Divina Commedia. Paradiso
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Divina Commedia. Paradiso
LECTURA DANTIS dedicata a Mons. Giovanni Mesini “il prete di Dante” Divina Commedia. Paradiso letto e commentato da Padre ALBERTO CASALBONI dei Frati Minori Cappuccini di Ravenna Canto VI Cielo secondo o di Mercurio. Anime che operarono il bene per conseguire onore e fama. Giustiniano imperatore. Vicende gloriose dell’Aquila Romana. Abuso del “sacrosanto segno”. L’esilio di Romeo da Villanova. “Poscia che Costantin l’aquila volse/ contra ‘l corso, ch’ella seguio/ dietro a l’antico che Lavinia tolse”, è l’inizio del canto e la risposta alla prima delle due domande “non so chi tu se’” che Dante, nel canto precedente, ha posto all’anima di questo cielo: dopo che Costantino rivolse l’aquila romana in direzione contraria al corso del sole, invertendo così il corso di Enea che era fuggito da Troia ed era giunto in Italia a fondare Roma, sposando Lavinia, figlia del re Latino e già promessa sposa dell’eroe locale Turno; bene, dice quell’anima, erano trascorsi due cento anni da questo evento quando fui eletto imperatore a Costantinopoli, ormai nuova sede dell’impero: “Cesare fui e son Giustiniano”. Questa l’essenziale presentazione, a rimarcare il nome, ma non più la carica. Seguono poi alcune linee biografiche essenziali del personaggio. La prima: “d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano”. Si tratta del Codex juris civilis. L’espressione di Dante sottolinea la ricodificazione del diritto romano, aggiornato e depurato dei provvedimenti che lungo i secoli, ancora al tempo degli imperatori romani, si dimostrarono superati, superflui, vani. Quella di Giustiniano è un’opera che per la cultura occidentale costituisce una pietra miliare: la codificazione del diritto romano, diventato diritto delle genti, riscoperto dalla scuola bolognese di diritto, fondata nei primi decenni del dodicesimo secolo da Irnerio; diritto che, pur diversamente interpretato e applicato, rimase in vigore fino al codice napoleonico. Questo a sottolineare la centralità del potere imperiale; e tuttavia, trattandosi ora di un’anima del paradiso, l’onore dell’opera non può che riferirlo tutto a Dio “per voler del primo amor ch’i’ sento”. La seconda concerne la sua conversione dal monofisismo, eresia che attribuiva a Cristo una sola natura: o solo quella divina, in questo caso è conseguente la negazione della vera umanità di Gesù; o solo quella umana, in tal caso ne veniva negata la divinità: ambedue le soluzioni erano a scapito della redenzione dell’umanità, come invece sostiene la Chiesa, e come ora, con il lume della gloria, Giustiniano può vedere, per lui così evidente come per noi è chiaro che fra due proposizioni contraddittorie, una è vera e l’altra è falsa, “vegg’io chiaro sì, come tu vedi/ ogni contradizione e falsa e vera”; egli deve la conversione al “benedetto Agapito, che fue/ sommo pastore”. Una volta risolto il problema teologico e lasciata ogni incombenza militare al fido generale Belisario, attività anche questa benedetta da Dio, ebbe tutto l’agio di dedicarsi a “l’alto lavoro” del diritto. E qui termina la risposta a Dante, “a la question prima”, ossia chi egli sia. Ma perché il discorso abbia un senso compiuto “sua condizione/ mi stringe a seguitare alcuna giunta”: in estrema sintesi tratteggia la storia e la funzione dell’impero romano, dalla fondazione da parte di Enea, fino ad oggi, ai tempi di Dante, “perché tu veggi con quanta ragione/ si move contr’al sacrosanto segno/ e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone”, rispettivamente i guelfi bianchi e neri. Soggetto del discorso d’ora in poi sarà il “sacrosanto segno”, l’aquila romana, metafora dell’impero, da Enea ad Arrigo VII, senza soluzione di continuità; comprendiamo così come questo sesto canto non abbia un mero valore di memoria storica, ma sia intriso di attualità politica, come del resto il sesto dell’Inferno e del Purgatorio. Tutto ha compiuto Roma, con il suo simbolo, e per mezzo dei suoi uomini migliori. E comincia dal giovane Pallante, ucciso da Turno; quindi Ascanio che fonda Alba Longa, la sfida tra i tre fratelli Orazi e Curiazi; con il “ratto delle sabine” si compie l’unione dei discendenti di Enea con i Sabini; segue la storia dei sette re di Roma, fino allo stupro di Lucrezia, moglie di Collatino, da parte del figlio di Tarquinio il Superbo, cui seguì la fine della Monarchia e la fondazione della Repubblica con Bruto e Collatino che, “vincendo intorno le genti vicine” cominciò a fondare l’impero. Fra alterne guerre di difesa e di conquista, in successione, “li egregi/ romani” dovettero affrontare i galli Senoni di Brenno, gli epiroti di Pirro, e altri regni e repubbliche “altri principi e collegi”, guerre alla fine vittoriose, grazie a personaggi eccelsi, quali Tito Manlio Torquato, ligio alla disciplina militare fino a condannare a morte il proprio figlio, reo di un atto di alto valore, ma in contrasto con gli ordini del padre; poi Tito Quinzio Cincinnato, le famiglie de “i Deci e ‘ Fabi”. “Esso atterrò l’orgoglio de li Arabi”, è sempre il sacrosanto segno a vincere i cartaginesi di Annibale, di origine fenicia, ma qui, per trasposizione, detti arabi, dopo la conquista dei musulmani nel settimo secolo; per l’occasione viene citato il grande generale romano della seconda guerra punica, Scipione l’Africano; poi Pompeo; quindi la vittoria dei consoli sui congiurati di Catilina a Pistoia e la distruzione di Fiesole che diede asilo ai congiurati superstiti. Seguono ancora in estrema sintesi le vicende di Giulio Cesare, dalla campagna di Gallia fino alla guerra civile contro Pompeo, iniziata varcando il fiume Rubicone, pomerio invalicabile in armi; alla morte di Cesare il “baiulo seguente”, ossia chi lo seguì “portatore del segno”, Ottaviano Cesare che sconfisse i cesaricidi Bruto e Cassio, poi Antonio e Cleopatra, dilagando “infino al lito rubro”, al mar Rosso; ponendo così fine alle guerre di conquista; con lui il sacrosanto segno “puose il mondo in tanta pace,/ che fu serrato a Giano il suo delubro”, “toto orbe in pace composito” dirà l’evangelista. Bene, dice Giustiniano, tutto quello che fin qui l’aquila romana ha compiuto e tutto quello che poi farà “diventa in apparenza poco e scuro,/ se in mano al terzo Cesare si mira/ con occhio chiaro e con affetto puro”: Con il terzo Cesare, Tiberio, siamo all’apice della missione dell’antico impero romano: Gesù, Dio incarnato, viene ucciso, e con ciò “la viva giustizia” divina concedette all’impero Romano la “gloria di far vendetta a la sua ira”, di ricomporre l’ira divina conseguente al peccato originale. E tuttavia non poteva passare inosservata la colpa di chi fu responsabile di tale morte; pertanto il sacrosanto segno “con Tito a far vendetta corse/ de la vendetta del peccato antico”, a punire cioè i Giudei con la distruzione del tempio. Come e perché giustizia divina e colpa umana si intreccino, sarà tema del prossimo canto. In tempi più recenti, aggiunge Giustiniano, e così conclude l’excursus storico, a vendicare “il dente longobardo”, sorse Carlo Magno, in perfetta continuità con l’antico impero romano. “Ormai puoi giudicar di quei cotali/ ch’io accusai di sopra e di lor falli,/ che son cagion di tutti vostri mali”. Qui siamo alla condanna di quanti all’impero si oppongono, e non solo Ghibellini e Guelfi, neri e bianchi; “l’uno”, ad appropriarsi della legittimità del segno, sono i Guelfi, partigiani di Filippo il Bello, re di Francia, di cui “i gigli gialli” sono emblema; “l’altro”, sempre per partigianeria, sono i ghibellini: entrambi a torto. Finalmente, e in maniera esplicita, giunge la condanna “faccian li Ghibellin, faccian lor arte/ sott’altro segno” dal momento che il loro operare politico nulla ha a che fare con la giustizia, “chi la giustizia e lui (il segno) diparte”; ma neppure i Guelfi di “esto Carlo novello”, Carlo II d’Angiò: abbia timore “tema de li artigli/ ch’a più alto leon trasser lo vello”; e non creda che Dio abbia mutato il segno dell’aquila con i gigli gialli di Francia! Termina così il corollario alla risposta alla prima domanda; ora passa alla seconda, “questa picciola stella si correda/ d’i buoni spirti che son stati attivi/ perché onore e fama li succeda”; queste anime, pur gloriose per il loro “ben far”, hanno operato più in vista della loro fama che solleciti della gloria divina, “sì disvïando” ne consegue “che i raggi/ del vero amore in sù poggin men vivi”, come invece saranno più vivi, più puri nel loro operare quelli che incontreremo nel cielo di Giove; e come le anime del cielo precedente, anch’essi comprendono il divino equilibrio fra merito e premio “i nostri gaggi”, e di questo godono, “quindi addolcisce la viva giustizia/ in noi l’affetto”, in un divino concerto di “dolce armonia”: “diverse voci fanno dolci note”. E qui termina la seconda risposta. Giustiniano scruta ancora la curiosità di Dante e lo gratifica “e dentro a la presente margarita/ luce la luce di Romeo, di cui/ fu l’ovra grande e bella mal gradita”; una terzina contesta di polittoto “luce” e di antitesi “ovra grande e bella” opposta a “mal gradita” con vicendevole risalto. A noi meno interessa l’operato di Romeo, il fatto cioè che abbia regalmente accasato le quattro figlie di Ramondo Beringhiere e la proficua gestione del suo patrimonio, ma molto di più l’iniquità del trattamento nei confronti “del ben fare” al punto di “dimandar ragione a questo giusto”. Romeo non ha atteso l’ingrata sentenza, “partissi povero e vetusto”. Amara e bella la considerazione finale: “se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe/ mendicando sua vita a frusto a frusto,/ assai lo loda, e più lo loderebbe”. Con questa nota, da cui trasuda tutta la personale esperienza dell’esule Dante, termina il lungo discorso di Giustiniano, che occupa l’intero canto, dalla prima all’ultima parola.