STARE IN CURVA E SOGNARE DI VOLARE

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STARE IN CURVA E SOGNARE DI VOLARE
[SPORT E CULTURA]
DI ELISA CHIARI
STARE IN CURVA E SOGNARE DI VOLARE
Le cronache calcistiche di Alfonso Gatto, tra fantasia,
I
l quattro è rosso» è un suo verso, un ricordo di scuola. Da studenti faceva simpatia, perché a chi abitava i banchi non
suonava strano e nemmeno ermetico: in classe, sui compiti sbagliati, il quattro rosso si abbatteva inesorabile e dunque familiare. Da
qualche settimana, a trent’anni abbondanti
dalla morte, Alfonso Gatto è tornato ad abitare le librerie, con
pagine che a molti
sembreranno inconsuete: pagine di
calcio, senza versi, perché, tra le tante cose, Gatto
faceva il giornalista sportivo.
Erano anni
proficui quelli,
per lo sport di
penna, gran lusso di scrittori veri: Buzzati, Arpino, Pratolini. E poi
lui, il poeta, ben inserito nel cliché che voleva gli intellettuali
niente affatto
sportivi nel senso pratico del termine. Hanno chiamato il libro La palla
al balzo, quella che Gatto,
destro solo con le parole,
probabilmente non avrebbe
saputo afferrare.
«Gatto era paurosissimo, quando andammo nel Nord Europa venne in cima al campanile
di una chiesa gotica solo perché c’ero io e ci tenevo, ma lui
aveva una paura terribile di salire quegli scalini». A raccontare, con un sorriso tenero e com-
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mosso, è Graziana Pentich, la pittrice triestina che con Gatto ha condiviso oltre 20 anni
di vita: «In bicicletta non aveva mai imparato ad andare, ma aveva per lo sport una passione infantile, totale, per il calcio, per il ciclismo, un’attrazione fatale. L’unico sport
che, da salernitano, faceva bene era il nuoto,
e comunque all’epoca sua lo sport praticato
era una cosa rara, soprattutto per gli intellettuali. Però il
campione era ammirato, più come esempio morale che per
la potenza mi verrebbe da dire economico-materiale: se ne
coglieva la poesia. E
infatti c’era poesia
nel modo che Gatto aveva di scrivere
di sport. Gatto era
un bambino. Aveva
dei bambini la fantasia e anche l’innocenza che però alla sua
età era difficile da gestire, soprattutto nella quotidianità: in casa combinava disastri senza rendersene conto. E poi aveva passione per i miei colori, come i bambini ci giocava: quante volte in casa prendeva uno qualunque,me, il bambino, la signora che aiutava nelle pulizie e diceva: «Fermati lì, cinque
minuti, ti faccio un ritratto”».
Oggi quei ritratti si trovano al Centro manoscritti dell’Università di Pavia assieme alle
sue carte, donate per sua volontà. Con i colori Gatto giocava anche scrivendo, la sua
poesia è piena di pennellate: non solo il
quattro è rosso. «Lo dicevano ermetico»,
continua Graziana Pentich, «ma lui non si
sentiva così, non si sentiva addosso etichette
poesia e illuminazioni sul nostro caro Belpaese
precise. Conservava anche scrivendo un’attitudine infantile alla vita, forse per questo
scriveva con successo per i bambini, ma era
un modo non paternalistico e nemmeno tanto rassicurante, parlava loro da pari a pari».
Il Gatto che emerge dalle pagine di calcio,
però, pur innocente non sembra ingenuo, alla
fine il suo sguardo poetico sul pallone (non
per niente il sottotitolo è Un
poeta allo stadio) coglie attimi di disincanto non solo
sul calcio ma anche sul carattere arruffone di questo
Paese che sopravvive alla
sue tempeste sempre uguale
a se stesso.
«Non è chiaramente una
cronaca sportiva», spiega Filippo Trotta, nipote del poeta, curatore del volume, «sono tante piccole bellissime
note di costume su un calcio che non c’è più e molti
rimpiangono». In compenso alcune pagine potrebbero essere state scritte stamattina: «Quel che si legge in
quelle righe di metà anni Settanta», continua Trotta, «è
un preludio del calcio di oggi, come la società. In alcuni articoli si leggono gli stessi nomi di oggi e temo dipendano
più che dalla lungimiranza del poeta dall’immobilità di una società che non sa cambiare:
l’ingegnosità, nel Belpaese, continua a vincere sul merito, si continua a giocare e a vivere all’italiana, da furbetti assortiti».
Ma nello scrivere di Gatto tutto si mescola e si contamina: poesia, consapevolezza,
amarezza, ironia, sogno, proprio come
quando affidò a un giornale la cronaca della sua infelice avventura a due ruote: «In
bicicletta ci vanno tutti, le donne e i bambini, i preti e i soldati, io soltanto no». Nemme-
no il grande Fausto Coppi era riuscito a insegnargli, pur avendoci provato di persona:
«Ma di una cosa sono certo: che se io sapessi
andare in bicicletta sarei un campione. È ridicolo che ci si serva di quella macchina da angeli per camminare come fanno tutti. Cadrò,
cadrò sempre fino all’ultimo giorno della
mia vita, ma sognando di volare».
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Qui sotto: il poeta Alfonso
Gatto. A sinistra: un suo
disegno di soggetto calcistico
e la copertina del libro
con le sue note sportive
Domenica al crepuscolo
In fondo al pozzo della casa sola
la voce di un bambino che pedala
nel suo grigio universo sotto l’ala
del mantello che vola.
È musica di stanze tra le vuote
specchiere delle porte la partita
che s’ascolta alla radio, è già finita.
Restano voci immote.
Alfonso Gatto
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