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Capitolo 4
Tempi di lavoro e valorizzazione delle competenze
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Nei 45 trimestri di ininterrotta espansione dell’occupazione (dal terzo trimestre del 1994)
l’Unione europea realizza un incremento di più di 20 milioni di occupati (+13,6%), con un tasso
medio di crescita trimestrale dell’1,1%. Dopo il quarto trimestre del 2002 (quando la crescita è
soltanto dello 0,5%), la dinamica dell’occupazione nell’Ue mette a segno una nuova accelerazione
che consente di ritornare, nella media dei primi tre trimestri del 2005, a un tasso di crescita
tendenziale dell’1,4%.
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Anche l’espansione occupazionale italiana, che ha inizio nel quarto trimestre del 1995, è
caratterizzata da una durata senza precedenti: 41 trimestri, con un aumento complessivo del
numero degli occupati di 2,7 milioni di unità rispetto al primo trimestre 1995 (+13,8%).
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Il recupero italiano rispetto all’Unione europea si riscontra soprattutto nella riduzione della
disoccupazione che, dal 2004 in poi, raggiunge un livello inferiore (sia pure di poco) a quello
medio dell’Ue15.
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A partire dal quarto trimestre del 2003, tuttavia, il calo della disoccupazione in Italia si
accompagna, a una crescita della popolazione inattiva, in particolare nelle regioni meridionali.
Inoltre, dal secondo trimestre del 2004 la crescita occupazionale subisce un ridimensionamento: il
tasso medio di variazione tendenziale scende a +0,7 punti percentuali e, nella seconda parte del
2005, la dinamica quasi si arresta.
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La settimana lavorativa media è differente, ma non molto, nei vari paesi europei e riflette le
diverse composizioni della struttura dell’occupazione. La lunghezza dell’orario medio effettivo
degli occupati italiani è legata a molti aspetti strutturali, come la minore partecipazione femminile
al lavoro e (in prevalente associazione con questa) la minore diffusione del part time (12,8%
contro 20,2% della media europea), ma anche alla maggior diffusione di microimprese e di
lavoratori autonomi (27% circa), entrambi segmenti del mercato del lavoro in cui l’orario di
lavoro è superiore a quello medio.
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L’orario di lavoro varia con il tipo di occupazione e le caratteristiche individuali dei lavoratori: i
lavoratori a tempo pieno hanno orari settimanali quasi doppi rispetto a quelli a tempo parziale, gli
occupati maschi lavorano in media circa un quarto più delle lavoratrici. Anche le caratteristiche
dell’impresa e la posizione nella professione influenzano la durata degli orari lavorativi.
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In Europa uno stesso livello di impegno lavorativo per persona in età di lavoro può essere il
risultato della combinazione di orari medi e tassi di occupazione anche molto diversi. Anzi, i
paesi europei nei quali è molto ampia la partecipazione al lavoro (ad esempio Paesi Bassi,
Danimarca, Svezia, Regno Unito) presentano orari medi generalmente più bassi, mentre i paesi
con una base occupazionale più ridotta (Grecia, Spagna, Nuovi Paesi Membri, Italia) presentano
all’opposto orari effettivi superiori alla media.
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Nel contesto europeo, la modulazione del lavoro in orari “non standard” risulta ancora
relativamente meno diffusa in Italia, in particolare nel confronto con Francia e Regno Unito, che
presentano quote più alte di occupati, sia maschi sia femmine, impegnati nel lavoro serale (22%
degli italiani, 34,3% in Francia e 45% nel Regno Unito) e in quello domenicale (18,8% degli
italiani, 29,7% in Francia e 30% nel Regno Unito). Tuttavia, sono solo poco più di un terzo gli
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italiani che svolgono una prestazione lavorativa full-time dal lunedì al venerdì, in ore
sostanzialmente diurne e senza turnazioni e/o straordinari. L’organizzazione “standard” del
tempo di lavoro nella settimana risulta particolarmente poco diffusa tra gli autonomi, per i quali il
lavoro a tempo pieno svolto anche nel fine settimana (sabato, domenica o entrambi) è la
combinazione relativamente prevalente (38,3%).
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Come si articola la giornata lavorativa? I lavoratori autonomi dedicano mediamente al lavoro circa
un’ora in più dei dipendenti. Il lavoro retribuito assorbe una quantità di tempo quotidiano
maggiore per imprenditori, lavoratori in proprio e dirigenti. Questi ultimi, tra i lavoratori alle
dipendenze, rappresentano la categoria con un bilancio del tempo quotidiano più simile a quello
degli autonomi.
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I dipendenti hanno generalmente un orario lavorativo più concentrato dalle 9.00 alle 17.00; per gli
autonomi, invece, la parte centrale della mattinata e il pomeriggio presentano una frequenza di
partecipazione molto simile e comunque più elevata. Un’altra differenza riguarda la pausa pranzo.
L’abitudine di interrompere l’attività lavorativa per il pranzo è più diffusa tra gli autonomi: tra le
13.00 e le 13.30 poco meno di un terzo dei dipendenti lavora, contro il 19% circa degli autonomi.
Dopo le 13.30 la frequenza di partecipazione degli autonomi cresce, per avvicinarsi ai livelli dei
lavoratori dipendenti dopo le 14.30 e superarli solo dalle 15.00 in poi.
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Gli autonomi dispongono quindi di meno tempo per le attività non lavorative e dedicano meno
tempo anche alla cura della famiglia. Tuttavia, se la riduzione del tempo libero accomuna uomini
e donne con posizioni di lavoro autonomo, la diminuzione del tempo di lavoro familiare riguarda
invece essenzialmente gli uomini. Per le donne, infatti, il tempo per il lavoro familiare resta molto
più rigido e difficilmente soggetto a compressione.
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Le donne lavorano di più se non hanno carichi familiari, dunque se sono single o vivono con i
genitori. Vivere con un partner e, soprattutto, avere figli comporta un aumento del tempo di
lavoro familiare e una riduzione del tempo dedicato al lavoro retribuito. Per gli uomini si
riscontra il contrario: sono gli occupati in coppia con figli a dedicare una parte più cospicua della
propria giornata al lavoro retribuito.
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Nonostante l’aumento della quota degli occupati con diploma di istruzione post-secondaria (dal
9,6% al 14,4% tra 1995 e 2005) e, in particolare, nonostante il recupero del divario nelle
professioni qualificate (professionisti e tecnici), soltanto per tre quarti degli occupati (16,6 milioni
di persone) c’è corrispondenza tra titolo di studio conseguito e professione esercitata: 1,9 milioni
di occupati (il 9,0% del totale) svolgono un lavoro più qualificato di quanto consentirebbe il loro
titolo di studio, ma un numero quasi doppio (3,7 milioni, pari al 16,5% del totale) possiede un
titolo di studio superiore a quello che sarebbe richiesto dalla loro professione.
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I lavoratori sottoinquadrati hanno due profili prevalenti. Nel primo caso, si tratta di 1,9 milioni di
giovani con un livello medio-alto di istruzione che da pochi anni hanno concluso il percorso di
studi e iniziato a lavorare. Nel secondo caso, meno consistente (circa 1,4 milioni), sono adulti
inseriti nel lavoro da molti anni, per i quali la possibilità di esercitare una professione più consona
alle proprie credenziali formative appare limitata.
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Si registra una maggiore incidenza di occupazione sottoinquadrata nelle forme di lavoro meno
tradizionali. Il 43,8% degli occupati a termine, il 34,5% di quelli in part time e il 31,1% dei
lavoratori con rapporti di collaborazione è impiegata in lavori poco qualificati. Per i giovani fino a
34 anni l’incidenza dei lavoratori sottoinquadrati nell’occupazione a termine raggiunge il 47,4%.
Possedere un diploma o una laurea non modifica le possibilità di trovare un lavoro a termine
adeguato al titolo di studio. Viceversa, per i contratti di collaborazione il 45,5% dei laureati svolge
un lavoro poco qualificato mentre ciò è vero solo per il 22,0% dei diplomati.
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Nella media dell’Ue25, livelli di istruzione più elevati assicurano ai giovani maggiori probabilità di
occupazione e minori rischi di disoccupazione. In Italia, invece, il tasso di occupazione dei
giovani di età tra i 20 e i 29 anni con un livello di istruzione secondario è pari al 53,3% (tra i più
bassi d’Europa), mentre quello dei giovani laureati si riduce al 50,2% (il più basso in assoluto,
inferiore di oltre 25 punti percentuali a quello medio dell’Ue25). Per effetto della maggiore età
alla quale si consegue il titolo, l’Italia è l’unico paese europeo in cui il tasso di occupazione dei
laureati tra i 20 e i 29 anni è inferiore a quello dei coetanei con un livello di istruzione inferiore.
Soltanto dopo i 30 anni i livelli italiani convergono verso quelli medi europei.
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Il livello di istruzione contribuisce a determinare la condizione dei giovani nel mercato del lavoro
italiano. I giovani con un basso titolo di studio presentano una maggiore propensione a rimanere
fuori sia dal mercato del lavoro sia da percorsi formativi, e incontrano maggiori difficoltà a
trovare una nuova occupazione quando abbiano perso un precedente lavoro.
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È il maggiore sostegno familiare a consentire ai giovani di intraprendere percorsi di studio più
lunghi, come pure a permettere loro di discriminare tra le opportunità occupazionali, anche
quando la scelta migliore comporta attese più lunghe. Aumenta infatti la propensione a
proseguire gli studi degli studenti di 19 anni che hanno conseguito il diploma di maturità: su 100
maturi oltre tre quarti si immatricolano nel 2004/2005 contro il 64% del 1999/2000.
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Pur avendo conseguito titoli di studio mediamente più elevati, i giovani fino a 35 anni presentano
nel 2002 un differenziale retributivo grezzo del 26% rispetto agli adulti. Anche depurando il dato
dalle differenze dovute alle diverse caratteristiche individuali (tra le quali il titolo di studio) e alla
differente distribuzione tra i posti di lavoro (per settore, qualifica, dimensione aziendale) permane
un differenziale netto pari al 17%.
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Nel 2004 e nel 2005 l’andamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti segna un’evidente
discontinuità rispetto agli anni precedenti. Nell’insieme dell’economia le retribuzioni fissate dai
contratti nazionali di lavoro si caratterizzano per una dinamica particolarmente sostenuta, con
forti differenziazioni a livello settoriale.
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Infatti, nel quadriennio precedente (2000-2003), a fronte di un’inflazione effettiva che supera
costantemente quella programmata, i sindacati mirano al pieno recupero del potere d’acquisto
perso. L’entità delle rivendicazioni rendono faticose le trattative per i rinnovi contrattuali, mentre
la stagnazione della produttività riduce gli spazi per la contrattazione salariale decentrata. Sono
questi gli elementi che pongono le basi per l’accelerazione delle retribuzioni contrattuali che
caratterizza il biennio 2004-2005.
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La misura del rallentamento della contrattazione è quantificabile attraverso due indicatori di
tensione contrattuale: dal 2001 al 2004 la quota di dipendenti in attesa di rinnovo nell’insieme
dell’economia è in continua crescita (dal 32% al 44%) e segna una lieve diminuzione solo nel
2005; la durata media della vacanza contrattuale per dipendente, invece, cresce anche nel 2005,
portandosi da 3,4 a 5,2 mesi. Se nell’industria quest’ultimo indicatore registra generalmente valori
contenuti, nei settori dei servizi e della pubblica amministrazione la situazione di difficoltà è
nettamente più marcata.
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