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il posto dell`utopia - web.rete.toscana.it
POLITICA Stefàno:
su B. decide la giunta
YEMEN Guerra
al terrore. Atto II
SCIENZA Le radici
arabe dell’Occidente
N. 35 | 7 SETTEMBRE 2013 LEFT+L’UNITÀ 2 € (0,80+1,20)
Da vendersi obbligatoriamente insieme al numero del 7 settembre de l’Unità.
Nei giorni successivi euro 0,80 + il prezzo del quotidiano
SETTIMANALE LEFT AVVENIMENTI
POSTE ITALIANE SPA - SPED. ABB. POST.
D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004
N. 46) ART. 1, COMMA 1 DCB ROMA
ANN0 XXV - ISSN 1594-123X
AV V E N I M E N T I
Alla follia del capitalismo risponde un villaggio andaluso.
Viaggio a Marinaleda dove la crisi non c’è
IL POSTO DELL’UTOPIA
di Manuele Bonaccorsi, Paolo Cacciari ed Elvira Corona
la settimanaccia
2
left.it
7 settembre 2013
left
left.it
AV V E N I M E N T I
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LA TESTATA FRUISCE
DEI CONTRIBUTI
DI CUI LA LEGGE AGOSTO 1990, N. 250
left 7 settembre 2013
LA NOTA DI
Maurizio Torrealta
Il Pil e la vita
della gente
I
l 18 marzo del 1968, Bob Kennedy, tre
mesi prima di essere ucciso, tenne
all’universita del Kansas il più bello dei
suoi discorsi: il famoso discorso sul Prodotto interno lordo. Disse:
«Il nostro Prodotto interno lordo si aggira sugli 848 miliardi di dollari ma non possiamo misurare lo spirito del Paese sulla
base dell’indice Dow-Jones, né i successi del Paese sulla base del Prodotto interno lordo. Nel Prodotto interno lordo è incluso anche l’inquinamento dell’aria e la
pubblicità delle sigarette, e le ambulanze
per sgombrare le nostre autostrade dalle
carneficine dei fine settimana.
Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni
per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per
migliorare la disseminazione della peste
bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le
rivolte, e non fa che aumentare quando
sulle loro ceneri si ricostruiscono i quartieri ghetto. Il Pil non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità
della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la
bellezza della nostra poesia o la solidità
dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della
giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il Pil non misura né la nostra arguzia né
il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra
compassione né la devozione al nostro
Paese. Misura tutto, in breve, eccetto
ciò che rende la vita veramente degna
di essere vissuta».
Nel 1968 il Pil italiano era di circa 87,94
miliardi di dollari e ora è di 2.295 migliaia di miliardi ma in calo dell’1,8% rispetto all’anno precedente. Parlare di queste
cifre non spiega e non soddisfa i desideri
della gente che vive nel nostro Paese, non
spiega e non realizza i valori che considera importanti, non descrive e non prefigura la qualità della nostra vita. La distanza
dell’economia dalla politica e dalla vita reale, ci porta ad affrontare un discorso più
complesso: quello dell’impossibilità di teorizzare una crescita continua, non solo perché il ritorno a un tasso di sviluppo
positivo non sarà così vicino come dicono i nostri governanti, ma perché non sarà
né teoricamente possibile né socialmente
sostenibile. Abbiamo provocatoriamente dedicato la copertina di questo numero di left a un paese dell’Andalusia che facendo scelte diverse è riuscito a neutralizzare i danni della recessione, abbiamo dedicato una serata della festa di left, il 13 di
settembre alla Città dell’altra economia
di Roma, a un dibattito sull’uguaglianza
al tempo della decrescita, al quale invitiamo a partecipare tutti i lettori. Dedicheremo uno spazio di left ogni 15 giorni a informarvi delle piccole rivoluzioni dei Comuni italiani. Non sappiamo chi scrisse il discorso di Bob Kennedy all’università del
Kansas e non sappiamo chi organizzò la
sua morte 3 mesi dopo, ma sappiamo che
le cose che disse in quel lontano 18 marzo
del 1968, oggi dopo 45 anni, sono ancora
drammaticamente attuali.
3
l’appuntamento
left.it
#festaleft
di Andrea Ranieri
Alla Città dell’altra economia di Roma, left incontra politici, intellettuali,
movimenti e amministratori virtuosi. Tre giorni per costruire un ponte
tra esperienze diverse e proporre un nuovo modello culturale
S
ettembre si annuncia come un mese
decisivo per la sinistra. Per lo meno per
quella che non ha accettato il pasticcio
delle grandi intese e che sente necessario ridefinire un orizzonte per chi crede ancora alle idee
di libertà, di fraternità e di uguaglianza, che sono
il filo della nostra stessa Costituzione. Valori che
difficilmente possono trovare spazio nella pratica di un governo che sta in piedi col consenso di
una destra più fra le più indecenti d’Europa.
C’è chi l’orizzonte vuole recuperarlo mettendo
in rete e organizzando le esperienze di mobilitazione e di iniziativa popolare che sono state il fatto più sign
significativo di questi anni. La protesta sociale che ha
h visto protagonista la Fiom di Landidi autogestione di chi non si è
ni, le esperienze
esp
pe
rassegnato ai diktat liberisti, le mobilitazioni per
i beni comuni.
co
L’acqua, la terra, la cultura il paesaggio. Esperienze cresciute fuori e taes
lora contro la sinistra politica.
E ci sarà il congresso di Sel, che dovrà decidere se accontentarsi di una
Settembre si annuncia
un mese decisivo per la sinistra
Illustrazioni
di Fabio Magnasciutti
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posizione di opposizione parlamentare alle larghe intese, magari candidandosi a essere la stampella di sinistra in una coalizione con un Pd sempre più centrista, o se recupererà una capacità di
apertura ai movimenti, alla sinistra sociale e culturale, con l’obiettivo della ricomposizione di un
unico grande partito della sinistra.
E dovrebbe finalmente prendere avvio il congresso del Pd, tenuto in stand by da un gruppo dirigente timoroso che l’apertura di una discussione
aperta sulle vicende che hanno portato alle larghe intese possa mettere in discussione la tenuta
del governo. L’avvio non è dei più entusiasmanti.
Letta e Renzi i nomi più gettonati. Ma i contrasti
sono più di stile che di sostanza. Su chi ha più appeal mediatico e maggior piglio decisionista. Su
chi può più rapidamente farci vincere le elezioni,
senza interrogarsi sulle ragioni di fondo che hanno fatto sì che mentre crollava l’inganno neolibe-
rista e Berlusconi perdeva milioni di voti, il Pd sia
clamorosamente arretrato. Dimostrandosi incapace di proporre un nuovo modo di governare e
un diverso modello di sviluppo. E su questa deriva si riaccomoda il ceto politico vecchio e nuovo
del Pd, magari spostandosi da un fronte all’altro
per rimanere comunque a galla. Può darsi che in
questo modo riuscirà a conquistare qualche deluso di Berlusconi, ma difficilmente potrà riconquistare i 3 milioni e mezzo di voti persi, e coloro
che, delusi dalla sinistra, hanno scelto Grillo. Che
sono poi le ragioni vere della mancata vittoria.
È necessario tracciare un filo che tenga insieme
questi tre momenti. Perché la ricomposizione
dei movimenti culturali e sociali, pur mantenendo una rigorosa autonomia, non può essere indifferente da quanto accade nei partiti. L’autonomia
cresce, si radica, si sviluppa se trova anche a livello istituzionale sponde che traducano in pratiche
amministrative e di governo gli obiettivi dei movimenti. Il paradigma della sostenibilità ambientale e sociale ha bisogno, assieme all
all’azione
azione
sui territori, di un governo capace di mettere in discussione
ione i vincoli globali che
ne rendono difficile
ficile la praticabilità. Allo stesso modo
o la discussione nei partiti della sinistra,
ra, se intendono definirsi tali, non può
ò
che ricercare
il confronto
serrato con
quanti, fuori
dai loro confini,
i, hanno fatto vivere un altro
tro mondo possibile. Più che pensare alla consacrazione di un leader carismatico, la
sinistra dovrebbe
bbe trovare qui la sua ragione di fondo. Per costruire un’idea di Paese che si alimenti
enti delle idee e delle pratiche
di quanti, dentro
ro e fuori i partiti, non si sono
rassegnati ai diktat
iktat del neoliberismo e alla
riduzione dellaa democrazia. Le tre giornate
di left alla Città
à dell’altra economia vogliono costruire un
n ponte fra esperienze diverse
che possono sprigionare
prigionare tutte le loro potenzialità solo se pensano
ensano insieme.
left.it
sommario
IANNO XXV, NUOVA SERIE N. 35 / 7 SETTEMBRE 2013
COPERTINA
MALAVITA
L’INTERVISTA
L’INCREDIBILE MARINALEDA
MARSIGLIA A MANO ARMATA
KOUNELLIS SI RACCONTA
Nonostante la crisi sono riusciti a garantire lavoro e casa per
tutti. Viaggio nella città andalusa
che ha sconfitto l’austerity. Poi,
le piccole rivoluzioni di tanti Comuni italiani,
che difendono i beni comuni. E la storia delle
città Usa che hanno smesso di crescere. Inventando un nuovo modello di sviluppo.
Nel porto più bello del Mediterraneo i giovani dei nuovi clan
si fanno giustizia a colpi di kalashnikov. La violenza cresce
perché ci sono più contese: le bande si
sono moltiplicate e litigano su ogni fazzoletto di terra. I ragazzi delle cité vogliono il
potere. E lo vogliono subito.
Il 7 settembre il maestro dell’Arte Povera Janis Kounellis presenta una sua nuova installazione nei suggestivi spazi della
ex pescheria di Trieste. Un omaggio ai pescatori, ai migranti, ma anche alla tradizione dell’arte italiana. A left racconta le nuove
tappe del suo lavoro in Italia e in Cina.
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LA SETTIMANA
02
03
04
06
LA SETTIMANACCIA
LA NOTA
#FESTALEFT
FOTONOTIZIA
COPERTINA
16 L’incredibile storia di Marinaleda
di Elvira Corona
20 Piccole rivoluzioni di Paolo Cacciari
23 Mi si sono ristretti gli Usa
di Manuele Bonaccorsi
SOCIETÀ
26 Stefàno: a colpi di diritto
di Sofia Basso
30 Soldati senza difesa
di Rocco Vazzana
32 Cambio di rotta
di Tiziana Barillà
36 Senza barriere di Donatella Coccoli
MONDO
38 Guerra al terrore. Atto II
di Ludovico Carlino
42 Marsiglia a mano armata
di Cecilia Tosi
left 7 settembre 2013
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IDEE
12 ARTICOLO 21 di Beppe Giuliett
12 IL TACCUINO di Adriano Prosperi
13 CITTÀ DA VIVERE
di Paolo Berdini
14 LA LOCOMOTIVA
di Sergio Cofferati
14 IN FONDO A SINISTRA
di Fabio Magnasciutti
15 FINANZA&POLITICA
di Ernesto Longobardi
56 TRASFORMAZIONE
di Massimo Fagioli
62 TI RICONOSCO
di Francesca Merloni
52
RUBRICHE
08 COSE DELL’ALTRO MONDO
a cura della redazione Esteri
10 COSE DELL’ALTRITALIA
a cura della redazione Interni
29 CALCIO MANCINO
di Emanuele Santi
58 PUNTOCRITICO
CINEMA di Morando Morandini
ARTE di Simona Maggiorelli
LIBRI di Filippo La Porta
60 BAZAR
DOCUFILM, BUONVIVERE,
MUSICA
60 APPUNTAMENTI
a cura della redazione Cultura
CULTURA E SCIENZA
48 L’arabo, la lingua madre
della scienza di Federico Tulli
52 In viaggio con Kounellis
di Simona Maggiorelli
54 I tesori degli archivi
di Vittorio Emiliani
Chiuso in tipografia il 4 settembre 2013
Foto di copertina: Getty Buyou/Lapresse
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fotonotizia
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Primo giorno
di scuola
A Cuba gli studenti sono
tornati in classe il 2 settembre (nella foto, le elementari “Angela Landa”, a
L’Avana vecchia). In Italia
la scuola ricomincia dalla
seconda settimana del mese. I primi a rientrare saranno gli altoatesini (5 settembre), gli ultimi i pugliesi (17 settembre).
(Espinosa/Ap/Lapresse)
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cose dell’altromondo
© MARQUEZ/AP/LAPRESSE
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FILIPPINE Continua ad allargarsi l’immensa macchia di petrolio sversata da un cargo a ridosso delle Filippine. L’incidente, avvenuto il 9 agosto tra
una nave piena di greggio e un traghetto passeggeri, ha causato 90 morti e scaricato nel mare 120mila litri di veleno. Ora il carburante ha raggiunto le
città costiere di Talisay, Cordova e Lapu-Lapu, dove minaccia 300 ettari di mangrovie e ha già costretto 3mila pescatori ad abbandonare le loro case.
SALUTE La priorità del male
Cresce il divario tra l’aspettativa di vita per le donne dei
Paesi sviluppati e quelle dei Paesi in via di sviluppo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, negli ultimi trent’anni la differenza è aumentata perché i Paesi più
poveri non prestano attenzione alla cura delle malattie
cardiovascolari e del cancro al seno, le due cause di morte più frequenti per le donne sopra i 50 anni. Se, grazie
alla scienza, una donna tedesca può sperare
di vivere fino a 84 anni e una giapponese fino
a 88, nel continente africano l’aspettativa di
vita per la popolazione femminile si ferma a
55. Si investe nella cura dell’aids o della malaria, ma non
si procede con altrettanta sensibilità verso le malattie tipiche delle ultracinquantenni. «Un approccio culturale
che va cambiato», avverte l’Oms, «se vogliamo consentire anche all’Africa di invecchiare».
56
Le città statunitensi in cui si è svolto,
lo scorso 29 agosto, il primo “fast food
strike”. I lavoratori dei Mc Donald
e dei Burger King hanno incrociato
le braccia per chiedere un salario
minimo di 15 dollari l’ora (contro i 7,25
attuali) e la possibilità di costituirsi in un
sindacato di categoria
CRISI DELLA SETTIMANA L’esercito ruandese si è posizionato al confine con la Repubblica Democratica del Congo a
causa del conflitto nel nord Kivu, dove si fronteggiano i militari dell’Rdc - supportati delle truppe Onu - e i ribelli del movimento
M23. Il capo della diplomazia ruandese, Louise Mushikiwabo, ha spiegato che «il Ruanda è pronto a difendere i suoi cittadini e il
suo territorio». Ma la versione “difensiva” non convince: il sottosegretario generale dell’Onu alle operazioni di pace in Rdc, Edmond
Mulet, ha dichiarato che le Nazioni unite hanno «informazioni credibili e coerenti» sul sostegno del Ruanda ai ribelli dell’M23.
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CURIOSITÀ Bimbi vietati
LE NAZIONI PIÙ PREPARATE AD AFFRONTARE IL FUTURO
Il silenzio è d’oro, soprattutto
nell’alto dei cieli. Le compagnie low
cost continuano a moltiplicare i servizi extra da offrire - o imporre - ai
propri passeggeri. Imbarco prioritario, diete speciali, trasporto attrezzature sportive, supplementi per un
bagaglio a mano più grande o per il
check-in in aeroporto. L’ultima novità a pagamento l’ha introdotta l’asiatica Scootfly: l’azienda di Singapore
offre una sezione “children free”, dove non sono ammessi i bambini al di sotto dei 12
anni, per garantire
la tranquillità dei
passeggeri. Al modico prezzo di dieci
euro per tratta.
Il futuro? Cercatelo in Svezia o in Svizzera, oppure emigrate in Australia. Per la società di investimenti Robecosam, sono questi i tre Paesi (su 59 considerati) più adatti ad affrontare l’avvenire per
sviluppo ambientale, condizioni sociali e strutture politiche. A sorpresa, l’Italia non se la cava male
È il bonus annuale, in euro, destinato all’amministratore
delegato di Lenovo, il colosso cinese dei pc. Ma
quest’anno Yang Yuanqing ha deciso di condividerlo
con 10mila dei 27mila dipendenti della sua società
MOSCA Imprenditori anti Putin
L’8 settembre Mosca sceglie il suo sindaco, ma non solo. Per la prima volta
dalle proteste del 2011 il leader dell’opposizione Alexey Navalny potrà contare i sostenitori della sua campagna anti Putin. È lui, infatti, a sfidare il sindaco
uscente - e candidato del Cremlino - Sergey Sobyanin, che ha indetto elezioni anticipate proprio per ottenere una schiacciante vittoria e uscirne rafforzato. Sobyanin riceve il gradimento personale del 90 per cento degli elettori moscoviti, ma l’80 per cento apprezza anche Navalny. Il blogger anti Putin probabilmente non vincerà, ma per la prima volta ha fatto venire allo scoperto un
gruppo di businessman contrari all’autocrazia del Cremlino. Sono 200 i giovani imprenditori che hanno donato fondi alla sua campagna elettorale. E 36 di
loro, rappresentanti della cosiddetta
“economia della conoscenza”, hanno firmato un “contratto sociale” in
cui Navalny si impegna a difendere lo
Stato di diritto, sostenere i tribunali
indipendenti e assicurare la responsabilità dei funzionari statali di fronte ai cittadini.
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© AP/LAPRESSE
2,6 mln
COSTITUZIONE VIETATA
A giugno aveva scritto un articolo in difesa della Costituzione. Ad agosto è stato sospeso dall’insegnamento. Zhang
Xuezhong era professore
all’università della Cina orientale a Shanghai prima di criticare la campagna governativa del
2013 contro la codificazione dei
diritti fondamentali. Ora l’università ha dichiarato che non ha
più i requisiti per tenere lezioni.
A maggio Zang si era già esposto rivelando quali erano i 7 temi che il Partito comunista aveva ordinato di bandire dai corsi:
valori universali, società civile,
diritti dei cittadini, indipendenza giudiziaria, libertà di stampa,
errori passati del Partito e privilegi della classe capitalista.
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cose dell’altritalia
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MINACCE A LAMPEDUSA
Una busta con dentro polvere
bianca e la scritta «pericolo antrace» è arrivata al Comune di Lampedusa. L’edificio è stato evacuato e sono subito scattate le indagini. Un falso allarme, si è saputo poi. Ma quella busta recapitata nell’ufficio del sindaco Giusi Nicolini appare come un’intimidazione. Anche perché non è l’unico
segnale minaccioso arrivato a un
primo cittadino che sta lottando
contro l’abusivismo e l’illegalità.
Ad agosto, ad esempio, era stato
appiccato il fuoco all’istituto comprensivo dell’isola..
IL GOVERNO CI SPIA ATTRAVERSO I SOCIAL NETWORK. ECCO LA PAGELLA
n. richieste
risposte
positive
Linkedin nel II semestre
2012 ha risposto all’80% delle 45 richieste di informazioni
sui propri utenti
Facebook è il social più “gettonato” dai naviganti. E nei primi sei mesi del 2013 ha evaso
oltre la metà delle richieste.
Google, a fronte di quasi
850 richieste in sei mesi, ha
risposto positivamente nel 34
per cento dei casi.
Twitter è “poco collaborativo”:
22 le richieste ricevute in Italia,
zero i dati divulgati dal social
nel primo semestre del 2013.
BOLOGNA Casse vuote, colpa dell’Imu
IGLESIAS Un bioparco in Procura
Le casse del Comune di Bologna saranno sempre più vuote. La causa? Senza l’Imu mancheranno all’appello 63,5
milioni di euro. Lo afferma l’assessore al Bilancio bolognese Silvia Giannini, spiegando che a questa cifra si
devono aggiungere altre perdite causate da esenzioni e
agevolazioni decise dal governo. Per i calcoli precisi c’è
ancora da attendere, ma le previsioni sono fosche. Per
questo, prosegue l’assessore, «sarà impossibile chiudere l’esercizio preventivo relativo al bilancio 2014 a dicembre, come la giunta avrebbe voluto». Quindi, prosegue Giannini, è impossibile attuare una politica di investimenti. Anche il sindaco Virginio Merola ha il dente
avvelenato e parla di «impossibilità di governare al meglio la città».
Il Parco geominerario storico-ambientale della Sardegna è finito sotto la lente della procura di Cagliari.
I magistrati stanno indagando sul sistema di gestione
del patrimonio minerario del Sulcis-Iglesiente. Occhi
puntati sull’Igea, un’agenzia regionale. Ma l’attenzione si è spostata sul Parco geominerario, istituito nel
2001 e commissariato nel 2007. A incuriosire gli inquirenti sono state alcune spese: Comuni, comitati,
associazioni e parrocchie hanno ricevuto contributi
per migliaia di euro. Finanziate numerose iniziative,
ma alcuni progetti come la digitalizzazione di migliaia di testi utili per conoscere i territori, di sicuro valore per il parco, non sono mai andati in porto.
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left.it
LE PANNELLATE
QUANDO SI DICE LA COERENZA...
«Silvio, fai come Enzo»
(28 giugno 2008)
«Silvio, come fai a dire “io sono come
Tortora”? Guarda che se ti muovi così sei
come uno dei suoi denigratori»
(12 maggio 2013)
«Dai sempre la colpa agli altri
e ti difendi male»
(31 agosto 2013)
«Adesso che Silvio ha appoggiato
pubblicamente i nostri referendum,
ho in mente per lui un luminoso futuro»
(31 agosto 2013)
Il leader radicale Marco Pannella ha
cam
cambiato diverse volte
posizione nei confronti
pos
di
d Berlusconi. Prima
alleati, poi nemici,
ora di nuovo
vicini. E Silvio ha
sottoscritto
gli ultimi
referendum
dei radicali
left 7 settembre 2013
ALL’ASTA IL BENE CONFISCATO
UNA MARCIA PER DIRE NO
Enti locali, Partito democratico e associazioni come Libera e Arci: domenica 8 alle 11 tutti in piazza contro la
vendita all’asta della tenuta di Suvignano, sottratta alla mafia a Monteroni D’Arbia (Siena). La decisione di rimettere “sul mercato” il bene confiscato a Cosa nostra,
assunta dall’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati alla mafia, ha destato sconcerto. La tenuta agricola, che appartiene allo Stato dal 1994, è infatti in
attesa di essere messa all’asta per 22 milioni. Il Pd provinciale senese però, tramite il segretario Niccolò Guicciardini, parla di una «decisione pericolosa»: il bene potrebbe ricadere nelle mani della criminalità. Rischio che
non si corre se la tenuta resta sotto la gestione pubblica.
Anche la consulta provinciale del volontariato condivide l’appello lanciato dal Comune di Monteroni d’Arbia.
11
idee
left.it
articolo 21
di Beppe Giulietti
Il poker di Napolitano
N
I senatori
a vita sono
eccellenze
italiane
on facciamo parte del coro che, qualunque cosa dica o faccia il Quirinale, intona subito inni di giubilo e di ringraziamento, anzi
pensiamo che qualsiasi potere, terreno o celeste
che sia, possa e debba essere sottoposto al sano
esercizio del controllo e della critica. Proprio per
questo ci sembra ancora più giusto, ed eticamente doveroso, esprimere in modo pubblico un apprezzamento alle scelte compiute dal Presidente
Napolitano in materia di senatori a vita.
Naturalmente non sono mancati i dissensi e i sospetti di chi vede anche dietro questa scelta «una
oscura manovra». «Saranno la stampella di un
futuro governo senza Berlusconi», ha tuonato il
leghista di turno, che forse come senatore a vita avrebbe preferito un lanciatore di banane alla
Calderoli. «L’unico davvero meritevole era Berlusconi», hanno tuonato i forzisti alla Santanchè,
rendendo ancora più evidente che un pluricondannato non poteva e non potrà mai diventare senatore a vita, anzi dovrebbe persino restituire il
più modesto titolo di cavaliere della Repubblica.
Noi, invece, quando abbiamo letto quei 4 nomi abbiamo pensato alle eccellenze italiane nel
mondo, al prestigio delle loro biografie, al contributo che hanno dato alla ricerca, all’arte,alla
scienza. Abbado, ovunque, si traduce con la parola musica, ricerca della perfezione e del bello.
Piano è associato ai suoi progetti diventati realtà
dentro e fuori i confini nazionali. Rubbia è un premio Nobel per la fisica. Elena Cattaneo è una giovane e prestigiosa scienziata che si occupa anche
della ricerca sulle staminali e rappresenta, per
molti, una speranza di vita.
«Sono tutti antiberlusconiani» ha tuonato la
batteria degli opinionisti di famiglia che, forse,
avrebbe preferito la nomina di Lele Mora o di
Emilio Fede. Purtroppo per loro esiste ancora la
Costituzione che, all’articolo 59, recita: «Il Presidente della Repubblica può scegliere 5 senatori
a vita tra i cittadini che hanno illustrato la patria
per altissimi meriti nel campo sociale scientifico,
artistico, letterario».
Mai come in questa occasione il Presidente della Repubblica ha davvero interpretato la lettera e lo spirito della Costituzione. Un grazie a lui,
dunque, ma anche alle madri e ai padri costituenti che, anche in questo caso, hanno predisposto
un testo che, quando viene coerentemente interpretato e applicato, porta quasi sempre a conclusioni “virtuose”, anche per questo sarà il caso di
maneggiarlo con grande cura e amore.
il taccuino
Bizantinismi giuridici
C’
era una volta un’Italia ponte
tra l’Europa e gli altri due continenti che si affacciano sul Mediterraneo. Nella storia millenaria del Mediterraneo raccontata nel secolo scorso
da Fernand Braudel in un libro che conobbe un successo mondiale l’Italia e
gli italiani hanno grandissima parte. Oggi i tempi sono cambiati. L’Italia sembra
diventata una repubblica del mar Baltico o dell’Oceano Indiano. C’è la guerra, che bussa di nuovo alle porte del Mediterraneo. Dal 21 agosto, con la stra-
12
ge di gas nervino a Damasco, è scattata
la giustificazione per una guerra che si
definisce “umanitaria”. La deve dichiarare un presidente Obama riluttante,
che aveva proclamato la svolta rispetto alle scelte muscolari del suo predecessore in Iraq e per questo aveva ricevuto nel 2009 il premio Nobel per la
pace. E si vede oggi rinfacciare quella
frase da lui pronunziata: «Non sono sicuro di meritare il premio». Si dibattono grandi problemi: come impedire a
un dittatore di fare strage di innocen-
ti, come accogliere la fiumana di profughi che dalla Siria vengono a bussare alle nostre porte. Può esserci una “guerra
umanitaria”? Quelle riserve di gas nervino chi le ha fornite al dittatore Assad?
A che serve una Onu bloccata dai veti
dei soci fondatori? Chi comanda davvero nel mondo globalizzato? Di questo
si discute nel resto del mondo. Nelle democrazie occidentali i partiti politici si
confrontano su questo e i corpi elettivi
del potere legislativo sono investiti dovunque del compito di orientare le scelte dei governi. Obama, si rivolge al Congresso, in Inghilterra il Parlamento boccia l’entrata in guerra, in Francia c’è un
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left
idee
left.it
città da vivere
di Paolo Berdini
Imu, a buon rendere
D
urante la conferenza stampa di illustrazione del decreto di abolizione dell’Imu,
il vicepresidente Alfano ha affermato che «servirà per far riprendere l’economia in crisi».
L’ennesima finzione. Intanto si continua a chiamare “crisi” il grande fallimento della cultura
neoliberista che ha dominato il pianeta negli ultimi 40 anni. E poi veniamo alle fonti di ispirazione. Sul sito della Confedilizia - l’associazione
confindustriale che riunisce i proprietari immobiliari - era in atto da giorni un pressing verso il
governo. Si chiedeva all’esecutivo di cancellare l’Imu perché così - appunto - si sarebbe usciti dalla “crisi”. In un passaggio si affermava che
con l’abolizione dell’Imu «riapriranno i negozi
commerciali». Ma, come sanno tutti, i negozi
di vicinato hanno chiuso i battenti per la scellerata politica di deregulation urbanistica che ha
consentito l’apertura di centinaia di centri commerciali. I piccoli negozi non possono sostenere l’urto di questa concorrenza ed è per questo
che nelle nostre città si vedono tante serrande
abbassate. Altro che Imu.
Fingere di farsi carico degli interessi generali è un metodo che consente di portare a casa
eccellenti risultati. Il decreto Imu ha cancella-
to il pagamento 2013 e 2014 per gli alloggi invenduti di imprese o società immobiliari. E se
ogni famiglia risparmia così poche centinaia di
euro, alla grande proprietà sono stati regalati centinaia di milioni di euro. Perché sono circa un milione gli alloggi invenduti in tutta Italia ed è naturale che si raggiunga una cifra così
elevata. E proprio l’esistenza di un numero così alto di alloggi invenduti ci consente di comprendere la gravità dell’errore di prospettiva
compiuto dal governo Letta. Il mercato immobiliare soffre una crisi di eccessiva produzione: si è costruito troppo e soprattutto non si
è costruito per le categorie sociali più deboli.
La cancellazione dell’Imu non serve, è soltanto un gigantesco regalo alla rendita immobiliare. A differenza delle altre nazioni europee,
noi continuiamo a confondere rendita parassitaria e produzione. Abbiamo la testa girata
verso il passato e il potente blocco edilizio non
permette all’Italia di guardare verso il futuro,
verso i saperi, la ricerca e l’innovazione. Ecco
il tragico errore compiuto dal governo Letta:
credere ancora, dopo i fallimenti di questi anni, che l’eterno mattone e la rendita possano
far ripartire l’economia.
Il tragico
errore
del governo
Letta
è credere
che l’eterno
mattone
farà ripartire
l’economia
di Adriano Prosperi
dibattito parlamentare. E l’Italia? Per
noi parla il papa: e tanto basta. Mai come in questa estate il fossato che divide l’Italia dal resto del mondo è apparso così profondo. Il Parlamento, eletto
secondo una porcheria di legge, è sempre più la vuota cassa di risonanza di un
altro conflitto, un’interminabile guerra
dei vent’anni intorno ai comportamenti
e alle sorti di uno spregiudicato imprenditore che ha fatto della politica il trampolino per i suoi affari. Il Paese è in rapido declino, l’unico in recessione ormai
secondo l’Ocse. Recessione economica, impotenza politica, anche e soprattutto regressione civile. Qui, mentre la
left 7 settembre 2013
destra pianta la bandierina sulla cancellazione di una rata dell’Imu, non si riesce nemmeno a scalfire una legislazione discriminatoria sull’immigrazione
e il clima razzista che la sostiene né a
cambiare una legge elettorale fatta per
falsificare il voto degli elettori. E intanto ci sono politici di mestiere e opinionisti che hanno la faccia tosta di criticare
l’immissione in Senato di figure rappresentative della cultura e della ricerca
scientifica. Tutta l’attenzione si concentra sui drammi di un condannato eccellente, truffatore di quello Stato che ha
frodato mentre ne guidava le sorti. È lui
che bisogna salvare dalle conseguenze
legali dei suoi reati. Menti sopraffine,
senza distinzione di partito, elaborano
bizantinismi giuridici d’ogni genere la
cui premessa è sempre la stessa: l’ammissione che in Italia l’uguaglianza davanti alla legge non esiste. Del resto, a
che pro andare alle elezioni? Per chi voteremmo? Come ignorare che se siamo
in questa condizione è per colpa non di
una sola persona ma di cento e uno elettori anonimi del cosiddetto Pd? Nessuno di loro ha avuto la decenza di spiegarci perché il gruppo nel più vigliacco
dei segreti ha affossato candidature di
prim’ordine, tali da segnare una svolta
netta nella direzione politica del Paese.
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idee
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la locomotiva
di Sergio Cofferati
La politica distratta
A
Servono
interventi per
l’occupazione
ma si pensa
ad altro
voler essere magnanimi nel giudizio e
parchi nel linguaggio, l’agenda della politica italiana di questi mesi si potrebbe definire
distratta e lontana da quelle priorità che invece
il Paese reale richiederebbe. Gli ultimi elementi di distrazione sono stati imposti dal Pdl. Le
vicende giudiziarie e personali di Silvio Berlusconi hanno accompagnato gli ultimi vent’anni
della politica italiana, avendo persino rappresentato la principale ragion d’essere di una coalizione. La sentenza della Cassazione sul processo Mediaset ha dato fiato agli urlatori che
hanno ora facile gioco nel dominare la ribalta
su questo tema. Ho sempre ritenuto che il confronto con un avversario politico dovesse riguardare il merito delle questioni e non le sue
vicende giudiziarie. Ma nonostante ciò il rispetto delle leggi è un elemento cardine di uno stato
di diritto. Che tempo ed energie vengano sprecate su un dibattito come questo, in un periodo
nel quale sarebbero invece necessarie decisioni coraggiose e fuori dall’ordinaria amministrazione, è l’ennesimo grave danno che si regala al
nostro Paese. Il secondo elemento di distrazione è stato l’Imu, o per meglio dire la sua bandiera demagogica da campagna elettorale prima e
lo strumento di ricatto per il governo poi. L’Imu
(proposta dal governo Monti e votata anche
dal Pdl) è una tassa che mancava di elementi di
equità ed in questo senso andava riformata. La
sua eliminazione tout court è invece l’opposto
di una riforma volta all’equità, esentare tutte le
proprietà, indipendentemente dal loro valore,
vuol dire favorire le grandi proprietà, equiparate in questo caso alle prime case di molti italiani. Una distrazione questa che, oltre ad allontanarci da problemi più acuti, rischia di provocare ulteriori danni con sottrazione di risorse per
altri interventi, si pensi alla copertura parziale
delle casse integrazioni, allo (speriamo remoto) aumento dell’Iva, o all’incertezze legate alla futura service tax. Intanto le stime di crescita della nostra economia confermano un approfondirsi della recessione anche per la seconda
metà di quest’anno e, per il 2014, restano al di
sotto della media europea e di quanto necessario per innescare un processo virtuoso di nuova
occupazione; l’aumento delle fasce di popolazione a rischio povertà sono ormai delle costanti a cui non corrispondono interventi all’altezza
della drammaticità della situazione. In Italia però si parlava d’altro.
in fondo a sinistra
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idee
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finanza&politica
di Ernesto Longobardii
La tassa c’è, ma non si paga
B
erlusconi e i suoi cantano vittoria. Il decreto di fine agosto del governo Letta avrebbe abolito l’Imu sulla prima casa, come da loro promesso in campagna elettorale. In realtà si
tratta per metà di un pasticcio, per metà di un buco nell’acqua. La situazione si è fatta, se possibile, ancora più confusa. La prima rata dell’Imu sulla prima casa, quella di giugno che era stata sospesa, viene definitivamente abolita. È già un fatto strano. Il tributo rimane, ma non il versamento: la tassa esiste ma non si paga. Come sono stati coperti i costi per il bilancio pubblico? In parte con artifici contabili ed entrate transitorie, come la maggiore Iva che si incasserà sui pagamenti dei debiti delle pubbliche amministrazioni. Per
un’altra parte con tagli di spesa: sembra che questa volta sia siano salve scuola e università, ma
per il resto i tagli rimangono, come sempre, “lineari”, cioè spalmati su tutte le amministrazioni
senza nessuna valutazione del merito delle singole spese. Cosa si è deciso invece per la seconda rata Imu che scatterà a dicembre? E sul destino dell’imposta nel 2014? Niente. Nel testo del decreto non se ne fa cenno. Ci si deve affidare a un
comunicato stampa del governo che annuncia
che la questione sarà risolta nell’ambito della ma-
novra finanziaria per il 2014. L’accordo nella maggioranza prevedrebbe l’abolizione anche della
seconda rata e per l’anno prossimo una riforma
dell’imposta. L’abolizione della seconda rata costerà più di due miliardi. Non si sa dove trovarli.
Certamente così non si potrà evitare l’aumento di
un punto dell’Iva dal primo ottobre.
L’aumento dell’Iva potrebbe anche andare bene, se servisse per ridurre le tasse sul lavoro. Ma
così come si prospetta sarà invece una calamità.
Avrà effetti recessivi: quello che ci mancava, visto che siamo l’unico Paese dei G7 ancora in recessione. E per il 2014? Si passerà da un’imposta come l’Imu, pagata dai proprietari delle case,
ad una pagata da coloro che vi abitano, vale a dire anche dagli inquilini. Qualcosa del genere avviene nel Regno Unito e in Francia. Sarebbe un
modo per fare pagare anche sulle prime case, ma
con un’imposta diversa, così che il Pdl possa continuare a dire di avere vinto. Il disegno di questo
nuovo tributo è avvolto nelle nebbie. Ma le preoccupazioni per gli effetti distributivi sono molto forti: in media gli inquilini sono più poveri dei
proprietari. Ci si attende dal Pd una nuova dose
di coraggio per evitare che l’ennesimo compromesso con il Pdl costi troppo in termini di equità.
La soluzione
trovata
sull’Imu
è metà un
pasticcio,
metà
un buco
nell’acqua
di Fabio Magnasciutti
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© CORBIS (4)
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L’INCREDIBILE
STORIA DI MARINALEDA
di Elvira Corona foto di Guillem Valle
Nel 2009 il New York Times
si è occupato di Marinaleda
perché è stata l’unica città
della Spagna che non ha
risentito della crisi economica.
Sono passati 4 anni. Cosa
succede ora? Elvira Corona
è andata per verificare se
ancora vengono garantiti a
ogni cittadino l’eguaglianza
salariale, il lavoro e la casa.
Del suo viaggio ha scritto
un libro Si se Puede.
Ne anticipiamo alcuni brani
M
arinaleda - un Comune andaluso di
2.800 anime a un centinaio di chilometri da Siviglia - si è già fatto
conoscere per uno storico sciopero della fame che coinvolse quasi tutto il Paese nell’agosto del 1980 e in seguito per le occupazioni di
terre incolte. In questi tempi di crisi ha attirato l’attenzione dei media per la gestione collettivista dell’intera cittadina. Pur non essendo certamente l’isola di Utopia e neppure una
Città del Sole, a Marinaleda le cose funzionano diversamente dai paesi vicini. Quasi tutti i
suoi cittadini lavorano e quasi tutti hanno una
casa, anche se il sindaco è in carica da più di
30 anni e viene criticato da alcuni cittadini per
questa sua lunga e ininterrotta esperienza alla
guida del paese.
Marinaleda però non è la sola esperienza alternativa nella zona. Nell’ultimo anno in Andalusia sono avvenute diverse occupazioni di terre
non coltivate. In una zona d’Europa dove oggi il
2 per cento dei proprietari terrieri possiede il 50
per cento delle terre. Dal 2008 quando è iniziata
la crisi, le multinazionali hanno ripreso a comprare grandi appezzamenti di terre per investi-
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re nel grande business dell’agroalimentare. In
Spagna nel 2009 il 75 per cento delle sovvenzioni sono andate al 16 per cento dei grandi produttori. Per ora nel paese iberico dovranno vedersela con gli occupanti che invece vogliono
che la terra sia considerata un bene comune e
la coltivano con metodi biologici, salvando non
solo loro stessi dalla fame, ma anche la stessa
terra che diversamente sarebbe destinata a produzioni che non lesinano l’uso di ogm pesticidi
e veleni vari. Alla base delle occupazioni, che
certamente nascono per uno stato di necessità estrema, sono legati anche discorsi più ampi come la sovranità alimentare, la produzione
a km zero, e più in generale un ritorno all’attenzione per quello che si consuma.
L’occupazione non riguarda solo le terre ma
anche gli edifici. In Spagna all’inizio del 2013
sono stati superati i sei milioni di disoccupati
e una delle conseguenze più drammatiche della perdita del lavoro è la conseguente perdita della casa. Nel 2012 si è arrivati a uno sfratto ogni cinque minuti. La maggior parte delle persone che perdono il lavoro torna dai genitori o comunque trova soluzioni in famiglia.
Questa ondata di sfratti ha purtroppo scatenato un altissimo numero di suicidi, tanto da costringere il governo a bloccare temporaneamente le procedure esecutive. L’indignazione
ha fatto da propulsore e molte persone hanno
preso coscienza che le ragioni di questa crisi sono da ricercare in un sistema sbagliato
e nelle politiche che favoriscono ancora una
volta i grandi capitali, le speculazioni edilizie
a discapito delle persone.
Solo a Siviglia le case vuote sono oltre 42mila, nella provincia sono circa 126mila e in tutta la Spagna sono 3,4 milioni, mentre le famiglie colpite da uno sfratto esecutivo negli ultimi anni sono state circa 400mila in tutto il Paese. Come reazione a questa situazione paradossale a inizio 2012 nella capitale andalusa sono
cominciate le occupazioni di edifici vuoti, tornati in possesso di banche e grandi società immobiliari, perché sgomberati con sfratti esecutivi. Le occupazioni non sono state clandestine
Sopra, Manuel
Sanchez Gordillo,
sindaco di Marinaleda
da 30 anni.
Sotto, la casa comune
di Somonte, un’altra
cittadina autogestita
in Andalusia
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copertina
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7 settembre 2013
left
copertina
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ma pubbliche e hanno messo in discussione le
leggi sulla proprietà privata contrapponendola
alla funzione sociale dell’abitazione, ma soprattutto hanno chiesto una revisione delle leggi sugli sfratti. Le Corralas, così vengono chiamate,
sono scelte con cura e le famiglie che iniziano a
viverci chiedono di poter pagare un canone di
affitto sociale. I vicini li accolgono bene perché
si rendono conto che forse una cosa del genere
potrebbe succedere anche a loro. Durante questi mesi i tentativi di sgombero e di repressione da parte delle forze dell’ordine del fenomeno Corralas non sono mancati, ma sempre più
iniziative dal basso hanno proposto delle soluzioni anche con una legge di iniziativa popolare
e le istituzioni sono state costrette a prenderne
atto e a legiferare. Per ora solo Andalusia e Baleari hanno preso in considerazione le proposte
e hanno emanato dei provvedimenti che si avvicinano molto a quello che chiedono gli occupanti che denunciano un paradosso: case senza
gente e gente senza case.
A Marinaleda il problema della casa è stato
risolto in modo diverso. Il sindaco ha offerto ai cittadini che ne facevano richiesta una
casa per 15 euro al mese. Non era demagogia,
ma un serio progetto politico. L’amministrazione municipale di Marinaleda ha espropriato e reso proprietà comunale migliaia di metri
quadrati nelle vicinanze del paese. Ottenuti i
terreni, l’amministrazione comunale ha iniziato a richiedere i fondi per la costruzione
delle case al governo centrale e regionale. Il
terreno, una volta passato in mano al Comune, è stato ceduto gratuitamente a coloro che
si proponevano come costruttori autonomi.
Grazie a una convenzione con il governo regionale andaluso e il cosiddetto Per (Piano di
occupazione rurale).
Il Comune è riuscito ad acquistare i materiali da costruzione e consegnarli al costruttore
autonomo. Poi ha messo a disposizione, sempre in maniera gratuita, alcuni operai edili per
seguire il lavori nei cantieri. Il progetto di ogni
casa, disegnato da architetti professionisti, è
stato offerto gratuitamente; i costruttori autonomi hanno avuto il diritto di partecipare attivamente allo sviluppo del progetto e alle sue
eventuali modifiche. Infine i costruttori autonomi si sono riuniti in assemblea e hanno sta-
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bilito la quota mensile da pagare per divenire
proprietari della casa che stavano edificando,
le ultime case sono state costruite e acquistate dai costruttori autonomi per la cifra di circa 15 euro mensili con il divieto però di metterle in vendita ad altri. Le case hanno tre camere da letto, un bagno e un patio di 100 metri quadri, in grado di essere utilizzato per un
eventuale ampliamento della casa. Le ore impiegate nella costruzione autonoma sono state scontate dal costo di costruzione totale della casa e convertite in salario. I costruttori autonomi hanno utilizzato in media 450 giorni
del loro lavoro per costruire la casa. Il Comune ha speso circa 25mila euro di materiali da
costruzione per ogni appartamento. In un paese di 3mila abitanti circa, più di 350 case unifamiliari sono state costruite in questo modo.
Nel corso degli anni precedenti, i residenti di
Marinaleda sono riusciti a ottenere il ricono-
Con 15 euro al mese si diventa proprietari
di una casa con un patio di 100 m2
scimento di un esproprio di 3mila ettari di terra del duca di Infantado. La terra è stata affittata dal Comune che ha creato una cooperativa a circa sette miglia a nord di Marinaleda
per la produzione intensiva di carciofi, peperoni, broccoli, fave e grano. Un’altra delle attività create nella città è quella della fabbrica di
conserva della Coperativa Humar - Marinaleda
S.c.a. il frantoio e le altre produzioni connesse a questo settore. Le cooperative che operano sulle terre espropriate forniscono un salario a tutti i lavoratori, a prescindere dal tipo
di lavoro che fanno che corrisponde a 47 euro
per giornata per sei giorni alla settimana, per
un totale di 1.128 euro al mese per 35 ore settimanali. Il Comune garantisce che per ogni famiglia del paese almeno un persona abbia un
lavoro sicuro. Anche il mondo accademico si è
impegnato a offrire soluzioni legali percorribili. Un gruppo di studenti della facoltà di Legge
di Cordoba, guidati dal loro professore, hanno
elaborato alcune proposte che hanno presentato ad alcuni gruppi parlamentari al Congresso di Madrid. La società civile dimostra che insieme si possono trovare soluzioni alternative.
Sopra, giovani
nelle terre occupate
impegnati nella
coltivazione
di ortaggi.
Sotto, i lavoratori del
sindacato andaluso
Sat ascoltano
le parole del sindaco
di Marinaleda durante
una manifestazione
contro le misure
di austerity del
governo spagnolo
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PICCOLE
RIVOLUZIONI
di Paolo Cacciari
In Italia molti Comuni abbandonano la globalizzazione.
zzazione.
Per cercare dal basso vie d’uscita dalla crisi
L
a dimensione locale, la vicinanza nelle relazioni umane, il radicamento territoriale sono condizioni indispensabili per creare un senso di comune appartenenza
e di solidarietà tra le persone. Non è un caso se
il municipio sembra essere l’unica istituzione
pubblica capace di resistere alla sfiducia politica dilagante. Per di più, i Comuni nel nostro
Paese possono vantare una tradizione storica
millenaria. Non deve stupire, quindi, se in molti pensano che la fuoriuscita dalla crisi strutturale che attraversa il “sistema mondo” del capitalismo globale possa venire proprio dalla “riterritorializzazione” delle economie. Il termine autarchia (se filologicamente inteso come
autogoverno e autosufficienza) non deve spaventare. La ricerca della sovranità alimentare e
energetica delle comunità è obiettivo da perseguire. Le filiere produttive corte e i consumi a
“chilometri zero” sono comportamenti virtuosi. Molte imprese si organizzano in reti e in distretti di economie tra loro solidali. Gli scambi paritari “P2P”, peer-to-peer, per la condivisione di software o di altri servizi e tecnologie,
aumentano l’efficienza dei sistemi. I gruppi di
acquisto solidale (Gas) stanno avendo una crescita esponenziale. Così come le banche del
tempo e le innumerevoli forme di auto-aiuto
mutualistico nei servizi alle persone. L’elenco
delle “buone pratiche” sperimentate da gruppi
di abitanti e di cittadini potrebbe continuare a
lungo. Roberta Carlini in L’Economia del noi
(Laterza, 2011), Emanuele Campiglio in L’economia buona (Bruno Mondadori 2012), Chiara Spadaro in Piccolo è meglio, (Altreconomia
20
edizioni 2012) - solo per citare alcuni lavori di
inchiesta svolti di recente in Italia - forniscono
un ampio spaccato di ciò che si muove alla base della nostra società.
E non si creda di avere a che fare con pericolose regressioni nella pre modernità, a mode freakkettone o ad altri tipi di fughe dalla realtà. La
verità è che la ricerca pratica e teorica di alternative alla crisi dei modelli fin qui conosciuti
di sviluppo si fa sempre più impellente e le
popolazioni cominciano a costruirsele
da sole, dal basso, concretamente. Filosofi come Edgar
Morin La via. Per l’avvenire dell’umanità, (Raffaello Cortiana Editore, 2012)
pensano che il miglioramento delle relazioni fra esseri
umani, individui, gruppi e popoli, passa attraverso la valorizzazione delle forme endogene di economia e di democrazia partecipativa con una
governance confederale planeRitaria. Sociologi del lavoro come
piachard Sennett - Insieme. Rituali,
ceri, politiche della collaborazione (Feltrinelli, 2012) - rivalutano l’importanza della perizia
artigiana e del saper fare le cose di cui si ha bisogno in libera collaborazione con altri. Economisti della New economics foundation di
Londra come Tim Jackson - Prosperità senza
crescita (Edizioni Ambiente, 2011) - rivalutano
le «economie Cenerentola», quelle informali e
di scala minore perché sanno meglio introietta-
7 settembre 2013
left
copertina
left.it
La sovranità alimentare ed energetica
delle comunità è l’obiettivo da perseguire
re i limiti ambientali e sanno
misurare il bastevole, la sufficienza. Da noi, Guido Viale ha
dedicato più di uno studio alla Conversione ecologica (nda, 2011) della società
a partire da progetti che vanno costruiti «casa per casa, tetto per tetto, strada per strada,
campo per campo».
In Italia non conosco esperienze di “socialismo
realizzato in un Comune solo”, ma sono innumerevoli i casi di buona amministrazione in svariati campi: dai rifiuti, all’accoglienza dei migranti, dalla difesa del paesaggio e del
suolo alla gestione
dei
servizi idrici, dal welfare di prossimità al risparmio energetico, dalla lotta agli
sprechi alimentari alla mobi-
leftt 7 settembre 2013
lità dolce. Due le principali reti che operano coordinando, confrontando e aggiornando le strategie d’intervento: l’Associazione dei Comuni virtuosi (www.comunivirtuosi.org) e la Rete dei Comuni solidali (www.comunisolidali.
org). Sul versante della pianificazione urbana i
punti di riferimento sono il sito curato dal gruppo di urbanisti che fanno capo a Edoardo Salzano (www.eddyburg.it) e la Società dei territorialisti (www.societadeiterritorialisti.it) guidata da Alberto Magnaghi. Sul versante dell’economia opera il Tavolo dell’economia solidale (www.retecosol.org). Non va dimenticato lo
sforzo che dentro la Chiesa stanno compiendo
molte diocesi (più di quaranta) che hanno dato
vita alla Rete interdiocesana per nuovi stili di vita, coordinata da don Adriano Sella.
Ovviamente, la recente riscoperta della nozione dei “beni comuni”(di quei beni, cioè, che per loro intrinseca
natura risultano essere indispensabili e insostituibili e quindi dei diritti
fondamentali delle
persone),
a partire
dallo straordinario
successo del referendum
contro la privatizzazione
dei servizi idrici del giugno 2011, ha dato nuovo
slancio alla ricerca di forme di gestione che consentano un loro equo utilizzo e una
loro preservazione nel tempo.
Accesso, condivisione, cura delle risorse naturali sempre più rare e
preziose diventano i nuovi criteri con
cui valutare le regole d’utilizzo. Parametri che
superano quelli meramente monetari come lo
è l’incremento del Pil o la messa a reddito dei
patrimoni demaniali. In nome dei beni comuni sta prendendo piede un nuovo tipo di movi-
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copertina
© WARREN/AP/LAPRESSE
© QUEENEY/AP/LAPRESSE
left.it
Ci si aiuta uno con l’altro
con la banca del tempo
mento, molto articolato e multiverso. Pensiamo
al Teatro Valle a Roma, alla difesa degli antichi
“usi civici” forestali e agrari, al riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie, agli orti condivisi, ai semi scambiati liberamente tra i coltivatori, agli ecovillaggi e ai co-housing, alla condivisione dei mezzi di trasporto e delle stesse abitazioni per vacanze. Ma pensiamo soprattutto
alle rare ma significative esperienze di cooperazione nel campo della produzione. Tra queste
il pastificio Iris a Calvatone (Cremona), recuperato dai contadini biologici. Molte di queste storie sono descritte in Viaggio nell’Italia dei beni comuni edito da una cooperativa di giovani
di Scampia (Marotta& Cafiero, 2012). Molti altri
casi sono stati narrati da Daniel Tarozzi della rivista online Il Cambiamento raccolti nel corso
del suo lungo viaggio in cerca di stili e modi di
vita fuori dal comune. Infine va segnalato il sito www.comune-info.net che dà conto di molte delle innumerevoli iniziative in corso di cambiamento dal basso.
SANTORSO, LA SCUOLA DEI BENI COMUNI
In provincia di Vicenza è nata una
“scuola” per amministratori solidali. Il
Comune di Santorso si è fatto capofila di altri enti locali (Schio, Marano
Vicentino, Monte di Malo, San Vito
di Leguzzano, Posina, Torrebelvicino, Valli del Pasubio) e ha dato vita,
qualche mese fa, a un progetto di
autoformazione alle buone pratiche
di riconversione ecologica e sociale
delle comunità locali. Hanno partecipato i Gruppi di acquisto solidale
vicentini, gli Scouts, le associazioni degli agricoltori, gli insegnanti, le
cooperative sociali, i comitati per
l’acqua pubblica, i gruppi culturali e
quelli politici. Nove corsi di tre giorni su temi fondamentali come: la
democrazia negli enti locali, l’osser-
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vazione e la cura del paesaggio, l’indipendenza e la democrazia energetica, le società di servizio locale, la
gestione condivisa di un’attività economica, l’efficientizzazione energetica, la gestione del debito pubblico e
il ruolo che potrebbe avere la Cassa
depositi e prestiti. E ancora: gli strumenti della partecipazione degli abi-
tanti, il biomonitoraggio ambientale
con l’apicoltura. E poi i laboratori: il
mercatino dello scambio; la ciclofficina, il “Sarto espresso”, lo “Spaccio
di pasta madre” il fundraising per la
musica e le produzioni culturali dal
basso, la costruzione di un apiario in
comune, l’osservatorio paesaggistico partecipato. Ai lavori della “scuola” hanno partecipato anche il sociologo Ilvo Diamanti, che, abitando
ai margini della nuova base militare
americana Dal Molin, conosce bene
tanto la forza devastante delle “grandi opere” quanto la tenacia delle popolazioni insediate, e Pietro Raitano
di Altreconomia.
www.scuoladeibenicomuni.
wordpress.com
7 settembre 2013
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copertina
left.it
© SEMANSKY/AP/LAPRESSE
MI SI SONO RISTRETTI GLI USA
di Manuele Bonaccorsi
Città dimezzate, demolizioni, disoccupazione. I centri industriali americani da anni fanno i conti
con la fine della crescita. E sperimentano un diverso modello di sviluppo. Ecologico e democratico
C
osa succede se una città dimezza i suoi
abitanti? Se la chiusura di fabbriche e uffici costringe decine di migliaia di giovani a emigrare in cerca di lavoro? Se crollano i valori immobiliari fino al punto in cui una bella villetta
unifamiliare si può comprare su eBay per poche migliaia di dollari, mentre centinaia di case vengono demolite dai bulldozer? Succede
che nasce un diverso modo di intendere la città
e le sue relazioni sociali, e più in generale il nostro modello di sviluppo. Succede che dalla crisi possono nascere esperimenti di resistenza rivoluzionari. Destinati a fare scuola.
Lo spiega Alessandro Coppola, giovane studioso
left 7 settembre 2013
di fenomeni urbani, che ha girato in lungo e in largo per l’America della Rust Belt, la “cintura della ruggine”, prima di scrivere il suo Apocalypse town (Laterza, 2012). Le grandi città americane dell’epopea fordista, delle ciminiere fumanti, della classe operaia sindacalizzata, dei docks
stracolmi di merci e delle onnipotenti corporation, negli anni 70 subiscono un crollo violento
e repentino. La crisi dell’industria è uno shock a
cui si aggiunge la competizione sfrenata delle città della Sun Belt, nella costa orientale, che offrono vantaggi fiscali e zero sindacati alle aziende in
fuga. Muoiono per questo le città della più antica
industrializzazione americana. Precipitano sen-
In alto, case
abbandonate nel
centro di Baltimora
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Orti urbani, case smontate come Lego.
E anche la proprietà privata è in discussione
za paracadute. E senza speranza di risalita, almeno per ora. A Youngstown, Flint, Buffalo e Detroit
da decenni si fanno i conti con un fenomeno nuovo nella storia urbana: l’assenza di crescita. «Sono territori espulsi dal processo di sviluppo», racconta Coppola, «che devono sperimentare nuovi
usi dello spazio e forme di convivenza, un diverso modello di sviluppo». La soluzione si chiama
smart shrinkage «ossia il decrescere e il restringersi con abilità, intelligenza e una discreta dose di virtuosismo», scrive Coppola nel suo libro.
«Nascono in questo contesto le prime esperienze
di agricoltura urbana, rese possibili dalla perdita
di valore dei terreni e dalle demolizioni». La creatività delle città in crisi è fervida. C’è l’esperimento di Buffalo ReUse, una moderna tecnica di “decostruzione”, con la quale le case disabitate vengono “smontate” con un metodo artigianale, in
modo da poter riciclare gran parte del materiale
che normalmente è destinato alla discarica. E ancora, l’esperienza partecipativa del nuovo piano
strategico di Youngstown (la “città dell’acciaio”
passata da 170 a 60mila abitanti nel giro di due decenni), che ha coinvolto migliaia di cittadini nella realizzazione di un progetto per far “decrescere” in maniera equilibrata la città. E poi, ancora,
esperimenti di “densificazione”, per riunire cit-
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tadini rimasti isolati dalla fuga dei propri vicini
in quartieri di nuovo vivi. E ancora, i piani di città-arcipelago, dove villaggi ecologici e autosufficienti nascono intorno a un centro rivitalizzato,
in un armonioso susseguirsi di città e campagna.
Ipotesi e pratiche che mettono in crisi i fondamenti della civiltà urbana occidentale. A partire
dalla stessa proprietà privata della casa - nucleo
del sogno americano - che si polverizza nell’abbandono di interi quartieri. Utopie? Forse. Oppure soluzioni dettate da necessità. «Sia chiaro, non
è questo il nostro futuro, il mondo va verso l’urbanizzazione. Eppure queste città sono terreno per
la sperimentazione di culture ecologiche e modelli di giustizia sociale», spiega Coppola.
Nella Rust Belt nascono problemi nuovi, impensabili nelle città “in crescita”, e drammatici.
Come quello del cibo. In molte downtown - centro città - abitate spesso dai più poveri, la rete distributiva alimentare è collassata. E molti cittadini hanno difficoltà a raggiungere i mastodontici
supermarket sorti nei suburbi dove abita la classe media. «La diseguaglianza spaziale si è spinta
così avanti da mettere in discussione persino l’accesso al cibo», spiega Coppola. Che nel suo libro
racconta come l’apertura di centri commerciali nei quartieri poveri sia diventata, per associazioni di volontariato e attivisti radicali, una vera e
propria rivendicazione politica. Mentre imprese
agricole nascono a poca distanza da grattacieli e
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copertina
© PETEDETROIT/FLICKR
© RAMSDELL/AP/LAPRESSE
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capannoni fatiscenti. Nelle città Usa abbandonate dalla globalizzazione si fa spazio l’idea della rilocalizzazione, di strumenti di produzione e consumo basati sulla prossimità. Senza cercare una
salvezza nel mercato globale dei capitali.
Perché, prima di giungere a queste soluzioni,
le città della Rust Belt per anni hanno provato a riagganciare la crescita inseguendo il modello di città liberista: l’Urban renewal sperimentato negli anni 70 proprio in una ex città
industriale e portuale come Baltimora, divenuta un modello anche in Europa (a partire dalla rivoluzione di Barcellona dei primi anni 90).
«Una metropoli che ha disinvestito nelle scuole per dare soldi alle imprese, per attrarre capitali, creando in maniera artefatta il mercato
grazie ai fondi pubblici. L’industria viene rimpiazzata dal turismo o dal mercato congressuale. Ma la maggioranza di queste politiche è fallita», spiega Coppola. Nel caso di Baltimora, in
particolare, la città si è spezzata in due: da un
lato l’Inner Harbour, il vecchio porto commerciale, trasformato in una città dei divertimenti,
dei festival, degli alberghi. Dall’altro la vecchia
Baltimora segnata ancora da conflitti razziali,
detentrice del record americano per omicidi e
diffusione dell’aids. «Appena oltre le attrazioni
dell’Inner Harbor, Baltimora vive nel pieno di
un’emergenza sanitaria e sociale», scrive Coppola nel suo Apocalypse town.
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La vicenda della decrescita delle vecchie città industriali è una storia tutta americana: «È
frutto di un capitalismo senza paracadute, impensabile in Europa. Basta pensare alla gestione pubblica della riunificazione tedesca, con
la sua ricaduta su città come Dresda e Lipsia»,
spiega Coppola. Eppure, seppure in forma diverse, la crisi urbana è arrivata anche a casa nostra. E molto simile è anche l’insegnamento che
se ne può trarre: le città non possono più crescere a dismisura. «Lo dimostra la cosiddetta
Terza Italia, quella dei distretti industriali, con
la miriade di capannoni rimasti vuoti, in territori colpiti duramente dalla recessione. Di questa
incredibile espansione edilizia avvenuta specialmente in Veneto negli anni 80 e 90, ora non
si sa più cosa fare», spiega Coppola. «Poi c’è la
crisi finanziaria delle città, colpite dell’austerity, ormai incapaci ad affrontare i propri problemi a partire dai bisogni di welfare. E le metropoli del Mezzogiorno, svuotate dall’emigrazione dei giovani. Infine, la riduzione del mercato
immobiliare ha messo lo stop a numerosi piani di espansione, come accaduto ad esempio a
Milano. I megaprogetti nati negli anni 90 e 2000
sono oggi insostenibili», aggiunge Coppola. «Il
problema di cosa fare degli eccessi, come utilizzare l’inutilizzato, si pone anche da noi. Siamo alla fine di un modello di sviluppo. Ma è una
emergenza che solleva anche grandi opportunità». Ancora una volta, l’America insegna.
Da sinistra,
in senso orario:
una veduta di Detroit.
A destra, un orto
urbano a Hartford,
in Connecticut.
Sopra, la copertina
di Apocalypse town,
(Laterza, 2012) di
Alessandro Coppola
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A COLPI
DI DIRITTO
società
di Sofia Basso
© SCROBOGNA/LAPRESSE
Parla Dario Stefàno, presidente della Giunta che dovrà decidere sul futuro
di Berlusconi. «Non siamo un quarto grado di giudizio. Valuteremo seguendo
i regolamenti». In tempi brevi: «Per settembre potremo aver concluso i lavori».
E senza intromissioni: «Il lodo Violante? Basta proposte lanciate sui giornali»
Silvio Berlusconi
nel suo scranno
da senatore
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società
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N
on si sbilancia, Dario Stefàno, presidente della giunta per le elezioni e per
le immunità di Palazzo Madama. Ex
assessore di Nichi Vendola in Puglia, manager
aziendale e docente a contratto, il senatore di Sel
si trova al centro della partita più delicata della
legislatura: la permanenza o meno di Silvio Berlusconi in Parlamento dopo la condanna in terzo grado per frode fiscale. Mentre il Pdl minaccia di far cadere il governo se il Pd voterà l’estromissione del Cavaliere dal Senato, Stefàno evita
le polemiche politiche e si concentra sulle questioni di diritto.
Lunedì 9 settembre si riunisce la giunta.
Avrete gli occhi di tutti addosso. Che percorso auspica?
Mi auguro che il lavoro continui a essere orientato nel merito e non dettato dall’appartenenza a uno schieramento politico. La giunta è un
organismo politico assimilabile a un organo paragiudiziario, chiamato a verificare le condizioni di eleggibilità e decadenza dei componenti
del Senato. Siccome investe questioni delicate,
spesso le libertà personali, è giusto che si esprima in punta di diritto facendo appello ai criteri
di serietà invocati dal Presidente della Repubblica. Sono fiducioso che continueremo a operare nel rigoroso rispetto del regolamento.
Sul ricorso alla Consulta,
due mesi fa votammo no, Pdl compreso.
Difficile ora fare il contrario
Qualcuno, non solo nel centrodestra, evoca
il ricorso alla Consulta sulla retroattività
della legge Severino. Lei che opinione ha?
Non mi esprimo. Mi limito a dire c’è un precedente votato da questa giunta il 2 luglio sui ricorsi elettorali. In quel caso la giunta si autodeterminò decidendo a larga maggioranza, Pdl
compreso, che almeno in questa fase procedurale la giunta non fosse titolata a sollevare eccezioni di costituzionalità. È chiaro che a distanza
di due mesi è poco immaginabile fare il contrario ma sarà comunque la giunta ad autodeterminarsi. Non decide il presidente.
Non è un segreto che qualcuno punti ad allungare i tempi.
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Il calendario lo farà l’ufficio di presidenza sulla
base di un regolamento che ci indica la strada:
proposta del relatore, discussione generale che
assegna a ogni componente di giunta 20 minuti
e dichiarazioni di voto che spettano a ogni gruppo. La tempistica non deve essere il tema dirimente né quello che disciplinerà il nostro comportamento: sarà consequenziale alle dinamiche successive alla proposta del relatore.
Può fare una stima?
Non sono in grado di fare previsioni. Dico solo
che in forza di quello che ci indica il regolamento è presumibile immaginare che, su un percorso ordinario, la giunta possa portare a compimento il suo lavoro nel mese di settembre.
Un eventuale ricorso a Strasburgo non fermerebbe i lavori della giunta, vero?
Non dovrebbe fermarli perché non incrocia la
nostra attività. Il ricorso alla Corte europea dei
diritti dell’uomo è una prerogativa che appartiene all’interessato ma non ha rilievo ai fini delle decisioni che siamo chiamati ad assumere.
Abbiamo una legge che, attraverso l’avverbio
«immediatamente», ci indica di essere tempestivi. Dall’altro lato, abbiamo la Costituzione e i
regolamenti che ci impongono le procedure ma
anche i diritti di difesa. Due indicazioni che vanno tenute assieme, contemperate.
Il presidente della giunta ha diritto di voto: lei si sarà già fatto un’idea...
Sì, il presidente può votare. Io per ovvie ragione non mi esprimo, anche perché il mio orientamento rispetto al voto lo maturerò agli esiti
della proposta del relatore e della discussione.
I giuristi, però, sono d’accordo nell’escludere che la giunta possa rappresentare un
quarto grado di giudizio.
Questo ce lo dicono la norma e i comportamenti pregressi. Siamo chiamati ad applicare le disposizioni legislative in ossequio alla Costituzione e ai regolamenti parlamentari.
Se nessun democratico si lascerà intimorire dal ricatto della caduta del governo, il voto dovrebbe finire 14 a 9 per la decadenza.
Rifuggo da questa idea. Sconfesserei il mio credo per cui la giunta si deve esprimere nel merito e non per appartenenza politica. Altrimenti misurerebbe la grande sconfitta di autodelegittimarsi e rischierebbe di commettere errori.
Dovremo esser bravi e far sì che l’esito non sia il
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frutto della composizione della giunta ma della
capacità di andare nel merito.
Ma lei non vuole entrare nel merito.
Perché lo deve valutare la giunta al suo interno,
nei luoghi deputati alla discussione. Il compito
e la responsabilità che mi ascrivo è quella di far
sì che la giunta sia messa nelle migliori condizioni per affrontarlo.
E se Berlusconi chiedesse di essere ascoltato in giunta?
La possibilità che Berlusconi venga ascoltato, a
questo punto della procedura, si può realizzare
solo in due casi: se viene costituito un comitato inquirente che faccia degli approfondimenti. Oppure nella procedura di contestazione, ovvero nel caso in cui il Cavaliere fosse dichiarato decaduto: Berlusconi avrebbe 10 giorni per
essere ascoltato dalla giunta, che poi elaborerebbe la proposta definitiva da mandare in aula.
Lei presiede la giunta che deciderà sul futuro politico di Berlusconi: ha subìto qualche pressione?
È chiaro che ci occupiamo di una questione che
è sotto gli occhi di tutti, non solo del nostro Paese, ma anche della ribalta internazionale. La nostra bravura sarà quella di non farci condizionare da questo interesse ma di dare una risposta
seria e rigorosa.
C’è una lettera di dieci senatori Pd che
chiedono che si discuta del lodo Violante.
Cosa ne pensa?
Io credo che la giunta non possa essere impegnata su lodi proposti dall’esterno ma debba
lavorare sulle proposte del relatore e sulla discussione che ne conseguirà. Mi sembra anche
che questa modalità di fare proposte attraverso la stampa, immaginando tattiche particolari, non abbia giovato alla serenità del relatore e
delle stesso Berlusconi, che è chiamato a difendersi. Credo che sia giunto il momento che il dibattito ritorni all’interno della giunta. Io farò lo
stesso pur avendo sin qui sempre mantenuto il
mio profilo nel perimetro della trasparenza.
Se la proposta del relatore fosse bocciata,
il nuovo relatore sarebbe di nuovo del Pdl?
No, andrebbe scelto da me tra i componenti dei
gruppi che si sono dichiarati contrari. L’attuale
nome nasce da una procedura automatica che
associa l’elenco delle Regioni in ordine alfabetico con l’elenco dei senatori in ordine anagrafico.
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© SCROBOGNA/LAPRESSE
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Quindi che il primo relatore sia del Pdl è un
puro caso?
Ripeto, è una procedura automatica: siccome
Berlusconi è stato eletto in Molise, incrociava il
senatore Andrea Augello.
Oltre al tema della retroattività della legge Severino, la giunta potrebbe affrontare
le questioni dell’incandidabilità di Berlusconi e della sua interdizione dai pubblici
uffici appena la Corte d’appello di Milano
rivedrà la pena accessoria.
Sì, adesso ci occupiamo dell’applicazione della legge Severino, ma c’è anche il tema dell’incandidabilità e potrebbe arrivare anche quello
dell’interdizione. Avranno tutte la stessa procedura perché questo ci indica il regolamento.
La giunta è chiamata a costruire la proposta dal
portare all’aula del Senato. Si partirà dal relatore, poi ci sarà la discussione e il voto.
Dario Stefàno,
senatore Sel
e presidente della
giunta per le elezioni
e per le immunità
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società
di Rocco Vazzana
Oltre all’uranio, potrebbero
essere i vaccini la causa
di alcune morti sospette
tra i militari. Ma gli
scienziati sono divisi
e pochi sfidano le case
farmaceutiche
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on solo uranio impoverito. Tra le
cause che hanno causato gravi malattie tra i soldati italiani non c’è solo l’esposizione al metallo radioattivo. Ne sono convinti molti familiari delle vittime. Lo ripetono da anni alcuni scienziati, certi che l’origine di alcune patologie sia da ricercare altrove, soprattutto tra i cocktail dei vaccini somministrati che avrebbero abbassato drasticamente le difese immunitarie dei militari.
«Mio figlio non è mai andato in missione
all’estero, non è mai stato esposto a radiazioni da uranio impoverito, non si è mai esercitato in un poligono sospetto», dice Andrea Rinaldelli, padre di Francesco, alpino di 26 anni scomparso nel 2008 dopo una lunga lotta
contro il cancro. «Nel febbraio del 2004, appena arrivato in caserma, mio figlio è stato subito vaccinato, poi è stato spedito a prestar servizio al petrolchimico di Porto Marghera», racconta Rinaldelli.
«Dopo qualche mese è tornato a
casa, si è ammalato ed è morto.
Causa: linfoma di Hodgkin. Da
quel momento ho iniziato a indagare». E nelle sue ricerche, Andrea Rinaldelli scopre molte anomalie. A cominciare dalle modalità di vaccinazione, senza neanche informare il diretto interessato sul tipo di immunizzazione che
avrebbe ricevuto. Secondo il papà
di Francesco, suo figlio non sarebbe
stato sottoposto ad alcuna anamnesi,
indispensabile per fornire informazioni utili al medico sulla storia sanitaria
del militare. «Ad esempio, l’antitetani-
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© CARCONI / LAPRESSE
Soldati
senza
difesa
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società
left.it
ca. Francesco era già coperto fino al 2010, invece nel 2004 gliel’hanno ripetuta senza dirgli niente», continua Rinaldelli. «Poi gli è stato somministrato l’antitifico che, secondo un protocollo del
ministero della Difesa, deve esser fatto soltanto
se esiste la concreta possibilità di contrarre il tifo nel luogo in cui si presta servizio. Ora, o in Italia c’è un problema di tifo e noi non ne sappiamo
niente, oppure somministrano vaccini senza sapere quello che fanno». E senza fare domande al
paziente. A Francesco Rinaldelli è stato somministrato anche il vaccino trivalente, l’immunizzazione che protegge da morbillo, rosolia e parotite. Peccato che il soldato avesse già contratto la
rosolia durante l’infanzia e che quindi non necessitasse di alcun trattamento profilattico.
All’inizio Andrea Rinaldelli era convinto che
la malattia del figlio fosse dovuta all’esposizione a prodotti tossici nel periodo di servizio svolto nell’area del petrolchimico di Porto Marghera. «Ma mi sono informato e ho scoperto nuove
cose», dice Rinaldelli. «La perizia sulla morte di
mio figlio è stata effettuata dal dottor Montinari
che mi ha spiegato come il sistema immunitario
di mio figlio fosse stato messo in crisi dai vaccini. Probabilmente le sostanze tossiche presenti a
Porto Marghera hanno sì generato una malattia,
ma solo perché l’organismo di Francesco non era
più in grado di reagire». Per Rinaldelli, l’alpino
nel 2004 avrebbe respirato almeno una trentina
di sostanze tossiche, tra cui la diossina. «A spiegarmelo, con una nota scritta è stato il professor
Luigi Mara, uno dei periti nel processo contro la
ThyssenKrupp», continua. «Forse anche i ragazzi morti per l’esposizione all’uranio o per altre patologie potrebbero essere stati indeboliti dai vaccini. Non lo so, ma il 90 per cento dei militari ammalati non ha partecipato ad alcuna missione».
Le convinzioni di Andrea Rinaldelli sono supportate dalle ricerche scientifiche di Massimo Montinari, dirigente della Polizia di Stato e medico
esperto di patologie post vaccinali. «Nel 2001 mi
contattò un maresciallo dell’Esercito per sottopormi i casi clinici di soldati che avevano sviluppato patologie tumorali per capire quale potesse
essere l’origine», racconta Montinari che ha studiato i casi di militari impegnati nella prima guerra del Golfo. «Valutai accuratamente la documentazione, feci accertamenti su alcuni soldati e
venne fuori che l’ipotesi di uranio impoverito non
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si basava su nulla». Per Massimo Montinari, un
soggetto esposto all’uranio per subire una qualunque reazione indesiderata dovrebbe ingerire
almeno 70 grammi di terra contaminata al giorno per un lungo periodo. Un’esposizione ambientale provvisoria non sarebbe sufficiente a causare danni. Secondo Montinari l’osservazione sulle patologie militari deve essere orientata sulle
vaccinazioni somministrate in maniera non corretta. «È chiaro che l’uranio impoverito, magari
dopo bombardamenti intensivi che interessano
anche le falde acquifere, genera problemi alle popolazioni che abitano quelle zone», dice il medico. «Ma non a un militare che transita per pochi
mesi e si nutre con cibi che non vengono reperiti
sul luogo». Secondo Montinari, parlare di uranio
è solo un escamotage per uscire da una situazione critica pagando pochi indennizzi e chiudendo
la bocca a tutti gli altri familiari, senza mettere in
discussione i protocolli vaccinali. «Il numero dei
soldati deceduti è molto più alto di quello ufficia-
Il padre di una vittima: «Viene imposta
la profilassi senza la corretta anamnesi»
le», denuncia Massimo Montinari. «Il problema è
che alcuni consulenti del ministero della Salute
che hanno parlato di uranio, per loro stessa ammissione davanti alla commissione d’inchiesta
parlamentare, hanno rapporti diretti con le case farmaceutiche: le stesse multinazionale che si
suddividono equamente i proventi dei vaccini».
Deontologia a parte, le teorie del dottor Montinari dividono la comunità scientifica. Alcuni ritengono che le deduzioni sui vaccini non abbiano alcuna valenza scientifica. «Gli studi del dottor Montinari sul sistema immunitario in alcuni
passaggi sembrano forzati. Non è possibile associare un basso titolo immunitario ai vaccini», dice Maurizio Bonati, direttore del dipartimento di
Salute pubblica dell’istituto di ricerche Mario Negri. «Sono posizioni di preconcetto, non suffragate da evidenze. È vero che il sistema con cui sono stati somministrati alcuni vaccini lascia adito
a molti dubbi. Ma prendere spunto da questo elemento per dimostrare che i vaccini siano la causa
primaria delle malattie non è possibile».
Resta il fatto che i soldati italiani non sanno più
da cosa difendersi.
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CAMBIO
DI ROTTA
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di Tiziana Barillà
Sono tappezzieri, falegnami, elettricisti. Lavoravano alla manutenzione
dei wagon lits, tagliati da Trenitalia. Ora ricominciano da capo sfruttando le
loro capacità. Ecco il progetto su usato e riciclo delle Officine Zero di Roma
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società
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R
© ARIANNA CATANIA
egola numero uno: non si butta via
niente. Tanto meno il lavoro. Questo
devono aver pensato un anno e mezzo
fa, a Roma, i 59 operai cassintegrati dell’ex Rsi
(Rail service Italia), l’azienda dismessa da Trenitalia che si occupava della manutenzione dei
vagoni letto. I 33 metalmeccanici e i 26 addetti ai trasporti hanno occupato le officine in cui
per anni hanno lavorato come tappezzieri, falegnami, meccanici. I loro mestieri sono diventati inutili dopo che Trenitalia, nel dicembre 2011,
ha deciso di smantellare i wagon lits, per investire solo sull’Alta velocità. Ma loro, di appendere al chiodo le tute blu proprio non vogliono
saperne. E decidono di sfruttare le proprie capacità professionali e conoscenze per ricominciare da capo. Adesso, dopo 18 mesi di occupazione, non si limitano più a presidiare lo spazio
e presentano un progetto per la riconversione
industriale di quell’area. Un laboratorio di idee
pensato insieme a esperti e movimenti, cooperative di lavoro e studenti: nascono le Officine
Zero. Zero come «Zero padroni, Zero sfruttamento, Zero inquinamento».
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OPERAI E STUDENTI COME NEL ’68
Siamo a due passi dalla nuova e monumentale
stazione romana di Tiburtina. Per entrare nello spazio delle officine bisogna varcare il cancello blu e il gabbiotto dei badge su cui è ancora affisso il cartello “Rsi Italia”. Da qui si estendono quattro ettari di terreno in cui c’è di tutto:
il piazzale, i binari, i laboratori di tappezzeria,
falegnameria, carpenteria, la mensa, un campo da calcio. Ma c’è anche un palazzetto per gli
uffici, che si pensa di trasformare in spazio di
co-working per free lance e precari del mondo della comunicazione. E la vecchia residenza del direttore dello stabilimento, oggi dimora per 15 ragazzi dello studentato autogestito
Mushrooms. Operai, precari e studenti. Insieme. Ha un non so che di nostalgico questa esperienza, una sorta di Maggio del ’68, versione
2.0. L’incontro avviene nel dicembre del 2011
quando gli operai dell’ex Rsi, già cassintegrati, “aprono i cancelli” ai militanti dell’adiacente centro sociale Strike, quei vicini fino ad allora tenuti a distanza. I primi presidiano i cancelli manifestando contro la scelta di dismettere l’azienda e il mancato pagamento della cas-
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Gli ex operai si rivolgono alle amministrazioni
per scongiurare la speculazione edilizia
sa integrazione, i secondi si stanno dirigendo
al corteo di protesta contro la riforma Gelmini del 14 dicembre, una giornata di scontri che
a Roma si ricorda ancora. Gli operai scoprono
che dentro quel centro sociale ci sono lavoratori, più o meno, come loro. E insieme, di lì a un
anno, decidono di occupare le Officine. Un presidio che dapprima punta a preservare lo spazio dalla svendita e dalla speculazione edilizia,
ma che poi registra una improvvisa svolta. Accade il 3 maggio scorso, quando la magistratura decreta il fallimento dell’ex Rsi. È l’occasione per alzare la posta in gioco: proporre il progetto di riconversione produttiva ed ecologica di alcune officine (tappezzeria, carpenteria,
saldatura). Gli strumenti e le attrezzature ci sono, le idee anche, quello che ancora manca sono le autorizzazioni.
Un vagone letto
dei treni dismessi
da Trenitalia
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«ACQUISITE QUELLO SPAZIO»
Da quando le carrozze notturne sono state soppresse, tutta l’area è stata avviata alla dismissione. E questa volta non si tratta di una “questione di crisi”, ma di una precisa strategia aziendale delineata dall’ad di Trenitalia Mauro Moretti.
Già nel 2008 l’area dell’ex Rsi era stata rilevata
da un’altra società, la Immobiliare Barletta srl.
Per gli occupanti un chiaro segnale di quale fosse il futuro della loro azienda. Del resto, basta
guardarsi intorno, qui tra Casalbertone e Portonaccio, per rendersi conto che a farla da padrone è soprattutto il cemento. «La Barletta srl opera nel campo immobiliare e della logistica più
che nel campo dei trasporti», spiega infatti Lorenzo Sansonetti di Officine Zero. «È chiaro cosa intendono farne di questi spazi: un cambio di
destinazione d’uso. Certo, questa è un’area privata e le imprese private tenteranno di massimizzare il profitto attraverso la vendita immobiliare. Per noi, invece, il problema è bloccare la
speculazione e fare in modo che la destinazione dei terreni rimanga a fini produttivi. Il grimaldello per i lavoratori e i movimenti è proprio la
questione urbanistica». E lasciando immutata la
destinazione, gli occupanti auspicano una pubblica acquisizione dello spazio. «Le amministrazioni devono fare delle scelte», dice Sansonetti.
«Per esempio quella di acquisire l’area e consentire un processo di azionariato popolare e costituzione in cooperativa dei lavoratori».
RIUSANDO SI IMPARA
Intanto, gli occupanti si danno da fare e incontrano funzionari della Regione Lazio ben di-
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left.it
FABBRICHE OCCUPATE: UN RADUNO A PISA
I movimenti per la riappropriazione di spazi,
lavoro e diritti ripartono da Pisa. Dal 20 al 22
settembre la città toscana ospiterà “Common
| Properties”, l’evento - organizzato da Municipio dei beni comuni e Progetto Rebeldia
- riunirà lavoratori che lottano per l’affermazione del diritto al lavoro e attivisti impegnati
nell’elaborazione di pratiche dal basso per
l’affermazione di un’economia alternativa e
per cercare nuove forme di produzione.
Sul banco degli imputati: privatizzazione
delle terre e brevettazione dei saperi. A giudicarli sarà chi «da anni elabora strategie di
pubblica resistenza contro lo strapotere della
proprietà privata», dicono gli organizzatori.
Riflessione giuridica e pensiero economico si
incontreranno grazie al movimento dei Beni
comuni. Ai lavori prenderanno parte l’economista Guido Viale, il professor Massimo
De Angelis, docente di Politica economica
alla University of East London, Joana Conill ricercatrice di Economia alternativa alla
Universitat Oberta de Catalunya e Tonino
Perna, docente di Sociologia economica
sposta nei loro confronti, il Comune di Roma
adesso guidato dal democratico Ignazio Marino e il curatore fallimentare. In attesa di altri step è già partito il processo di “aggiornamento delle competenze” curato dalla Rete
Onu. L’Organizzazione degli operatori nazionali dell’usato da maggio ha attivato corsi di
formazione per carpentieri, falegnami, elettricisti. Un’occasione per gli ex operai ma anche
per chi si è avvicinato per la prima volta a Officine Zero. «Le attività di riuso e riciclo, in situazioni come questa sono le più adeguate. E
qui ci sono le professionalità che più si addicono a un centro di riuso e riparazione», spiega Gianfranco Bongiovanni della Rete Onu.
«L’obiettivo è quello di sviluppare diversi segmenti per le riparazioni: dal mobilio alla tappezzeria, dall’oggettistica alle piccole riparazioni e l’informatica». La prospettiva è quella di riutilizzare i quattro ettari, creando vere
e proprie cooperative «che siano di sostegno
anche al settore dell’usato locale», continua
Bongiovanni. Che per spiegare il potenziale
del progetto ricorda il caso della cooperativa
vicentina Insieme, forse la punta più avanzata di questo tipo di esperienze che da trent’anni opera nel settore del riuso e riciclo, dalle riparazioni, alla gestione di isole ecologiche ai
punti vendita dell’usato, mettendo insieme un
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all’Università di Messina. Non mancheranno
le testimonianze dall’estero. Le esperienze
internazionali avranno le voci di Begun Firat
del Network for the commons Mustiereklerimiz di Instanbul, Murua Eduardo lavoratore
della fabbrica recuperata Impa in Argentina
e di un operaio della fabbrica occupata di
Salonicco Vio.Me. Perché a Pisa? Il 20 settembre è attesa la sentenza sull’istanza di
sequestro per l’Ex colorificio liberato, l’area
di oltre 14mila metri quadrati dismessa diversi anni fa dalla multinazionale J-Colors. Oggi
occupata e recuperata dal Municipio dei beni
comuni, che ne chiede l’acquisizione pubblica: «Il diritto di proprietà privata accampato
dalla J-Colors non ha fondamento giuridico
perché, a seguito dell’abbandono dell’attività
produttiva, non persegue più la sua “funzione sociale”, come chiaramente espresso e
richiesto dagli articoli 42 e 41 della Costituzione», chiosano i pisani. Una richiesta che
parte da Pisa e parla a nome di tutti gli spazi
occupati e liberati del Paese.
t.b.
L’obiettivo è sviluppare un mercato
delle riparazioni: dai mobili ai computer
centinaio di lavoratori. «Cento posti di lavoro. E Vicenza è una piccola città di provincia»,
sottolinea Bongiovanni, «provate a immaginare cosa significherebbe replicare quel tipo di
esperienza in una città come Roma».
SOLUZIONI DAL BASSO
Intanto, si avvicina la fine della cassa integrazione straordinaria, prorogata fino a maggio 2014. Un conto alla rovescia, dopo di che
gli operai non avranno più un reddito. «Se domani mattina ci dicessero che sono pronti a
riprendere la manutenzione dei vagoni letto
e che le Officine ridarebbero lavoro a quegli
operai», dice Sansonetti di Officine Zero «per
noi andrebbe bene. Ma non è così, perciò lavoriamo a una soluzione dal basso. Perché prima di tutto c’è la tutela del lavoro». La rotta
sembra chiara: riconversione. Del resto «il
mercato del riciclo è fiorente», conclude Bongiovanni. «L’usato dice: più oggetti ci sono e
più se ne vendono. E questo è dovuto soprattutto alla rotazione dei beni e ai bassi costi,
che potrebbero essere ulteriormente abbattuti se ci fosse un vero centro di riuso».
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Senza barriere
di Donatella Coccoli
Subacquei non vedenti che diventano
istruttori. In Calabria un corso con metodi
innovativi per superare l’handicap
«L
a leggerezza, il senso di volare,
l’acqua che ti circonda, ti abbraccia, ti dà sensazioni corporee fortissime. E poi senti tutto quello che si muove là
sotto: i coralli, gli anemoni, i ricci, la sabbia che
è calda, le spugne che sono soffici, belle. Ci puoi
vedere quello che vuoi nelle spugne, un po’ come le nuvole». Alessia è una ragazza non vedente totale da quando aveva 13 anni. Adesso si sta
preparando a ottenere il brevetto di istruttore
subacqueo riservato a chi ha difficoltà visive,
un attestato unico al mondo rilasciato dalla Fipsas, federazione riconosciuta dal Coni. Nel mare di Paola in Calabria, insieme al gruppo subacqueo guidato dal professor Piero Greco, Alessia
ha imparato metro dopo metro, sempre più giù,
a diventare responsabile di se stessa «senza che
sia un altro a pensare a me». Quello che sulla
terra è un handicap, sott’acqua scompare. Dove
magari capita che quella ragazza impegnata in
una immersione profonda per toccare il corallo nero «sia vista dagli altri sommozzatori come una regina», racconta l’istruttore Piero Greco. Dare autonomia subacquea al non vedente
non è semplice. Ma è l’obiettivo per cui da anni
lavorano i subacquei di Paola in collaborazione con l’Unione italiana ciechi. Quest’anno un
altro traguardo: il progetto “Sott’acqua insieme
per vedere e insegnare il mare”, realizzato con il
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© WESTMORLAND/LAPRESSE
L’ideatore: «Abbiamo lavorato
su autonomia e sicurezza»
contributo del dipartimento delle Pari opportunità della presidenza del Consiglio. Dopo un tirocinio effettuato a luglio, fino all’8 settembre
nove istruttori non vedenti istruiscono da soli
con il controllo di un supervisore nove allievi
non vedenti. Sono previste immersioni nei daiving della Calabria e della Basilicata e poi alla
fine del mese in Sicilia. Non è un caso che questa attività si svolga a Paola. Qui è stata messa
a punto, con un lavoro costante di subacquei
e tecnici, una vera e propria normativa didattica riconosciuta dalla federazione. «In genere
un cieco viene accompagnato sott’acqua mano nella mano», spiega Piero Greco. «Noi invece abbiamo lavorato sulle autonomie, sulla sicurezza e sulle emergenze. Da questa attività sono scaturiti segnali e istruzioni nuove».
Dal bombolino di emergenza da portare al fianco al cavo a spirale che collega il non vedente all’istruttore, fino ai percorsi completamente autonomi. Come quelli per visitare i relitti. Il
cieco si tuffa dal gommone, va verso una boa
di superficie con segnali sonori. Lì c’è un cavo:
seguendolo il subacqueo arriva al relitto dove
trova altri cavi e punti di informazione, con tavolette in Braille o “scatole sonore”, cioè comunicatori subacquei audio.
Piero Greco ha iniziato il lavoro con i disabili quasi per caso. «Era il 1989, avevo organizzato la rassegna Calabria Sub quando mi chiama un ragazzo paraplegico che voleva partecipare. Io non sapevo cosa fare, mi ha insegnato
lui, in piscina, i movimenti e la tecnica, legandomi le gambe», racconta l’istruttore mentre ricorda il giovane rimasto paralizzato per un incidente in moto. Dieci anni dopo Greco, insieme
con i subacquei del gruppo paolano, ha deciso
di proseguire queste immersioni “particolari”;
da questo, tra l’altro, sono nati i corsi con i ragazzi Down o con le persone con problemi psichici della Asl di Roma. Là sotto, nel mare, può
accadere qualcosa che non si dimentica. «L’immersione è una sfida - conclude Alessia - e quello che impari sott’acqua te lo porti fuori. Significa, è vero, scoprire i propri limiti ma se non lo si
fa, non si trovano neppure le risorse».
7 settembre 2013
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calcio mancino
società
left.it
Incontro con un campione indimenticato del pallone. Tra aneddoti ironici e vena comica
Mi batte el corazon
ho visto Eraldo Pecci
di Emanuele Santi
left 7 settembre 2013
© PAPI/LAPRESSE
I
l Festival delle storie è una rassegna culturale itinerante che,
da quattro anni, si svolge nell’incanto della Val di Comino, immenso teatro di eventi storici: dalle guerre tra i romani e i sanniti fino alla linea Gustav. Quest’estate, per colpa
di un libro sull’adolescenza del portiere Albert Camus, ho rimediato
un invito anch’io e, in una sera di fine agosto piena di stelle, mi sono ritrovato sulla piazza di Avito a parlare del pallone di una volta insieme a
stimati palati fini e a competenti addetti ai lavori. E c’era anche lui, uno
che il calcio d’altri tempi lo incarna,
lo emana, lo trasuda, lo porta dentro,
lo rappresenta a testa alta con il suo
scanzonato modo di essere: semplicemente Eraldo Pecci. Era invitato
come autore de Il Toro non può perdere edito da Rizzoli con prefazione
di Gianni Mura. È un libro sulla magica stagione dell’ultimo scudetto della storia granata: ’75-’76. Ed era bello
sentire il numero 8 di quell’indimenticabile formazione parlare dell’alchimia creatasi nella squadra di Gigi
Radice, dei rapporti umani e veri che
esistevano tra i giocatori. Calciatori che erano soltanto uomini o, forse, soltanto ragazzi. Perché gli atleti della “generazione Pecci” - lui ha
smesso da circa vent’anni - non erano solo macchine da soldi. I calciatori della sua epoca erano anche quelli
che... (per dirla alla Beppe Viola) bastava una stretta di mano.
Al festival, Eraldo Pecci ha raccontato storie esilaranti, condite da un
sagace accento romagnolo. Divertentissima quella dell’estate del ’75
quando, camminando per le vie di Viserba, in Riviera, aveva appreso per
Eraldo Pecci
«Dammela dietro!»,
dice il numero 10
argentino. «Tie’, fa’
come ti pare, Maradona
sei te!», risponde
il centrocampista
caso, dal televisore di una casa con le
finestre aperte, di essere stato ceduto dal Bologna al Torino. E poi i ricordi dello scudetto alla prima stagione
in granata e la grandezza delle stracittadine tra il Toro e la Juventus vissute (testualmente): «Come l’operaio contro il padrone». E ancora la festa sul campo di casa all’ultima giornata con Paolo Frajese - a fine gara - a
inseguire col microfono Gigi Radice
che a sua volta inseguiva i colpevoli dell’autogol con cui il Cesena aveva pareggiato. E poi gli anni duri della crisi economica che comportò il
suo trasferimento alla Fiorentina insieme all’amico Ciccio Graziani. Eppure Eraldo Pecci si illumina e cambia colore se deve parlare dell’uni-
ca stagione passata a Napoli prima
di tornare a Bologna. Sentirlo cantare «Maradona è megli’ ’e Pelè» con
un’ottima pronuncia napoletana rimetterebbe al mondo ogni amante di
questo gioco. Così come quando parla dell’uomo Maradona, del vicino di
casa Maradona, del campione Maradona e del siparietto più famoso tra
i due nel novembre dell’85 sotto l’acqua battente del San Paolo contro la
Juventus di Trapattoni e di Platini. Il
Napoli usufruisce di un calcio di punizione di seconda in piena area, con
la barriera a un passo dalla linea di
porta e la palla che quasi non rimbalza più. «Dammela dietro!», chiede il
campione argentino intenzionato ad
aggirare la barriera. «Diego - avverte
il ragioniere romagnolo - non ci passa». «Dammela dietro!», insiste il numero 10. Dopo un breve tira e molla, Pecci si arrende: «Tie’, fa’ come ti
pare, Maradona sei te!» e gli tocca la
palla sul sinistro. Ne uscì fuori uno
dei gol più belli della storia del calcio. Forse perché c’era anche Eraldo Pecci.
[email protected]
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left.it
GUERRA AL TERRORE
ATTO SECONDO
di Ludovico Carlino
Mentre litiga sulla Siria, l’America moltiplica i suoi attacchi in Yemen,
considerato il nuovo quartier generale di al Qaeda. Una vecchia
strategia contro una nuova generazione di jihadisti. Più forti di prima
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© HELBER/AP/LAPRESSE
nata con prepotenza sotto i radar dell’antiterrorismo statunitense, che la considera l’origine
di una minaccia etichettata come la “più grave
dell’ultimo decennio”. L’allerta risale all’inizio
di agosto, prima della mobilitazione contro la
Siria, quando la Casa Bianca ha chiuso 21 avamposti diplomatici in Medio Oriente, Nord Africa e Sud Est asiatico proprio in virtù di un potenziale complotto pianificato dal ramo yemenita del gruppo terrorista, al Qaeda nella Penisola Araba (Aqap).
L
a Cia l’ha definito il reale centro di gravità di al Qaeda, il luogo da dove i seguaci dell’organizzazione continuano incessantemente a pianificare attacchi contro il
territorio Usa e i suoi interessi in Medio Oriente. Lo Yemen è il Paese dove il network terrorista fondato da Osama bin Laden si sarebbe
impiantato per adattarsi alle trasformazioni
del Medio Oriente e rigenerarsi dopo le sconfitte. Dopo il fallito attentato sul volo di Natale per Detroit del 2009 e il complotto dei pacchi-bomba sugli aerei cargo dell’Ups diretti negli Usa del 2010, la Repubblica yemenita è ritor-
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GLI EREDI DI BIN LADEN
Per gli Usa, dunque, la stagione del terrorismo
jihadista è ben lontana dalla sua conclusione.
Al contrario, gli americani ritengono che la rete terrorista si stia allargando, soprattutto in Siria, Egitto, Iraq e, in misura minore, Tunisia e Libia. L’ultima evoluzione del qaedismo post Bin
Laden vede la leadership centrale basata in Pakistan oramai decimata e sempre più isolata, e
l’Afghanistan ormai rimpiazzato dalla Siria come luogo di richiamo dei combattenti jihadisti
di tutto il mondo. È nel cuore del mondo arabo che la lotta armata avrebbe quindi trovato la
sua naturale evoluzione. In questo vasto teatro
operativo, in cui una miriade di gruppi locali e
nuove sigle continuano a moltiplicarsi, sarebbe
l’Aqap, il ramo yemenita, a coordinare l’attuale
sforzo jihadista, soprattutto in virtù dell’ascesa del suo Emiro, Nasir al-Wuhayshi, promosso di recente a numero due di al Qaeda nonché
responsabile di tutte le operazioni del gruppo
madre. Questa nuova variante della rete - con
una leadership centrale debole e non più in grado di offrire direzione e coordinazione a una serie di gruppi locali semi indipendenti ma legati
dal collante ideologico del jihad - non è nei fatti molto diversa da quella degli ultimi anni. Una
differenza, però, c’è: è la forte sinergia che si è
sviluppata tra vari gruppi semi autonomi, con
in prima linea l’Aqap e il ramo nordafricano del
gruppo rappresentato da al Qaeda nel Maghreb
Islamico (Aqmi) e la loro capacità di prestare
assistenza e supporto ai nuovi gruppi locali che
vanno formandosi nel deserto libico come nella penisola egiziana del Sinai. È questa sinergia
che secondo gli Usa rende al Qaeda non solo geograficamente più estesa e amorfa, ma più letale, circostanza che in linea teorica ammettereb-
Ufficiali della Marina
americana preparano
il lancio di un drone
dalla costa della
Virginia
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© NIEDRINGHAUS/AP/LAPRESSE
Il vertice pachistano è isolato, ma la rete
terrorista funziona anche senza leader
Una scuola
nel villaggio
di Budyali,
in Afghanistan,
distrutta dal
bombardamento di un
drone americano
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be l’estensione della strategia antiterrorismo imperniata sui raid di droni - ad aree della regione fino a pochi anni fa fuori dal raggio d’azione
della Cia e del dipartimento di Stato, come la Siria. E Washington, infatti, si è ricreduta rispetto ai proclami del 2011, quando il Pentagono dichiarava al Qaeda quasi morta, fiaccata dall’uccisione di Osama bin Laden, dalle rivolte della
Primavera araba (che avevano messo definitivamente in dubbio la portata del suo messaggio) e, soprattutto, dall’eliminazione dei più
importanti esponenti del jihad globale, vittime
della precisione “chirurgica” garantita dai droni. Secondo le più recenti valutazioni, una nuova generazione di jihadisti starebbe al contrario emergendo, ancor più intenzionata a colpire gli interessi statunitensi nella regione, a unire i propri ranghi per conquistare una base logistica nel cuore del mondo arabo, e specificatamente in Siria. Questa nuova strategia sarebbe
stata discussa da una decina di leader terroristi
regionali e dal numero uno di al Qaeda, l’egiziano Ayman al-Zawahiri, nel corso di una conferenza online senza precedenti, che secondo in-
discrezioni dell’intelligence statunitense avrebbe avuto luogo a fine luglio, e che fonti ben informate hanno indicato come il vero elemento
che ha spinto Washington a decretare la chiusura delle proprie ambasciate. La conferenza virtuale, sebbene criptata, sarebbe stata comunque intercettata dalla Cia, e parti del suo contenuto, tra cui un vago riferimento a un potenziale attacco contro interessi statunitensi lanciato
dallo Yemen, hanno iniziato a circolare durante
lo scandalo del programma di intercettazioni rivelato da Snowden.
DRONI CONTRO AL QAEDA
Ma svelare i contenuti della teleconferenza potrebbe essere stata una mossa per dimostrare
l’utilità del programma di intercettazioni, dubbio amplificato dalla smentita di un’altra indiscrezione, quella su un complotto dell’Aqap
per prendere il controllo dell’hub petrolifero di
Mukalla e uccidere tutti i dipendenti stranieri,
un attacco sulla falsariga di quello lanciato ad
In Amenas, Algeria, lo scorso anno dal nordafricano Aqmi. Anche in questo caso si era trattato di una notizia fatta trapelare dall’intelligence Usa. La Cia faceva riferimento a una comunicazione di al Zawahiri al ramo yemenita del
gruppo, in cui ordinava di lanciare un attentato.
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© ABBASS/AP/LAPRESSE
Un’indiscrezione diffusa mentre a Washington
si pianificava l’evacuazione di tutto il personale
diplomatico dallo Yemen. In realtà sembra che
al Zawahiri non abbia ordinato nulla. Ma l’allerta globale lanciato da Washington e la notizia
di una conferenza virtuale tra i capi di al Qaeda sono serviti comunque a legittimare i bombardamenti sullo Yemen. Nelle prime due settimane di agosto, gli americani hanno lanciato
11 raid con droni nel Sud del Paese, una concentrazione di attacchi senza precedenti, che
secondo il governo yemenita e l’amministrazione Obama avrebbe raggiunto l’obiettivo di “eliminare” diversi esponenti di spicco di al Qaeda, ma che secondo fonti locali ha invece causato la morte di decine di civili, esponenti tribali e operativi di secondo piano dell’organizzazione. Eppure il presidente statunitense, sotto
la spinta di parte del Congresso e dell’opinione
pubblica, aveva promesso lo scorso giugno un
utilizzo più trasparente e regole maggiormente
chiare rispetto al ricorso dei droni. Ma i velivoli
senza pilota rappresentano oramai il perno centrale di una strategia di anti terrorismo statunitense avvolta da numerose lacune legali. Solamente nello Yemen, gli Usa hanno condotto negli ultimi quattro anni più di 80 raid uccidendo
più di 600 persone, e in gran parte dei casi non
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L’indiscrezione ad hoc dell’intelligence Usa:
al Zawahiri vuole una base a Damasco
è mai stata offerta alcuna prova che si trattasse
realmente di terroristi dell’Aqap. Con basi aeree identificate in Arabia Saudita, a Djibouti, alle Seychelles e in Etiopia, Washington sembra
al contrario sempre più propensa ad allargare
una guerra oramai non più tanto segreta, per
contrastare questa nuova versione di al Qaeda
riproponendo a ben vedere una versione ridimensionata del modello di network globale del
terrore, i cui fili sono mossi oggi dalla Penisola
Araba e magari, un domani, dalla Siria. Quello
che tredici anni di lotta ad al Qaeda hanno tuttavia suggerito è che non è possibile contrastare
sul piano esclusivamente militare un movimento che si è nutrito principalmente di un’ideologia che fa leva proprio sull’interventismo statunitense. Mentre il mondo arabo sembra fare pericolosi passi indietro rispetto alle aspettative
aperte dalle rivolte degli ultimi due anni, rispolverare vecchie categorie del passato porta con
sé il rischio profondo di continuare a lasciare irrisolte le cause reali che continuano ad alimentare il fenomeno jihadista. O ancora peggio, ad
approfondirle.
Waziristan, Pakistan.
Una manifestazione
contro gli aerei
telecomandati Usa
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© FREUDE/FLICKR
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Marsiglia
a mano armata
di Cecilia Tosi
Regolamenti di conti a suon di kalashnikov. Piazze di spaccio che si
moltiplicano. Arabi, provenzali, corsi e gitani che si alleano per fare soldi
facili. Il porto più grande della Francia non è cambiato, i suoi giovani sì
B
evevano una birra insieme, in un locale chic di una bellissima città francese.
Mentre il mare sciabordava nel porto e
in piazza vociavano i turisti, i ragazzi hanno cominciato a litigare. Tre di loro, tutti ventenni, sono usciti dal locale. Dopo mezz’ora sono tornati con una macchina scura e hanno tirato fuori
una nove millimetri e un kalashnikov. Un fucile
uguale a quelli che usano in Afghanistan, in Siria,
in Iraq. In mezzo alla folla incredula hanno scaricato 34 proiettili, ferendo gravemente i tre coetanei con cui avevano litigato.
È un primo settembre qualunque a Marsiglia.
Gli abitanti non si stupiscono: non è la prima
volta che i gamin, i ragazzi, si sparano in pieno
centro. Sono i francesi di Parigi a chiedersi in
prima pagina perché ci sia ancora tanta violenza in una città così bella, appena tirata a lucido
per farla diventare capitale europea della cultura. Marsiglia nei primi mesi del 2013 ha accolto artisti di ogni risma, organizzato performance di ballo per strada, installato strutture spettacolari come l’enorme specchio che fa da tetto alla piazza del porto. Ma la cultura non placa i regolamenti di conti che vanno avanti senza sosta dal 2011. All’Estaque, uno dei quartieri
ghetto del nord (le cité), il 18 agosto è stato accoltellato un 22enne e il 19 ucciso a rivoltellate un 18enne. Qualche giorno prima, alla centralissima stazione Saint Charles, uno studente
che aspettava l’arrivo di un amico è stato sgozzato per un telefonino.
Il ministro dell’Interno Manuel Valls si è mobilitato, si è recato a Marsiglia per testimoniare il
suo impegno, ha ricordato che comunque i furti sono diminuiti del 17 per cento nel 2013. Ma
ha dichiarato anche che bisogna bloccare questa
scia di sangue e che non è normale un numero
così alto di morti ammazzati. «Balle, l’anno scorso a luglio ne avevano già fatti fuori 16, ora siamo
solo a 13», dice Bernard, marsigliese nato in una
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cité, oggi insegnante di liceo. «Non capisco tutto questo clamore dei giornali, penso che sia per
questioni elettorali». Nel 2014, infatti, Marsiglia
cambia sindaco. Ma il resto, invece, non cambia.
Come sempre si spara e come sempre non c’è
quartiere che sia al riparo dai regolamenti di
conti. «Marsiglia è una città senza vere banlieue», ha spiegato di recente il vicesindaco Caroline Pozmentier. «Le periferie sono dentro la
città». E infatti la città è enorme: con una superficie due volte e mezzo quella di Parigi è una
delle più grandi del Mediterraneo settentrionale. E anche una delle meno abbienti: circa il 30
per cento della popolazione vive sotto la soglia
di povertà (954 euro al mese) contro una media
nazionale del 13 per cento. La disoccupazione
in certi quartieri supera il 40 per cento.
«È sempre la stessa Marsiglia», ci spiega Laurent Mucchielli, sociologo della delinquenza e
direttore di ricerca del Cnr francese. «Quella
con più immigrati e meno lavoro, quella con più
progetti sociali e meno inserimento. La grande ricchezza vive accanto alla grande povertà
e le cité sono inesauribili bacini di manodopera per la delinquenza. Dalla French connection
degli anni 60-70, quella delle sparatorie legate all’eroina, non è cambiato molto. Alcuni dei
boss di allora sono sopravvissuti e si sono riciclati. Fanno affari con la droga e le slot machine, ma lasciano il lavoro sporco a piccole reti
di giovani. Solo che adesso non c’è più l’eroina:
il 90 per cento della droga spacciata è semplicemente hashish». Mucchielli la chiama criminalità di sopravvivenza, la stessa che governa
Marsiglia da decenni. Ma anche se i boss sono
rimasti gli stessi, se la città è povera e disoccupata come sempre, i gamin sono cambiati.
Su La Marseillese il giornalista Philippe Pujol
ha dedicato un’inchiesta a puntate sui protagonisti del milieu, la mafia di Marsiglia. Racconta di giovani inebriati dal modello gangsta rap,
In apertura,
un murales per le
strade di Marsiglia
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© PARIS/AP/LAPRESSE
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Il loro modello è Al Pacino in Scarface,
vogliono i soldi subito e bruciano le tappe
Marsiglia,
1 giugno 2013,
una manifestazione
di cittadini contro
la violenza urbana
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che imparano il mestiere del crimine con la televisione i videogame. «Pensano di avere diritto a
tanti soldi e se li prendono, sparando ogni volta che gli viene voglia. Ma sono inesperti e non
sanno come riciclare il denaro sporco. Quindi sono sempre in cerca di liquidi, e sparano di
nuovo». L’età media dei gamin è più bassa, più
breve la gavetta e la durata del dominio dell’uno
o dell’altro. Si scannano per qualsiasi cosa, ogni
volta che c’è una denuncia o qualcuno che esce
di prigione. Christophe Crépin, sindacalista della
polizia marsigliese, pubblicamente arriva a rimpiangere il banditismo d’antan: «Oggi questi giovani non hanno fede né legge, non hanno codici
e rispetto. Cominciano molto presto e scalano il
potere in maniera folgorante. Si uccidono tra di
loro per vendette futili».
Dei miti del passato è sopravvissuto solo Tony
l’Anguilla: dopo 20 anni di prigione è diventato un
giallista di successo e rilascia interviste in cui rievoca i suoi “colleghi”. «Francis il Belga aveva un
carisma incredibile. Il suo autista era il più bravo
con le fughe in macchina e infatti era soprannominato Schumacher. Investivamo soprattutto nei
poliziotti della narcotici: è più sicuro che mettere
i soldi in un libretto di risparmio».
Il mito del presente, invece, è Tony Montana, il
protagonista di Scarface interpretato da Al Paci-
no: «Vogliono tutti diventare come lui», ci spiega Jerome Pierrat, scrittore e specialista di crimine organizzato. «Prima c’era una sorta di scuola
e bisognava superare varie prove prima di scalare la gerarchia del crimine. Adesso i ragazzi, cresciuti sin da piccoli nel mondo degli stupefacenti, vogliono arrivare direttamente al vertice, senza passaggi intermedi».
Tutti capi e tutti autonomi. I trafficanti di oggi sono sempre più soli. La borghesia marsigliese li
etichetta per comunità («gli arabi sono sempre
stati nemici dei gitani. A scuola non si rivolgono
nemmeno la parola», racconta Sylvie, un’altra insegnante), e anche Mucchielli usa qualifiche etniche: «Per schematizzare, i còrsi della French
connection hanno delegato i traffici ai giovani di
origine magrebina, Piccoli caid (capi) che si battono tra loro e conquistano le prime pagine con
i loro continui regolamenti di conti». Ma c’è chi,
come Pierrat, rifiuta di usare queste categorie: «I
protagonisti del milieu marsigliese sono francesi
e basta. Hanno le origini più diverse: corsi, arabi,
subsahariani, rom, provenzali. E sono mischiati tra loro, checché se ne dica arabi e gitani fanno parte degli stessi clan. Però c’è stato un cambiamento generazionale, negli ultimi 5-6 anni». I
caid di oggi sono giovanissimi, poco più che ventenni. Hanno moltiplicato i punti di vendita: se
prima le piazze del traffico si dividevano per isolato, oggi ce n’è una diversa per ogni scala condominiale. «L’offerta si moltiplica», spiega Pierrat,
«e le “squadre” pure. Così come i punti d’attrito.
7 settembre 2013
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© FREUDE/FLICKR
left.it
Per questo ci si batte ogni giorno: sconfinamenti di zona, conflitti di sovranità. Il milieu non può
certo rivolgersi a un tribunale per stabilire chi ha
ragione. Meglio usare la pistola o il kalashnikov».
I fucili Ak-47 sono onnipresenti. Sono arrivati a
Marsiglia 15 anni fa, ma solo negli ultimi tempi si
tirano fuori con questa facilità. Si stima che in città ce ne siano 3mila. «Basta un litigio su poche
migliaia di euro per essere ucciso», spiega Pierrat. «Prima c’era una gradualità nelle forme di punizione: per un piccolo sgarro ti picchiavano, per
altri ti torturavano. Oggi ti uccidono e basta».
Fino al 2010 i clan erano ancora definiti, oggi si
sono atomizzati. I nemici si sono mischiati come
in uno shaker e le piazze più remunerative chiudono in un batter d’occhio. Nel quartiere nord di
Micocouliers, fino a poco tempo fa il giro d’affari
del mercato di droga era di 35mila euro al giorno,
che corrisponde a un cliente al minuto nelle 12
ore di apertura dei “rivenditori”. Ma ad agosto a
Micocouliers non entrava più nessuno. A un tratto, il quartiere è diventato insicuro e tutti i consumatori si sono spostati altrove. Per difendersi dagli spacciatori la cité di Simiane ha deciso di isolarsi, circondandosi di rocce e consentendo l’entrata solo dalla parte sud. I clienti non vogliono
entrare e uscire dalla stessa parte, senza libertà di
circolazione, e la piazza è rovinata.
Nelle altre cité, invece, stuoli di madri sole cercano di tenersi in casa i ragazzi finché possono.
Ma prima o poi escono, e trovano un posto solo
nella squadra dello spaccio. «Non ci sono più pro-
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Le bande conquistano le prime pagine
perché la sfida elettorale è alle porte
grammi sociali, non c’è nessun tentativo di inserire i giovani nel mondo del lavoro», si lamenta
Pierrat. Su La Marseillese Pujol fa notare che i
servizi come il relogement, il trasloco in una zona più sicura, non funzionano perché la famiglia
deve denunciare il nome di chi la minaccia mesi
prima di essere trasferita, aumentando il rischio
di subire una vendetta. Ma i partiti sono in cerca
di spiegazioni facili da strumentalizzare, perché
l’anno prossimo ci saranno le elezioni e il sindaco
uscente dell’Ump Jean Claude Gaudin sfiderà un
candidato socialista ancora da scegliere. Il ministro dell’Interno Valls, mette sotto accusa Gaudin
«per aver coperto la passività di Sarkozy a Marsiglia» mentre la destra accusa i socialisti di aver
creato la delinquenza grazie allo Stato previdenziale «che distribuisce benefit a persone che vivono sulle spalle di chi lavora onestamente».
Mentre i politici si sfidano sui giornali, i marsigliesi si sfidano ovunque, anche sulla spiaggia. A ferragosto, con i piedi immersi nell’acqua cristallina, un giovane si è lamentato per
la sabbia tiratagli addosso da un bambino. Il
padre se l’è presa ed è iniziato un litigio finito
con le pistole in mano. Non è morto nessuno,
ma i poliziotti intervenuti hanno fatto evacuare tutta la spiaggia. Come risolvere un problema spostandolo un po’ più in là.
Marsiglia, un enorme
specchio fa da tetto
alla piazza del porto.
L’installazione è stata
creata in occasione
di Marsiglia capitale
europea della cultura
2013
45
cultura
48
Noi, eredi della
scienza araba
52
Le rotte dell’arte
di Kounellis
54
Sos patrimonio:
archivi a rischio
Danzando oltre i confini.
A Rovereto (Tn) gran finale per
Oriente Occidente, la rassegna
che raccoglie le migliori proposte di danza non solo europee.
Il 7 settembre dalla Norvegia
arrivano i Carte Blanche con la
nuova creazione del coreografo tibetano Sang Jijia. Il giorno
dopo ecco il mix di danza, teatro, cartoon e video del Kinetic
Theatre di Mosca di Alexander
Pepelyaev, direttore di uno dei
primi teatro-studio indipendenti della Perestroika.
scienza
La lingua madre
della scienza
di Federico Tulli
Il fisico Jim al Khalili racconta l’epoca d’oro degli intellettuali arabi
che oltre mille anni fa a Baghdad tradussero i testi greci di matematica,
medicina e astronomia. Ponendo le basi per lo sviluppo del sapere moderno
scienza
left.it
© KADIM/AP/LAPRESSE
MANTOVA AGORÀ DELLE IDEE
I
Nelle pagine
precedenti,
alcune immagini
di antichi
testi arabi
con mappe
geografiche,
astronomiche
e preziose miniature
50
l pensiero scientifico e culturale occidentale è in debito, ben più di quanto comunemente si pensi, con ciò che realizzarono oltre mille anni fa gli scienziati e i pensatori del
mondo arabo. Nella storia della scienza si è soliti mostrare una linea temporale che, nel periodo compreso tra la grande civiltà classica greco-latina e il Rinascimento europeo, elusivamente descritto come Età Oscura, non mostra
alcun progresso significativo in campo scientifico. Si omette così, troppo spesso, di dire
che per 700 anni la lingua internazionale della
scienza fu l’arabo. Tutto ha inizio durante il IX
secolo quando il califfo abbaside di Baghdad,
Abu Jafar Abdullah al Mamun, crea uno dei centri di studio più imponenti che la storia umana
abbia mai conosciuto, noto col nome di Bayt
al Hikma, La casa della saggezza. Qui numerosi intellettuali lavorarono alla traduzione e al
commento di opere greche e indiane di matematica, medicina e astronomia, ponendo le basi per lo sviluppo della scienza moderna. Jim al
Khalili, docente di fisica teorica alla University of Surrey di Londra, che in quei luoghi è nato e cresciuto prima di trasferirsi in Inghilterra
nel 1979 due settimane prima dell’ascesa al potere di Saddam Hussein, ha ripercorso questa
straordinaria avventura culturale nel suo nuovo saggio La casa della saggezza (Bollati Boringhieri). Svelando, da fine divulgatore scien-
Settis e Montanari in difesa dell’art. 9 della
Carta, il filosofo Marramao a dialogo con il
collega Robert Misrhai (Saggio sulla gioia,
Elliot), il critico Berardinelli con il suo provocatorio Leggere è un rischio (Nottetempo)
e non solo. Festivaletteratura si apre alla
scienza, alla filosofia, alla riflessione culturale
in senso più ampio. Ma anche quest’anno,
dal 4 all’8 settembre, a Mantova non mancano certo gli incontri con romanzieri. A cominciare da Binyavanga Wainaina, autore
del romanzo rivelazione Un giorno scriverò
di questo posto (66th and 2nd) che racconta la tribalizzazione del Kenya e il genocidio
in Ruanda. Dall’Inghilterra arriva l’anglo
pakistano Hamid con il graffiante Come diventare ricchi nell’Asia emergente (Einaudi)
e dalla Finlandia Tuomas Kyrö, che con L’anno del coniglio (Iperborea) risponde al libro
cult di Paasilinna. Da non perdere anche l’incontro con il colombiano Santiago Ganboa
(Edizioni e/o) e con gli italiani Cristiano Cavis.m.
na e Paolo Nori (Marcos y Marcos).
tifico, i nomi dei protagonisti di questa epopea:
Abu Rayhan al Biruni, Ibn al Shatir, al Khwarizmi, Ibn al Haytham, al Razi e altri ancora.
left ha rivolto alcune domande ad al Khalili in
occasione del Festivaletteratura di Mantova durante il quale è stato protagonista di due appassionati incontri. «È un fatto documentato - racconta al Khalili - che dal XII al XVII secolo e oltre, scienziati e artisti occidentali studiarono a
fondo i testi di medicina, di ottica, di matematica provenienti dal mondo arabo. Dove ad esempio per la prima volta fu organizzato un sistema
di numeri che permetteva di contare da zero a
infinito. Un punto di snodo fondamentale per la
trasmissione dei manoscritti della scienza araba è stata nel Duecento la corte di Federico II in
Sicilia, ma anche la penetrazione araba nel sud
della Spagna aveva prodotto una capillare diffusione della tradizione araba e dell’islam».
Alla luce del contributo dato dalla scienza araba alla realizzazione dell’identità
culturale occidentale, si può ipotizzare
che questo apporto sia stato negato dalle
società europee?
Non direi che è stato negato, ma più semplicemente dimenticato. Con il Rinascimento, seguito dalla rivoluzione scientifica guidata da Copernico e Galileo, l’Europa è progredita molto
velocemente e in un certo senso ha reinventato
la propria identità culturale, distruggendo gran
7 settembre 2013
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scienza
left.it
parte di ciò che è venuto prima. Nonostante ciò
parole antichissime restano ancora oggi quasi uguali nel linguaggio della scienza moderna.
Parlo di parole come algebra, come algoritmo,
come sostanza alcalina. Non ci sarebbe la matematica senza algebra, non ci sarebbero i computer senza algoritmi, non ci sarebbe la chimica
senza il termine alcalino. E non ci sarebbe stata
una moderna astronomia se gli arabi non avessero corretto gli errori di Tolomeo, tracciando
così mappe per la navigazione assai precise.
In Paesi come la Spagna, l’influenza araba è
andata oltre la scienza.
Il contributo è stato vastissimo. Durante il Medioevo, nel corso di secoli, centinaia di testi arabi furono tradotti in latino, in particolare in città come Toledo, Granada e Cordoba. Da lì sono stati diffusi in tutta Europa. Non si trattava
solo di traduzioni di testi della Grecia “antica”
- sebbene in molti casi, i classici tra cui Aristotele, Galeno, Tolomeo ed Euclide, siano arrivati
in Europa solo attraverso le loro versioni in arabo. C’erano anche numerosi documenti originali in arabo che hanno inciso profondamente sulla cultura occidentale e il progresso scientifico.
Ci faccia qualche esempio.
Penso al Libro di ottica di Ibn al Haytham, tradotto prima in latino e poi dal latino in italiano
“comune”, rendendolo accessibile a un numero molto più ampio di persone tra cui diversi artisti rinascimentali come Leon Battista Alberti
e Lorenzo Ghiberti e, indirettamente, il pittore olandese, Jan Vermeer. Tutti hanno fatto uso
delle sue tesi sulla prospettiva per creare l’illusione della profondità tridimensionale su tela
e nelle sculture. Lo stesso Leonardo, che aveva una ricca collezione di manoscritti, si interessò alla tradizione araba. E penso alle tabelle
astronomiche di al Farghani (Alfraganus), che
hanno influenzato enormemente Dante. Deriva
da al Farghani la maggior parte delle conoscenze astronomiche che il poeta fiorentino include
nella sua Divina Commedia. Per non dire di Cristoforo Colombo che ha preso spunto dai suoi
calcoli sulla circonferenza della Terra per convincere i reali di Spagna a finanziare il suo famoso viaggio. Storie simili possono essere trovate in medicina, astronomia, ingegneria, matematica e geografia.
Venendo all’oggi e alle questioni di bioeti-
left 7 settembre 2013
La corte di Federico II, in Sicilia, è stata
decisiva per la trasmissione dei manoscritti
ca, molti Paesi arabi e di religione islamica sembrano più avanzati - scientificamente parlando - rispetto a nazioni di tradizione cattolica. Pensiamo in particolare alla
ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Inoltre nell’islam il feto non è considerato
un essere umano.
Ritengo che alcuni Paesi islamici, come l’Iran,
siano in grado di svolgere più facilmente rispetto all’Italia attività di ricerca sulle cellule staminali per una semplice questione di fortuna. Nel
senso che la loro particolare interpretazione religiosa della sacralità della vita è diversa da quella cattolica. Essi credono che l’anima entri nel
feto di 40 giorni dopo la fecondazione. E questo
non vuol dire che il loro pensiero scientifico sia
più evoluto, perché non è un pensiero.
Lei si definisce un “tenero ateo”. Ritiene
possibile essere un bravo scienziato avendo la mente piena di dogmi religiosi?
Molto dipende dall’ambito scientifico nel quale
si lavora. Per esempio, può il biologo essere un
creazionista? Certamente no. Il concetto basilare in biologia è la selezione naturale delle specie
teorizzata da Darwin. Non si può al tempo stesso credere che l’evoluzione sia corretta e che la
Terra sia stata creata 6mila anni fa. Tuttavia se
mi chiede: può essere creazionista chi condivide la Teoria delle stringhe (teoria che tenta di
conciliare la meccanica quantistica con la Relatività generale formulata da Einstein, ndr), posso risponde di sì in via di principio. Sarei però
deluso se qualcuno abbastanza intelligente da
capire la Teoria delle stringhe arrivasse a credere nel creazionismo. Ma sul piano pratico quella teoria e l’idea di un Disegno intelligente possono non confliggere. Naturalmente, la fiducia
nella scienza comporta l’adesione a una visione
del mondo per cui l’universo è intelligibile tramite leggi e principi profondamente basilari che
scaturiscono dalla logica e dalla deduzione e
che sono comprensibili dalla mente umana. Pertanto, dovendo rispondere alla domanda se tutto ciò sia compatibile col credere che esista un
essere soprannaturale che non ha bisogno di essere dimostrato, allora rispondo: no.
Nella pagina accanto:
un soldato iracheno
davanti alla porta
di Babilonia
nel 2008; sotto,
Vermeer Ragazza col
filo di perle (1664),
Gemäldegalerie
di Berlino.
In questa pagina:
il fisico Jim al Khalili
e la copertina del suo
libro La casa della
saggezza
51
cultura
left.it
Il viaggio
di Kounellis
di Simona Maggiorelli
Nella ex pescheria di Trieste una nuova installazione dell’artista di origini
greche fra i maggiori protagonisti dell’Arte Povera. left lo ha incontrato
A
ntichi banchi di pesce e relitti di vecchie
imbarcazioni. Su cui dall’alto piovono
pietre, pesanti come le tempeste che colgono i pescatori al largo d’inverno. È anche una
metafora del viaggio per mare e dei pericoli che i
migranti devono affrontare la nuova, grande, installazione che Janis Kounellis ha realizzato nella sala degli incanti della ex pescheria di Trieste,
progettata nel 1913 dall’architetto Giorgio Polli.
«Uno spazio bellissimo, illuminato da grandi finestre. Ma soprattutto uno spazio “preciso”. Perché - spiega l’artista - un luogo può essere bello
ma se non è preciso per un progetto, resta solo
un bello spazio». Qui Kounellis ha trasportato
delle vecchie barche che giacevano in depositi,
«rottami che a Trieste si trovano facilmente», e
le ha disposte al centro della sala con un gesto
pittorico e teatrale che al nostro sguardo pare
creare una scena epica alta e popolare. «Epos?
Non saprei - si schermisce lui - quello che posso dire è che, finito il lavoro, mi sono accorto che
evocava una deposizione». Non una deposizione
dell’amato Caravaggio o di Mantegna, autori altre volte indirettamente richiamati nelle opere di
questo maestro dell’arte di origini greche. «Non
c’è qui un riferimento preciso a una tela o a un’al-
52
tra», precisa. «La storia dell’arte italiana è costellata da centinaia di deposizioni. Qui invece che
un corpo viene “deposta” una barca. Sulla nuda
pietra del banco del pesce. Ma il significato è lo
stesso». E ugualmente tragico. «L’elemento tragico è consustanziale alla tradizione cristiana,
segnata dalla brutta morte del figlio di Dio», ha
detto Kounellis in una recente intervista ad Alfabeta Due: «Una storia violenta connota il cristianesimo mentre la tradizione asiatica e quella cinese, per esempio, mettono al centro filosofi come Buddha e Confucio». Ma durante questo
nostro incontro il discorso prende un’altra strada: «Quello che mi interessava qui - spiega - era
l’andamento drammaturgico della deposizione.
Noi abbiamo una cultura drammaturgica. E se
vai a vedere tutta l’iconografia dell’arte italiana
è fortemente drammaturgica». La scena teatrale è evocata in questa installazione anche da una
serie di sedie vuote, poste a latere. Come raccontano i curatori di Kounellis Trieste, Davide Sarchioni e Marco Lorenzetti, nel catalogo Skira che
esce il 7 settembre in contemporanea con l’inaugurazione di questa installazione, Kounellis torna a confrontarsi con un tema a lui da sempre caro: l’uscita dal quadro per “conquistare” una vi-
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left
cultura
left.it
© MANOLIS BABOUSSIS (2)
«Ho la mia identità. La metto in
gioco in dialettica con gli altri»
sione e una spazialità più ampia, senza tuttavia
cancellare la storia della pittura. «Ho cominciato a lavorare sull’uscita dal quadro negli anni 60»
ci ricorda questo longevo maestro del contemporaneo che, poco più che ventenne, approdò in
Italia alla fine della guerra civile greca. Mentre lavorava a una propria innovativa poetica, di fatto,
continuava a studiare la tradizione, cercando il
modo per rinnovarla. «In tutti i Paesi la modernità è fatta di tradizione», dice Kounellis a left. «Altrimenti sarebbe modernismo, non sarebbe modernità. E dunque non si può negare la tradizione, fa parte della logica del nuovo ma anche del
mio tentativo di pormi sempre in modo dialettico. La tradizione, per me, entra a piano titolo in
questo clima di novità». Novità che per Kounellis non è mai stato nuovismo. Fine a stesso. Negli
anni in cui imperava la Pop Art, insieme a Merz,
Pistoletto, Fabro, Paolini, Penone e altri artisti
riuscì a dare vita a un articolato progetto che Celant definì Arte Povera. Un movimento che attraverso la scelta di materiali “naturali” e la ricerca di una spazialità tridimensionale rimetteva al
centro l’umano, la poesia, la ricerca di un senso
profondo della vita, in contrapposizione con la
stolida celebrazione del mercato e della società
left 7 settembre 2013
Un ritratto
di Janis Kounellis
e una sua opera
in mostra nella
galleria Guidi
di Roma.
A sinistra, una foto
della sua nuova
installazione
a Trieste
consumistica inaugurata da Warhol e dalla sua
Factory. E oggi cosa pensa Kounellis del concettualismo autoreferenziale e delle opere gadget di
artisti come Damien Hirst e Jeff Koons, che grazie a collezionisti miliardari, vanno per la maggiore nei più importanti musei del mondo? Questo
tipo di globalizzazione dell’arte finisce per determinare un appiattimento delle proposte? «Un’arte globalizzata di questo tipo evidenzia la perdita del pittore, la fine della sua creatività», risponde Kounellis. «Se la gente potente impone la propria visione, il pittore è ben lontano dall’epoca
delle Demoiselles d’Avignon. Ma io non credo
che questo possa succedere davvero. Certo, c’è
un’iniziativa che nasce nella globalizzazione, ma
quest’ultima deve essere vissuta in senso dialettico. Ognuno ha la propria identità e la deve mettere in gioco, in dialettica con gli altri. Questo è
l’obiettivo. Il resto è una riduzione dell’arte a decorazione». Non a caso Kounellis si è sempre definito internazionalista per sfuggire all’omologazione della globalizzazione? «La mia generazione è stata internazionalista e io continuo a esserlo - approfondisce - perché mi piacciono le persone. È più forte di me. E l’altro che mi attrae, che
vado a trovare, ha il suo metro di cui devo sempre tenere conto». Un confronto con l’altro che
di recente ha portato Kounellis anche a confrontarsi con una cultura lontana dalla nostra come
quella cinese.«A Pechino sono stato 4 mesi. Sono partito con le mani vuote. Volevo andare a vedere la Cina, le sue enormi possibilità. In un mercato della Capitale - racconta - ho comprato delle ceramiche rotte: frammenti colorati risalenti
a varie epiche e in particolare all’epoca del Maoismo, quando i militari entravano nelle case e
rompevano tutti i serviti “borghesi”. Io ho pensato di usarle per farne una scrittura ermetica fatta
di frammenti». E mentre Kounellis già progetta di
continuare il suo viaggio verso Oriente andando
a Seul, prosegue a Roma fino al 12 settembre, la
bella personale curata da Bruno Corà nella Galleria Giacomo Guidi. E nella Capitale il 25 settembre lo aspetta anche l’apertura una nuova mostra
alla Fondazione Volume. «Dopo un po’ che siamo
in giro, nasce sempre il desiderio di tornare».
53
cultura
left.it
I tesori degli archivi
di Vittorio Emiliani
Notizie sulla vita di Caravaggio sono emerse solo pochi anni fa dalle antiche
carte. Ma il patrimonio italiano di fogli e faldoni sta andando in malora
M
ichelangelo Merisi non venne a Roma
a 20 anni, bensì a 25, sistemandosi
presso la bottega di un pittore siciliano, Lorenzo Carli, in via della Scrofa. È uno dei
dati nuovi, fra i tanti, emersi dalla affascinante
mostra documentale Caravaggio a Roma, una
vita dal vero organizzata nel Palazzo della Sapienza dall’Archivio di Stato nel febbraio-maggio 2011. Negli ultimi anni si sono organizzate
tante mostre su Caravaggio e/o i caravaggeschi da far reclamare una “moratoria Onu” per
qualche decennio. Questa era davvero il frutto
di ricerche approfondite, corredata da documenti nuovi e illuminanti sulla travagliatissima
esistenza del grande innovatore lombardo, sui
dieci anni trascorsi a Roma (altre ricerche ne
avevano accertato la nascita a Milano, parrocchia di Santo Stefano, e non a Caravaggio...).
Ma nel tritatutto del “mostrificio” nazionale
54
quella gemma non ha avuto ovviamente il risalto che meritava. Come non ne hanno, più
in generale, i nostri strepitosi archivi. Si parla
sempre e soltanto di musei, di Pompei, non di
altre situazioni archeologiche, magari eccellenti, di centri storici, ma quasi mai di archivi.
Eppure abbiamo cento archivi di Stato, un
Archivio centrale dello Stato con 34 sezioni,
8.250 archivi di enti pubblici e territoriali (la
gran parte comunali), 50mila archivi di università, Camere di commercio, istituzioni culturali, ecc., 4.261 archivi privati “vigilati” (famiglie
patrizie, imprese, partiti, ecc.). Più la marea
di archivi parrocchiali, vescovili, diocesani,
ecc. I soli Archivi dello Stato allineano 1.604
chilometri di scaffalature, con 1 milione di
pezzi consultati all’anno da parte di 291.245
utenti dei quali 11.200 stranieri. Potrebbero
essere ovviamente molti di più se questa bran-
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cultura
© ROBERTO1956/FLICKR
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ca dei Beni culturali (inquadrata nel ministero
dell’Interno fino al 1975, quando fu creato da
Giovanni Spadolini il ministero per i Beni culturali e ambientali) non versasse in una situazione di indigenza desolante.
Alla fine del 2012 l’Amministrazione degli archivi poteva contare, in tutto, su 2.761 addetti di cui
365 archivisti di Stato-direttori coordinatori. Il
solo Royal national archive di Londra vanta 530
unità di personale di cui 90 archivisti. Fra l’altro,
l’80 per cento del nostro personale archivistico
è ormai prossimo alla pensione. Senza concorsi,
nei preziosi archivi italiani si farà il deserto: già
oggi - denunciano i suoi dirigenti - vi sono 13 Archivi di Stato (fra i quali Belluno, Brescia, Forlì,
Treviso, Caltanissetta) che «non hanno neppure
un archivista di Stato in servizio». Clamoroso.
Non basta: l’Archivio di Stato di Bologna, sede
del più antico Ateneo d’Europa, entro tre anni
perderà 5 dei suoi 10 archivisti.
Altro dramma, la mancanza di spazi. Il compianto Mario Serio, quando riorganizzò esemplarmente l’Archivio centrale dello Stato, poté
utilizzare all’Eur gli enormi spazi del ministero della Guerra. Caso raro. L’Archivio di Stato
di Roma non è in grado di ricevere i fascicoli processuali della Corte d’Assise 1971-1991,
gli “anni di piombo”. Quanto siano importanti questi materiali ce lo ha confermato, pochi
mesi fa, la mostra curata da Michele Di Sivo
sulle lettere di Aldo Moro Dalla prigionia alla
storia per la direzione generale degli Archivi,
retta ad interim da Rossana Rummo, e per la
direzione del servizio III di cui è responsabile
l’archivista e musicologo Mauro Tosti-Croce.
La frase di Moro «Siate indipendenti. Non
guardate al domani, ma al dopo domani» dovrebbe figurare in ogni luogo pubblico.
Neppure il 35 per cento delle sedi degli Archivi
di Stato e delle Soprintendenze è demaniale.
Per le altre si pagano affitti per 22-23 milioni di
euro, immolando sconsolatamente i 4/5 di un
bilancio sempre più magro: nell’ultimo anno
a quei modesti stanziamenti è stato inferto un
taglio secco del 10-11 per cento per le spese
di funzionamento e per quelle di investimento.
Possibile non trovare altre sedi nell’immenso demanio statale? Tutto ciò incide negativamente anche sull’attività di vigilanza sugli
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archivi privati. Musicali, ad esempio. Nei decenni passati, autografi preziosi, partiture rare
hanno preso il volo verso l’estero dagli archivi
delle grandi famiglie romane o - lo hanno più
volte denunciato musicologi come Agostino
Ziino - dai sempre più saccheggiati, specie nel
Sud, fondi ecclesiastici.
Ma non c’è fine al peggio. Specie quando,
invece di finanziare e quindi organizzare decorosamente l’esistente, si pretende, da ragionieri purtroppo, di “riformarlo”. In base
ad un incombente progetto, gli Archivi dello
Stato saranno divisi in due categorie ricomprendendo nella serie A degli Archivi “nazionali”, Venezia, Firenze, Torino, Milano, Roma,
Napoli, Palermo, Bari, ma non Genova. Dove
si conserva il più vasto e antico archivio notarile del mondo con un registro che risale,
addirittura, al 1154. Del resto, basta aver letto
qualche pagina di Fernand Braudel per sapere
quanto banchieri, mercanti, navigatori genovesi abbiano influenzato, specie coi prestiti a
lungo termine, la storia economica planeta-
A Genova è conservato il più vasto
e antico registro notarile del mondo
ria, fino “alla fine del mondo”. Non bastano
né il formidabile archivio del Banco di San
Giorgio, né i 7.500 utenti annuali (decisamente superiori a quelli degli Archivi di Bologna,
Napoli o Bari) per conservare a quello di Genova la qualifica di “nazionale”. Serviranno le
centinaia di firme di specialisti di ogni parte
del mondo a ottenerla? Chissà.
In sofferenza risultano numerosi archivi di
città storiche che però non sono capoluogo
di provincia (dato che non conta più…). Per
esempio, quello di Fano che, enclave malatestiana, ha una storia molto diversa dal Ducato di Urbino e di Pesaro, ma il cui archivio di
Stato, che costa solo 7mila euro l’anno, deve
essere accorpato per forza a quello di Pesaro.
Fra vibrate proteste. Le identità storiche locali
non contano più nulla? Certo, se le fondazioni
bancarie, invece di finanziare la facile “mostromania”, dedicassero fondi ad archivi e biblioteche, il Belpaese ne guadagnerebbe. E tanto.
Un’immagine
della mostra
Caravaggio a Roma,
una vita dal vero
del 2011
55
trasformazione
Massimo Fagioli, psichiatra
È l’idea della linea, senza immagine,
che porterà la mano a fare geometria e scrittura
LINEA
immagine, parola
S
ettembre. La mente si volge al passato, all’ultima settimana d’agosto quando giunse la pioggia che rese fresca l’aria. I piccoli rami delle piante e le foglie si muovevano svelte quando il venticello le accarezzava. Sembravano allegre e compresi che
l’atmosfera era serena.
Era la sesta settimana di distanza dal lavoro e, certamente, pensavo insieme al termine separazione la parola
solitudine. Scrissi l’articolo per il 31 agosto dopo una settimana in cui non fu stampato left.
Misteriosamente comparve la memoria della prima adolescenza ed ora so. Fu perché, senza comprendere, realizzai che ero rimasto solo. Vedo il ragazzo che scriveva dei
bellissimi temi d’italiano. Ora la mano frena sotto la carezza dello sguardo di tanti che giunge nel fondo degli occhi.
Ora sono giunti di nuovo i tre giorni di solitudine, ma so
che non è la stessa realtà di agosto in cui non scrissi.
Mi perdono perché torna l’amore per l’articolo precedente che, nel mezzo di agosto sotto il sole appassionato,
mi stimolò con certe parole che dicevano di spirito e creature. E le frasi incomprensibili “Da allora il pensiero religioso liberale nasce dall’incontro tra «estasi» e ragione”.
Giovane, avevo pensato ai termini: irrazionale e razionale, al sonno e veglia. Avevo udito un fratello maggiore
dire a mia madre che un altro fratello che dormiva, «è vivo!». In verità, ripensando, diceva che era sveglio.
Ma io, illusoriamente, udii: dormendo si è vivi e non
morti. Poi, giovane, pensai ai termini irrazionale e razionale e li legai al sonno ed alla veglia e non alla vita
come coscienza e ragione e alla morte come fantasia ed
immagini.
Che voleva dire “morte dell’anima e rinascere nello spirito?”. Come se rendessero sinonimi “immaginazione e
anima”. Ma fu affascinante pensare e vedere che con i termini “menzogna ovvero l’immaginazione” alludono, senza sapere, alla negazione. E Omero, con la fantasia del poeta, disse che la negazione stava nel pensiero del sonno:
“avvolgono d’inganni la mente”.
Ma, in verità, il pensiero senza coscienza mi dice
che quel termine scritto maiuscolo, Scrittura, ha mosso
un tumulto di immagini non definite che dicevano, senza
parlare, di un movimento che era separazione dalla realtà di prima. E non so cosa sia accaduto nella mente che
non fa ricordi coscienti.
Ho letto le bozze di una “chiacchierata” che feci nel 2004,
sotto il sole di Rodi. C’è un discorso continuo come se fosse
una grande sintesi di un pensiero coerente sulla realtà umana. Non c’è dissociazione, ma frasi e periodi sono spunti e
provocazioni ad una ricerca ulteriore sulla realtà umana.
E, di nuovo, torna l’energia per cercare di comprendere quale poteva essere, nell’adolescenza, la reazione a frasi dissociate che non dicevano e non facevano pensare. Dio,
spirito, anima, fede, credenza. Parole strane “fondo dell’anima che costituisce la scintilla divina in ogni essere umano”.
Non so. Calma, viene la parola «nonostante». Il linguaggio
articolato che si imponeva come insegnamento era, in verità,
impedimento a pensare. Erano termini verbali che parlavano
di realtà non materiali fuori da, ed estranee all’essere umano.
Non erano le parole di Omero. Udivo voci evanescenti e
sentivo che erano discorsi astratti perché erano senza rapporto interumano, perduto dopo la nascita. Rimanevano
come rumori nella corteccia cerebrale. Erano sassi che,
come gocce di pioggia piene di sabbia, scivolavano via sulla pelle come se fosse coperta di piume. Emergeva alla coscienza l’altro pensiero silenzioso che mi chiedeva soltanto: stati d’animo? Emozioni? Non c’erano immagini.
Non c’è immagine e so che è impossibile immaginare.
C’è soltanto il pensiero senza dubbi che la ricerca su “qualcosa”, oltre l’aggressività umana e la distruzione, c’era. E
torna la memoria di quelle parole: assenza, vuoto, spirito,
figliate dal termine sparizione che non diceva distruzione.
È ancora l’articolo che, il 13 agosto, non ebbe la forza
di rompere e far cadere a terra l’indifferenza della pausa
estiva che era nata dalla separazione dal ritmo del lavoro
settimanale. Tornò, prepotente come una donna impazzita che straparla e la ragione scomparsa dà alla luce il pen-
ma mi dicono sempre: eri e non sei solo
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left
left.it
siero tenuto nascosto come Kaspar Hauser.
Ti dona realtà umane che non hanno mai avuto il linguaggio articolato e sono state sempre sepolte nella cantina del castello, unica costruzione della mano umana che
doveva fermare la distruzione che era la violenza dell’uomo che dava la morte.
Poi, dopo l’anno mille, misero da parte l’angoscia della
fine del mondo ed i servi della gleba diventarono cittadini e si formò la lingua italiana ed il consorzio umano. Già
da secoli, con la caduta dell’impero, era andata perduta la
razionalità greco-romana. Ma le parole della lingua nuova
non seppero pensare se stesse.
La ragione del trio Socrate, Platone, Aristotele si perse e ci fu l’imposizione a credere all’unione di dio con la
donna che generò l’unico prodigio nella persona che aveva in sé la realtà biologica e la realtà non materiale. Umano e divino insieme.
Non c’era più la razionalità e Francesco disse che l’uomo doveva essere amore per dio e la natura. Non c’era più
l’immagine e la lingua italiana era come il belato della pecora e l’ululato del lupo.
E c’era anche la sofferenza del corpo perché la «creatura» impediva all’essere il raggiungimento dello spirito.
E mi chiedo se il linguaggio di Francesco d’Assisi era la
poesia che aveva lasciato l’immagine, o era senza immagine e non era poesia.
E la memoria mi dice che avevo sempre pensato a
Giacomo da Lentini per dire dell’autonomia dell’italiano
dal latino che è restato dopo tanti secoli nella chiesa cattolica. Ed ora ricordo che i poeti siciliani non sono “mistici”, non si rivolgevano ad una realtà astratta perché inesistente. Parlavano della donna.
Forse l’italiano di Francesco d’Assisi non era ricreazione del primo istante quando, giungendo la luce sulla rètina, si ha la fantasia di sparizione ed inizia la vita con... ho
soltanto le parole: movimento, tempo, pulsione.
E l’immagine del 20 agosto 1999 diventa parole che dicono: fare la linea è una caratteristica esclusivamente
umana. E non è proprietà dell’opponente del pollice, che
gli animali non hanno, perché l’essere umano può segnare
la linea anche con la bocca o con il piede.
Pensai che la fantasia di sparizione non ha immagine,
è una reazione della realtà biologica che realizza l’identità umana che è dialettica con la natura non umana. E diventerà scrittura senza immagine. E genererà la parola ricreazione che non è ripetizione della realtà precedente.
E ritorna la parola separazione legata ai termini che dicono: dalla propria realtà attuale. È il tentativo continuo di
ricreare la dinamica della nascita che è trasformazione.
Vorstellung
Udii il suono
dal profumo affascinante
e cercai di fondere
idea e immagine.
Venne da solo
il termine fantasia.
Compresi che non sarebbe
diventato mai scrittura.
Non c’era l’idea della linea
che non ha immagine
Poi, quando la capacità d’immaginare che è pulsione e fantasia, diventa capacità di fare la linea, essa è
assorbita nella realtà biologica, la “creatura”, che ha il
tempo finito dell’essere umano.
È nella voce che fa il vagito che non è il belato
dell’agnello né l’ululato del lupo perché poi, dopo sei
giri della terra intorno al sole, diventerà scrittura. Non
c’è immagine perché il movimento della mano che
scrive non è ricordo. È memoria-fantasia del movimento del corpo che è respiro e vagito ed è suono che
non muove la membrana del timpano.
Ed è nelle forme dell’alfabeto che l’armonia delle
curve rivela il suono che è movimento ma non fa le onde nell’aria. E nel suono silenzioso si può pensare la ricreazione del primo istante di vita, quando la vita umana è movimento che è suono e non si vede e non si ode.
Si pensa soltanto. Capacità di reagire. Capacità di immaginare. Capacità di realizzare l’idea della linea.
Quattordici anni. Dissi, nel caldo di Palau, che la
linea è sempre nera anche se segnata con vari colori.
Perché, dissi, è fantasia di sparizione. Il colore viene
dopo, nel tempo, con la memoria-fantasia e la verità
della carne umana che si sposta nello spazio. La voce scompare e la mano si muove con l’armonia delle
piccole linee.
...l’idea, il movimento, tornano nel suono della poesia che non ha immagine...
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puntocritico
cultura
left.it
ARTE di Simona Maggiorelli
Messico
e rivoluzione
Q
uando parliamo della grande svolta dell’arte occidentale che avvenne negli anni Dieci
del Novecento ci riferiamo alla Parigi cubista, al genio di Picasso, oppure all’astrattismo del cubo-futurismo
russo o al più al Cavaliere Azzurro di
Kandinsky in Germania. Raramente
pensiamo a un altro tellurico epicentro del cambiamento quale fu il Messico negli stessi anni. Dove l’avanguardia di artisti come Diego Rivera, David Siqueiros e José Clemente Orozco
s’incontrava con la rivolta sociale,
con la rivoluzione contadina da Zapata in poi. Il risultato in pittura non fu
solo la creazione di giganteschi murales che riuscivano a parlare anche alle
persone meno istruite senza scadere
nella banale propaganda. Ma furono
anche quadri di grande forza espressiva che, in modo originale riuscivano
a far incontrare la ricerca più innovativa con la tradizione modernista, talora evocando anche memorie antiche dell’arte pre-colombiana. Pensiamo a quadri come Ballo a Tehuantepec (1928) dello stesso Rivera, accesi
da una tavolozza di terre rosse e toni
solari dove campeggiano figure scultoree di donne e uomini che danzano,
oppure ai quadri volutamente primitivisti e picareschi di Chavez Morado
che rappresentano contadini e lavo-
Diego Rivera, Ballo a Tehuantepec
Londra (1928) alla Royal Academy
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ratori che lottano per i diritti di tutti in atmosfere senza tempo, quasi
da poema antico. Sono straordinarie scene di un’epica messicana e
popolare quelle che ci vengono incontro lungo il sorprendente percorso della mostra Messico una
rivoluzione nell’arte 1910-1940
aperta fino al 29 settembre alla Royal Academy di Londra. Una esposizione in cui spiccano perle nere
come l’autoritratto di Frida Khalo,
la compagna di Rivera, che in pittura seppe fare del suo corpo sfregiato e ferito a causa di un grave incidente una vibrante immagine di
bellezza e di selvaggia femminilità.
Ma ecco anche le Donne di Oaxaca (1927) , una teoria di figure colorate e “antiche”, quasi greche, della pittrice Henrietta Shore, flessuose come giunchi sotto il peso delle bottiglie che portano in testa;
femminili nel movimento eppure
senza volto, come certi contadini anonimi e al tempo stesso “universali” dipinti da Van Gogh. Particolarmente coinvolgente è anche la parte documentale e fotografica di questa mostra londinese, scandita da locandine e pagine di giornali d’epoca ma anche da
celebri scatti di maestri della fotografi come Paul Strand, Robert
Capa e Henri Cartier Bresson che
attraversò il Messico in lungo e in
largo per raccogliere scene di vita
in strada. Naturalmente ritroviamo qui anche le ruvide mani dei
lavoratori che Tina Modotti seppe immortalare in stampe seppiate e altamente poetiche ma anche
la selva di cappelli che caratterizza i suoi celebri Lavoratori che
leggono El machete (1929). Meno
noti sono invece certi scatti messicani di Edward Weston, allora
amante della fotografa italiana,
fra i quali un ritratto dello scrittore D.H. Lawrence, dallo sguardo
bruciante contro l’immenso cielo messicano. E che ci ricorda la
straordinaria fascinazione che la
rivoluzione messicana esercitò su
un‘ampia cerchia di intellettuali,
artisti e scrittori europei.
La scena finale di The artist
CINEMA di Morando Morandini
Un’estate
da ricordare
N
ell’estate 2013 il cinema francese è il più interessante e creativo d’Europa. Potrei subito correggermi e definirla cinematografia francofona perché vi contribuiscono anche i film non trascurabili prodotti
in Belgio. È francese al 100 per cento per esempio The artist (2011) di
Michel Hazanavicius, il quarto da lui
scritto e diretto, film muto - meglio:
non parlato - in bianco e nero, ambientato a Hollywood in un’azione
scandita in 4 tempi (1927, 1929, 1931,
1932), premiato al festival di Cannes
2011 per l’interpretazione del protagonista Jean Dujardin. C’è Tutti pazzi per Rose intelligente commedia di
Régis Roinsard, recitata benissimo.
I film da citare non sono pochi: La
città ideale di Luigi Lo Cascio, Cha
Cha Cha di Marco Risi, L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, Prima
la trama, poi il fondo di Fulvio Wetzl e Laura Bagnoli, Scorie in libertà di Gianfranco Pannone, Materia
Oscura di Massimo d’Anolfi e Martina Parenti. Insieme con L’invenzione di Morel (1974) di Emidio Greco
e A Laura (2004) di Amedeo Fago sono stati proiettati alla decima edizione del Laurafilmfestival di Levanto
(16-21 luglio). L’elenco continua con
Due giorni a New York scritto, diretto e interpretato da Julie Delpy; Paulette di Jérôme Enrico; La quinta stagione di Peter Brosens e Jessica Woodworth (Belgio, Olanda, Francia); il
documentario italiano Fedele alla li-
7 settembre 2013
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cultura
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LIBRI di Filippo La Porta
Gli ultimi giorni di Gadda
E
Un fotogramma di Cha cha cha
nea di Germano Maccioni e Slow Food Story di Stefano Sardo; la divertente commedia Tra cinque minuti in scena di Laura Chiossone; i documentari Esterno sera di Barbara
Rossi Prudente e Noi non siamo come James Bond, cinediario autoterapeutico; Quando meno te lo aspetti di Agnes Jaoui che l’ha scritto col
fido Jean-Pierre Bacri; Ti ho cercata in tutti i necrologi, seconda regia
di Giancarlo Giannini che ne è pure il
protagonista. E che dire di To Be or
not to Be di Ernst Lubitsch, un bianconero del 1942 che più di un critico
ritiene superiore a Il grande dittatore (1940) di Chaplin e che, restaurato
e rimasterizzato ha tenuto banco nel
giugno-luglio 2013?
A margine racconto uno spettacolo
teatrale che ho visto a Città della Pieve in Umbria: Eros in cucina, messo
in scena dall’Accademia degli Avvaloranti l’8 agosto scorso. Spettacolo
ambizioso e complesso con sei personaggi: 2 attori (Anna Testa, Alessandro Giuggioli), 2 musicisti (Enrico Giovagnoli, sax, il più applaudito
e Giacomo Ciarini, percussioni), 2 figure silenziose (Luigi Buitoni, cuoco,
Bruno Collino maggiordomo). Regia: Barbara Mastella. Parlato in molte lingue, latino compreso, con molte (troppe) citazioni spiritose. Sul
palcoscenico un grande schermo dove passano i disegni cangianti, spesso astratti, di Mauro Moretti. Esiste,
perciò, un rapporto fra teatro e cinema di animazione. Grazie soprattutto alla caustica Anna Testa non manca Berlusconi che ci fa sentire giovani. In fondo il Cavaliere è una di quelle cose che ti accompagnano sempre
come la Juventus, la Ferrari, la mafia,
la torta della nonna. È una garanzia.
left 7 settembre 2013
cco. «Finalmente giace l’hidalgo, il nonamato e la sua
pietra dell’unzione è un rettangolo di compensato su
una rete...». Così appare Carlo Emilio Gadda, sul letto di
morte, il 21 maggio 1973, a Ludovica Ripa di Meana, che gli
fu vicina dopo aver girato una trasmissione Rai su di lui. La
morte di Gadda (Nottetempo) è il diario di quei mesi, degli
incontri a via Blumenstihl, dove lei gli legge brani dai Luigi
di Francia e da altre sue opere. Ad accudire Gadda la fedele governante Giuseppina, che gli cucina pasta e broccoli, lo lava con l’alcol,
lo massaggia come nel racconto tolstojano La morte di Ivan Il’ic fa il servo
contadino Gerasim con il vecchio giudice ammalato. Ludovica Ripa di Meana descrive la figura di Gadda con un’intensità partecipe, straziante. Lei si
siede su una seggiola bassa davanti a lui, che ha il corpo che trabocca da una
piccola poltrona: «Accarezzo le mani, gli occhi mi guardano senza riconoscermi... Le occhiaie blu. Intorno, una zona di estremo candore, che poi diventa giallo verso il naso e la bocca. Clown desolato, inondato di luce...». Un
ritratto straordinario che fissa per sempre l’autore del Pasticciaccio nel suo
intreccio di malinconia, candore, solitudine e dolce intrattabilità; e che ci ricorda come tutta la scrittura sia soprattutto una necessaria Spoon river, che
almeno per un attimo sottrae all’oblio persone e cose. Approfitto del libretto
per sottolineare come Gadda non sia uno scrittore illeggibile che piace soltanto ai linguisti. Provate a leggere La cognizione del dolore accanto ai Promessi sposi (il romanzo da lui più amato). Hanno in comune la pietà verso i
poveri e l’amore per i puri di cuore, la secondarietà della trama, la sintassi avvolgente e la cura meticolosa della lingua (anche in Manzoni ci sono momenti espressionisti), gli spagnolismi, una solida ispirazione filosofico-razionale
(nell’uno illuministica, nell’altro vicina alla scienza), una cognizione pessimistica della condizione umana (che in un caso trova sbocco nella fede, nell’altro no). Solo che Manzoni inventa la nostra lingua letteraria, Gadda opera sui
detriti di questa lingua, e a volte finisce in una nevrosi (esasperante) della parola. Ma certo la pagina gaddiana non delude mai.
SCAFFALE
CHIAMATEMI
ISMAELE
di Marisa Bulgaroni,
Il Saggiatore,
256 pagine,
16 euro
Più di cinquant’anni di incontri, di frequentazioni, di
pagine di letteratura e di vita. Marisa Bulgaroni ha
conosciuto Ginsberg e poi Bellow, Kerouac, ma anche
Vladimir Nabokov e Philip Roth. E da queste frequentazioni vere, vive, continue nasce questo suo strepitoso
viaggio nel cuore più vitale degli Usa.
TUTTI IN CLASSE
di Alex Corlazzoli,
Einaudi,
142 pagine,
12 euro
Senza pregiudizi, provando a raccontare gli studenti dalla loro parte, guadagnando la loro fiducia. Così Corlazzoli
in questo libro riesce a farci capire molto di più della
vita dei ragazzi di oggi sui banchi di scuola, fra cellulari,
facebook e chat. Ci fa capire di più dei loro sogni, della
loro voglia di capire. Finalmente un bel ritratto dal vero.
PASSIONE
di Umberto Curi,
Raffaello Cortina,
230 pagine,
13 euro
In Occidente il Logos ha schiavizzato le emozioni, condannate perché “pericolose”. Curi prova ad aggredire questo
granitico pregiudizio, dimostrando che c’è bisogno di
passione anche per fare arte. Come si evince dalle storie di
Mozart, Bach e molti altri. Sul tema Curi interverrà al Festivalfilosofia (13 -15 settembre, a Modena, Carpi e Sassuolo).
59
bazar
cultura
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BUONVIVERE di Giulia Ricci
Riscoprire
Morire di ricerca a Catania l’America
DOCUFILM di Valeria Sain
P
resentato fuori concorso al Festival del cinema di Venezia,
Con il fiato sospeso è il film (distribuito dall’Istituto Luce) che ci restituisce la voce del giovane ricercatore della facoltà di Chimica, morto a
Catania nel 2003 in seguito alle esalazioni tossiche del laboratorio in cui
lavorava. Una storia sepolta da una
inaccettabile coltre di silenzio dopo
essere stata sulle cronache dei giornali per qualche giorno, all’epoca
dell’accaduto. La giovane regista Catanese Costanza Quatriglio ce la restituisce in un corto evocativo, dolente e visionario, fatto di immagini virate al verde, volutamente fredde come la luce dei neon che dalla
mattina alla sera inondava il laboratorio dove faceva ricerca il dottorando Emanuele Patanè, morto per
un tumore al polmone, dopo essere
stato inconsapevolmente a contatto con sostanze tossiche. Emanuele
era un ragazzo come tanti, che amava lo studio, appassionato di chimica, disposto a lavorare duramente
per far diventare realtà il suo sogno
di lavorare in un ambito biomedico
e farmacologico. La regista ce lo mo-
stra in un paio di foto. Sono gli scatti realizzati da suo padre, a un convegno e poi in un ospedale americano,
quando era già intubato. «Non pensavo che morisse, ho scattato quelle
foto pensando che poi avremmo mostrato a tutti come lavorano in America», dice il padre del ragazzo, laconico, ancora incredulo. E questo è
l’unico momento di “cronaca” dal vivo. Per il resto la storia di Emanuele è delicatamente affidata alla voce
fuori campo di Michele Riondino e ai
monologhi di Alba Rohrwacher che
interpreta il ruolo di una studentessa
di chimica che, a sua volta, aveva già
cominciato a intossicarsi. Senza capire, senza accorgersi. «Il professore
mi diceva che per lui ero come una
figlia, come potevo dubitare?». «In
quei laboratori c’erano anche i figli di
alcuni docenti, come potevo pensare
che fossero intossicanti?», dice l’attrice quasi sotto voce in serrati primi
piani che si alternano a frammenti di
vita di studenti catanesi, come tutti i
ragazzi di quella età, un po’ di spigolo alla vita, ribelli, ma pieni di musica
e di sogni tenacemente coltivati. Senza risparmiarsi.
A
volte anche un festival può
essere un pretesto per compiere un viaggio nella memoria e
nella cultura di popoli lontani. Stavolta poi si tratta di riscoprire un
intero continente. Per anni l’America Latina è stata considerata “il
giardino di casa” degli Usa con la
Cia che dettava legge. Ma il vento è
cambiato. A quarant’anni di distanza (era l’11 settembre 1973) dal golpe sanguinoso del generale Pinochet che distrusse l’utopia del governo Allende il festival Con-vivere (www.con-vivere.it) di Carrara
propone una nuova visione del Sudamerica. Dal 6 all’8 settembre incontri, dibattiti, film e tanta musica
(l’8 c’è il Grupo Compay Segundo
da Buena vista social club).
L’immagine
della locandina
del festival
Con-vivere
[email protected]
FOTOGRAFIA
Uno scatto sociale
Una scena del film Con il fiato sospeso di Costanza Quatriglio
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L’Associazione PhotoAid, agenzia no profit
per il reportage sociale, invita a partecipare al concorso Anche tu fotoreporter.
Fino al 30 settembre è possibile inviare i
reportage fotografici ispirati dalla tematica sociale. Al vincitore del concorso è riservata la possibilità di vivere un’esperienza sul campo insieme a un fotografo
di PhotoAid durante un progetto all’estero. Perché le immagini aiutano a comprendere il mondo.
7 settembre 2013
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cultura
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MUSICA di Michele Manzotti
Pianisti a tutto jazz
S
e c’è un pregio nel
jazz italiano è quello della scuola pianistica.
Non tanto e non solo nella qualità, ma nella circostanza fortunata che le
giovani leve si sanno affermare nella scena internazionale. E l’autorevolezza è tale che le grandi etichette se ne accorgono. È
il caso ad esempio dell’incontro tra Giovanni Guidi e la Ecm di Monaco di
Baviera con l’inossidabile Manfred Eicher alla guida. Il manager che aveva
scoperto le potenzialità
di Keith Jarrett, ha aperto
le porte a Guidi divenuto
una solida realtà attraverso una presenza costante
nei festival internazionali
più importanti. Il suo City
of broken dreams, eseguito in trio con Thomas Morgan al contrabbasso e Joao
Lobo alla batteria, è un disco maturo e che può trovare estimatori trasver-
sali, specialmente della
classica. Anche Alessandro Lanzoni, che ha talento e giovane età in eguale misura, sa camminare
con le proprie gambe. Tanto che, a suon di riconoscimenti in Italia e all’estero,
è approdato alla corte della Cam. Una volta era l’eti-
Giovanni Guidi
MANTOVA
GENZANO (ROMA)
Arte sul lago
Centrata sulle opere degli artisti
Roberta Pugno (una sua opera in
foto) e Claudio Angeloni, Il segno e
il coraggio è organizzata dall’associazione Ipazia Immaginepensiero
onlus. Dal 7 settembre all’8 ottobre
a Palazzo Sforza Cesarini.
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chetta delle più importanti colonne sonore italiane,
oggi ha un catalogo jazz di
tutto rispetto che vive autonomamente con il nome
CamJazz. Dark Flavour è
il risultato di questa collaborazione dove Lanzoni si
presenta nella formazione
in trio con il contrabbas-
FIRENZE
so di Matteo Bordone e la
batteria di Enrico Morello.
Il suono presenta un linguaggio moderno nel solco della migliore tradizione jazzistica con echi di un
modello importante come
Dave Brubeck. Una caratteristica propria anche di
Simone Graziano, nominato per i nuovi talenti 2012
dalla rivista Musica jazz,
che per l’etichetta Auand
ha appena inciso Frontal.
Graziano è andato oltre
la formazione in trio, presentandosi in un quintetto (con i sassofonisti Dave Binnet e Chris Speed, il
contrabbassista Gabriele
Evangelista e il batterista
Stefano Tamborrino) con
un disco dove le composizioni originali sono la maggioranza. Pezzi maturi nella struttura con il giusto
equilibrio tra i vari strumenti dove il pianoforte
di Graziano spicca per eleganza e cantabilità.
PRATO
Viva il live!
Donatello e Lippi
Musicisti, etichette indipendenti, autori e operatori della musica.
Sono i protagonisti della tre giorni organizzata dall’Arci a Mantova dal 12 al 14 settembre. Tema:
il futuro della musica dal vivo. Tra
gli incontri, Marta sui Tubi e Niccolò Fabi in concerto.
Una grande mostra ricrea il momento alto del ’400 pratese con
la mostra Da Donatello a Lippi.
Officina pratese, riportando in città opere dei “buoni maestri del rinascimento”, e oggi disperse nei
musei di mezzo mondo. In foto
un’opera di Filippino.
Berlinguer story
Dopo la Mostra del cinema di Venezia il documentario La voce di
Berlinguer di Mario Sesti e Theo
Teardo sbarca alla festa democratica di Firenze. Il 9 settembre
(ore 21) con la presentazione di
Sergio Staino e Stefano Stefani.
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ti riconosco
di Francesca Merloni
Per infinito andare
M
a questo brulichio, questo incessante muoversi, in millimetri, in ritardi,
in un lavorìo di scintille, di secondi e particelle molto piccole. Questo
servire in battiti. Scavare. Ascoltare. In millesimi andare. Pure restando immobili. Da ogni parte e quasi di poco e quasi di lato o per nulla, prenderla dall’altro
verso, ma andare. Senza sapere. Andare senza accorgersi, avanzare di rimando, è questo l’incedere del mondo. Fluire, mutare. Immaginare. Qualcuno, cucire. Qualcuno riparare, guarire, aggiustare. Sentire fino a farsi male. Qualcuno parlare. Andare, andare. Ecco la musica del mondo. Appare in andamento lento, cresce in gran movimento. Ciascuno di suo lato. Ciascuno di suo benedetto gesto. Di riposo. Di
gran respiro, forse di esitazione. Di improvvisa finzione. Di
percezione. Ecco la sinfonia, il grande mare. Un mare di teste, di gente, di pensare. Un continuo, incessante, impercettibile cambiare. Fino a fare del gesto la traccia, dell’intuizione
l’improvvisa svolta. Di quel sentire certezza, una cosa che si vede. Una consuetudine. C’è significato potente, c’è tensione prima, intenzione, nell’asse delle giuste manovre o dentro i segreti del mondo apparentemente senza senso.
Nel cammino del destino controvento. C’è un filo di inconsapevole svolgersi.
E comporsi. E dove. E per dove. Energia spesa verso tutte le mete, le strade ad
ogni istante create. Le voci, o gli armonici, seguiti. Così, senza capire. Per altro
andare. Per infinito avverarsi del tempo. Per slargato immaginare.
Insieme trovare
forma ad uno splendore
intelligibile
C’è in me qualcosa più vecchio di me
C’è in me qualcosa senza guscio
Né ossa, più vecchio di me, canta il poeta.
Mia inafferrabile sostanza, mio me al bordo di ogni sbavatura, di ogni cancellatura, mio antico me. Specchio riflesso agli orli del mondo, mio me da me.
Questo pulsare nell’ora, e ogni profezia avverare. Oggi, tutto di promettere e
mantenere. Questo fare mondo. Più antico, più bello di me. Questo spettacolo indecente della grazia. Questa importabile bellezza da soli. Insopportabile
se non insieme. Se non insieme, indecifrabile.
Chi siamo. Chi sei tu ora. Chi non siamo.
Qui la risposta è abbagliante.
Insieme trovare forma ad uno splendore intelligibile. Trovare luogo ad una commozione tangibile e abitarlo. Anche imperfetto anche se non va bene, il reale che
ci appartiene e ci raccoglie e porta così bene la forza magnetica delle cose. E ci
unifica, ci fonde. Questo sillabare, ciascuno di suo lato. Poi, di colpo, per una parola sola, per l’identica parola chiamarsi, chiamare. Questo incessante andare.
Chiedimi un dono
Che diano e ricevano felicità
Chiedimi ancora un dono
Che la felicità non muti, che sia perfetta.
[email protected]
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La costituente delle idee
Libertà
•
Eguaglianza
•
Fraternità
•
Trasformazione
12 GIOVEDÌ
LIBERTÀ
18.00 L’incontro La libertà nella storia del pensiero
Simona Maggiorelli intervista Giacomo Marramao e Gianfranco De Simone
20.00 La tavola Per la dignità del lavoro
Maurizio Landini, Fabrizio Solari, Andrea Ranieri,
Ilaria Lani. Coordina Manuele Bonaccorsi
19.30-20.00 Concerto-aperitivo Francesco Leineri, pianoforte
22.00 Concerto Pierpaolo Iacopini, sax e Francesco Giannelli, tenore
accompagnato al pianoforte da Enrica Ruggiero
la festa
13 VENERDÌ
EGUAGLIANZA • FRATERNITÀ
18.00 L’incontro Uguali e fratelli
Donatella Coccoli intervista Adriano Prosperi e Luigi Ferrajoli
20.00 La tavola Verso un modello di sviluppo sostenibile
Guido Viale, Andrea Ventura, Giulio Marcon,
Vincenzo Vita. Coordina Maurizio Torrealta
19.30-20.00 Concerto-aperitivo
Giovanni Di Giandomenico, pianoforte
22.00 Concerto Ada Montellanico Trio
con Francesco Diodati, chitarra e Francesco Ponticelli, contrabbasso
14 SABATO
TRASFORMAZIONE
18.00 L’incontro Sinistra è trasformazione
Ilaria Bonaccorsi Gardini intervista
Massimo Fagioli e Andrea Ranieri
20.00 La tavola Le cose cambiano. Cambiandole
Introduce Paolo Nori. Pippo Civati, Adriano Zaccagnini,
ni,
Mirko Tutino, Giulio Cavalli, Paola Natalicchio,
Giovanni Tizian
22.00 Concerto Stefania Tallini, pianoforte
#festaleft • www.left.it
© FABIO MAGNASCIUTTI
12-13-14 SETTEMBRE 2013 Città dell’Altraeconomia
Largo Dino Frisullo e Lungotevere Testaccio, Roma