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Anno XXXIV, n. 2
RIVISTA DI STUDI ITALIANI
Agosto 2016
NOTE E RASSEGNE
ENRICO BERNARD
LA VORAGINE1
Presentazione di Ermanno Rea
Q
uando ci muoviamo nell’ambito dell’Assurdo, e nel caso della Voragine
di Enrico Bernard siamo in questo contesto, c’è sempre qualcosa di
criptico da decifrare. La Voragine è uno scavo, che si tratti di un
paradosso non c’è bisogno di dirlo: ad un operaio viene ordinato di scavare una
fossa, lui scava finché non tocca il fondo. Da qui una serie di guai e peripezie
per il malcapitato operaio reo di aver compiuto onestamente e letteralmente,
cioè fino al fondo, il proprio dovere. La premessa stessa ci introduce in una
dimensione iperbolica, in una dimensione assurda: uno scavo immotivato
diventa un evento fortemente simbolico poiché la Voragine non può che
simboleggiare il vuoto. Ma che cosa rappresenta il vuoto per l’uomo? È
l’incapacità di rispondere ad alcune domande di fondo: chi sono io? Perché
vivo? L’uomo nel realizzare il viaggio verso il centro della sua coscienza trova
un intoppo: appunto il vuoto, la morte, la finitezza intesa come il non sapere,
come il rovesciamento della certezza kantiana che mettendosi in discussione
diventa una specie di incertezza. Noi non siamo fondamentalmente certi di nulla
perché c’è quell’intoppo che ci impedisce di chiudere il cerchio
dell’autocoscienza. Io sono ‒ ma poi ad un certo punto mi fermo sul limite di
questo baratro, perché non so e non posso andare oltre, non so più dire chi sono,
come sono e perché sono. E che cos’è la Voragine, se non questo vuoto, questa
incertezza e questo non sapere? A me pare che già la parola stessa Voragine
evochi, anzi implica quello che è già il vero grande dramma dell’uomo moderno.
Tant’è che volendo fare dei richiami colti a questo proposito, potrei dire che
alcuni filosofi ritengono che in origine gli uomini si riconoscono come simili in
virtù del sentimento del vuoto, sono uniti in comunità dal fatto di non sapere
nulla del proprio destino e del senso della loro presenza: questo fa dunque
nascere il senso della comunità, il nulla cui siamo assoggettati. Noi ci mettiamo
insieme sapendo di avere in comune un vuoto, una Voragine da riempire, una
inconsapevolezza che ci rende gli uni simili agli altri.
Il testo di Bernard, già dall’efficace titolo La Voragine, ci pone di fronte ad
un urlo squassante che emerge dal vuoto delle nostre coscienze. Ma è soltanto
il vuoto filosofico, esistenziale, o c’è dell’altro? Ecco allora che il buco di
Bernard via via si allarga attraverso anelli concentrici ed elenca una serie di
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Enrico Bernard, La voragine, con interventi di Silvia Acocella, Paolo Ferrari,
Mario Moretti, Trogen (Svizzera): BeaT, 2016, pp. 139.
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ERMANNO REA
insensatezze, stravaganze, non sense inquitanti. In primis l’insensatezza
centrale, fondamentale: quella del comando e dell’ordine, cioè della direzione
in cui ci muoviamo ed agiamo. Il significato del potere e del comando. Il testo
infatti pone questo interrogativo: che cos’è il potere, che cos’è il comando? Su
questo punto naturalmente Bernard pone dei problemi: un Capo che non è il
capo, un uomo che è consapevole della sua limitatezza e che dice: io non
comando nulla, comando solo te. E il mio potere inizia e finisce con te, io non
sono a mia volta che un Signor Nessuno, un anello appena sopra di te. Gli ordini
arriveranno, o non arriveranno? Non si sa. Il vuoto è quindi orizzontale e
verticale, investe la condizione umana da tutte le parti. Se questa è la condizione
umana, se il vuoto e l’insensatezza e ciò che sostanzialmente ci governa, è
chiaro che poi si prospetta una visione di tipo fondamentalmente pessimistico
in cui esplode il teatro dell’assurdo. Il linguaggio stesso di Ori e del suo Capo
si fa insensato o meglio ogni senso si fa illegittimo. E qui, in questo farsi
insensato, illegittimo, si apre ad una serie incalzante di paradossi, di sberleffi,
di ironie.
Un altro elemento che mi ha colpito perché sottolinea questa condizione ‒
e qui c’è, bisogna riconoscerlo, un elemento di critica, di denuncia politica che
sopravanza il teatro dell’assurdo ‒ Ori è l’ultima ruota del carro. Non basta che
sia umiliato nei suoi diritti fondamentali, al lavoro, sul reddito, e così via, ma
deve essere umiliato in ciò che lui ritiene un punto nevralgico del suo esistere,
cioé la sua onorabilità affettiva, familiare. Perché in realtà il Capo che cosa gli
dice? Il mio potere in fin dei conti serve solo a fottermi tua moglie, a darti questa
ulteriore umiliazione. Ori reagisce senza nessuna particolare violenza, è una
sorta di umiliata rassegnazione o di rassegnata degradazione.
Una “morale”? Certo, che c’è. Anche se lo spettatore, spaesato, si fa di
minuto in minuto più impaziente, inquieto, smanioso che essa si dichiari
apertamente, gli dica: la morale sono io, sciocco, come hai fatto sinora a non
riconoscermi? Gli uomini di teatro (quelli di razza, ovviamente) sanno bene
come prendere al laccio il pubblico, come tenerlo sulla corda, con il fiato
sospeso. Insomma, la morale è che al mondo non esiste alcuna morale, in quanto
siamo tutti prigionieri dell’insensatezza. Soltanto che non vogliamo
riconoscerlo. E pur di non riconoscerlo non esitiamo a cacciarci in ogni tipo di
guaio, fino a sfidare il ridicolo. Dice Ori, manovale d’infimo rango e
personaggio chiave di questo movimentato dialogo semifilosofico (cito a
memoria): “Gli ordini non arrivano… così uno non sa che fare. E si domanda:
e se non dovessero arrivare mai?”
Per Ori gli ordini che non arrivano sono una trasparente metafora di
quell’inafferrabile “senso delle cose” che turba da sempre la nostra coscienza
di esseri appartenenti al mondo della finitezza.
Credo che uno dei nodi principali (non il solo, per carità, ma neppure
l’ultimo) di quest’opera significativamente intitolata LA VORAGINE (tutto in
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ENRICO BERNARD
LA VORAGINE
maiuscolo, come a rendere la parola ancora più maestosa e inquietante) sia
racchiuso proprio in queste poche battute pronunciate non senza una vena di
disperazione.
Ma che cosa è, o meglio che cosa intende rappresentare Bernard attraverso
l’immagine della Voragine (in minuscolo, onde non smarrire prima del tempo
il poco equilibrio che ci resta)? La risposta è ovvia: quel gran vuoto che è la
vita, quell’abisso privo di senso che tutti vorremmo prima o poi colmato ma sul
quale una parola rivelatrice non sarà mai pronunciata. Da nessuno.
Una metafora del nulla che ci schiaccia, dunque? E perché no? Una metafora
che ci pone di fronte alla crudezza di una realtà fine a se stessa; una metafora
che sa farsi sberleffo, irriverenza, scurrilità; che sa trascinarci con disinvoltura
nel baratro dell’assurdo. Tanto, al di là delle apparenze, non ci sono che loro,
le ombre, il grande vuoto pneumatico della Voragine, e ci sono le sofferenze e
le umiliazioni di Ori per forza di cose senza alcuna prospettiva di riscatto.
Eppure, questo dialogo del nulla, come lo si potrebbe alternativamente
intitolare, forse proprio per il suo pessimismo radicale ha una straordinaria forza
di trascinamento: irrita, commuove, impietosisce, turba, allarma. Insomma
mette addosso quello scompiglio che soltanto i grandi testi sanno suscitare. Ori
e il suo “Capo” si trasformano rapidamente da personaggi-simbolo, esseri
convenzionali, in uomini in carne e ossa con i quali lo spettatore vorrebbe
interloquire, ora indispettito, ora esilarato (la farsa non minaccia forse da vicino
l’assurdo tanto quanto l’assurdo minaccia costantemente la farsa?).
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