costituzione di una macro-regione cuscinetto, nella quale l’etnia italiana possa pacificamente convivere accanto a quella slava, nel reciproco rispetto e collaborazione. Sarà dura, ma
non bisogna demordere, agendo soprattutto a livello accademico, dato che l’intellighenzia slovena e croata è l’unica a recepire l’istanza coraggiosa e civile del superamento dello sciovinismo
dei rispettivi popoli; sarà dura anche da parte italiana superare gli antichi rancori, ma l’esito ne
varrà la pena: con la rinascita di Trieste, città prostrata per la mancanza di hinterland e per l’indisponibilità da parte del governo di Roma di farne
il porto della Mitteleuropa, come fu nello scorso
secolo che vide l’apogeo del suo sviluppo civile
ed economico.
La prima grande guerra civile europea del XX
secolo aveva frantumato gli equilibri che l’impero asburgico aveva saputo creare, smorzando, con
la sua efficienza amministrativa, i nascenti nazionalismi dei suoi popoli. Ora, dopo la grande
crisi che si abbatterà fra le popolazioni della ex
Yugoslavia stremate da quest’ultima guerra civile, saranno le motivazioni economiche a spingere sloveni e croati verso la soluzione da noi auspicata e chi, tra gli italiani, non ha dimenticato
le terre perdute nel ’45, capirà che l’unico modo
pacifico per rivificare e tutelare l’italianità dell’Istria, col ritorno degli esuli, non potrà che essere una rinuncia parziale di sovranità delle tre
nazioni confinanti ed un impegno comune a superare le barriere dell’incomprensione e della diffidenza etnica.
Oggi questa soluzione è irreale, lo sappiamo
bene, ma domani essa potrà imporsi da sola, per
pure ragioni di sopravvivenza; bisognerà solo creare per tempo le basi etico-culturali di quell’élite
che, quando il tempo sarà maturo, sappia tracciare il percorso per la graduale realizzazione di
tale fine, oltre i limiti meramente economici ed
utilitaristici: un vero progetto politico di integrazione culturale della popolazione italiana, croata
e slovena, nella nuova macro-regione adriatica.
Solo allora il mondo slavo e quello italico potranno comunicare proficuamente attraverso
questo filtro pacificatore.
Due belle utopie, si dirà, belle, ma irrealizzabili, mentre questo pazzesco bailamme giuridico,
amministrativo e politico che stiamo vivendo coQuaderni Padani - 27
29
stituirebbe l’unica amara realtà alla quale dovremmo inchinarci.
Invece la rifiutiamo categoricamente forti del
fatto che abbiamo intravisto un precedente incoraggiante: la costituzione dell’Alpe Adria, atto
avvenuto evidentemente durante un momento di
distrazione dei nostri governanti, poiché altrimenti nessuno si spiegherebbe, conoscendone i
limiti mentali, come sia stato possibile consentirne l’attuazione.
La “Comunità di lavoro Alpe Adria”, nata a Venezia il 20 Novembre 1978, raggruppava all’inizio due regioni italiane: il Friuli-Venezia Giulia
ed il Veneto, tre Länder austriaci: Carinzia, Stiria
ed Austria superiore, due repubbliche socialiste:
la Slovenia e la Croazia; in seguito vi aderiscono
il Trentino-Sudtirolo e la Lombardia, lo Stato Libero di Baviera, il Land Salisburghese ed alcune
contee ungheresi.
Vi si configura la ricostituzione di un’area mitteleuropea quale era, con l’eccezione della Baviera, il Reich del giovane imperatore Francesco
Giuseppe d’Asburgo.
Inizialmente Alpe Adria era nata per avere solo
un ruolo economico: nel settore delle comunicazioni, trasporti, scambi energetici, agricoltura e
turismo; successivamente, nel giugno-luglio
1991, con la crisi scoppiata all’indomani dell’autodeterminazione di Slovenia e Croazia, Alpe
Adria assume pure un suo ruolo politico, esprimendo addirittura un incondizionato appoggio
alle due nuove repubbliche, scegliendo una condotta divergente da quella del governo centrale e
in aperto dissenso dal suo ministro degli esteri,
dichiaratamente filoserbo.
Questa politica estera regionale favorevole ai
28
30 - Quaderni Padani
due stati secessionisti non ha mancato di influenzare le mosse successive di Austria e Germania:
il riconoscimento delle due repubbliche, nonché
di rafforzare la determinazione di sloveni e croati a stringere legami sempre più forti con l’area
mitteleuropea e di accentuare lo strappo da Belgrado.
Tutto questo ha determinato la reazione della
Sinistra: il ministro De Michelis, di matrice giacobina, è stato fino in fondo, un ostinato difensore dell’integrità nazionale yugoslava, fingendo di
ignorare che, sotto la formale vernice federativa,
la dittatura comunista celava il centralismo oppressivo dell’Unione Sovietica; più eloquente e
dimostrativa dell’impostazione statalista, nemica di ogni vera autonomia, specialmente in casa
degli Stati a socialismo reale, come viene ancora
considerata la “Grande Serbia”, è stata la rabbiosa reazione la quale Antonio Sema ha minacciosamente tuonato contro Alpe Adria, a conclusione del suo saggio su “Limes” 1/94 (“Estate 1991:
gli amici italiani di Lubiana”): “In ogni caso, sarebbe forse consigliabile rivedere seriamente
competenze e pretese delle regioni nel settore
della politica estera, per evitare di trasformare con
troppa facilità segmenti regionali dell’apparato
politico e amministrativo italiano in efficienti basi
di manovra a disposizione di interessi esterni,
come è accaduto al Nord-Est italiano nel corso
del 1991.”
Una migliore difesa dello Stato centralista non
l’avrebbero potuta fare nemmeno i nazionalisti
di Gianfranco Fini; a noi non resta altro che identificare il nemico principale dell’idea autonomista e federalista ed additarlo a tutti coloro che la
pensano come noi.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Südtirol: cinquantanni
di continua oppressione
di Corrado Galimberti
In Italia, l’europeismo sembra essere un sentimento profondamente radicato sia tra i cittadini
che nelle istituzioni. Naturalmente, quando si
tratta di tradurre concretamente in fatti, le parole espresse, le popolazioni italiche dimostrano
atteggiamenti che con l’Europa hanno poco in
comune, ed i governi mettono in atto scelte e
provvedimenti che rappresentano un vero e proprio affronto a ciò che sostengono di voler realizzare verbalmente.
Un ennesimo esempio di quello che, al di là di
una doverosa e più approfondita analisi politica
che richiederebbe molto spazio, appare anche
come un caso di inciviltà e razzismo, è la reazione del governo italiano - quello precedente l’attuale - e del presidente della Repubblica, Oscar
Luigi Scalfaro, all’annuncio, tempo fa, dell’apertura di un ufficio di rappresentanza, sostanzialmente commerciale, in comune tra il land del
Tirolo e le regioni del Sud Tirolo e del Trentino, a
Bruxelles. Quando gli italiani hanno poi saputo
che il funzionario che vi lavora (o lavorava?) è
trentino ..., apriti cielo!
Le province di Trento e Bolzano non godono così come nessun altra città situata entro i sacri
confini della patria (?!) - della benché minima
autonomia in campo internazionale. Non possono cioè stipulare alcun accordo a livello politico,
né economico, con nessuna regione europea. Il
contrario di quanto avviene in quasi tutti i paesi
della UE (Unione Europea). Pertanto, tra le autorità italiane, il pensiero di un ufficio in comune
tra regioni appartenenti a Stati differenti, ha alzato il tono delle polemiche, essendo stata vista
come un ulteriore passo verso la ricostituzione
di quella che dovrebbe essere una realtà già da
molto tempo: l’Euroregione Tirolo. In primo luogo i commissari di governo di Trento e Bolzano
hanno vietato ai funzionari dello Stato di partecipare alla cerimonia di inaugurazione. Ed in seAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
guito sono scese in campo autorità italiane di
primo piano (con il consueto e tipico chiasso latino), Luis Durnwalder e Carlo Andreotti (presidenti delle province di Bolzano il primo, di Trento, il secondo), sono stati convocati, si è parlato
di attentato all’unità nazionale (e allora?) e si sono
sfiorati toni ed accenti che nulla hanno da invidiare alla peggiore retorica nazionalistica di stampo fascista. Per cercare di fermare la Storia.
Parole aggressive erano già state espresse in
passato, sempre da Scalfaro, per condannare la
ricostituzione di una regione, unita per secoli, e
smembrata con la violenza all’indomani della prima Guerra mondiale. E l’intervento dell’allora
ministro degli Esteri, Susanna Agnelli, (“non è
accettabile che pezzi d’Italia vadano dietro a un
altro Stato”) in relazione all’apertura dell’ufficio
di rappresentanza, oltre a ciò che ci è capitato di
leggere sulla stampa italiana a proposito di tirolesi e serial-killer, hanno fatto riaffiorare una ferita ancora aperta. Una ferita che sanguina, intendiamoci, non solo per i tralicci fatti esplodere
dagli indipendentisti sudtirolesi durante gli anni
caldi, ma per la lunga scia di offese, umiliazioni,
e torture, fisiche e morali, inferte alla popolazione locale da parte dell’Italia e dei suoi rappresentanti.
La creazione di uno spazio economico tirolese,
che sposterebbe l’asse geopolitico verso Nord,
quindi verso l’Austria terrorizza le autorità di
Roma che, nonostante abbia ratificato, con la legge n. 881 del 25 settembre 1977, i patti internazionali sui diritti dell’uomo, con i relativi protocolli facoltativi, si rifiuta di concedere il diritto
all’autodeterminazione al popolo sudtirolese.
Carlo Andreotti, per difendersi dalle accuse
mossegli ha semplicemente spiegato che “Il Trentino, assieme all’Alto Adige, è impegnato nell’elaborazione di una proposta di Euro-Regione che
rafforzi i già robusti vincoli di collaborazione tra
Quaderni Padani -29
31
le province trentino-tirolesi dei due versanti del
Brennero. Non si tratta di un rigurgito nostalgico, ma della consapevolezza che l’area trentinotirolese si trova dinanzi alla necessità di decidere
se vuole ridursi a corridoio di transito tra la Padania e la Baviera, o se vuole invece giocare la
carta delle particolarità, ambientale e culturale,
per rilanciare il proprio ruolo non marginale nella
futura Europa delle Regioni”. Come dargli torto?
I giornali non ci hanno poi fornito ulteriori ragguagli sugli avvenimenti, o meglio, sulle vicissitudini, dell’ufficio tirolese a Bruxelles, ma temiamo che tutti coloro che si sono mossi per la realizzazione di un concreto esempio di cooperazione transfrontaliera non abbiano avuto, ne abbiano tuttora vita facile. Una vita comunque molto
più quieta di coloro che, negli anni Cinquanta e
Sessanta sacrificarono la propria vita per la libertà del Sudtirolo e che furono umiliati, torturati
ed assassinati da ufficiali rappresentanti dello Stato italiano (*). Costoro hanno poi trovato degni
eredi in chi minaccia l’invio dell’esercito tricolore in Padania per soffocare aneliti di libertà. Il
gerarca Violante docet.
Allora furono assassinati quattro patrioti, che
l’Italia chiama terroristi. E che invece ebbero la
forza ed il coraggio di mettere in discussione la
propria esistenza in favore della propria terra in
un periodo in cui, per intenderci, se si dipingevano le persiane di casa di bianco e rosso, i colori
del Tirolo, si poteva essere arrestati e incarcerati.
Ci riferiamo a Franz Hofler e Anton Gostner,
morti rispettivamente il 22 novembre 1961 ed il
7 gennaio 1962, dopo le torture inferte loro in
prigione dai carabinieri. A Luis Amplatz, assassinato da un cittadino austriaco assoldato dai tristemente famosi “servizi segreti deviati”, e che
ricevette 150.000.000 (di allora), il quale cercò
anche di assassinare Georg Klotz. A Sepp Kerschbaumer, morto in prigione il 7 dicembre 1964,
(*) Questi episodi sono stati ufficialmene denunciati dal Ministro degli Esteri della Repubblica Federale Austriaca, Bruno Kreisky, e dal Procuratore della Repubblica Italiana di
Trento, Agostini, che presentò denuncia contro dieci carabinieri alcuni dei quali furono condannati in Giudizio.
30
32 - Quaderni Padani
anch’egli dopo essere stato torturato dai carabinieri, come ampiamente riferito dalla stampa locale dell'epoca. E a tanti altri semplici cittadini
che opposero semplicemente se stessi e l’amore
per la propria terra, all’arroganza e alla violenza
tricolori. A causa delle quali si negano, ancor oggi,
fondamentali diritti a diversi cittadini sudtirolesi, ma che permettono di “sorvolare” su episodi
clamorosi, resi noti persino dalla televisione di
Stato. Ci riferiamo, ad esempio, ad un episodio
raccontato alcuni anni fa persino durante la trasmissione di Sergio Zavoli “La notte della Repubblica”, ma già noto a chi di dovere: nel 1967, dopo
l’invio di 10 mila uomini inviati a presidiare il
confine con l’Austria in seguito ad uno tra i più
oscuri e tragici episodi degli Anni caldi in Sudtirolo, la strage di Cima Vallona, in cui persero la
vita quattro militari italiani, in provincia di Bolzano si trovava il colonnello Amos Spiazzi. Il quale, parecchi anni dopo l’eccidio di Cima Vallona,
rivelò alla Commissione d’inchiesta sulle responsabilità della Loggia P2, nell’ambito della strage
di Bologna, quanto segue: “quando io (Amos
Spiazzi, ndr), su indicazione di ambienti sudtirolesi, potei sorprendere e arrestare due uomini del
Sifar (branca dei servizi segreti italiani, ndr) intenti a preparare un attentato (che sarebbe poi
stato attribuito ai tirolesi, ndr), volevo trasferirli
a Bolzano per consegnarli al mio comando, ma
alcuni carabinieri me lo hanno impedito, prendendo in consegna loro i miei prigionieri, senza
stendere nessun verbale sull’operato. Mi ringraziarono, ma il giorno dopo venni trasferito a Verona”.
Potremmo - e dovremmo - soffermarci a lungo sugli episodi, gli uomini, gli atteggiamenti e
gli avvenimenti che caratterizzarono gli anni Cinquanta e Sessanta in provincia di Bolzano. Per il
momento, ci limitiamo ad interrogarci sulla violenza - sino ad ora solo verbale - di cui ufficiali ed
alti rappresentanti dello Stato italiano hanno dato
prova, dopo l’apertura di un ufficio commerciale
sul quale non sventola il tricolore. E su certe autorità, che quella violenza verbale, anelano a trasformare in qualcosa di più concreto che viaggia
su un paio di cingoli. O, Signor...
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
I Liguri-Apuani, il popolo
delle statue-stele di Lunigiana
di Dionisio Diego Bertilorenzi
Le Alpi Apuane sono conosciute nel mondo per la grande
quantità e qualità dei marmi che
ne vengono estratti (il famoso
marmo di Carrara).
Queste montagne che sfiorano i 2.000 metri, pur essendo
vicinissime al mar Ligure, sono
classificate come “Alpi” nonostante la lontananza dall’arco
alpino vero e proprio.
Infatti sia il tipo di rocce che
l’ambiente (pareti strapiombanti, cime svettanti) le fanno più
somiglianti a una piccola catena alpina che non al vicino Appennino dal paesaggio più dolce e arrotondato. Il nome di
“Apuane” deriva loro dalle antiche popolazioni che ne abitarono le zone circostanti e sulle
quali seguono alcune considerazioni a carattere storico e culturale.
In questi ultimi decenni l’opera illuminante di vari studiosi di
storia locale Lunigianese ha permesso di avere una visione più
chiara e precisa del mondo e
della storia dei Liguri-Apuani.
Pur fra inevitabili controversie e interpretazioni un po’ differenti, si è sostanzialmente arrivati ad alcune conclusioni basilari ormai comunemente accettate. La composizione etnica
dei Liguri è dovuta a una stratificazione di popolazioni. Su di
un antichissimo substrato di
genti indigene (tipo tarchiato,
crani larghi, capelli scuri) abbastanza simile agli Iberi e distriAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
buite, grosso modo, tra la Liguria attuale e i Pirenei, si vennero a sovrapporre circa fra il 1100
e il 1000 aC popolazioni di conquistatori indoeuropei in occasione della loro prima grande
migrazione nella penisola italica.
Queste popolazioni, definibili
“protoceltiche”, si fusero (con
ruolo culturale predominante)
con quelle preesistenti creando
le tribù liguri di epoca storica.
A questo proposito sono state
ormai quasi del tutto abbandonate le vecchie teorie - tipiche
della scuola tedesca degli anni
’30 - che individuavano nei Liguri un popolo mediterraneo
antichissimo senza alcun apporto indoeuropeo. Oggi in base a
nuovi ritrovamenti, a uno studio più attento e meditato delle
fonti classiche, della toponomaQuaderni Padani - 31
33
stica e dei dialetti sopravvissuti,
nonché di certe caratteristiche
fisiche degli abitanti della zona
apuana (“così alti, così doliocefali” li definiva il Lombroso) (1),
si ammette che le grandi migrazioni celtiche nell’Italia centrosettentrionale (600 ÷ 400 aC)
non fecero che accentuare, in
tutti i sensi, l’indoeuropeizzazione dei Liguri (2).
Una sorta di “celtizzazione”
che dovette essere agevolata
notevolmente da un’affinità di
fondo etnica-culturale dei due
popoli. Le fonti storiche non ricordano particolari guerre e violenze fra Liguri e Celti; piuttosto hanno messo in evidenza
l’aiuto reciproco che questi due
popoli spesso si davano: alcune
tribù vengono a volte definite
celtiche e a volte liguri a segno
di una differenzazione non troppo accentuata (3).
Gli Apuani vengono considerati appartenenti al gruppo dei
Liguri orientali, ricco di influenze celtiche. Fu un popolo bellicoso e con un marcato senso del
sacro. Privi di qualsiasi struttura di tipo statale, essi vivevano
organizzati in gruppi tribali, in
villaggi fortificati (i “castellieri”)
generalmente costruiti sulle
pendici dei monti o in collina, e
immersi in fitte selve boscose (ne sono
stati individuati oltre
una quindicina).
Praticavano il rito
dell’incinerazione deponendo le ceneri in
urne insieme al corredo del morto (4).
Era una società basata sulla pastorizia,
sulla caccia e pesca, e
su una rudimentale
agricoltura montana.
Vi era assai diffuso
l’uso del compascuo e
della tecnica del debbio (incendio) per fertilizzare i terreni.
Ma le attività che
divennero centrali e
attorno alle quali tutto ruotò furono, per
molto tempo, la guerMuseo di Pontremoli: statua n. 48, scora e la razzia; analizperta nel 1975 a Bigliolo, nel comune di
zando dal punto di viAulla.
sta socio-economico
gli Apuani degli ultimi secoli pri- arrestò l’avanzata. In seguito
ma dell’era volgare, il Sereni par- dovettero far fronte a varie inla di “una vera e propria società cursioni e spedizioni che li coorganizzata per una guerra per- strinsero ad attestarsi sulla riva
manente” (5).
meridionale dell’Arno. Rari fuNella fase della loro massima rono anche gli scambi commerespansione in questa zona, gli ciali tra le due nazioni tanto diEtruschi incontrarono una verse fra di loro (6).
guerriglia implacabile che ne
Sono infatti pressoché inesi-
(1) R. Cappuccio - E. Pioli, “Cesare Lombroso in Garfagnana,
Lucchesia e Lunigiana. Motivazioni e risultanze di un itinerario scientifico”, in Studi in onore e memoria di L.Firpo
(Lunigiana, 1990).
(2) Sulle origini e sovrapposizioni etniche dei Liguri Apuani
si vedano:
- Emilio Sereni, Comunità rurali nell’Italia antica Roma,
1955).
- L.Marcuccetti, La terra delle strade antiche, Cap. I e II (Viareggio, 1995).
- Augusto C.Ambrosi, Statue stele lunigianesi, Cap.I (Genova, 1988).
- Augusto C. Ambrosi, Lunigiana la preistoria e la romanizzazione (Aulla, 1981).
- Renato Del Ponte, “Sull’origine dei Liguri”, su Arthos, n.VII,
VIII, X, XIII (Genova, Pontremoli d.v).
(3) AA.VV. “Fontes Ligurum et Liguriae Antiquae”, in Atti della
Società Ligure di Storia Patria (Genova, 1976).
(4) Per l’organizzazione socio-economica e territoriale e per
l’archeologia e i riti funebri degli Apuani si vedano:
32
34 - Quaderni Padani
- Ircas N: Iacopetti, Pariana di Massa, Cap.I (Cremona, 1992).
- U. Formentini, “Monte Sagro. Saggio sulle istituzioni demoterritoriali degli Apuani”, in Atti C.I.S.L. Bordighera 1950 (1952).
- M.G. Armanini, Massa, storia degli insediamenti. Dalla preistoria al XVI secolo (Massa, 1995), pagg. 13 ÷ 41.
- P.M. Conti, Luni nell’alto medioevo (Padova, 1967), pagg.
22 ÷ 35.
- L.Marcuccetti, op.cit.
- L. Pfanner, “Una tomba ligure a cassetta scoperta a Filicaia
(Garfagnana)”, in Giornale Storico di Lunigiana (La Spezia,
Gennaio-Giugno 1957).
- R. Formentini, “Il toponimo “Castellaro” e lo sviluppo della
tecnica costruttiva nelle opere di fortificazione degli antichi
Liguri”, in Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienze
(La Spezia, 1951).
(5) Emilio Sereni, op.cit.
(6) N. Lamboglia, “I limiti dell’espansione etrusca nei territori dei Liguri”, in S.E., n.X, 1936.
- G.A. Mansuelli, “Luni e il confine settentrionale dell’Etruria”, in Quaderni del Centro Studi Lunense, n.10 (Luni, 1985).
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
stenti i ritrovamenti etruschi in
terra apuana e anche nella toponomastica locale la quantità
di toponimi considerati di origine ligure e celtica è di molto
superiore a quelli di origine
etrusca. Anche la stessa Carrara
deriva dalla radice ligure indoeuropeizzata kar=pietra (7).
Leggendaria fu la successiva
guerra contro Roma. L’asprissima lotta fu descritta da Livio,
Strabone e da altri autori classici che rimasero colpiti dalla
tempra e dalla tenacia degli
Apuani (8). “Vale più gracile Ligure che Gallo robusto” dicevano i Romani. Livio scrive che in
terra apuana i legionari avrebbero trovato “armi e solo armi e
un popolo che nelle armi aveva
riposto ogni speranza ...”. Virgilio parla dei robusti Liguri “avvezzi alla fatica” e lo stesso autore ci narra di un guerriero ligure apuano di nome Cupavo
che aveva l’elmo adorno di penne di cigno, uccello omonimo
del re ligure Cigno, di cui era
figlio (9). Nell’antichità il cigno
era animale sacro associato al
misterioso popolo degli Iperborei
e al culto dell’Apollo nordico.
Tornando alla guerra con i
Romani, c’è da rilevare che essa
fu assai lunga. I primi scontri risalgono al 284 aC per la conquista della zona di Lucca (10). In
seguito, dopo un periodo di lotte a esito incerto, gli Apuani inflissero un paio di sconfitte clamorose ad alcuni eserciti capitolini. In particolare, nel 186 aC,
il rovescio che subì il console
Marcio rimase profondamente
impresso nell’opinione pubbli-
Museo di La Spezia: statue femminili con i seni pronunciati.
Quella di sinistra è stata rinvenuta nel 1905; quella di destra è
dell'età del bronzo.
ca dell’epoca: 4.000 uomini uc- nevento) anche se una parte delcisi, molti prigionieri, armi e la popolazione riuscì a fuggire
insegne gettate alla disperata; nelle località più impervie e
“si stancarono prima i Liguri inaccessibili. I villaggi furono
d’inseguire che i Romani di fug- incendiati e il bestiame ucciso.
gire ...” scrive Livio nella sua Non ci fu tregua né per i vecchi
Storia di Roma.
né per i bambini. In questa guerBraccati dalle legioni, gli ra totale i consoli si avvalsero
Apuani si ritirarono in seguito degli astuti e feroci ausiliari
sugli aspri monti natii per ridi- numidi che ricorsero a ogni
scenderne, nei momenti favore- stratagemma per aver ragione di
voli, per spedizioni e razzie nel un nemico tanto ostinato. Ciò
modenese, nel bolognese e nel nonostante le incursioni degli
pisano. Unitamente ai Celti ci- Apuani nelle pianure circostansalpini, essi combatterono con ti continuarono per un quarto
Annibale che aveva promesso di secolo ancora. La stessa vita
loro la libertà, e furono presen- della colonia romana di Luni fu
ti in tutte le battaglie di quella a lungo precaria e difficile.
L’ultima battaglia contro i Liguerra fino alla lontana Africa.
I Romani, esasperati, ricorse- guri orientali (Apuani in testa)
ro infine (fra il 180 e il 177 aC) fu combattuta nel 155 aC e si
alla deportazione di migliaia di risolse con la decisiva vittoria
Apuani nel Sannio (zona di Be- dei Romani (11). La pacificazio-
(7) Augusto C. Ambrosi, “Toponimi stradali dell’alta valle dell’Aulella”, in M.A.L.S., n. XXIV (La Spezia, 1952).
- C.A. Del Giudice, La toponomastica storica della valle del
Frigido (Massa, 1993).
(8) Per i Liguri Apuani nelle fonti classiche, si vedano:
- AA.VV., “Fontes Ligorum et Liguriae Antiquae”, op. cit.
- Tito Livio, Storia di Roma, in particolare i libri XXXIII,
XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXIX, XL e XLI.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
(9) Virgilio, Eneide, canto X.
(10) Strabone, La descrizione d’Italia, traduzione di C.O. Zuretti, pagg.24-25.
( 11) Fasti Triumphales Capitolini, Commento Storico,
pag.345.
- M. Lopes-Pegna, I Liguri Apuani e le loro drammatiche
vicende, P.L., II, 2, 1962.
- L. Marcuccetti, op.cit.
Quaderni Padani - 33
35
ne definitiva dei Liguri avverrà
però solo molti anni dopo.
I guerrieri “dalle lunghe
chiome” combatterono in seguito come mercenari e ausiliari in varie guerre e sotto varie bandiere. Furono una componente fissa e temuta degli
eserciti romani della tarda
epoca repubblicana e dell’inizio dell’impero. Tra le loro
armi più tipiche si ricordano
la fionda, l’ascia, la spada e il
caratteristico scudo oblungo.
Come accennato in precedenza, questi rozzi pastoriguerrieri avevano sviluppato
anche un ricco patrimonio
magico-religioso che ebbe la
sua manifestazione più clamorosa nelle famose statue-stele
di Lunigiana (nell’attuale provincia di Massa-Carrara) (12). Si
tratta di una delle maggiori
concentrazioni di Menhir in
Europa (dal basso bretone men
hir = pietra lunga). Le statuestele sono sculture a carattere
antropomorfo eseguite su monoliti di pietra; rappresentano
figure femminili e, soprattutto, maschili quasi tutte in
armi. Caratteristica di molte è
la testa a forma di “cappello di
carabiniere”.
La loro datazione copre un
periodo assai lungo: dalle più
antiche risalenti al III millennio aC alle più recenti del III
secolo aC; queste ultime sono
anche quelle che presentano
una maggior rifinitura. Ne
sono state finora rinvenute circa sessanta, sparse in tutta la
Lunigiana. Si calcola che mol-
te di più siano state distrutte
dai preti come idoli pagani o
usate come pietre da costruzione da ignari contadini. Le
figure femminili potrebbero
rappresentare la grande Dea
Madre mediterranea, forse eredità culturale di quelle antichissime popolazioni con cui i
Liguri indoeuropei si fusero in
un processo di assimilazione
religiosa piuttosto comune
nell’antichità pagana.
È interessante notare su tre
statue la presenza di iscrizioni in caratteri alfabetici nordetruschi per le quali però gli
specialisti - dopo aver escluso
che si tratti di termini etruschi
- ondeggiano fra interpretazioni etimologiche di origine celtica (o celto-ligure) e paleoligure.
Molte delle figure maschili
più recenti sono caratterizzate da armamenti tipici della
cultura di Hallstatt, cuore della primordiale cultura celtica
di tutta l’Europa. Si ritrovano
in particolare pugnali, asce (su
modello delle “cateie” celtiche) e giavellotti portati a due
a due, proprio come i “bina
gaesa” ricordati da Virgilio in
occasione dell’invasione dei
Galli nel Lazio.
Infine in alcune statue “... si
nota sul tronco un triangolo
che vuol rappresentare un perizoma; sembra dunque la
classica immagine di quei
guerrieri che alla maniera celtica erano descritti “ignudi
praecinti ...” (13).
Segni di un culto della pietra
(12) Per le Statue-stele si vedano:
- Augusto C. Ambrosi, Statue-stele lunigianesi, op.cit.
- Augusto C. Ambrosi, Corpus delle Statue-stele lunigianesi (Bordighera: Istituto Internazionale di Studi Liguri,
1972)
- Augusto C. Ambrosi, “Sulle Statue-stele della Lunigiana e
sul probabile culto della pietra nel territorio Apuo-Lunigianese”, in Archeologia dei territori Apuo-Versiliese e Modenese-Reggiano (Modena, 1994).
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remotissimo e mai venuto
meno, nonostante sovrapposizioni etniche e vicissitudini varie, le statue-stele furono utilizzate come “delimitatori” magici di aree sacrali (con funzione
anche di divinità tutelari che dà
loro la forma vagamente fallica,
simbolo di forza e fecondità spirituale e fisica). Tali aree erano
consacrate, ad esempio, a favorire la ricchezza di selvaggina e
la conseguente attività di caccia
oppure allo svolgimento di riti
tribali di iniziazione, di fertilità
o di guerra (ancora Livio nella
sua Storia di Roma, ci informa
che le spedizioni militari dei Liguri erano precedute da un giuramento sacro). Le statue-stele
servivano forse anche per segnare zone-tabù dove si volevano
imprigionare forze pericolose e
terribili sul tipo di quelle che
potevano essere emanate da una
zona di sepoltura.
Si trattava in ogni caso di
simboli indubbi di un fortissimo senso magico-religioso
della vita, di spie di una convinzione dell’esistenza di forze sovrumane e invisibili che
avvolgono il mondo e ne permeano ogni aspetto essendo
presenti in ogni cosa. Tali forze dovevano essere controllate
e dirette in senso favorevole alla
tribù attraverso tutta una serie
di rituali, sacrifici e simboli, di
autentiche tecniche sacre per
vivere in armonia con le potenze del mondo che le aspre e severe montagne circostanti dovettero personificare agli occhi
dei fieri Apuani (14).
- R. Formentini, Le Statue-stele, mostra archeologica dell’età del ferro in Lunigiana (La Spezia, 1975).
(13) Augusto C. Ambrosi, Statue-stele lunigianesi, op.cit.
(14) La maggioranza delle statue-stele sono conservate presso il Museo del Castello del Pignaro a Pontremoli (MS). Alcuni esemplari sono altresì conservati nel Museo Civico di
La Spezia e presso il Castello Malaspina di Massa insieme a
vari reperti archeologici apuani dell’età del bronzo e dell’inizio dell’età del ferro.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Una vita di contrabbando
di Gianni Sartori
P
roprio un anno fa, il 14 maggio, è scomparso uno degli ultimi contrabbandieri della Valsugana, Mario Pontarollo. Dopo solo
un paio di mesi moriva anche la moglie, Florinda Moro. Penso non sia retorico affermare che,
insieme a Mario e a Florinda, se n’è andato un
pezzo di Storia. Abitavano a Sasso Stefani, in
Valsugana, presso Valstagna. Ero capitato per
caso in questa contrada qualche anno fa, quando il sentiero dei contrabbandieri, detto anche
dei carpenedi, non era ancora stato segnalato
dal CAI. Il percorso mi venne indicato da Mario
che, con un certo orgoglio, raccontò di averlo
percorso infinite volte (di notte, anche con la
neve) con in spalla il sacco pieno di tabacco. Di
contrabbando naturalmente. Dall’incontro con
Mario e la moglie non ricavai soltanto le indicazioni per una nuova escursione, ma anche la
consapevolezza che coltivazione e commercio
del tabacco, oltre che nell’economia, sono stati
alquanto rilevanti nella storia e nella cultura
della vallata. Al punto che si potrebbe quasi parlare di rapporti simbiotici tra i “Canaloti” doc e
l’Erba Regina (secondo altri: della Regina). Rapporti che con il tempo si rivestirono di significati e valenze simboliche, inestricabilmente intrecciati con il senso di appartenenza e di identità.
Gli eventi che portarono all’introduzione della pianta (presumibilmente avvenuta tra il XVI
e il XVII sec.) sono in gran parte avvolti nel mistero. Circola ancora la leggenda di un anonimo benefattore (alcuni parlano di un monaco,
di un eremita...) che avrebbe fatto dono di alcuni preziosi semi ai poveri diseredati della valle,
a quel tempo alquanto depressa e sottosviluppata. Dato che all’epoca vigeva una sorta di interdizione e un severo controllo, i semi sarebbero stati introdotti abusivamente, pare dalla
Francia, nascosti in un bastone da pellegrino
cavo all’interno. È evidente come questa storia
ricalchi l’analogo racconto in merito all’introduzione nel Veneto del baco da seta. Anche in
quel caso, peraltro documentato, fu un monaco
a portarsi appresso dall’Oriente il prezioso lepiAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Mario Ponterollo a Sasso Stefani (Valsugana)
Foto: Gianni Sartori
dottero, nascondendo i bruchi (i famosi cavalieri ghiotti delle foglie del moraro) o forse le crisalidi, nel cavo di un bastone. All’inizio l’esotica
solanacea veniva coltivata non per essere fumata ma per le sue qualità terapeutiche e medicamentose. Solo successivamente l’Erba (della)
Regina venne “squalificata” e le sue foglie ridotte a prosaico trinciato (forte per lo più). Pare
che i primi tentativi di coltivazione si registrassero proprio a Valstagna e Oliero. Forse anche a
Sasso Stefani dove risiedeva il nostro contrabbandiere superstite.
I primi contratti notarili tra Venezia e Valstagna risalgono al 1763. I diritti così acquisiti dai
Canaloti vennero riconosciuti e convalidati persino durante la breve parentesi napoleonica. Lo
stesso avvenne poi con Francesco I d’Austria.
Quaderni Padani - 35
37
Ma i prezzi ufficiali restavano irrisori e i locali
trovavano conveniente continuare ad “esportarlo” e rivenderlo per proprio conto. Così andarono le cose fino al 1866, quando la situazione divenne alquanto difficile. Infatti la Regia Amministrazione Italiana riuscì in breve tempo a provocare il deprezzamento del prodotto e anche il
conseguente abbandono di molte masiere coltivate a tabacco. L’introduzione della nuova prassi di misurare il quantitativo in base non più al
peso ma al numero delle foglie fu alquanto deleteria per i valligiani. Contemporaneamente la
repressione del contrabbando divenne ancora
più dura, toccando livelli mai visti in precedenza. In proposito è interessante osservare come
sia sempre esistita una notevole sfasatura tra
l’opinione istituzionale del contrabbandiere
(considerato alla stregua di un volgare delinquente) e il prestigio di cui ancora gode tra i
valligiani.
E più lo Stato criminalizzava i contrabbandieri, più cresceva l’identificazione e la solidarietà della popolazione. Ovviamente tributi e
balzelli non erano graditi e questo favoriva la
percezione del contrabbando come un “non crimine” e una forma di ribellione. Anche perché
tutti, chi più, chi meno, vi erano partecipi e ne
traevano sostentamento, integrandolo nell’economia locale. La scarsa collaborazione fornita
alle forze dell’ordine determinò un inasprimento della repressione che si spinse a veri e propri
eccessi, anche a livello legislativo, sproporzionati rispetto all’entità del reato.Questo soprattutto con l’avvento dello stato unitario.
Leggi speciali contro i contrabbandieri
Dopo il 1866 si cominciò ad arrestare sistematicamente anche coloro che solo “si accingevano a compiere il crimine”. In questi casi non
ci si limitava più alla confisca della merce (come
avveniva precedentemente) ma il tentativo veniva equiparato alla consumazione del delitto
stesso. In pratica chiunque venisse scoperto con
carichi sospetti nella zona veniva quasi sempre
arrestato preventivamente. Questo naturalmente non accadeva solo in Valsugana e dintorni,
ma capitava un pò dovunque sulle Prealpi venete. Si contrabbandassero foglie di tabacco, fiammiferi, pietre focaie, sale, carte da gioco o altri
generi di monopolio e non. Ce lo ricorda il gran
numero di sentieri denominati non a caso “dei
contrabbandieri”. Quello del Fumante attraverso cui si poteva accedere al Carega, quello del
Pasubio ora denominato “Baglioni”, quelli che
38 - Quaderni Padani
36
collegano la Val d’Adige con la Lessinia... Proprio in questi ultimi paraggi si conserva memoria nientemeno che di un “Inno dei Contrabbandieri”, il cui testo la dice lunga sulla sostanziale divergenza di opinioni in materia di legalità tra istituzioni e masse popolari.
La pratica del contrabbando non si esaurì con
l’annessione del Veneto e nemmeno con la fine
della prima guerra mondiale. Le magre condizioni di vita e la quasi monocoltura del tabacco
(una sorta di condanna al prezzo governativo)
imposero ai canaloti una continua deroga agli
ordinamenti in vigore. Unica alternativa al contrabbando era, ovviamente, l’emigrazione. Esperienza questa che il nostro Mario ebbe ampiamente modo di sperimentare. Da questo punto
di vista le vicende dei coniugi Pontarollo sono
state emblematiche. Mi raccontava la signora
Florinda che da giovane era andata regolarmente
in bici fino a San Pietro in Gù (ma talvolta si
spingeva fino a Treviso) con il tabacco sotto i
vestiti e nella cesta, ben nascosto sotto il figlio
più piccolo del momento (ne ha avuti sette). Per
avviarsi doveva aspettare mezzogiorno, quando
i finanzieri smettevano per un pò di controllare
le strade. Era costretta a darsi al contrabbando
soprattutto nei periodi in cui Mario lavorava all’estero (in Germania, in Africa...). Del resto era
questa una esperienza comune a gran parte delle donne della Valsugana. I mariti emigranti per
periodi più o meno lunghi e le femene casa a
spetare i schei ; che qualche volta arrivavano,
qualche altra no. Intanto dovevano tirar vanti e
tirar su i fioi.
Mario Pontarollo ricordava che le sue vicessitudini cominciarono molto presto, a quattro
anni.All’epoca la sua casa venne a trovarsi praticamente in prima linea. Completamente distrutta dai bombardamenti, potè essere ricostruita solo nel dopoguerra. Nel frattempo andò sfollato (ma lui preferiva definirsi profugo) con il
resto della famiglia. L’ultima volta che ci eravamo visti, Mario mi aveva chiesto notizie sullo
stato del “suo” sentiero, probabilmente con un
po' di nostalgia.
Non ricordava di essersi mai spinto oltre il
bordo soprastante dell’Altopiano, dove il sentiero sbuca in un pascolo. Arrivato lassù consegnava il carico a chi lo stava aspettando, tirava i
schei e tornava in valle. Praticamente per tutta
la vita aveva alternato contrabbando ed emigrazione. Tranne quando la patria si ricordò di lui
per la “parentesi” in Grecia e Albania.
Ma questa era un’altra storia...
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
INNO DEI CONTRABBANDIERI
DELLA LESSINIA
Noàntri contrabandéri
vegnemo su da Ala
e co la carga in spala
pasemo el confin
Noàntri contrabandéri
semo sensa creansa
bastonemo la finansa
sensa farse ciapar
Noàntri contrabandéri
ghe disemo al brigadiere
che una de ste sere
la pele ghe faren
No ghe sarà Vitorio
e gnanca Garibaldi
che co i so stronsi caldi
el ne sapia fermar
L’itinerario
(Sentiero dei Carpenedi o dei Contrabbandieri)
Come ho detto la casa di Florinda e Mario fa
angolo con l’attacco del sentiero; in quel di Sasso Stefani (metri 170), nei pressi di Valstagna.
Nel primo tratto l’itinerario ricalca una vecchia mulattiera. Piuttosto ripida, sembra più un
impluvio lastricato che un normale sentiero. Ottimo, oltre che per far scorrere l’acqua, per “segare” subito le gambe dei domenicali. E anche
per smorzare gli entusiasmi di qualche ultraquarantenne irriducibile. Non sottovalutatelo e
adottate un passo regolare, cercando poi di mantenerlo per tutto il percorso. Ci si inoltra tra le
masiere, protetti da alti muri a secco da dove
sporgono file austere di gradini in pietra, senza
sbocco dato che costituiscono l’accesso ai magri campicelli.
A circa 300 metri di quota la mulattiera se ne
va per conto suo sulla sinistra, mentre ai viandanti conviene proseguire lungo il solco vallivo. In questo tratto il pendio si fa meno ripido e
il sentiero non è più acciotolato ma ghiaioso ed
erboso, alternativamente. Punta decisamente
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
verso un accenno di selletta, una sorta di tacca,di
incisione sulla vostra destra. L’intaglio rompe
la continuità del crinale brullo, spoglio di vegetazione ma costellato di caratteristiche guglie,
eteree nell’eventuale foschia o circonfuse di luce
contro il cielo terso (salendo, al mattino il sole
è alle vostre spalle). Alla vostra sinistra troneggiano imponenti e impervie le pareti del Sasso
Rosso.
Il valico, come vedrete, è costituito da una galleria della prima guerra mondiale che permette
di accedere comodamente alla Val Calieroni. Il
termine veneto di ‘caliero’ qui sta ad indicare le
caratteristiche marmitte di roccia prodotte dall’erosione. Nel periodo invernale fate attenzione ai festoni di stalattiti di ghiaccio che pendono dalla volta. Per un tratto si prosegue quasi in
piano, lungo un leggiadro sentierino, non esente comunque da rischi oggettivi per distratti.
Il sentiero quindi si infila nel bosco e risale
con decisione. Qui il percorso torna ripido, quasi
scosceso. Ricalca in parte un vecchio sentiero
di guerra, come testimoniano le numerose ferite mai rimarginate delle trincee. Ancor più numerose e deturpanti le tracce lasciate sui tronchi dai zelanti segnapista di professione. Le indicazioni biancorosse si sprecano. Nel senso letterale. Il percorso utilizza un sistema di cengie
naturali e l’escursione si mantiene stimolante
grazie ad alcuni tratti relativamente esposti: fare
attenzione con neve ghiacciata. È in situazioni
del genere che l’abitudine indotta a orientarsi
cercando non le tracce naturali del sentiero (ovvero dove posare i piedi) ma i segni di vernice
sui tronchi dei faggi, può rivelarsi alquanto controproducente.
Ancora un ultimo sforzo e al vostro sguardo,
presumibilmente ormai appannato dal sudore
della fronte, appariranno le pareti precipiti sulla Val Gadena. Intanto il sentiero vi ha condotto
nella parte sommitale della Val delle More, a due
passi dalla cima del Sasso Rosso (1196 metri).
Da qui ci si può spingere verso Col Carpanedi (a
nord), in cerca del raccordo con Val Gadena da
utilizzare per il rientro.
Quaderni Padani - 37
39
Biblioteca
Padana
Claudia Petraccone
Federalismo e autonomia in
Italia dall’unità a oggi.
Bari: Editori Laterza, 1995
pagg. 337, Lit. 38.000
“L’ipotesi federalistica ha
riacquistato un valore di proposta politicamente attuabile nei
momenti in cui le crisi che hanno colpito la società italiana
sono state attribuite anche alle
difficoltà e ai guasti prodotti dal
ricorso all’accentramento e, di
conseguenza, se n’è cercata la
soluzione attraverso una trasformazione profonda delle strutture statali”.
Da questo concetto che la curatrice esprime nella introduzione al lavoro (pag. 4) si potrebbe
pensare che il ricorso al federalismo sia una presenza solo saltuaria nella storia italiana unitaria.
Invece il contenuto del testo dimostra come il pensiero (e la
tentazione) federalista e autonomista abbia caratterizzato ogni
momento di questi centotrentacinque anni di “difficoltà e di
guasti prodotti dal ricorso all’accentramento”, di cronica crisi
cui non si è mai voluto opporre
l’unico vero rimedio possibile e
auspicabile.
Il volume è una antologia di brani di politici e di pensatori federalisti e autonomisti che copre
tutti i decenni che vanno dalla
Seconda guerra di indipendenza ad oggi. Vi si trovano (brevemente ma esaurientemente inquadrati e commentati) scritti di
Carlo Cattaneo, di Luigi Carlo
Farini, di Giuseppe Ferrari, di
Giuseppe Montanelli, di Luigi
38
40 - Quaderni Padani
Sturzo, fino a Adriano Olivetti,
Gaetano Salvemini, Gianfranco
Miglio e Umberto Bossi, assieme a numerosi altri, magari
meno noti e citati ma non meno
interessanti.
Molti dei pezzi erano difficilmente reperibili e il maggiore
merito del volume stà proprio
nell’essere riuscito a renderli
agibili. Di alcuni di essi si trovavano citazioni ma non erano
agevolmente disponibili alla
consultazione.
Così, il percorrere le pagine dell’antologia presenta numerosissimi momenti di interesse, di
curiosità e di conoscenza.
Si incontra il “federalismo razziale” del siciliano Alfredo Niceforo pieno di quelle stravaganti
considerazioni sulla “forma del
cranio” che distingue i settentrionali arï dai mediterranei che
hanno scatenato feroci polemiche con Napoleone Colajanni e
con altri federalisti meridionali.
Ci sono illuminanti pagine di
Proudhom, di Gino Luzzatto e
di Oliviero Zuccarini; ci sono le
opposizioni al centralismo fascista e ci sono le speranze del secondo dopoguerra.
Di particolare interesse sono le
pagine scritte dagli autonomisti
sardi e siciliani e quelle sugli
sviluppi più recenti della lotta al
centralismo romano.
Vale in special modo la pena di
riportare un brano tratto da
Movimento socialista e questione meridionale (Milano: Feltrinelli, 1963, pagg. 628 ÷ 634) nel
quale Gaetano Salvemini si sofferma su di un problema che
non ha mai purtroppo perso di
attualità.
“(...) Se Cattaneo riaprisse gli
occhi alla luce, troverebbe che
le divisioni politiche dei suoi
tempi sono sparite, e che l’Italia è sgovernata da una masto-
dontica burocrazia accentrata,
la quale provvede anche alle
scuole elementari nel comunello di Scaricalasino. E in cima a
questa burocrazia c’è un unico
Parlamento centrale, che pretende di dettare leggi a quella
burocrazia, mentre in realtà è la
burocrazia che gli dice quali leggi esso deve approvare, e molte
volte non glielo dice nemmeno,
e in ogni caso le applica a modo
proprio.
Cattaneo, secondo il suo metodo di concepire il sorgere di
nuove istituzioni e l’evolversi
delle antiche, prenderebbe come
punto di partenza il presente accentramento burocratico col
suo unico Parlamento pseudosovrano alla sommità; e ricercherebbe come si possa passare
da questo sistema rovinoso ed
assurdo ad un sistema, che si
avvicini più che sia possibile al
sistema federale. Comincerebbe
dal prendere in esame la legge
comunale e provinciale, quale
esisteva alla caduta della dittatura fascista, e sopravvive tuttora. Vi troverebbe il “prefetto”.
Se Lombroso preparasse una
nuova edizione dell’Uomo delinquente, dovrebbe dedicare un
intero capitolo a quella forma di
delinquenza politica perniciosissima, che va sotto il nome di
“prefetto” italiano. Anche prima
di Mussolini costui poteva di diritto fare nelle provincie tutto
quello che voleva, e non c’erano limiti al suo malfare (...).
Occorre, dunque, togliere ai prefetti il diritto di approvare o annullare le deliberazioni dei Consigli comunali e provinciali ed i
loro bilanci, e quello di sospenderli dalle funzioni, o di scioglierli addirittura mandando
commissari. Cioè, affermiamo la
autonomia delle Amministrazioni comunali e provinciali di
fronte ai prefetti, agenti del GoAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
verno centrale nel soffocamento dei governi locali.”
Un importante capitolo è dedicato al movimento cattolico del
“Cisalpino”, nato a Como nel
1945. Questo gruppo, animato
da Tommaso Zerbi, riproponeva la trasformazione dell’Italia
in stato federale organizzato su
Cantoni, uno dei quali (il “Cantone Cisalpino”, appunto) avrebbe dovuto comprendere l’Italia
settentrionale e l’Emilia. Le pagine che sono riportate nella
raccolta antologica (due articoli del 22 luglio 1945) sono di una
sconcertante attualità.
Uno dei brani che chiudono l’antologia è un articolo scritto da
Gianfranco Miglio sul Corriere
della Sera del 28 dicembre 1975
a commento di un intervento
dell’allora Presidente comunista
della Regione Emilia-Romagna
che avanzava un progetto di aggregazione tra le cinque regioni della Valle Padana, che avrebbero dovuto avere un ruolo fondamentale in una politica generale di programmazione regionale e nazionale. Nell’articolo è
messa in discussione la stessa
sopravvivenza dello stato unitario: per Miglio, in realtà, non ci
sarebbero mai state, nemmeno
dopo il 1860, le condizioni per
la sua esistenza. L’unica soluzione è vista nella “consapevole integrazione fra grandi aggregazioni geo-economicamente
omogenee”, com’è appunto la
Padania che costituisce il vero
oggetto dello scritto.
L’articolo è di una attualità stupefacente e delinea (come in una
lucida anticipazione) quelle che
vent’anni dopo diventeranno le
linee guida di gran parte del
movimento autonomista. Il brano si conclude con una delle
brutali e brillanti trovate narrative cui Miglio ci ha da tempo
abituati: “Certo, si tratta di romAnno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
pere con venerate tradizioni
sentimentali; ma io credo davvero che sia ora di pensar meno
all’“Italia” (che è un’astrazione)
e piuttosto invece agli “Italiani”,
che sono una realtà concreta.
Del resto nelle buone famiglie
di una volta, quando le cose andavano male, che cosa si faceva? Il genitore “responsabilizzava” i figli mandandoli a cercare
individualmente quella fortuna
che, stando tutti dentro casa,
non avevano saputo o potuto
trovare”.
Ottone Gerboli
✱✱✱
Sergio Romano
Finis Italiae. Declino e morte
dell’ideologia risorgimentale.
Perché gli italiani si disprezzano
Milano, 1995
pagg. 65, Lit. 5.000
All’insegna del pesce d’oro di
Vanni Scheiwiller
E
dito nel gennaio ’95, questo volumetto si compone di
due brevi scritti di Sergio Romano, significativamente riuniti sotto il titolo “Finis Italiae” (Fine dell’Italia). Ricordiamo che il secondo, più breve, era già stato pubblicato sulla rivista culturale Limes nell’autunno del ’94. I due pezzi
sono strettamente collegati, e
possono essere, a grandi linee,
ricondotti all’analisi dei due
principali momenti della storia unitaria peninsulare: un
primo che va dal 1860 all’immediato dopoguerra, cioè agli
anni ’50 ÷ ’60, e un secondo
che comprende tutta l’epoca
repubblicana.
In Declino e morte dell’ideologia risorgimentale l’autore
tente di dare una spiegazione
del perché, fatta l’Italia, non si
sia riusciti a fare gli italiani,
Biblioteca
Padana
secondo la celebre espressione
del D’Azeglio. Romano ci spiega che fra il marzo e l’ottobre
del 1861, a unificazione appena compiuta (salvo le successive annessioni del Veneto, nel
1866, e di Roma, nel 1870) il
mondo istituzionale italiano
passò bruscamente dalla scelta di un assetto amministrativo all’inglese al suo esatto opposto: lo stato prefettizio di
stampo napoleonico.
Contrariamente a quanto speravano i liberali e Minghetti, l’Italia in pochi mesi divenne uno
Stato assolutamente centralizzato e fondato su un’autorità
poliziesca e borocratica. Le cause che fecero fallire il progetto
regionalista e municipale presentato nel marzo sono essenzialmente riconducibili da un
lato alla ostilità della Chiesa e
delle borghesie locali verso
l’unità italiana, dall’altro alla
profonda distanza socio-economica fra Nord e Sud.
La paura di vedere crollare la
neonata struttura statuale unitaria spinse i governanti a scegliere il modello napoleonico,
già precedentemente applicato
alla Lombardia dopo l’annessione del 1859.
È in questo passaggio che si innesta la tesi di fondo del Romano; lo storico sostiene infatti che
la cosiddetta “ideologia risorgimentale” di cui sono imbevuti i
libri di scuola, non sia altro che
un’invenzione, costruita dalla
classe dirigente per dare un fondamento ideale ad uno stato
centralista, divenuto tale non
per preciso disegno politico,
bensì per contingenze casuali.
Quaderni Padani - 39
41
Biblioteca
Padana
“Anziché raccontare l’unità
come effetto di circostanze impreviste e di opportunistiche
adesioni, la nuova classe dirigente nazionale fu costretta a
raccontarla come il risultato di
un grande sforzo unitario e di
una forte volontà collettiva” .
Ma tutto ciò non sarebbe potuto bastare per cementare uno
stato in cui le differenze erano
incise nella terra, nei fiumi, nelle radici e nella vita quotidiana
di ogni comunità. La politica
tentò quindi di porre rimedio a
una situazione di fatto; gli uomini di governo si divisero ideologicamente in due grandi “famiglie”, come dice Romano,
l’una propensa a “forgiare gli italiani nel ferro e nel fuoco” (da
questa deriveranno l’interventismo e il fascismo), l’altra più
orientata verso una costruzione
delle intime coscienze dei cittadini attraverso la scuola, le istituzioni e le riforme.
Romano delinea sinteticamente
le fasi dello scontro fra i due
gruppi suddetti, culminato nell’intervento militare nella prima
guerra mondiale e nella successiva ascesa del fascismo e relativa partecipazione al secondo
conflitto. Lo scontro decisivo fra
riformisti e militaristi si ebbe
con la Resistenza. Nella sconfitta subita nella seconda guerra
mondiale Romano individua la
radice storica della fine dell'ideologia risorgimentale. Questa tesi è stata peraltro ribadita
recentemente da Renzo De Felice nel volume “il Rosso e il
Nero”, nelle cui pagine il celebre storico sottolinea la data
dell’8 settembre come inizio
40
42 - Quaderni Padani
della fine dell’identità nazionale.
Secondo Romano la definitiva
uscita di scena della grande famiglia politica risorgimentale
andrebbe ascritta al parallelo
affermarsi dei due partiti di massa, DC e PCI, divisi su un piano
ideologico, ma uniti nella latente o esplicita critica alla storia
unitaria, quindi a tutta l’ideologia risorgimentale.
Il primo scritto di Sergio Romano, dunque, si conclude con la
presa d’atto del fallimento dell’originario progetto di fare un
popolo, fatto lo Stato: gli italiani non esistono, almeno nell’accezione di popolo coeso e fiero
delle proprie istituzioni, legato
ad esse da una definita e sentita
identità nazionale. L’Italia si presenta come uno Stato diviso fra
un Nord civile e produttivo e un
Sud prigioniero di se stesso e dei
suoi limiti. A questa netta divisione geopolitica si aggiunge la
frammentazione sociale, dice
Romano, in tante corporazioni
(dai tassisti, ai sindacati, dalla
Chiesa ai partiti), in cui gli italiani si dividono e di cui sole si
fidano. L’Italia odierna è un agglomerato di tribù-corporazioni che si servono dello Stato
come strumento di legittimazione; uno stato che va ormai fondandosi “sulla base di un pragmatico patto di convivenza fra
popoli (!) che parlano la stessa
lingua, vedono la stessa televisione, partecipano allo stesso
campionato di calcio e hanno un
evidente interesse a non pregiudicare, con gesti avventati o decisioni emotive, le prospettive
della loro comune prosperità”
(pag. 39). Resta una domanda:
cosa sarebbe di questa claudicante unità statuale, qualora le
“prospettive di comune prosperità” per i popoli peninsulari, e
in particolare per le nazioni pa-
dane, dovessero tramutarsi in
visioni di un incerto futuro sociale, politico ed economico?
Lasciamo il quesito aperto e passiamo al secondo scritto di Romano, perché gli italiani si disprezzano. Ci limitiamo ad accennare brevemente il contenuto, poiché si tratta di una analisi più specifica di un tema già
visto; l’autore infatti ritorna sul
tema dell’ostilità di DC e PCI per
l’ideologia risorgimentale.
Romano sostiene che se agli italiani è mancato nel dopoguerra
un senso nazionale collettivo,
ciò si deve principalmente ad un
fatto: nonostante la sconfitta
militare, non vi fu una sana autocritica e un effettivo ricambio
della classe dirigente -limitato ai
quadri più alti-; comunisti e cattolici presero il potere, ma tacitamente garantirono alla borghesia e alle masse popolari fasciste che non avrebbero intentato processi politici.
La parola d’ordine fu “concordia
nazionale”, e attraverso di essa
un intero popolo si riciclò, chi
passando da fascista a democratico, chi da nemico oppositore
dello Stato a garante delle istituzioni. In questa anomalia storica, quasi un voluto equivoco
o contraddizione, stanno gli attuali limiti dell’identità nazionale. L’Italia è uno Stato che si fonda, come abbiamo visto, su ideali unitari e collettivi artatamente costruiti; uno Stato che si è
riciclato storicamente senza
processi, bensì all’insegna della
consociazione e del trasformismo - anche oggi sembra debbano soccombere i giudici e
trionfare i soliti vecchi politici uno Stato che suscita nei cittadini quel disprezzo di cui parla
Romano, un disprezzo che è lo
specchio della sconfitta morale
e politica.
Alessandro Storti
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Massimo Viglione
La “Vandea italiana”. Le insorgenze controrivoluzionarie dalle origini al 1814.
Milano: Effedieffe, 1995
317 pagine. Lire 25.000
Quello delle “Insorgenze” è uno
dei capitoli meno conosciuti
della nostra storia. L’occupazione giacobina e poi napoleonica
della penisola sono da sempre
state gabbate dalla storiografia
“ufficiale” come dei prodromi
delle lotte per l’unità: sarebbero cioè stati gli eserciti francesi
di occupazione a gettare il seme
di una “coscienza nazionale italiana” abbattendo i vecchi regimi e unificando di fatto parti
della penisola. E sarebbero stati
i giacobini nostrani a formare il
nucleo di quella élite che qualche decennio dopo avrebbe definitivamente “liberato” l’Italia.
Questa teoria ha trascinato con
sè una serie di corollari, alcuni
dei quali - come la creazione
della bandiera tricolore - sono
entrati con forza nella più coriacea oleografia patriottarda.
In base alla stessa interpretazione di quegli avvenimenti storici, tutti gli episodi di resistenza
antifrancese sono stati bollati
come fenomeni reazionari,
oscurantisti, antiliberali e codini e sono stati sistematicamente demonizzati o minimizzati.
Da qualche anno si stà invece
assistendo ad una vitale operazione di riscoperta di quel periodo e delle lotte tutt’altro che
secondarie che hanno caratterizzato la resistenza antifrancese.
Questo libro si pone nel filone
delle opere che analizzano l’epopea della resistenza e della guerriglia condotta da formazioni
popolari organizzatesi spontaneamente in vaste aree della
penisola.
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996
Le prime “insorgenze” si hanno
quasi subito dopo l’apparizione
sulla scena italiana delle armate francesi: nel 1796 insorgono
Milano, Como, Binasco e Pavia,
la Liguria e la Romagna e poi
quasi tutta la Padania; nel 1797
insorgono di nuovo Urbino, la
Garfagnana e Modena, poi la
Bassa Romagna, Bergamo e Brescia, Venezia, Genova, la Valtellina, e - in mille piccoli e grandi
episodi - gran parte della Padania fino al Tirolo, e fino alle famose e sanguinose “Pasque Veronesi”.
Nel 1798 ancora tutto si infiamma fino all’Italia centrale, fino
a Napoli.
Il vero “anno terribile” dei francesi è però stato il 1799, quando - secondo l’autore - è avvenuta una sorta di “Controrivoluzione generale del popolo italiano”: è l’anno delle vittorie
dell’armata del cardinale Ruffo
che risale la penisola dalla Calabria fino a Napoli. Ma è soprattutto la lotta dei popoli padani a
risvegliare oggi il nostro interesse.
A marzo insorgono l’Emilia e la
Romagna, poi di seguito tutte le
altre terre dove si scrivono capitoli di gloria sconosciuta.
Aosta è conquistata in maggio
da un piccolo esercito di contadini chiamato Régiment des
Soques per i grossi zoccoli di
legno che avevano ai piedi; a
Pavia si distingue il varesotto
Brandaluccioni, il più celebre
“brigante” padano, che di seguito libera Novara, Vercelli, Biella
e Ivrea e assedia Torino; il capitano César Piccaduc libera Santhià; Giovan Battista Ciravegna,
autoproclamatosi “Generale degli insorti” libera Cherasco; i
francesi vengono spazzati dall’Appennino Ligure da schiere di
montanari guidati dal cavaliere
Pietro Cordero di Vonzo (detto
Biblioteca
Padana
“il Santo”) e dal chirurgo Cerrina. Fra gli altri eroi di questa
epopea sconosciuta (che l’autore chiama giustamente la nostra
“Vandea”) ci sono i nobili Giacinto di Montezemolo, il Conte
di Germagnano e il generale
Francesco Vitale, ci sono religiosi come Monsignor Pio Vitale
(vescovo di Alba), don Boetti,
don Marengo e il canonico Filippone che combattono e cadono accanto al loro popolo (un
esempio per certi odierni preti
“patriottici”..), ci sono umili
popolani come il Pagliano di
Mondovì, albergatore come il
più famoso Andreas Hofer.
La guerriglia si addice alle nostre genti quando si tratta di difendere le proprie libertà: come
gli antenati Celti e Liguri (e
come faranno i loro nipoti centocinquant’anni dopo) gli abitanti di gran parte delle terre
padane hanno per anni combattuto la loro eroica e disperata
guerra contro un nemico molto
più forte ma che veniva per togliere autonomie concrete e diritti acquisiti da millenni in
nome di una ideologia astratta
e sanguinaria.
“Le azioni sono abilmente concordate: i contadini attaccano le
retroguardie con imboscate disperdendosi poi sulle colline,
per riunirsi in un altro attacco
improvviso; i movimenti del nemico sono segnalati dai campanili” (pag. 199).
I popoli padani devono oggi riscoprire quelle ignote e gloriose vicende che la storiografia
ufficiale di una Italia troppo preoccupata di difendere i suoi fragili miti e a legittimare una uniQuaderni Padani - 41
43
Biblioteca
Padana
tà artificiosa ha cancellato dai
libri di storia.
Assieme a tutti gli altri eroi per
le lotte di libertà dei popoli padano-alpini è oggi importante
ricordare le gesta dei barbets
arpitani (i barbetti delle valli) o
di un insorgente di Fontanelle
di Boves, detto “Violino”, una
specie di Robin Hood padano,
che tenne in scacco per mesi
ingenti forze francesi e che fu
catturato solo grazie ad un inganno.
Le insorgenze riprenderanno
con uguale vigore anche contro
Napoleone imperatore, soprattutto fra il 1805 e il 1808 anco-
42
44 - Quaderni Padani
ra in tutte le regioni padano-alpine. Questa volta si ricordano i
nomi del rovigotto Giovanni Albieri, dei parmensi Giuseppe
Brussardi (detto il “Generale
Mozzetta”), Covatti e Oroboni,
del piacentino Agostino De Torri (detto “Foppiano”), del piemontese Giuseppe Mayno della
Spinetta (che si definiva “Imperatore della Spinetta e Re di
Marengo”), del bergamasco Pacì
Paciana e - naturalmente - del
notissimo Andreas Hofer.
Si è detto che le vicende legate alle
insorgenze sono state descritte
negativamente dalla storiografia
risorgimentalista che ha nel tempo accreditato l’immagine dei giacobini (e di Napoleone) quali precursori dell’idea di unità italiana
e - di conseguenza - degli insorgenti come reazionari, giocando
anche sull’indubbio ruolo che le
motivazioni di ordine religioso (e
le azioni di parte del clero minore) hanno avuto nella loro azione.
Di fronte all’evidente forzatura
(e alle scomode implicazioni
ideologiche ma anche morali
che comporta ogni riferimento
al giacobinismo) di tale interpretazione, si assiste oggi ad un
tentativo contrario di descrivere le insorgenze come episodi di
una lotta controrivoluzionaria
ma anche “nazionale” contro
uno straniero invasore: sarebbero perciò gli insorgenti e non
più i giacobini i veri precursori
delle lotte risorgimentali.
Si rischia di passare da una forzatura ad un altra e l’autore non
può non sottolineare che “nessun insorgente si sollevò per
unificare l’Italia” o che “la Controrivoluzione nazionale (sic)
del 1799 non fu un’insurrezione “risorgimentale”, nel significato liberal-massonico del termine, ma quasi una Crociata,
contro i nuovi nemici di Dio”
(pag. 130).
Tutto questo è sicuramente vero
ma non basta. Come in Vandea
e in Spagna, gli insorgenti combattevano sì in nome del Trono
e dell’Altare ma anche (e, forse,
soprattutto) per la difesa delle
proprie autonomie, libertà e
antichi diritti che sentivano minacciati da un potere lontano,
vessatore e accentratore. Proprio come gli chuans e i
raquetées, anche i barbetti combattevano infatti per le proprie
culture locali, per le proprie tradizioni (che erano in gran parte
legate alla religione), e per la
difesa della “differenza”. C’è un
lungo filo rosso che collega i
guerrieri della Selva Litana, i
fanti di Legnano, i barbetti, fino
a Chanoux: la difesa delle autonomie dei popoli padano-alpini.
Ottone Gerboli
Anno II, N. 5 - Maggio-Giugno 1996