I BAMBINI STRANIERI IN ITALIA

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I BAMBINI STRANIERI IN ITALIA
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I BAMBINI STRANIERI IN ITALIA - Accogliere Capire Educare
CAPITOLO
1
I bambini stranieri all’asilo nido e nelle scuole dell’infanzia
Indice del capitolo 1
INTRODUZIONE
Le precomprensioni nell’azione educativa
Esperienze e attese
delle educatrici e delle insegnanti
Una ricerca sul campo nella Regione del Veneto
GLI OBIETTIVI E GLI STRUMENTI DELLA RICERCA
Giuseppina Messetti
I RISULTATI DELLA RICERCA
I BAMBINI STRANIERI NEI SERVIZI EDUCATIVI:
Presenza e provenienza
I bambini stranieri come risorsa per tutti i bambini
I bambini stranieri come risorsa per educatrici e insegnanti
I bambini stranieri come problema
I GENITORI STRANIERI E LE ISTITUZIONI EDUCATIVE
LE EDUCATRICI, LE INSEGNANTI E I GENITORI STRANIERI
Le principali difficoltà connesse alle differenze culturali
La scarsa partecipazione alla vita della scuola
La diffidenza e la sfiducia dei genitori
LE PRATICHE DIDATTICHE PER L’APPRENDIMENTO
DELLA LINGUA ITALIANA
La denominazione di cose e azioni
L’attenzione agli aspetti paraverbali del linguaggio
Le mediazioni possibili
Il supporto dei libri
L’ATTEGGIAMENTO NEI CONFRONTI DELLA LINGUA MATERNA
LA VALORIZZAZIONE DELLA CULTURA E DELLA LINGUA D’ORIGINE
NEI SERVIZI DELL’INFANZIA
LE QUESTIONI APERTE E LE NUOVE DOMANDE DI RICERCA
La presenza dei bambini stranieri nei servizi dell’infanzia
Il rapporto con le famiglie
I bisogni formativi
NOTE METODOLOGICHE
18
INTRODUZIONE
O
OBIETTIVO DI QUESTA RICERCA è l’esplorazione delle rappresentazioni, delle opinioni e di alcune pratiche di educatrici e insegnanti, operanti nei servizi prescolastici, in merito alla presenza di bambini e famiglie stranieri. Il contesto territoriale in cui è stata svolta l’indagine è il Veneto; sono state coinvolte le operatrici dei servizi educativi
dell’infanzia di otto comuni della regione, individuati tra i più significativi per l’elevata presenza di residenti stranieri. Nel più ampio Nord-Est dell’Italia, noto per l’effervescenza del suo sviluppo economico, il Veneto è andato
sempre più rappresentando un’area di forte attrazione per uomini e donne migranti, fino a collocarsi ai primi posti tra le regioni italiane per incidenza di residenti stranieri. I dati ufficiali1 attestano che l’immigrazione straniera
in Veneto è diventata rilevante nell’ultimo decennio e in particolare ha conosciuto una marcata accelerazione dal
2002, anno della “grande regolarizzazione”. A partire da allora la popolazione straniera regolarmente residente
è più che raddoppiata, con un progressivo aumento dell’incidenza percentuale sul totale della popolazione che passa da valori appena sotto il 4% nel 2001, all’8,4% nel 2007 a oltre il 9% nel 2008.
Accenniamo qui brevemente alle principali caratteristiche della popolazione straniera in Veneto, sulla base della
fotografia che emerge dal più recente Rapporto sull’immigrazione della Regione.2 Si è molto attenuato il divario
tra uomini e donne – maschi e femmine sono presenti ormai in uguale proporzione anche se si riscontrano disomogeneità in alcuni gruppi nazionali. Si tratta di una popolazione giovane, sono soprattutto bambini e giovani
adulti dai 25 ai 40 anni;3 più della metà di loro arriva da Paesi europei (soprattutto Stati extra UE), il 24% dall’Africa, il 16% dal Continente asiatico e il 4% da quello americano. Tra i Paesi di provenienza prevale la Romania, seguono il Marocco e l’Albania; Moldavia, Romania, Ucraina e Bangladesh sono attualmente i Paesi che presentano i livelli di crescita del fenomeno migratorio più elevati. Le città venete con maggiori concentrazioni di cittadini stranieri sono nell’ordine Treviso, Verona e Vicenza con percentuali che superano il 10%; a Padova e Venezia, si registrano ritmi di crescita accelerati. Secondo l’Istituto nazionale di statistica4 (Istat) nel 2027 in Veneto,
sarà di origine straniera il 18% della popolazione e le proiezioni anticipano che, per le classi di età attorno ai 40
anni, tale percentuale potrebbe arrivare fino al 30%. Si tratta di un dato che parla in modo inequivocabile dell’avvento di una società multiculturale e lascia intravedere scenari davvero inediti per una regione, e più in generale per un Paese come l’Italia, che sembra ancora non rendersi bene conto della metamorfosi epocale in atto.5
Come stiamo affrontando questo cambiamento antropologico-culturale? Con quali atteggiamenti, con quali logiche e strategie ospitiamo gli uomini e le donne arrivati da lontano, spinti dal sogno di un futuro migliore? Cosa chiediamo loro? Di adattarsi gradualmente alla nostra cultura? Di mantenere le loro tradizioni purché “lonta-
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no dalle nostre”? Oppure riteniamo, in una prospettiva più complessa e impegnativa, che le specificità culturali siano un valore da salvaguardare, perché è dall’incrocio delle differenze che possono nascere innesti fecondi per tutti? Fino a che punto siamo pronti ad accettare la diversità? Siamo davvero educati all’interculturalità?
CAPITOLO
1
ferenti dalla propria, può avere pesanti effetti sull’attività di insegnamento, in termini di induzione di processi di
marginalizzazione e di disimpegno.
GLI OBIETTIVI E GLI STRUMENTI DELLA RICERCA
Le precomprensioni nell’azione educativa. Per la scuola italiana il cambiamento è stato rapidissimo e negli ultimi anni le problematiche relative all’incremento esponenziale della presenza di alunni stranieri si sono accompagnate alla particolare complessità del nostro tempo e alle trasformazioni del sistema di istruzione. Sappiamo da sempre che le istituzioni educative e scolastiche possono essere la chiave di volta per il successo dell’integrazione in quanto luoghi privilegiati d’incontro, dove le nuove generazioni possono “imparare a vivere insieme”6
attraverso la scoperta e l’accettazione reciproca. Nel più ampio ambito delle istituzioni educative, i servizi dell’infanzia – per la particolare età dei bambini che accolgono – possono svolgere un ruolo decisivo nella promozione
della capacità di saper stare nella differenza e diventare “palestre di vita”, dove bambini e adulti di mondi diversi crescono insieme, intrecciando sguardi plurali sui differenti modi essere e di vivere, sui differenti modelli educativi e di cura. Ma “esiste un modello prescolastico di integrazione per i bambini di altre culture nel nostro Paese?
Come sono considerati i bambini immigrati nel nostro Paese e nelle nostre strutture educative? Come parliamo di
loro? Bambini a cui manca qualcosa, bambini con qualcosa in più, bambini diversi? Che cosa pensano le educatrici e gli educatori che si predispongono ad accoglierli? Cosa pensano gli altri genitori?”7
20
La ricerca, i cui risultati sono esposti e commentati in questa pubblicazione, muove dal presupposto che le educatrici e le insegnanti, rapportandosi ai bambini e alle famiglie provenienti da altre culture, sviluppino rappresentazioni che improntano, in modo latente, i loro atteggiamenti relazionali e che questi abbiano ripercussioni dirette sulle scelte educative e didattiche.8 Alla formazione di tali rappresentazioni non contribuisce soltanto la pratica educativa: concorrono altri fattori come la preparazione culturale e didattica delle operatrici e il loro atteggiamento verso il fenomeno migratorio più in generale, la composizione del gruppo classe, la progettualità dell’istituzione scolastica e, non da ultimo, il contesto sociale di appartenenza.9 Ci riferiamo più in generale all’ambito delle precomprensioni, quei contenuti di pensiero talmente radicati nel contesto culturale, impercettibilmente “incorporati nei tessuti mentali da dove tacitamente informano i vissuti cognitivi”.10 Occuparsi dell’agire educativo significa anche guardare oltre la dimensione esplicita della pratica, per esplorare quegli aspetti che permeano e guidano in modo latente le attività didattiche e gli stili relazionali degli educatori, talvolta in contrasto con le intenzioni dichiarate e le pratiche più formalizzate. Lo studio delle concezioni e delle teorie implicite degli insegnanti
costituisce un campo di indagine attuale e consolidato, che rappresenta uno dei filoni del più vasto e complesso
ambito di ricerca volto a esplorare la dimensione tacita o implicita dell’insegnamento. L’esplicitazione di rappresentazioni e teorie implicite attraverso pratiche riflessive può avere un valore altamente formativo. È infatti fondamentale prendere consapevolezza di come l’azione educativa sia fortemente influenzata dagli schemi latenti che
orientano la modalità di comprensione dei contesti in cui ci si trova a operare. Quindi l’analisi del come ci si rappresenta ciò di cui si parla, in questo caso i bambini di altre culture, diventa “parte costitutiva di una pedagogia
interculturale intesa come riflessione critica e prospettiva empirica rispetto alla pratica educativa.”11 Recenti ricerche
condotte con docenti in formazione iniziale mostrano come non sia facile pensarsi come soggetti culturalmente
situati, quindi portatori di visioni parziali e condizionate dal contesto socioculturale di appartenenza.12 La mancanza
di consapevolezza circa le proprie precomprensioni, che portano a svalutare gli studenti provenienti da culture dif-
Il problema oggetto della ricerca sorge in un contesto preciso: un percorso di formazione rivolto a educatrici e insegnanti operanti, nell’anno scolastico 2009/2010, in otto comuni della Regione del Veneto, individuati tra i più
rilevanti per la presenza di immigrati (vedi capitolo 5).
Come stanno vivendo il fenomeno migratorio le educatrici e le insegnanti in queste realtà territoriali, dove i nidi
e le scuola dell’infanzia accolgono un numero sempre crescente di bambini di altre culture? Si è ritenuto che indagare i loro “pensieri” avesse una duplice utilità: ai fini della ricerca educativa l’allargamento dello sguardo su
un settore, quello dei servizi prescolastici, ancora poco esplorato, permette di conoscere il “punto di vista” di chi
in essi opera, soggetti raramente coinvolti in ricerche di questo tipo. Nello stesso tempo, sul piano della progettazione formativa, una indagine mirata a conoscere in modo approfondito e contestualizzato i soggetti ai quali si
rivolge, consente la messa a punto di percorsi migliorativi.
La ricerca si sviluppa a partire da alcune domande che focalizzano il “pensiero” di educatrici di asilo nido e insegnanti della scuola dell’infanzia riguardo alla presenza di bambini e famiglie appartenenti ad altre culture. I nuclei tematici sono stati individuati a partire dalla specificità dei servizi dell’infanzia, nei quali le relazioni con le famiglie rivestono un ruolo fondamentale e da alcune tematiche specifiche, quali lo sviluppo del linguaggio e i rapporti tra lingua materna (L1) e lingua italiana (L2).
Gli obiettivi della ricerca sono:
■ indagare il punto di vista delle educatrici e delle insegnanti rispetto alla presenza di bambini stranieri nelle loro classi/sezioni;
■ rilevare la percezione che le stesse hanno in merito alle difficoltà o ai problemi che i genitori stranieri incontrano nel rapportarsi con le nostre istituzioni educative;
■ conoscere gli elementi di difficoltà che possono intervenire nel rapporto tra educatrici/insegnanti e genitori
stranieri;
■ conoscere le opinioni delle educatrici e delle insegnanti in merito all’uso della lingua materna;
■ individuare le strategie didattiche messe in atto per favorire nei bambini stranieri l’apprendimento della lingua italiana;
■ rilevare la presenza nelle istituzioni scolastiche di progettualità a sostegno della cultura e della lingua di origine dei bambini.
Poiché interesse della ricerca è principalmente quello di comprendere attraverso le parole di educatrici e insegnanti
il loro pensiero e le loro pratiche, la metodologia della ricerca è di tipo qualitativo.
La ricerca è stata effettuata ricorrendo a due strumenti: un questionario-intervista in una prima fase; un’intervista a bassa strutturazione in una fase successiva. Con il questionario-intervista sono stati raccolti dati da un nu-
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metodologiche a pagina 33.
I RISULTATI DELLA RICERCA
Nella tabella 1 sono riportati i dati essenziali relativi ai comuni della Regione del Veneto in cui la ricerca è stata
realizzata, ordinati per ampiezza, con il rispettivo numero di partecipanti previste, di questionari compilati e di interviste realizzate.
percentuali più alte nelle sedi di Conegliano (100%), Cerea (87,5%) e Thiene (71,5%).
Le partecipanti alla ricerca sono tutti di sesso femminile; il questionario è stato compilato da 114 operatrici. Oltre la metà delle intervistate opera nell’ambito degli asili nido (54%), la percentuale delle insegnanti di scuola dell’infanzia raggiunge il 38%, il restante 8% è rappresentato da persone che lavorano in altri servizi (operatrici comunali, volontarie ecc.). Per quanto riguarda l’amministrazione di appartenenza delle strutture educative, prevale quella statale (45%), seguita da quella paritaria (27%) e, a distanza, da quella privata (16,5%).14
Istituzione di appartenenza delle educatrici
e delle insegnanti partecipanti alla ricerca
Grafico 1
Tabella 1
COMUNI
N° partecipanti previste
N° questionari compilati
N° interviste realizzate
26
26
2
28
21
1
24
21
2
14
8
1
20
13
1
15
8
1
19
10
1
11
8
1
15713
115
10
CONEGLIANO
8%
38%
54%
(Provincia di Treviso)
THIENE
1
(Provincia di Vicenza)
CEREA
(Provincia di Verona)
S. MARTINO BUON ALBERGO
(Provincia di Verona)
LENDINARA
Asilo nido
Scuola dell’infanzia
Altro
(Provincia di Rovigo)
MOTTA DI LIVENZA
(Provincia di Treviso)
CONSELVE
(Provincia di Padova)
QUERO e VAS
Presenza e provenienza. Nelle istituzioni educative degli otto comuni in cui la ricerca è stata effettuata, i
(Provincia di Belluno)
Totali
22
I BAMBINI STRANIERI NEI SERVIZI EDUCATIVI
I comuni coinvolti nella ricerca sono di medie e piccole dimensioni, sia limitrofi sia distanti dai capoluoghi di provincia. Il più ampio è Conegliano, che con i suoi 35.000 abitanti rappresenta il paese più popoloso della provincia di Treviso e si trova all’estremo margine settentrionale della pianura veneta, ai piedi delle Prealpi trevigiane.
Thiene conta quasi 21.000 abitanti ed è, dopo il capoluogo, il paese più densamente popolato della provincia di
Vicenza. Nel territorio veronese, Cerea e San Martino Buon Albergo sono entrambi comuni di medie dimensioni:
il primo conta 15.000 abitanti ed è situato ai confini con la Lombardia, il secondo supera i 13.000 abitanti e si
trova nella periferia di Verona. Di dimensioni più ridotte sono Motta di Livenza, con più di 9.600 abitanti, nel Trevigiano ai confini con la provincia di Venezia e Conselve in provincia di Padova, con 8.600 abitanti. Decisamente
più piccoli, in provincia di Belluno, Quero raggiunge i 2.300 abitanti, mentre il vicino Vas arriva agli 860; qui i partecipanti al Progetto sono stati riuniti in un’unica sede. Rispetto alla compilazione dei questionari si sono registrate
figli di genitori migranti costituiscono circa il 25% della popolazione complessiva. Un’analisi più dettagliata evidenzia che la multiculturalità è una realtà che interessa soprattutto la scuola dell’infanzia, nella quale si registrano
concentrazioni anche molto elevate: in alcune sezioni è di origine straniera la metà dei bambini.
L’elevato valore percentuale registrato, se confrontato con il dato rilevato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR)15 a livello regionale nelle scuole dell’infanzia (la percentuale in Veneto si attesta
al 10,6%), dà conto della capacità attrattiva delle realtà territoriali coinvolte.
A seguito dei processi di stabilizzazione delle famiglie migranti, i bambini stranieri che frequentano i servizi prescolastici sono in larga maggioranza nati in Italia. Dall’ultimo Rapporto del MIUR risulta che in Veneto il 74,6%
degli alunni con cittadinanza non italiana16 frequentanti le scuole dell’infanzia è nato in Italia.17 Con un termine piuttosto diffuso, essi vengono definiti di seconda generazione. Si riconosce così che essi abbiano esigenze e
bisogni educativi differenti rispetto a coloro che, nati all’estero, hanno vissuto l’esperienza della separazione da
uno o entrambi i genitori e che, migrando, hanno dovuto adattarsi ad un ambiente del tutto estraneo. In questa
ottica si ritiene che i bambini stranieri nati in Italia, se pur connotati da origini etniche o religiose diverse, quando arrivano al nido o alla scuola dell’infanzia si trovino virtualmente in condizioni non così impari rispetto ai coetanei di cittadinanza italiana.18
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INFORMAZIONI GENERALI SULLE OPERATRICI
PARTECIPANTI ALLA RICERCA
Età
L’insegnante più giovane ha 19 anni, la meno
giovane 55. Per quanto riguarda l’età si rileva
una distribuzione piuttosto omogenea nei decenni che vanno dai 20 ai 29 anni (25,20%), dai
30 ai 39 anni (26,95%), dai 40 ai 49 anni
(25,22%). Nell’ultima fascia d’età, il solo quinquennio compreso tra i 50 e i 55 anni registra la
percentuale più elevata (moda)19, se considerate le età suddivise in quinquenni, raggungendo
da solo il 19,13%.
Curriculum formativo
Il 64% delle partecipanti si è diplomata presso il Liceo Socio-psicopedagogico o Istituto (o Scuola) Magistrale; possiede un diploma di altro liceo il 9%, il
10% ha frequentato Istituti Tecnici, l’8% Istituti Professionali. Il rimanente 9% ha acquisito titoli di studio ancora diversi.
Il 20% del campione è in possesso di una laurea,
mentre il 12% al momento della rilevazione dichiara
di essere iscritto ad un corso di laurea. I corsi di laurea maggiormente rappresentati appartengono all’ambito delle Scienze dell’educazione e della formazione. Il dato relativo alla formazione universitaria
interessa in modo rilevante le educatrici/insegnanti più giovani. Questo dato, infatti, se incrociato con
quello relativo all’età, evidenzia che la percentuale
delle laureate o laureande si riscontra nel 90% dei
casi entro i 34 anni (che rappresentano il 41% del
campione).
Esperienze professionali
Per quanto riguarda il dato relativo all’anzianità di
servizio nella professione educativa, esso si distri24
buisce in un arco di tempo che va da un minimo di
alcuni mesi ad un massimo di 39 anni. Considerando
tale periodo suddiviso in intervalli di cinque anni, ne
risulta che il 33% (la moda) delle partecipanti ha
un’anzianità lavorativa che va “da zero a cinque anni”. Si tratta di un periodo particolare nella carriera lavorativa definito di “noviziato” nel quale si apprendono e si consolidano sul campo le abilità professionali complesse, il ruolo, le norme, i valori, le
routine che costituiscono la pratica professionale. Risulta importante in questo periodo il rapporto con
le colleghe più anziane che svolgono funzioni tutoriali e con la loro azione testimoniano modelli di pratiche professionali. Questa istantanea sulle partecipanti fotografa un gruppo giovane dal punto di vista lavorativo, perché la metà delle operatrici lavora nei servizi da meno di dieci anni, mentre l’altra
metà si distribuisce, con percentuali progressivamente decrescenti, nei sei quinquenni successivi ai
primi due.
Anche il dato relativo alla continuità di servizio prestato nella stessa sede è interessante. Oltre il 18%
delle partecipanti si trova nella sede lavorativa attuale dall’anno scolastico in corso. Sappiamo che il
primo è un anno di “inserimento-ambientamento”
non solo per i bambini, ma anche per le insegnanti che devono conoscere il nuovo ambiente, instaurare relazioni con le nuove colleghe, i nuovi bambini, le nuove famiglie. Il 35% delle partecipanti (la
moda) lavora nella sede attuale nel periodo compreso “da due a cinque anni”, il 20% nel periodo
successivo “da cinque a dieci anni”. Il restante 27%
ha una continuità di servizio nella stessa sede da undici a trentatré anni.
1
CAPITOLO
Grafico 2
Paesi di provenienza dei bambini stranieri
Altri Paesi
3%
Sud America
5%
Subcontinente indiano
9%
Cina
15%
31%
Est Europa
Africa
37%
0%
5%
10%
15%
20%
25%
30%
35%
40%
Nelle classi (o sezioni) in cui prestano servizio le partecipanti alla ricerca, il dato relativo alle aree geografiche di
provenienza dei bambini stranieri20 documenta una situazione caratterizzata dalla prevalenza dei Paesi africani –
dal Nord Africa il 25% e dal Centro Africa il 12% – per un valore percentuale complessivo pari al 37% e dall’Est
europeo che si attesta al 31%. Una presenza non poco consistente di bambini stranieri è di origine cinese (15%),
mentre da un’altra area asiatica, il Subcontinente indiano (Sri Lanka, India, Bangladesh…), proviene il 9% di loro e infine dal Sud America il 5%.
Che cosa comporta per un’educatrice di asilo nido o un’insegnante di scuola dell’infanzia la presenza di bambini
di altre culture nel proprio gruppo? Come vedono le operatrici che hanno partecipato al Progetto la classe/sezione colorata? Che idea hanno dei bambini stranieri? La prima domanda-stimolo proposta nel questionario-intervista ha esplorato il tema in questa direzione.
Alla domanda: Sulla base della sua esperienza, che cosa comporta la presenza di bambini di altre culture nel gruppo classe/sezione?, le partecipanti hanno risposto in modo diversificato: alcune molto sinteticamente, altre con argomentazioni, altre ancora organizzando la risposta con elenchi puntati. Non è stata tuttavia difficile l’individuazione delle etichette, perché le unità di significato si sono imposte con evidenza. Dalla lettura e rilettura del materiale ciò che appariva evidente era anche l’assunzione di un punto di vista chiaramente situato: da quello dell’insegnante a quello dei bambini stranieri, da quello del gruppo dei bambini a quello dei genitori, seppure quest’ultimo solo in qualche caso. Nella definizione delle categorie si è pertanto ritenuto importante far emergere l’angolatura prospettica dalla quale le operatrici avevano risposto alla nostra sollecitazione. Le categorie in questo modo definite sono risultate dodici. Vengono di seguito elencate catalogandole rispetto al punto di vista assunto nelle risposte.
Come si può evincere dalla tabella 2, le categorie che evidenziano l’assunzione del punto di vista dell’educatore
o insegnante sono numericamente prevalenti: cinque su dodici. Tra di esse una si connota positivamente – “sti-
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Tabella 2
Categorie delle risposte relative alla domanda:
Tabella 3
1.
2.
3.
4.
5.
Stimolo per l’insegnante
Difficoltà per l’insegnante: maggiore impegno sul piano didattico
Difficoltà per l’insegnante nella comunicazione verbale con i bambini stranieri
Difficoltà per l’insegnante nella relazione con i genitori stranieri
Difficoltà per l’insegnante nella relazione con i bambini stranieri
Dal punto di vista
dei bambini
1.
2.
Opportunità per i bambini: confronto con la diversità
Difficoltà per i bambini stranieri
Dal punto di vista
dei genitori
1.
2.
Arricchimento reciproco per le famiglie
Difficoltà per i genitori
Non specificato
1.
2.
3.
Arricchimento reciproco
A volte ostacolo, a volte arricchimento
Nessun problema
Valori percentuali delle risposte date alla domanda:
Sulla base della sua esperienza, che cosa comporta la presenza di bambini
di altre culture nel gruppo classe/sezione?
Sulla base della sua esperienza, che cosa comporta la presenza di bambini
di altre culture nel gruppo classe/sezione?
Dal punto di vista
delle educatrici
o delle insegnanti
1
CAPITOLO
Denominazione categoria
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
Arricchimento reciproco
Opportunità per i bambini: confronto con la diversità
Difficoltà per i bambini stranieri
Difficoltà per l’insegnante: maggiore impegno sul piano didattico
A volte ostacolo, a volte arricchimento
Difficoltà per l’insegnante nella comunicazione verbale con i bambini stranieri
Stimolo per l’insegnante
Difficoltà per l’insegnante nella relazione con i genitori stranieri
Difficoltà per l’insegnante nella relazione con i bambini stranieri
Nessun problema
Difficoltà per i genitori
Arricchimento reciproco per le famiglie
%
20,18%
15,79%
14,04%
10,53%
10,53%
9,65%
5,25%
4,39%
3,51%
3,50%
1,75%
0,88%
TOTALE
molo per l’insegnante” – le altre quattro descrivono gli ambiti nei quali le operatrici dicono di incontrare delle difficoltà. Dall’analisi del materiale emerge che la presenza di bambini di altre culture comporta per l’insegnante un maggior impegno sul piano didattico, delle difficoltà sul piano della comunicazione linguistica e su quello della relazione, sia
con loro sia con i loro genitori.
Due categorie raggruppano unità di significato che prendono in considerazione il fenomeno vedendolo dal punto
di vista dei bambini: in un’ottica positiva l’una, in una problematica l’altra. In modo speculare: le categorie che descrivono l’assunzione del punto di vista dei genitori evidenziano una l’arricchimento, l’altra le difficoltà. Infine, per
le unità di significato rilevate nelle quali la prospettiva da cui si guarda al fenomeno non viene specificata, sono
state istruite tre categorie: “arricchimento reciproco”, “a volte ostacolo, a volte arricchimento” e “nessun problema”, che si può ipotizzare tengano insieme il punto di vista dei diversi attori del processo educativo, in primis bambini e insegnanti. Poiché non si è rilevata una differenza significativa tra le “prime risposte” e le successive, i dati
relativi alla prima domanda sono stati trattati come un unico insieme di risposte.
All’analisi quantitativa delle frequenze, le singole categorie raggiungono singolarmente i valori percentuali indicati nella tabella seguente.
26
Le categorie che ottengono i valori percentuali più alti sono nell’ordine “arricchimento reciproco” (20,18%), “opportunità per i bambini: confronto con la diversità”(15,79%), “difficoltà per i bambini stranieri” (14,04%). Con
100%
Ricadute della presenza nei servizi di bambini di altre culture
10,5%
3,5%
42%
Arricchimento
Difficoltà
A volte
ostacolo, a volte
arricchimento
44%
Nessun problema
Grafico 3
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valori percentuali superiori al 10%, si attesta sia la categoria che definisce le “difficoltà per l’insegnante” nella direzione di un “maggior impegno sul piano didattico”, sia quella che, rispetto ai bambini stranieri in classe, ritiene
compresenti sia aspetti problematici sia favorevoli “a volte ostacolo, a volte arricchimento”.
Sotto il 10%, con percentuali progressivamente decrescenti si trovano sette delle categorie individuate: “Difficoltà per l’insegnante nella comunicazione verbale con i bambini stranieri” e “Stimolo per l’insegnante” ottengono
valori superiori al 5%; “Difficoltà per l’insegnante nella relazione con i genitori stranieri”, “Difficoltà per l’insegnante
nella relazione con i bambini stranieri” e “Nessun problema” sono categorie scarsamente rappresentate, ancora
meno le ultime due che riguardano le famiglie “Difficoltà per i genitori” e “Arricchimento reciproco”. Il materiale
può essere a questo punto analizzato attraverso il raggruppamento di più categorie. I dati stessi così catalogati
parlano da soli, suggerendo aggregazioni categoriali (macrocategorie).
L’idea positiva di arricchimento è contenuta in cinque categorie, elencate in tabella ai numeri 1, 2, 7, 12; l’idea problematica è presente in altre sei, connotate da elementi di difficoltà (ai numeri 3, 4, 6, 8, 9, 11). Il grafico 3 illustra la distribuzione percentuale dei dati così raggruppati.
Che cosa emerge dall’analisi del primo nucleo tematico? Come vedono le educatrici e le insegnanti intervistate le
classi/sezioni plurietniche? Come si può evincere dal grafico 3, l’analisi quantitativa fa emergere due approcci al
fenomeno nettamente prevalenti e bilanciati: le operatrici interpellate sembrano dividersi e prendere posizione in
base a chi “vede il bicchiere mezzo pieno e a chi lo vede mezzo vuoto”. Si possono riscontrare differenze statisticamente significative? È stato verificato l’incidenza di più variabili, quella legata alla tipologia del servizio (nido vs
scuola dell’infanzia), al numero dei bambini stranieri presenti nella classe/sezione, all’età delle operatrici. Le educatrici dell’asilo nido sono più propense a vedere la presenza di bambini di altre culture come una opportunità per il gruppo, mentre sono le insegnanti della scuola dell’infanzia a ritenere tale presenza uno stimolo per l’insegnante.
Si tratta di differenze che possono trovare una giustificazione da un lato nella diversa composizione numerica dei
gruppi classe/sezione (e questo indipendentemente dalla presenza o meno di bambini stranieri) a vantaggio delle educatrici del nido e dall’altro in una progettualità educativa molto più definita e articolata come è quella della scuola dell’infanzia. Le due macroaree emerse dall’analisi delle affermazioni delle educatrici e insegnanti – arricchimento e difficoltà – sembrano rivelare due diverse rappresentazioni dei bambini figli di genitori provenienti
da altri Paesi, rappresentazioni che potremmo sinteticamente definire come: bambini risorsa e bambini problema. Attraverso le interviste è stato possibile entrare di più nel merito dell’idea dei bambini stranieri “come risorsa” e “come problema” e articolare meglio le rappresentazioni delle educatrici e insegnanti.
I bambini stranieri come risorsa per tutti i bambini. Dall’analisi e interpretazione del materiale relativo a questa macrocategoria è possibile dire perché i bambini stranieri sono una risorsa e soprattutto per chi.
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Una sezione o una classe che vede al suo interno la presenza di bambini di altre culture rappresenta “sicuramente una situazione che arricchisce tutto il gruppo sezione, comprese noi insegnanti, perché i bambini imparano che l’altro,
diverso da me, non è qualcosa da rifiutare o da temere, bensì un bambino come loro”. È attraverso la relazione con
l’altro, il confronto e i conflitti che possono nascere, che il bambino scopre realtà diverse dalla propria e impara a
rispettarle. Quindi una sezione a tante tinte costituisce – innanzitutto e soprattutto – una ricchezza per i bambini, che hanno l’opportunità di rendersi conto che “il colore della pelle ci distingue come il colore degli occhi, il nome...”,
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“bambini risorsa”
e nello stesso tempo possono venire in contatto con realtà culturali anche molto differenti dalla loro. Il bambino, afferma un’educatrice “inizia a capire e a rapportarsi con chi ha usi e costumi diversi dal proprio. Crescendo sarà
più tollerante verso il diverso perché lo conosce e lo apprezza”. In più di una affermazione la diversità appare connessa a paure da superare, sia da parte dei bambini sia dei loro genitori ed è piuttosto forte l’idea che acquisire il concetto di diversità a questa età sia “un grosso vantaggio per la loro crescita personale”. Anche se ad affiorare qua e là sono i concetti di decentramento e di superamento dell’egocentrismo infantile, molto connotati cognitivamente, è possibile cogliere dietro le parole di alcune operatrici l’importanza che loro assegnano alla dimensione emotiva dell’esperienza: l’oggetto della diversità possiede caratteristiche del tutto speciali, è un bambino o una bambina in carne e ossa che esercita una forte attrazione in quanto coetaneo, un proprio pari. Ciò
che risulta infatti pregna di valore è la convivenza, spontanea e abbastanza facile per i bambini. Nel tempo dell’avvento della società multietnica, la presenza di bambini stranieri in sezione rappresenta “un valore aggiunto
oggi irrinunciabile”, “una possibilità maggiore di crescere in un clima sociale che condivide e apprezza ogni diversità”.
Dall’analisi circostanziata dell’idea di bambino-risorsa sembra emergere, tuttavia, che nel pensiero delle educatrici e delle insegnanti l’arricchimento è pensato prevalentemente nella direzione, e quindi a favore, dei bambini italiani.
I bambini stranieri come risorsa per educatrici e insegnanti. Vediamo ora il punto di vista di chi ritiene che i bambini stranieri siano una risorsa per l’insegnante. Sebbene questa categoria abbia raggiunto nei questionari un valore percentuale davvero esiguo (5%), ci è sembrato opportuno approfondirla nelle interviste, anche
perché è l’unica tra le cinque categorie che riguardano le educatrici/insegnanti a connotarsi positivamente. La presenza di bambini stranieri sembra diventare una risorsa se stimola nell’insegnante la curiosità di conoscere altre
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culture, se viene vissuta come opportunità, come “spunto per dar vita ad attività interessanti e stimolanti attingendo
da molti punti di vista. Vedere la stessa cosa sotto luci e colori diversi per crescere e far crescere”. È la diversità che sembra produrre dissonanza cognitiva – “porta a rompere schemi rigidi consolidati e a cercare nuove strategie e soluzioni” – e offrire “la possibilità di far circolare e mettere in relazione esperienze e saperi diversi. È la condizione più propizia per misurare veramente il passo su bambine e bambini reali nella progettazione delle attività”. Infatti, afferma un’insegnante di scuola dell’infanzia, “ogni bambino ha caratteristiche e problematiche diverse, alle quali ogni insegnante
dovrebbe porre particolare attenzione”. Queste testimonianze mettono in evidenza la consapevolezza che l’educazione e la didattica interculturale non sono da intendersi riferite ad appartenenze culturali diverse dalla nostra. Al
contrario, i loro obiettivi prioritari sono lo sviluppo delle potenzialità di ogni bambino e bambina nel rispetto delle differenze di tutti e di ciascuno, in un contesto di pari opportunità. I bambini stranieri richiedono una diversa articolazione del proprio fare scuola, disponibilità, attenzione e apertura “verso stili educativi altri”, “capacità di mettersi in gioco, in relazione”. Sollecitano una crescita dal punto di vista professionale (e anche personale) attraverso
un ripensamento delle pratiche, degli stili relazionali, del proprio modo di porsi di fronte a ciò che è sconosciuto e
diverso. Un’educatrice del nido rimarca l’importanza della relazione con la famiglia: anche in questa direzione i bambini stranieri sollecitano “l’urgenza di relazioni sostanziali con i genitori”.
Infine i bambini stranieri sono una risorsa per i genitori italiani, perché l’opportunità di conoscere da vicino persone portatrici di culture altre permette che vengano “smussati sentimenti di pregiudizio e diffidenza”.
Un elemento che emerge dall’approfondimento di questo aspetto è il fatto che, secondo alcune insegnanti, i bambini stranieri non sono di per se stessi una risorsa: molto dipende dall’atteggiamento e dall’azione consapevole e
intenzionale dell’insegnante. “È l’insegnante che lo fa vivere in questo senso, se mette tutta la classe nelle condizioni
di poter vedere, occorre fare uno sforzo mentale per capire […] Noi in classe abbiamo una bambina di colore, è molto
cambiato da settembre a oggi il modo in cui i bambini la guardano, è molto più bello adesso. Adesso nei loro disegni usano anche il marron, non solo il rosa per colorare i bambini.” L’apertura, l’accoglienza, l’accettazione dipendono in gran
parte da come l’educatrice o l’insegnante stessa si rapporta con i bambini stranieri. La consapevolezza del ruolo
fondamentale dell’adulto nel favorire il processo di integrazione emerge anche in un’altra intervista. “Dipende dalla relazione che instauri con loro, è importante che tu non faccia sentire ad un bambino la diversità. Il bambini sono tutti uguali per me, questo è il mio punto di vista e il mio modo di relazionarmi, e loro lo sentono. […] Le stesse attenzioni,
le stesse richieste, le stesse regole, che non ci siano distinzioni nella classe. La diversità la crea sempre l’adulto.” Si può
aggiungere quanto afferma una collega a proposito dell’arricchimento reciproco, realizzabile a patto che “vengano sottolineate nella giusta misura le differenze, ma anche le somiglianze che esistono nelle varie culture”.
I bambini stranieri come problema. Un’insegnante di scuola dell’infanzia, nella cui sezione venti bambini
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su ventisette sono figli di genitori che provengono da altri Paesi, afferma che nel suo caso “ricchezza e stimolo non
sono sfruttabili a causa dell’elevato numero di bambini”. Il problema delle scarse risorse è un problema reale e sentito da più di un’operatrice, “i pochi finanziamenti non ci permettono di poter contare sui mediatori e di disporre per
noi di ore aggiuntive”. Perché l’integrazione dei bambini stranieri sia davvero possibile e abbia esiti e ripercussioni
positive per tutti gli attori (bambini, educatrici e insegnanti, famiglie), molto dipende dalle risorse sulle quali i servizi possono contare. Di fronte ad una realtà altamente complessa e di non facile gestione, quale è quella di sezioni in cui l’incidenza di bambini stranieri raggiunge percentuali attorno al 50%, non sorprende quindi che sia la
visione problematica a imporsi.
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Come si caratterizza il punto di vista di coloro (il 42% delle partecipanti) che vedono la presenza dei bambini stranieri nel proprio gruppo come una difficoltà? Quali sono i problemi segnalati dalle educatrici e insegnanti? Di chi
sono le difficoltà? È possibile, aggregando le sei categorie che identificano le difficoltà, avere il quadro della distribuzione percentuale delle stesse in relazione ai diversi soggetti coinvolti nel processo educativo.
Grafico 4 Distribuzione delle difficoltà percepite in relazione ai soggetti
4%
64%
32%
Insegnanti
Bambini stranieri
Genitori
Come si può notare, prevalgono le difficoltà delle educatrici e delle insegnanti, che sommate rappresentano il 64%
delle difficoltà segnalate. Rispetto a quelle percepite nei bambini hanno un’incidenza percentuale esattamente doppia (32%). Al test della significatività il confronto tra il gruppo delle educatrici del nido e quello delle insegnanti
di scuola dell’infanzia dà esiti negativi, il che significa che si non si riscontrano tra i due gruppi differenze statisticamente significative. Quali sono i problemi o le difficoltà che le operatrici dicono di incontrare? Quella più consistente (10,53%)21 risulta essere legata alla richiesta di un maggiore carico di lavoro sul piano didattico. La presenza nel gruppo di bambini diversi culturalmente richiede di “mettere in atto strategie di lavoro che non utilizzeresti se non ti trovassi in quelle condizioni”, le attività devono quindi essere “riadattate, la programmazione rielaborata”. È proprio la situazione che richiede una revisione del proprio modo di fare scuola a essere percepita da alcune operatrici come un limite, da altre come una risorsa. Impegno, sforzo, maggiore attenzione, maggiore individualizzazione sono i termini ricorrenti. “I bambini di cultura diversa hanno abitudini e modi di interagire diversi perciò
devono essere aiutati ad affrontare le loro difficoltà espressive e a integrarsi con gli altri.” Ma viene sentita anche la difficoltà che si incontra a livelli più profondi, “è faticoso gestire culture diverse andando oltre la propria personale visione del mondo”, “immedesimarsi in situazioni diverse e alternative”. Cambiare il proprio punto di vista affrontando
il nuovo con un atteggiamento aperto significa allentare le resistenze difensive e saper stare nell’incertezza, a volte difficile da tollerare. “Ci vuole tempo e pazienza per adattarsi reciprocamente”, dice un’insegnante.
Un altro elemento di difficoltà appare connesso alla comunicazione verbale (9,65%), al difficile dialogo tra insegnanti e bambini. “Quando nel gruppo sezione sono presenti bambini di altre culture e magari con una scarsa se non
assente conoscenza della lingua italiana, il problema fondamentale è sicuramente la comunicazione. Molto spesso è difficoltoso coinvolgerli nelle attività e farli partecipare.” Si tratta di un problema che caratterizza la fase iniziale della
frequenza scolastica e che presenta caratteristiche diverse al nido rispetto alla scuola dell’infanzia: se in quest’ultima
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infatti è sul piano delle attività scolastiche che si presenta, al nido si rivela molto più problematico per le diverse
modalità di cura dei bambini nelle altre culture e in particolare al momento dell’inserimento, quando inizia la separazione dal genitore e alle educatrici mancano le parole per farsi capire dai bambini. Le difficoltà sul piano della relazione con i genitori (4,39%) che vengono segnalate in questo contesto si riscontrano al nido, dove è di primaria importanza la collaborazione con loro.
Per quanto riguarda le difficoltà che le operatrici incontrano nella relazione con i bambini (3,51%), dalle testimonianze emerge che esse sono attribuite al comportamento di questi ultimi. “Molto spesso si tratta di bambini”, afferma un’insegnante riferendosi ai bambini africani e srilankesi del suo gruppo, “che hanno modalità diverse di relazionarsi, sono molto vivaci, con problemi di concentrazione e attenzione.” Una collega del nido ritiene che il comportamento difficile sia dovuto “alla molta tensione che di solito c’è in questi bambini perché si trovano disorientati”.
Quali sono dunque le difficoltà dei bambini? Dall’analisi del materiale emerge che le difficoltà che le operatrici rilevano (14,04%) riguardano i bambini neo-arrivati e la fase iniziale del loro inserimento nei nostri servizi educativi. Essi si ritrovano in un contesto linguistico del tutto estraneo, “sembrano spaesati”, non potendo comunicare
con i compagni e le insegnanti, non riescono a partecipare alle attività, si stancano, “si estraniano” e finiscono con
l’isolarsi, “vorrebbero andare a giocare o a guardare i libri da soli”. A essere problematico, dunque, è il loro inserimento
che, rispetto a quello dei compagni italiani, si dimostra più lungo e difficile, in modo particolare per i figli di genitori cinesi o provenienti dai Paesi africani. Superata questa fase iniziale dell’ambientamento linguistico, secondo
le operatrici intervistate, non ci sono particolari problemi perché poi “i bambini stranieri si integrano con facilità, crescono insieme agli altri”. È molto diffusa l’idea che i processi di socializzazione spontanei tra bambini siano di per
sé positivi. Afferma un’educatrice: “Non c’è nessun tipo di discriminazione tra bambini, anzi… all’inizio magari alcuni
hanno qualche difficoltà perché non conoscono la lingua, però molto rapidamente riescono a entrare in contatto con gli
altri bambini e con le insegnanti”. Le interviste, tuttavia, consentono un approfondimento di questa tematica, lasciando
intravedere alcune problematicità, come in questo stralcio di racconto di un’insegnante di scuola dell’infanzia che,
nel riferire un episodio che ha visto protagonista una bambina africana, conclude dicendo: “Poi è bella, ha le sue
treccine, i bambini l’accettano. C’è sempre qualcuno che ha difficoltà a prenderla per mano, ma secondo me siamo noi
adulti. Se diamo importanza alla diversità la notano anche loro, ma se i bambini noi li consideriamo tutti uguali, non dovrebbero esserci difficoltà per i compagni italiani. Siamo noi che diamo, a volte, le impronte della diversità”. L’idea dell’integrazione facile andrebbe quindi meglio esplorata anche con ricerche osservative volte a dar conto della specificità e complessità di ogni singolare percorso individuale.
I GENITORI STRANIERI E LE ISTITUZIONI EDUCATIVE
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Nei contesti prescolastici, proprio perché il livello di conoscenza della lingua italiana non costituisce ancora un requisito primario per le attività didattiche, l’integrazione dei bambini risulta più facile rispetto agli ordini di scuola
successivi. Nei servizi dell’infanzia è piuttosto il rapporto con i genitori a rivelarsi come il più problematico e questo per la ancora essenziale dipendenza dei bambini nei confronti degli adulti. I rapporti tra adulti – genitori da
una parte ed educatrici e insegnanti dall’altra – sono fondamentali e dalla loro qualità dipende in gran parte il benessere del bambino. Non è mai un gesto facile e indolore affidare alle cure di chi ci è in qualche modo estraneo
il proprio piccolo, così come non è semplice accoglierlo e averne cura quando mancano le parole per costruire un
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ponte che permetta un agevole passaggio di braccia. Se molto rimane di implicito anche quando ci sono le parole, molto rimane di opaco quando a incontrarsi sono mondi lontani che non possono “dirsi”.
È stato indagato il rapporto tra famiglie straniere e i servizi dell’infanzia attraverso la percezione che le operatrici hanno delle difficoltà che i genitori affrontano quando si rapportano alle strutture educative. Ci è parso interessante esplorare il loro punto di vista per cogliere, non tanto i problemi reali delle famiglie straniere, quanto la
soggettività dell’interpretazione e i significati attribuiti da educatrici e insegnanti.
La domanda nel questionario-intervista approcciava il tema in questo modo: Secondo lei quali sono i problemi o
le difficoltà che incontrano i genitori stranieri nel rapporto con il nido/scuola dell’infanzia?
L’analisi del materiale ha portato all’identificazione di cinque categorie (tabella 4):
1. problemi di comunicazione linguistica;
2. problemi legati agli usi e costumi diversi;
3. problemi legati ai diversi metodi educativi e modalità di cura;
4. difficoltà a capire il funzionamento del servizio;
5. difficoltà a conformarsi alle nostre regole.
Tabella 4
Comunicazione linguistica
Usi e costumi diversi
Capire il funzionamento del servizio
Metodi educativi e stili di allevamento diversi
Conformarsi alle nostre regole
I risposta
II risposta
75,73%
12,62%
6,80%
0,00%
4,85%
16,39%
44,26%
19,67%
11,48%
8,20%
Risulta evidente che, nella percezione di educatrici e insegnanti, la maggiore difficoltà che i genitori stranieri incontrano nel rapportarsi alle nostre strutture educative è legata alla lingua. “Il problema principale è la lingua”, viene ribadito dal 75% delle prime unità di significato. Nel pensiero delle operatrici, le problematiche connesse ai fattori legati alle differenze culturali trovano uno spazio secondariamente rilevante, come si può vedere nella seconda
colonna del grafico. Il rapportarsi agli usi e costumi italiani appare come l’elemento più problematico delle differenze culturali (44,26%) cui fanno seguito la difficoltà nel capire come funzionano i nostri servizi dell’infanzia
(19,67%), nel confrontarsi con metodi educativi e stili di allevamento diversi (11,48%) e infine la difficoltà nel conformarsi alle nostre regole (8,20%). Del resto c’è chi afferma che “le difficoltà di comunicazione linguistica implicano di per sé un’incomprensione del funzionamento della scuola”. In una intervista un’insegnante racconta che nella
sua scuola negli anni scorsi si sono verificate “vere e proprie problematiche relazionali con alcune famiglie provenienti
da Paesi africani, ma anche dall’Est Europa per la difficoltà di comunicazione [...] proprio per la lingua perché, non capendo l’italiano, è difficile passare informazioni, è difficile fare un colloquio. […] Quest’anno è molto diverso perché le
famiglie con cui lavoriamo comprendono benissimo l’italiano, sono famiglie molto positive, non ci sono problemi, sta andando proprio bene, siamo fortunate”.
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C’è da rilevare che la maggior parte delle unità di significato relative alle difficoltà linguistiche espresse nei questionari-intervista si concentrano sui limiti di uno degli aspetti della competenza linguistica, quello della comprensione:
“non capiscono quello che noi diciamo loro”, affermano molte operatrici, “specialmente se le comunicazioni sono molto distanti da quelle alle quali erano abituati nel loro Paese di origine”. A fronte di un’insegnante che asserisce di notare nei genitori stranieri un notevole sforzo per superare la difficoltà di comprensione della nostra lingua, altre
sottolineano come tale difficoltà possa invece essere utilizzata in modo opportunistico. “Spesso si rifiutano di capire le nostre richieste dando colpa alla lingua.”
Solo in pochissimi casi si fa riferimento alle “difficoltà di espressione linguistica”, vale a dire alla difficoltà dei genitori di esprimere il loro pensiero e farsi quindi soggetti della comunicazione e non solo destinatari.
L’analisi del materiale relativo a questa domanda ha evidenziato che molte risposte avrebbero presupposto la domanda: Quali sono i problemi che lei incontra nel rapporto con i genitori?, posizionata nel nostro questionariointervista al punto successivo. Questo fatto rivelava una diffusa difficoltà da parte delle operatrici a decentrarsi
dal proprio ruolo e a mettersi nei panni dell’altro. Anche l’esame delle altre categorie sembra confermare questa lettura. Viene più volte sottolineato come sia “difficile farsi capire: il regolamento della scuola, le attività che svolgiamo, le modalità di partecipazione e collaborazione richieste dalla scuola”. I nostri servizi dell’infanzia del resto, per
i molti genitori provenienti da aree geografiche e culturali molto lontane dalla nostra, rappresentano realtà del
tutto nuove o molto differenti da quelle conosciute; diventa quindi difficile per loro capire come funzionano le
nostre strutture, adeguarsi e condividere le nostre regole scolastiche. “Fanno fatica a capire la valenza educativa dell’organizzazione della giornata”, dicono le operatrici, “l’importanza di una frequenza costante, dei colloqui individuali”. In alcuni casi vengono espressi giudizi piuttosto negativi sui comportamenti dei genitori: “generalmente sono
scettici e diffidenti, si rifiutano di partecipare attivamente alle proposte della scuola, nonostante si cerchi in molti modi
di metterli a loro agio”.
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I genitori stranieri che inseriscono i loro bambini nei nostri servizi educativi assistono a modalità, approcci, abitudini, modelli educativi anche molto diversi da quelli del loro Paese d’origine, in molti casi del tutto nuovi. Ma le
nostre abitudini per loro sono sempre così condivisibili? Come alcune recenti ricerche22 evidenziano non sono pochi i dubbi, le perplessità delle mamme immigrate nei confronti dei nostri modelli educativi: scarsità di regole, attenzione a tratti eccessiva nei confronti dei bambini, rapporti insegnante-bambino troppo confidenziali.
“L’osservazione di altri approcci all’infanzia e alla cura dei piccoli sollecita domande, evoca ricordi e induce la formazione di preoccupazioni per chi, per la prima volta, vive la sfida della migrazione.
Cosa pensano i genitori stranieri di tutto questo? Vogliono che i loro bambini crescano con e come i nostri? Cosa
vorrebbero, invece, per i loro figli? Diventa interessante dare loro la parola per capire che cosa, nella prospettiva
culturale di chi viene da lontano sia desiderabile, giusto, bello per i bambini e per la loro educazione. Tuttavia sorge il dubbio di essere pronti a farlo, di avere le conoscenze e le competenze necessarie per dare loro la parola.”23
Ma siamo in grado di dare loro la parola? Per poterlo fare occorre farsi da parte, mettere in discussione la propria
visione culturalmente etnocentrata. Nelle parole delle operatrici che dicono la fatica dei genitori stranieri a capire
il nostro mondo, si ritrova la loro stessa fatica a tener conto del punto di vista dell’altro. Un’educatrice del nido
che riesce a immedesimarsi nella situazione di chi è straniero alle nostre consuetudini capisce che può essere difficile “riuscire ad abituarsi a ritmi costanti, orari rigidi da rispettare come quelli dell’accoglienza e ritiro del bambino”; co-
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sì un’insegnante di scuola dell’infanzia che mette in relazione molte difficoltà di adattamento ai tempi e agli impegni di lavoro – spesso precario, frammentato – alla mancanza di una rete di aiuto e supporto alle famiglie. Chi
riesce a tener conto delle diverse prospettive, la propria e quella dell’altro, afferma: “noi facciamo più fatica per la
lingua, loro per abitudini diverse dalle nostre, anche le più semplici, come quelle di cura del bambino”, e diventa quindi comprensibile l’impatto che può comportare l’incontro con “un diverso investimento sull’infanzia” quale è il nostro, che significa una diversa idea di bambino, diverse modalità relazionali, differenti metodi educativi e gesti di
cura. C’è anche chi può meglio identificarsi con loro, avendo vissuto in prima persona un’esperienza di migrazione: “Sono arrivata in Veneto dalla Calabria nel ‘91”, racconta un’insegnante, “mi sono rimboccata le maniche quando
ho cominciato a insegnare, ho dovuto impegnarmi il doppio rispetto alle colleghe di qua per dimostrare quanto valevo.
Quindi riesco a percepire come possono sentirsi loro...”.
Le educatrici dell’asilo nido, per la tipologia del servizio, hanno con i genitori rapporti più ravvicinati. La fiducia,
quando i bambini sono piccolissimi, è una questione nevralgica. Per questo “fidarsi dell’educatrice” è, secondo una
di loro, il problema più importante. Talvolta la “paura di non essere compresi e di comprendere quanto viene detto loro”, che viene segnalata da una collega, può generare incomprensioni o fraintendimenti. In mancanza di un codice linguistico comune, c’è il rischio di dare interpretazioni affrettate, semplificare ciò che può risultare poco chiaro, catalogare gesti e messaggi non verbali in maniera fuorviante e lentamente erigere steccati di diffidenza. “Gli
stranieri sono senza voce, le donne ancora di più e camminare per vie e uffici e spazi che non ascoltano è come
non avere un corpo, negarlo allo sguardo degli altri.”24
Un’educatrice asserisce in modo deciso che il problema per i genitori stranieri quando entrano nei nostri servizi
educativi è quello di “sentirsi accolti e accettati per davvero”. Ci sono infatti delle situazioni in cui la qualità dell’incontro con le famiglie porta all’instaurarsi di profondi rapporti di fiducia, di relazioni ricche di umanità. Sono
i genitori migranti a esprimere in misura maggiore la gratitudine alle insegnanti per quello che la scuola fa per
i loro figli, a confidare le loro paure per il passaggio al grado successivo “temono che i loro figli non ce la facciano ad apprendere del tutto la lingua italiana, sono spaventati dal sistema che diventa più complesso”.
LE EDUCATRICI, LE INSEGNANTI E I GENITORI STRANIERI
Si considerino ora, oltre al presupposto problema della lingua, le difficoltà che incontrano le educatrici e le insegnanti nel rapportarsi con i genitori stranieri.
Nel questionario-intervista la domanda è stata formulata nel modo seguente: Oltre al problema della lingua, lei
incontra altre difficoltà nel rapporto con i genitori stranieri? Se sì, quali?
L’intento, nella definizione e formulazione delle domande che intendevano esplorare i rapporti educatrici/insegnanti
e famiglie straniere, è stato quello di far sì che le operatrici riferissero il loro punto di vista, adottando ora una prospettiva ora un’altra.
Si è detto, analizzando il materiale relativo al punto di vista dei genitori, della difficoltà che educatrici e insegnanti
incontrano nel decentrarsi dalla propria angolatura prospettica. Molti dei problemi, infatti, là segnalati erano loro, piuttosto che dei genitori.
Dalle risposte attribuite a questa domanda sono emerse le otto categorie di seguito elencate.
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■ difficoltà di comprensione reciproca connesse alle differenze culturali;
■ difficoltà dovute alla scarsa partecipazione dei genitori, allo scarso interesse per le attività che i loro figli fanno a scuola, all’atteggiamento non collaborativo;
■ difficoltà relative alla diffidenza e sfiducia e alla mancanza di adesione ai nostri metodi educativi;
■ difficoltà oggettive, legate allo scarso tempo a disposizione per consolidare rapporti di fiducia con i genitori.
Nessun problema particolare.
Difficoltà connesse alle differenze culturali.
Scarsa partecipazione alle attività che la scuola organizza per loro.
Scarso interesse per quello che i figli fanno a scuola.
Atteggiamento non collaborativo.
Diffidenza e sfiducia da parte dei genitori.
Mancanza di adesione ai nostri metodi educativi, alla nostra idea di bambino.
Scarso tempo a disposizione per consolidare rapporti di fiducia reciproca.
Tabella 6
L’analisi quantitativa dei dati mostra che il 25% delle partecipanti alla ricerca afferma di non incontrare difficoltà
specifiche nel rapportarsi con le famiglie straniere. Più di una tra loro sostiene che le difficoltà “sono le stesse che
potrebbero esserci con genitori italiani”. Una volta scorporato il dato relativo alla risposta negativa, è stato possibile valutare la distribuzione percentuale dei valori raggiunti nelle sette categorie positive.
Difficoltà delle educatrici e insegnanti
nel rapporto con i genitori stranieri
Macroaree delle difficoltà delle educatrici e insegnanti
nel rapporto con genitori stranieri
Difficoltà di comprensione reciproca
Scarsa partecipazione alle attività scolastiche
Diffidenza e sfiducia
Scarso tempo per consolidare i rapporti di fiducia
I risposta
45,90%
26,23%
24,59%
3,28%
II risposta
0,00%
72,73%
18,18%
9,09%
Tabella 5
Categorie emerse
Difficoltà di comprensione reciproca
Scarsa partecipazione alle attività che la scuola organizza per i genitori
Diffidenza e sfiducia da parte dei genitori
Mancanza di adesione ai nostri metodi educativi
Atteggiamento non collaborativo
Scarso tempo a disposizione per consolidare rapporti di fiducia reciproca
Scarso interesse per quello che i figli fanno a scuola
I risposta
II risposta
45,90%
21,31%
18,03%
6,56%
3,28%
3,28%
1,64%
0,00%
27,27%
9,09%
9,09%
18,18%
9,09%
27,27%
L’analisi delle unità di significato date come prima risposta mostrano che, nel rapporto con i genitori stranieri, i problemi che educatrici e insegnanti sentono come più rilevanti sono attribuiti alle difficoltà di comprensione reciproca
(46%). Seguono, in ordine di apprezzabilità, le difficoltà dovute alla scarsa partecipazione dei genitori stranieri alle attività che la scuola organizza per loro (21%), quindi quelle legate alla diffidenza e alla sfiducia da parte dei
genitori (18%). Raggiungono qui valori minimi le altre categorie, alcune delle quali diventano però rilevanti nelle
unità di significato successive alla prima. Nella seconda colonna, “Scarso interesse per quello che i figli fanno a
scuola” e “Scarsa partecipazione alle attività che la scuola organizza per i genitori” superano entrambe il 28% e
l’atteggiamento non collaborativo il 18%.
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Si possono aggregare le categorie nelle seguenti macroaree (l’ultima delle quali è residuale):
La tabella mostra che la difficoltà maggiormente percepita è la scarsa partecipazione alle attività scolastiche. Esiste una differenza significativa tra le educatrici del nido e le insegnanti della scuola dell’infanzia: sono queste
ultime, infatti, a segnalare più marcatamente la scarsa partecipazione dei genitori alle attività che la scuola organizza per loro, la mancanza di adesione ai nostri metodi educativi e a rammaricarsi della mancanza di tempo
per approfondire i rapporti con le famiglie.
Le educatrici del nido, invece, lamentano maggiormente la difficoltà di comprensione reciproca e l’atteggiamento
non collaborativo. Si tratta di differenze che possono trovare una spiegazione nella diversità dei due servizi: più
“scolastico” la scuola dell’infanzia, meno strutturato didatticamente, ma più focalizzato sui gesti di cura, il nido. Meno facile interpretare le differenza relative all’età: la difficoltà di comprensione, inoltre, viene denunciata
solo dalle operatrici che hanno più di 40 anni, mentre lo scarso tempo a disposizione solo da coloro che hanno
dai 30 ai 40 anni.
Le principali difficoltà connesse alle differenze culturali. Un aspetto difficile da tollerare sembra essere quello legato ai comportamenti di genere nelle culture diverse dalla nostra. La sottomissione delle donne arabe, “che non possono uscire di casa!”, per esempio, può risultare incomprensibile ad alcune operatrici, così come
“la forte imposizione del ruolo maschile negli albanesi”. Sono atteggiamenti che vengono riscontrati già nei bambini. Dice un’insegnante: “Sono aggressivi anche i nostri, per carità, però il maschio marocchino è un po’ più prepotente. Penso che sia la loro cultura. […] Nella loro cultura il maschio è quello che prevale, più della femmina, quindi è anche
più aggressivo, vorrebbe sempre primeggiare. […] Per cui dico al bambino che vuole sempre essere il primo: ‘Aspetta’ oppure ‘Vai in fila anche tu’. Non è colpa del bambino secondo me, è proprio della cultura che hanno”. Risulta difficile anche approvare un diverso modo di interpretare i ruoli genitoriali, per esempio la gestione tutta al maschile dei rapporti con le strutture educative. Sono gli uomini di cultura araba ad accompagnare a scuola i bambini e quindi a
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mantenere i contatti con le educatrici e insegnanti. “Non solo la relazione papà bambino [è importante] ma anche con
la mamma!” esclama un’educatrice.
Lo scontro tra i differenti modelli familiari ed educativi (normativo vs affettivo) è un’altra delle difficoltà segnalate, “se un bambino funziona soltanto con le botte, tanto per capirci, solo con le punizioni… è ben diverso che coinvolgerlo, motivarlo!”. Il facile ricorso alle punizioni fisiche non è accettabile per noi. “Il bambino ha anche bisogno di
coccole, e questa è una cosa che magari nella loro cultura non c’è, non c’è il bacio, la coccola, il sorriso al mattino. Loro
hanno altre forme espressive di affetto.” In merito alla questione delle differenze culturali, occorre anche dire con le
parole di un’educatrice che “c’è la cultura del Paese d’origine in senso generale e la cultura familiare: non tutte le
famiglie che provengono dallo stesso Paese sono così. Il Marocco, il Senegal, l’Albania, come l’Italia, si differenziano
tra nord e sud, tra città e campagna...”. Alcune operatrici, tuttavia, lamentano la loro non sufficiente conoscenza
delle abitudini alimentari, delle tradizioni religiose, delle concezioni dell’infanzia e dei metodi educativi dei genitori stranieri. Tra i bisogni formativi che l’indagine intercetta, infatti, c’è quello di una maggiore conoscenza delle
altre culture.
La scarsa partecipazione alla vita della scuola. Abbiamo visto che il problema della scarsa partecipazio-
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ne dei genitori stranieri alla vita della scuola è forse l’aspetto più ostico per le operatrici intervistate. Il brano dell’intervista che segue mette bene in evidenza il punto di vista dell’educatrice e l’articolazione del suo pensiero a
tale proposito. “I genitori stranieri tendono non tanto a essere isolati dagli altri, ma loro stessi a isolarsi, a vivere un
po’ in un loro mondo. Di solito sono loro che partecipano meno alle attività del nido o alle riunioni. Ecco, sono meno presenti nella vita del nido, nella vita del loro bambino […] Mi son fatta l’idea che dipende anche da un fattore
culturale, probabilmente non sono abituati a essere partecipi della vita scolastica del bambino. Perché noi la stessa
comunicazione che facciamo agli altri la facciamo anche a loro, le stesse attenzioni che abbiamo per le altre famiglie le abbiamo anche per loro […] Io penso che sia il modo di vedere il rapporto tra genitori e figli, che magari è
diverso dal nostro, e sicuramente anche il fatto che non sono integrati nel comune dove abitano, non hanno grosse amicizie, non hanno conoscenze con gli altri genitori.”
Evidentemente la scarsa partecipazione dei genitori può avere più di una spiegazione: il problema del lavoro è la
più frequente: “hanno poco tempo, sono poco disponibili a partecipare alla vita del nido”. La maggior parte dei genitori “sono presi dal lavoro, non hanno tempo. È difficile il rispetto degli orari, di certe regole, per esempio della
regola che se il bambino sta male si tiene a casa”. Il problema delle diversità culturali, tuttavia, riemerge quando
si approfondisce la questione del “disinteresse nei confronti delle attività che i loro bambini fanno a scuola”. Per
cui se i genitori “non sono coinvolti dal progetto formativo scolastico” è perché “in alcune culture non viene attribuita importanza ai rapporti con il nido – colloqui, incontri – e quindi al mondo del bambino”. Viene manifestato
sconcerto quando l’assenza dei genitori riguarda gli incontri individuali, “a volte non si presentano, per cui ti trovi magari davanti a un problema e non hai possibilità di contatto”. Però, prosegue l’educatrice intervistata, “questa non è tanto l’esperienza della mia sezione, quanto quello che accade a livello della scuola. Perché nella mia sezione tutto sommato la situazione è abbastanza buona”. Dalle interviste emergono, infatti, rapporti con le famiglie
migranti connotati positivamente. Un’insegnante afferma di riscontrare in loro molta disponibilità: “ce ne sono che
vorrebbero avvicinarsi a noi, alla nostra cultura, ma anche noi alla loro. Anche noi dobbiamo fare un passo in più
nei loro confronti”. Per avere la loro collaborazione è fondamentale “trovare le parole giuste, avvicinarli nel modo
giusto” con tatto e sensibilità. E racconta di come è riuscita con una mamma marocchina a parlare dei libri che ci
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sono nelle loro case, “allora lei mi tira fuori dalla borsetta un Corano proprio piccolino, che non avevo mai visto un
libro così piccolo”. Commenta la sua sorpresa aggiungendo, “perché io che sono cristiana non è che porto la Bibbia nella borsa, no? […] ‘Fammi vedere’ ho detto e ho preso a sfogliarlo. Ma lei mi fa: ‘No guarda bisogna sfogliarlo
dalla fine’ e allora mi ha spiegato che loro leggono da destra a sinistra. Quindi ho imparato anch’io alcune cose”.
La diffidenza e la sfiducia dei genitori. Una non irrilevante percentuale di unità di significato riguarda la diffidenza e la sfiducia che educatrici e insegnanti percepiscono nei loro confronti da parte dei genitori stranieri e la
mancanza di adesione ai nostri metodi educativi. Scrivono che “a volte sono più diffidenti rispetto ai genitori italiani”.
Gli atteggiamenti difensivi spesso coprono sentimenti di inadeguatezza, di ansietà di fronte ad un servizio che non
si conosce bene, ma dal quale si dipende. Nascondono il timore, la paura di essere giudicati, “in modo particolare i
marocchini credono che gli italiani, come siamo chiamati noi, non accettino il loro stile di vita”. Per la maggior parte delle famiglie migranti, infatti, l’inserimento del bambino al nido e alla scuola dell’infanzia sono dettati non tanto da
una scelta quanto dal bisogno. Essere madri in un Paese lontano da quello di origine non è facile, spesso non c’è
nessuno a cui affidare i bambini, nessuna donna della propria famiglia con cui parlare della crescita dei figli. La necessità è dunque alla base di “una richiesta e di un comportamento che presentano caratteristiche di discontinuità rispetto alla storia familiare e costituiscono un evento di rottura nella modalità fino ad ora praticata nella cura
dei piccoli”.25 Nei loro Paesi d’origine i servizi educativi rivolti alla prima infanzia sono scarsissimi e con ogni probabilità sconosciuti ai genitori emigrati; quelli prescolastici sono molto diversi dai nostri. Occorre dunque tener conto che l’atteggiamento con il quale le famiglie migranti approcciano le nostre strutture educative può essere fortemente contrassegnato da ansie, timori, fantasie di perdita del proprio patrimonio culturale che restano per lo più
inespressi. Se gli stili di allevamento e cura dei piccoli che loro conoscono vanno nella direzione del bambino figlio
della comunità (familiari, parenti, vicini di casa), nel nostro mondo tutto questo per loro risulta impossibile. E non
solo per loro. Nel tempo del declino della comunità, sono i servizi educativi a sostituire le reti familiari e di vicinato, strutture formali che tendono non solo a segregare i bambini per classi di età, ma anche a perimetrale in modo
netto – e non solo in senso fisico con accessi regolamentati – il confine tra lo scolastico e il familiare. Molte delle
difficoltà lamentate dalle educatrici e dalle insegnanti possono essere ricondotte al disorientamento delle famiglie
che arrivano da Paesi in cui non esistono le strutture educative della prima infanzia e le relazioni maestro-allievo
sono regolate da codici comportamentali molto diversi dai nostri attuali.
Per i genitori migranti il problema è quello di interagire con visioni del mondo e regole diverse, con valori estranei e questo può sollevare dolorosi sentimenti di spaesamento e di inadeguatezza. Allora molte cose devono essere messe da parte per poter stare qui, molte cose non possono essere pensate. “Nella rottura con il mondo che
si lascia per migrare e nell’urto del contatto con il nuovo mondo”26, facilmente si producono ferite, ferite difficili
da curare che il silenzio può coprire e renderle in tal modo invisibili anche a se stessi. Chiusura, indifferenza possono quindi diventare strategie per far fronte al dolore e alla sofferenza.
LE PRATICHE DIDATTICHE PER L’APPRENDIMENTO
DELLA LINGUA ITALIANA
Una domanda di ricerca ha esplorato l’ambito delle pratiche didattiche relative all’inserimento linguistico dei bambini. Le educatrici e le insegnanti nei servizi dell’infanzia si avvalgono di specifiche strategie per favorire l’ap-
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prendimento della lingua italiana nei bambini stranieri?
La tabella 7 illustra le pratiche che le operatrici hanno dichiarato nelle risposte dei questionari-intervista.
Tabella 7 Pratiche
didattiche per favorire l’apprendimento
della lingua italiana
Categorie emerse
Denominare oggetti, immagini, azioni
Riservare particolare cura agli aspetti para-verbali del linguaggio
Lettura di libri
Attività di laboratorio linguistico organizzate a livello di Piano dell’Offerta Formativa (POF)
Giochi strutturati
Tutoring: mediazione di altri bambini
Osservazione
TOTALE
%
42%
22%
20%
8%
4%
3%
1%
100%
La denominazione di cose e azioni. La pratica che risulta maggiormente indicata (42% dei casi) riguarda
la denominazione ripetuta da parte dell’educatrice e insegnante degli oggetti, delle immagini, delle azioni concrete in modo che i bambini possano imparare l’associazione suono-significato. Le canzoni, i canti mimati e le filastrocche rappresentano pratiche molto diffuse nei contesti prescolastici attraverso le quali, in forma ludica e motoria, vengono consolidati gli apprendimenti linguistici. È evidente come l’attenzione sia centrata sugli aspetti della comprensione della lingua, comprensione che sappiamo precedere e influenzare la produzione linguistica successiva. Un po’ sorprende che a questo secondo aspetto, quello conversazionale, non venga fatto alcun riferimento.
Solo un’insegnante scrive – parlando al plurale e quindi riferendo una pratica pensata e condivisa dalle colleghe
– che ai bambini stranieri viene riservata un’attenzione speciale: “[li] ascoltiamo molto, e li stimoliamo a esprimersi
con noi e con i compagni”.
Molto interessanti le osservazioni di un’insegnante che ha una lunga esperienza di educazione interculturale. “Nel
momento in cui in classe c’è un bambino straniero metti in atto delle strategie di lavoro che non utilizzeresti se non
ti trovassi in quelle condizioni. Usi i giochi in una certa maniera, scegli storie che siano semplici e con immagini accattivanti, tutto cambia: come fai il calendario, l’appello, la conta, come batti le mani – con cucchiai, maracas… –
[…] anche per i bambini italiani questo è molto positivo perché si pone molta più attenzione alle strategie di apprendimento e di gioco. Fa sicuramente molto bene anche a loro.” Anche dal punto di vista delle pratiche didattiche attivate, quindi, la presenza dei bambini stranieri può rivelarsi un’opportunità per i bambini italiani.
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L’attenzione agli aspetti paraverbali del linguaggio. Il 22% delle risposte mette l’accento sull’importanza che svolgono gli aspetti paraverbali nella comprensione della lingua e indica gli accorgimenti particolari che le
operatrici riservano a tali aspetti: parlare con calma, scandire bene le parole, fare attenzione al tono della voce,
accompagnare le parole con i gesti. Con i bambini stranieri, dice un’insegnante: “Devo mettermi in una relazione
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di spiegazione quasi frontale, perché il bambino deve guardarmi bene il labiale, in modo che io riesca a essere più
chiara … e vado comunque piano con i bambini, posso andare quasi al rallentatore, proprio perché tutti mi seguano
e possano capirmi, anche quelli che non sono stranieri e hanno difficoltà”.
È interessante sottolineare come sia la ripetuta denominazione sia l’attenzione agli aspetti paraverbali del linguaggio
siano pratiche che non possono essere considerate specifiche per l’insegnamento/apprendimento della lingua italiana come seconda lingua. Alcune educatrici, infatti, lo esplicitano, affermando che la consuetudine di ripetere più
volte e lentamente le parole non è un accorgimento riservato solo ai bambini stranieri, ma anche a quelli italiani.
Non viene invece esplicitato il riferimento al ruolo decisivo che svolgono le relazioni tra pari nell’acquisizione e nello sviluppo della competenza linguistica (sia L1 sia L2), soprattutto nell’età della scuola dell’infanzia. Il naturale
desiderio di comunicare tra bambini, le esperienze di gioco rappresentano una spinta motivazionale importante e
un contesto sociale decisivo per lo sviluppo di quella che viene definita la competenza pragmatica del linguaggio.
La competenza “pragmatica, che è parte della più ampia competenza comunicativa, include principalmente due
aspetti: lo sviluppo della capacità di conversare e lo sviluppo della capacità di tener conto del punto di vista dell’ascoltatore e dei suoi bisogni comunicativi”.27 Favorire l’interazione tra pari in modo pensato e con la consapevolezza dell’importanza del curricolo sociale potrebbe essere un’ottima strategia per l’integrazione non solo linguistica dei bambini stranieri. Ovviamente, per lo sviluppo linguistico, quando i bambini italiani presenti nel gruppo sono una minoranza viene a mancare una risorsa importante, questa volta a svantaggio dei bambini stranieri.
Al controllo della significatività, più variabili danno esiti positivi. La denominazione è una pratica prevalentemente usata al nido e dalle operatrici più giovani (età inferiore a 40 anni). Sono ancora le operatrici più giovani a porre un’attenzione più rilevante agli aspetti paraverbali e questo avviene in misura maggiore nelle sezioni in cui la
presenza di bambini stranieri è inferiore al 20% del totale. La lettura di libri, invece, si riscontra soprattutto nelle
situazioni in cui tale percentuale supera il 40%. Sono le insegnanti della scuola dell’infanzia con più di 40 anni di
età che ricorrono a giochi strutturati ed è solo in questa struttura che si attivano laboratori linguistici.
Un fattore che sicuramente può incidere sull’apprendimento della lingua italiana è quello della discontinuità nella frequenza scolastica. Il ritorno, a volte per periodi anche lunghi, nel Paese d’origine dei genitori rappresenta un
ostacolo all’apprendimento della nostra lingua. Vi accenna un’insegnante intervistata, sottolineando positivamente
la capacità dei bambini stranieri di far fronte ai continui cambiamenti. “Sono bravi, sono più elastici di noi. A volte vanno giù in Marocco nel periodo di Natale e stanno via anche uno o due mesi, poi ritornano, quindi [devono]
ambientarsi di nuovo, anche per quanto riguarda la lingua, quello che hanno imparato rischiano di perderlo.”
Le mediazioni possibili. Le interviste hanno offerto un approfondimento interessante della categoria “mediazione
di altri bambini” (circa 9% delle risposte successive alla prima). Un’insegnante riferisce di come sia difficile il primo approccio con i bambini cinesi. “Allora se c’è un bambino cinese che ha una buona padronanza della lingua
italiana, possiamo avvalerci di lui o di lei come mediatore linguistico. Si creano delle situazioni che fanno ridere, perché magari noi diciamo una parola e questo per tradurla ne dice cinquanta, oppure noi facciamo un discorso un
po’ complicato, un po’ complesso e lui in una parola liquida tutto. Non abbiamo un riscontro se il messaggio è arrivato ‘giusto’. Non si capisce bene come funzioni, però a volte funziona ed è anche questa una mediazione.”
Dalle interviste emergono attenzioni più specifiche che, tenendo maggiormente conto degli aspetti affettivi, sono
volte a creare dei ponti tra il mondo scolastico e quello familiare: la mediazione della lingua straniera nota ai bambini (se conosciuta dalle operatrici), l’uso di semplici frasi o parole nella loro lingua madre. “Se parlano anche una
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Consigli ai genitori riguardo all’uso della lingua in famiglia
Il bambino parla con i genitori nella lingua materna?
lingua straniera che conosco” dice un’insegnante, “cerco di ripetere la parola, prima in questa lingua e poi in italiano”. Un’educatrice del nido è solita chiedere ai genitori qualche parola che inizialmente la “aiuti ad entrare in
contatto col bambino, soprattutto parole che loro usano in famiglia e relative ai bisogni primari”.
35%
Grafico 5
L’i
ta
lia
no
45%
40%
30%
35%
25%
20%
15%
10%
05%
00%
La
lin
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65%
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NO
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a
Il supporto dei libri. Anche i libri possono favorire l’apprendimento linguistico (20%). Ciò che viene evidenziato in questo contesto è l’importante supporto che essi forniscono attraverso le immagini. La possibilità di denominare oggetti, azioni, contesti, situazioni viene enormemente ampliata dai libri, che riproducono in modo iconico realtà altrimenti non disponibili. Un’insegnante di scuola dell’infanzia intervistata segnala la difficoltà data
dalla carenza di fondi per l’acquisto di libri. Le storie e le fiabe di culture diverse “le scarichiamo da internet, però
non sono supportate da immagini. Per noi questo è un grosso problema perché è indispensabile ricorrere alle immagini per leggere storie, per parlare, per costruire frasi e questo vale sia per i bambini stranieri che per quelli italiani, ne abbiamo molti con difficoltà di linguaggio. […] Se non ci sono immagini e le storie sono troppo lunghe, i
bambini fanno molta fatica a comprendere”. Con le immagini si arriva a loro nella maniera più immediata “e poi
dall’immagine alla drammatizzazione il passo è più semplice. La prima volta il bambino straniero può non accettare di assumere un ruolo, perché non si sente pronto oppure non vive la cosa così serenamente, ma se non è la volta successiva, sarà la terza volta, comunque vedo che tutti i bambini di qualsiasi etnia, cinesi, macedoni e senegalesi, tutti ci vengono dietro”.
SÌ
L’ATTEGGIAMENTO NEI CONFRONTI DELLA LINGUA MATERNA
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Per i bambini stranieri la costruzione della propria identità personale è un percorso complesso. Essi si trovano a
dover tenere dentro di sé due mondi talvolta anche molto differenti; quello familiare, le cui profonde radici e ramificazioni sono altrove, e quello scolastico nel quale pure essi intrecciano legami e relazioni significative. Il conflitto identitario, che queste generazioni devono affrontare, nasce proprio dalla doppia appartenenza: da un lato
alla famiglia che tende a conservare la propria cultura, le proprie usanze e tradizioni religiose, dall’altro il nuovo
contesto scolastico che richiede di adattarsi, socializzare e apprendere aderendo ai valori del Paese ospitante. Non
è facile conciliare messaggi e richieste differenti, a volte contraddittori: il rischio è quello di non sapere bene a chi
e a che cosa si appartiene. Perché il bambino possa armonizzare dentro di sé in modo originale i diversi riferimenti
culturali è necessaria “una doppia autorizzazione”28 da parte della famiglia, che accetta cambiamenti e trasformazioni e da parte della scuola che riconosce, legittima e valorizza i differenti riferimenti culturali. È la legge italiana che disciplina l’immigrazione (Legge n. 40 del 1998) a stabilire questo. Recita infatti l’articolo 36: “La comunità
scolastica accoglie le differenze linguistiche e culturali come valore, promuove e favorisce iniziative volte all’accoglienza, alla tutela della cultura e della lingua d’origine”.
La lingua è un sistema che dà forma al mondo, un veicolo di interiorizzazione e di espressione di valori e codici
culturali; “la lingua è simile a un prisma attraverso il quale si vede il mondo, con essa ci si muove nel mondo, comportandosi in un modo o in un altro”.29
Poiché la lingua è un veicolo fondamentale della cultura, abbiamo esplorato le opinioni e le pratiche delle operatrici in merito al riconoscimento e alla valorizzazione del patrimonio linguistico del bambino. Sono solite le educatrici e insegnanti parlare della lingua materna con i genitori? Dare consigli circa il suo uso in famiglia?
La grande maggioranza delle educatrici e delle insegnanti (65%) che hanno risposto al questionario-intervista risponde negativamente a questa domanda, o perlomeno afferma di entrare nel merito di questo argomento solo
raramente. Dagli enunciati che accompagnano le risposte negative, si evince talora una sorta di pudore a entrare
nel mondo familiare, come bene illustrano le affermazioni che seguono. Dice un’insegnante di scuola dell’infanzia: “Di solito non do consigli su come i genitori devono comportarsi con i loro figli. Sono comunque del parere che
è un bene che i bambini mantengano in casa l’uso della loro lingua materna” ed un’educatrice di nido: “Non do
consigli, credo sia una cosa troppo intima che non richiede invadenze”. Alcune affermazioni attestano come il problema della lingua materna non sia ritenuto così importante da parte delle operatrici e al contempo mostrano un’implicita svalorizzazione: “nelle assemblee, se capita, viene detto di usare la lingua madre senza sentirsi in colpa”.
D’altro canto, se entriamo nel merito delle risposte positive (vedi parte azzurra del grafico 5), scopriamo che i consigli che vengono dati sull’uso della lingua nel contesto familiare si ripartiscono in questo modo: per il 45% delle operatrici a favore di entrambe le lingue, il 41% a favore della lingua materna e il 14% a favore dell’italiano.
Questo dato evidenzia che solo il 15% delle educatrici e insegnanti intervistate manifesta un atteggiamento chiaramente positivo nei confronti della lingua d'origine. Riportiamo alcune affermazioni per esemplificare le diverse
posizioni. Scrive un’educatrice che cerca “di far capire ai genitori che è utile che a casa parlino in italiano con il bambino”. È evidente, infatti, la preoccupazione per un adeguato apprendimento della lingua italiana, ai fini dell’integrazione a scuola. “Magari incoraggio a parlare di più la nostra lingua perché aiuta il bambino a inserirsi nel gruppo”. In altri casi emerge l’idea che sia opportuno mantenere una separazione tra il mondo scolastico e quello familiare, per cui si consiglia “di usare le due lingue a seconda dei due diversi ambiti, rafforzando il bilinguismo”.
Riteniamo che la possibilità per i genitori migranti di sentire riconosciuta e valorizzata la propria lingua dipenda
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molto dagli atteggiamenti e dalle prese di posizione delle educatrici e delle insegnanti. l bambini stranieri nel nostro Paese rischiano di sviluppare quello che viene definito semilinguismo: essi apprendono a scuola la lingua del
Paese in cui vivono, lingua socialmente valorizzata, e continuano a parlare in famiglia la loro prima lingua, alla quale la società non attribuisce nessun valore. L’apprendimento della seconda lingua avviene così a scapito della prima e in nessuna delle due lingue vengono raggiunte competenze linguistiche complete.30 Mantenere la lingua materna all’interno della propria casa è molto importante anche perché risulta fondamentale per l’apprendimento di
una seconda lingua.
Le interviste evidenziano un diffuso riconoscimento da parte delle operatrici dell’importanza per il bambino di conoscere e conservare la lingua materna. C’è consapevolezza del fatto che, anche per i genitori, perdere la propria lingua significa perdere la propria origine, la propria identità. La lingua rappresenta la continuità con la propria cultura, con le proprie radici: “è un bagaglio importantissimo” della loro identità personale e poi “comunque a loro serve
nei momenti in cui ritornano nel loro Paese”. Per di più la lingua madre rappresenta la lingua degli affetti, “io dico
sempre ai genitori che a casa devono parlare la loro lingua perché non si può dire in italiano ‘ti voglio bene’ a un bambino, con lo stesso tono che avrebbe nella sua prima lingua. Io lo dico in dialetto ‘te voio ben’ perché è così che lo sento dentro […]”. Emerge anche la preoccupazione nei confronti della scelta da parte di alcuni genitori di “italianizzare” il nome del proprio figlio. “Un’altra cosa che diciamo ai genitori è che per noi è fondamentale che chiamino i loro figli con i nomi che hanno dato loro nella lingua d’origine. I cinesi soprattutto, ma anche gli africani danno ai bambini un nome italiano, per facilitarci. Invece noi ci teniamo che sia riconosciuto il loro nome, nella loro lingua.”
Un’insegnante racconta di come i bambini a scuola siano molto riluttanti a parlare nella loro lingua. Capita qualche volta sentirli parlare tra di loro nel gioco, un gruppetto di tre o quattro provenienti dallo stesso Paese magari
dopo che hanno trascorso insieme l’ora di attività alternativa (alla religione cattolica). “È bello sentirli. A volte intervengo e dico: ‘Ma guarda che siamo in Italia, dobbiamo parlare in italiano’. Oppure dico: ‘Fammi imparare qualche parolina’ […] Chiedo non so, come si dice palla. E loro stanno zitti, non dicono niente. Come se la lingua non la sapessero,
come se fosse una cosa che non devono fare. E son bambini piccoli […]. Davvero in tanti anni non sono mai riuscita a tirar fuori una parola, mai. A me piacerebbe imparare qualche parola per metterli anche a loro agio. […] Ho avuto i colloqui individuali poco tempo fa e ho chiesto a una di queste mamme: ‘Ma perché sua figlia non mi insegna? Glielo dica che
voglio imparare la vostra lingua’. Perché è bello… loro sanno l’italiano, vorrei sapere anch’io qualche parola marocchina.
Allora lei mi ha risposto: ‘Glielo dirò’. Adesso vediamo perché ho appena parlato di questa cosa”. Questa intervista testimonia un atteggiamento molto frequente nei bambini stranieri che, per essere accolti nel nuovo ambiente, si fanno “muti” nella loro lingua madre con il rischio di perderla definitivamente.
LA VALORIZZAZIONE DELLA CULTURA E DELLA LINGUA
D’ORIGINE NEI SERVIZI DELL’INFANZIA
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Iniziative in atto negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia
per la valorizzazione della cultura e della lingua d’origine
Tabella 8
TIPOLOGIA
Nessuna
Progetti per conoscere tradizioni, usi e costumi
Interventi occasionali di mediatori culturali
Laboratori interculturali di lettura
Laboratori linguistici
Scaffali interculturali
Modulistica in lingue diverse
%
66,23%
12,99%
9,09%
3,90%
3,90%
2,60%
1,30%
Prevale l’assenza di iniziative, dichiarata nel 66% dei casi. Laddove sono in atto attività finalizzate alla valorizzazione delle differenze culturali, riguardano progetti volti ad approfondire la conoscenza di aspetti culturali legati
alla cucina, agli usi e alle tradizioni di altri Paesi. In alcune realtà scolastiche è una pratica consolidata il coinvolgimento delle famiglie dei bambini, non solo stranieri, per il recupero di storie (anche in dialetto veneto dai nonni), canti, giochi, cibi tradizionali. Un’insegnante esprime la sua opinione in merito all’iniziativa: “il fatto che alcune mamme siano venute nella scuola, ha forse rinforzato anche l’autostima dei loro figli, perché ha valorizzato un loro
modo di essere, la loro diversità, così come quando noi andiamo a riconoscere che ci sono modi diversi di scrivere, religioni anche differenti e tutte comunque accettabili. […] E il fatto che noi ci mettiamo a parlare e che tutti possono parlare di che cosa pensano loro, anche a proposito di Dio – come lo chiamano loro, cosa ne pensano e via di seguito – anche questo crea una relazione tra di loro e consente anche opinioni diverse, il fatto che il bambino si senta anche sereno
nel parlarne, […] questo è senz’altro positivo”.
Gli interventi dei mediatori linguistici e culturali appaiono in misura assai ridotta e dalle interviste emerge che
la loro presenza è non solo occasionale, ma spesso intempestiva. I laboratori che sono stati attivati in alcune realtà riguardano percorsi linguistici rivolti ai bambini oppure percorsi di lettura a carattere interculturale rivolti ai
genitori.
Dalle interviste emerge chiaramente che, per attivare e sostenere nel tempo questo genere di iniziative, è fondamentale una progettualità di rete che coinvolga oltre alle istituzioni educative i diversi attori sociali presenti sul
territorio. Dalle risposte, oltre che dalle interviste, si evince che le educatrici e le insegnanti dispongono davvero
di scarse risorse. Oltre a una richiesta implicita di sostegno nel complesso lavoro di tessitura dei rapporti con le
famiglie migranti, il cui presupposto fondamentale è una comunicazione chiara e culturalmente appropriata, si intercetta un bisogno diffuso di formazione, che in più di un caso si fa esplicita domanda.
L’ultima domanda del questionario-intervista era posta per conoscere se e quali iniziative venissero promosse nel
nido e nella scuola dell’infanzia in favore della cultura e della lingua delle famiglie provenienti da altri Paesi. È sem-
LE QUESTIONI APERTE E LE NUOVE DOMANDE DI RICERCA
brato interessante rilevare la dimensione di attenzione alle culture altre in realtà territoriali caratterizzate da una
forte presenza di bambini stranieri. La tabella mostra le categorie individuate per l’analisi delle risposte e il relati44
vo valore percentuale raggiunto.
Queste considerazioni conclusive hanno lo scopo di richiamare solo alcuni dei problemi toccati dalla ricerca che
si mostrano fecondi di ulteriori approfondimenti.
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I BAMBINI STRANIERI IN ITALIA - Accogliere Capire Educare
La presenza dei bambini stranieri nei servizi dell’infanzia. Le classi/sezioni in cui operano le partecipanti alla ricerca presentano, per quanto riguarda l’incidenza di alunni stranieri, concentrazioni disomogenee: complessivamente la percentuale media si attesta su un valore molto alto, attorno al 25%. Per la scuola dell’infanzia,
nella quale si registrano le percentuali più elevate, si tratta di difficili “condizioni di esercizio” in alcune realtà rese ancor più problematiche a causa delle scarse risorse disponibili (materiali, umane e professionali). I risultati dell’indagine vanno quindi considerati in relazione al particolare contesto di riferimento.
Rispetto alle rappresentazioni e ai giudizi che educatrici e insegnanti hanno manifestato in merito alla presenza
di bambini di altre culture nel proprio gruppo classe/sezione, emerge una visione dicotomica: problematica per circa la metà delle operatrici intervistate (44%), positiva per l’altra (quasi) metà (42%). Le maggiori difficoltà rilevate sono a carico delle operatrici che segnalano un maggiore impegno sul piano didattico e ostacoli a livello di comunicazione linguistica con i bambini. Il problema della lingua è del resto la più importante difficoltà che esse percepiscono nei bambini (in modo particolare con i bambini cinesi), connessa alla fase iniziale del loro inserimento.
Gli aspetti positivi maggiormente messi in luce sono l’arricchimento reciproco derivante dall’incontro di culture ed
etnie diverse, e in particolare l’opportunità per i bambini di crescere confrontandosi fin da piccoli con la diversità.
46
Come sono dunque percepiti nei servizi dell’infanzia i bambini di altre culture? Potremmo dire come bambini-risorsa o come bambini-problema. Si tratta di una rappresentazione che non si discosta molto da quella rilevata nei
contesti della scuola primaria e secondaria,31 di cui hanno dato conto alcune ricerche condotte negli scorsi anni.
Da queste emerge infatti che l’alunno straniero – soprattutto se di recente immigrazione – può essere considerato “problematico e suscitatore di ulteriori problemi sia per l’insegnante, che si sente chiamato ad un ulteriore sforzo e impegno senza magari avere la preparazione necessaria, sia per la classe nel suo complesso, nel senso che
può far perdere tempo e rallentare il programma”. Di segno opposto la rappresentazione dei bambini stranieri come ambasciatori di culture altre, testimoni viventi di altri mondi, usi, costumi e tradizioni.
Ci siamo chiesti, nell’approfondire l’analisi della rappresentazione del bambino-risorsa, a vantaggio di chi andasse l’arricchimento portato dalla differenza e ci è sembrato di poter rilevare una latente propensione a vedere le cose da un determinato punto di vista. I bambini stranieri sono una risorsa per la classe e gli altri compagni che entrerebbero così in contatto dal vivo con differenti identità culturali.
L’indagine ha consentito la focalizzazione di ulteriori questioni a proposito dell’integrazione dei bambini stranieri. Una riguarda l’idea piuttosto diffusa che la loro integrazione avvenga con facilità. È molto vero che i bambini
sono naturalmente predisposti ad allacciare relazioni con altri bambini, sono attratti dai loro pari fin da piccolissimi, ma sappiamo bene che questa spinta naturale e spontanea subisce ben presto i condizionamenti degli adulti.
Non si può dimenticare che il bambino dipende profondamente dall’adulto, dai propri genitori innanzitutto. La dipendenza dalle insegnanti viene sottolineata in più di una intervista: “i bambini non sono di per se stessi una risorsa”. La possibilità di arricchimento dipende dall’azione consapevole e intenzionale dell’insegnante. La connotazione positiva o negativa della diversità dipende sempre dall’adulto che gestisce il gruppo, dal modo in cui egli
sente e vive il rapporto certamente non facile con il diverso, soprattutto quando il diverso è molto diverso. Vigilare su questi aspetti attraverso la consapevolezza di sé e delle proprie precomprensioni è conditio sine qua non perché la scuola diventi davvero un laboratorio privilegiato dell’integrazione, altrimenti essa non farà che riprodurre
gli stereotipi culturali esistenti che incasellano l’altro in una semplificata e anonima diversità. Nei servizi dell’in-
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fanzia abbiamo a che fare con un’età che è assolutamente decisiva per la crescita dei bambini; i processi educativi e di integrazione andrebbero quindi meglio esplorati anche con osservazioni mirate.
Sono interessanti le considerazioni delle operatrici che ritengono la presenza dei bambini stranieri una risorsa per
l’insegnante perché mettono in evidenza come la valorizzazione delle differenze sia in realtà una pratica trasversale che va a vantaggio di tutti i bambini. “Tutto cambia in classe quando c’è un bambino straniero”; i bambini
stranieri possono prepotentemente porre il problema dei limiti di una scuola che fa della parola il perno attorno
al quale girano tutte le attività. Ma il codice linguistico non è che uno dei cento linguaggi dei bambini, per cui l’ampliamento degli orizzonti didattici e delle nuove opportunità comunicative non può che risultare positivo per tutti i bambini.
Il rapporto con le famiglie. Abbiamo detto quanto non sia possibile nell’infanzia tenere separato il bambino dall’adulto. Il rapporto tra gli adulti è pertanto fondamentale nei servizi educativi. Il problema reale e più avvertito dalle operatrici, quello delle difficoltà di comunicazione linguistica, sembra modularsi secondo la prospettiva di un’istituzione autocentrata che tende prevalentemente a dire piuttosto che ascoltare. Sono interessanti gli
spunti che emergono a proposito delle difficoltà connesse alle diversità culturali. La nostra visione occidentale del
mondo, antica e forte di tradizioni, spesso ci impedisce di cogliere i valori profondi insiti nelle altre culture, con il
rischio di non vedere quanto silenziosamente hanno da darci. Per cui, per definire nel più ampio contesto la tendenza dei processi di acculturazione in atto, sembra più adeguato il termine assimilazione piuttosto che integrazione culturale.
Andrebbe approfondito il problema diffusamente lamentato della scarsa partecipazione alla vita della scuola, attraverso l’esplorazione delle diverse concezioni dell’infanzia, della scuola e dei metodi educativi. In molte culture
extraeuropee, l’autorità dell’insegnante sull’educazione dei figli è indiscussa, pertanto i colloqui con le famiglie e
le richieste di partecipazione possono non essere comprese. Per coinvolgere i genitori stranieri sono richieste altre modalità, è necessario che vengano creati contesti meno formali di incontro, occasioni di reciproca comprensione, anche indipendentemente da ciò che i figli fanno a scuola. Emerge da qualche testimonianza che la presenza delle famiglie migranti può dare alle operatrici l’opportunità di rivedere anche i rapporti con i genitori italiani, impostandoli su registri nei quali a incontrarsi non sono tanto i ruoli, quanto le persone. È interessante tuttavia segnalare come i problemi dell’integrazione dei genitori stranieri offrano lo stimolo per ripensare più in generale ai rapporti tra scuola e famiglia. La grande crisi educativa che attraversa il nostro tempo impegna tutte le
istituzioni (di ogni ordine e grado) alla ricerca di nuove e non formali alleanze con le famiglie, oggi indispensabili se si ha a cuore la crescita delle nuove generazioni.
Un prerequisito essenziale per risolvere i problemi di comunicazione e comprensione è la presenza nei servizi dei
mediatori linguistico-culturali. L’indagine registra che anche in questa direzione le risorse sono minime, inadeguate
rispetto alla realtà dei contesti in cui le educatrici e le insegnanti si trovano a operare. Potrebbe quindi suonare
come utopistica l’idea, scaturita dalle riflessioni sugli esiti della ricerca, che la mediazione potesse essere svolta
da maestre provenienti da altri contesti culturali, maestre viaggianti da un plesso all’altro, da un servizio all’altro.
Sarebbe un interessante confronto sulle differenze culturali a livello di educatori adulti.
I bisogni formativi. La ricerca, nel cogliere le difficoltà delle operatrici, intercetta un diffuso bisogno di formazione. Quale formazione? La domanda esplicita va nella direzione di una richiesta di un maggiore approfondimento
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della conoscenza delle altre culture; alcune operatrici mostrano un autentico interesse e curiosità nei confronti di
ciò che è lontano da noi. Si tratta di una giusta esigenza che non deve far dimenticare che a essere cruciale è la
realtà dell’incontro con l’altro-diverso nella sua dimensione relazionale. “Come lasciamo interrogare i confini delle nostre pratiche di operatrici e operatori quando esse si incontrano con sconosciute concezioni di identità, di relazione, di apprendimento, e più radicalmente di senso dell’esistenza?”32 La diversità può rappresentare un problema da evitare piuttosto che una ricchezza. Affinché lo possa diventare, occorre mantenersi aperti a vedere e ascoltare quello che non sappiamo ancora, lasciare che l’altro esista nella sua irriducibile alterità: solo da un siffatto confronto la diversità può trasformarsi in differenza. Per poter fare spazio all’altro occorre fare un passo indietro, prendere consapevolezza delle nostre griglie mentali, della nostra arroganza e della difficoltà tutta umana di affrontare ciò che ci è estraneo.
Riflettere sulle rappresentazioni, sulle precomprensioni diventa quindi un momento irrinunciabile al quale ancorare percorsi di crescita professionale, in modo particolare quando essi si muovono nella direzione dell’intercultu■
ralità perché si tratta in fondo di trovare “uno sguardo diverso non solo sull’altro, ma con l’altro”.33
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Note metodologiche
A GUIDARE IL PROGETTO DI RICERCA è la prospettiva fenomenologica. Il presupposto di fondo di una ricerca fenomenologicamente orientata è che il ricercatore avvicini l’oggetto di indagine mettendo tra parentesi (epoché)
le sue presupposizioni e le sue ipotesi. È la postura del ricercatore ciò che caratterizza il metodo fenomenologico, postura che si qualifica come una disposizione ricettiva, un atteggiamento scevro da preconcetti e volto a lasciarsi guidare “dalle cose stesse”, possibile solo se si rinuncia a guardarle dal proprio punto di vista e se si esercita una vigilanza continua sui propri pensieri. Si definisce questa postura – irrinunciabile al ricercatore fenomenologo – “autocomprensione epistemica”.34 essa consiste nella pratica dell’autoriflessione, il cui fine è portare alla luce ciò che tende ad accadere tacitamente, poiché solo quando un processo è reso esplicito, può essere compreso ed eventualmente modificato. Una ricerca così impostata non parte dalla formulazione di ipotesi, ma dall’individuazione di un’area di indagine e dalla successiva e progressiva focalizzazione della domanda di ricerca.
È a questo punto che si decidono il metodo e gli strumenti attraverso i quali raccogliere il materiale di ricerca. Nel
nostro caso si è optato per una prospettiva metodologica che viene definita approccio multimetodologico (multi-method approach), che individua più di una modalità di raccolta dei dati, in modo da disporre di una varietà differenziata di informazioni. A tal fine la ricerca si è avvalsa di due strumenti, utilizzati secondo un impianto metodologico a imbuto: un questionario-intervista nella prima fase e una intervista a bassa strutturazione in quella successiva. Con il questionario-intervista, si è inteso raccogliere dati interpellando un numero consistente di persone (tutte le partecipanti al Progetto formativo). Con l’intervista, si è voluto approfondire le domande di ricerca rivolgendosi ad un numero ristretto di operatrici.
Il questionario-intervista è stato somministrato a tutte le persone che hanno aderito al Progetto “Leggere per Crescere - Intercultura” in uno degli incontri iniziali. Il questionario si compone di due sezioni: la prima raccoglie informazioni sulle partecipanti in merito all’età, al curriculum formativo e professionale, alla tipologia di servizio in
cui esse operano; rileva inoltre, nelle classi/sezioni di titolarità delle partecipanti, l’incidenza della presenza di bambini di origine straniera e il loro Paese di provenienza. Nella seconda sezione, con sette domande-stimolo, il questionario si propone di esplorare i nuclei tematici sopra illustrati. Per domande-stimolo si intendono domande non
solo a risposta aperta ma aprenti: domande che focalizzano l’attenzione su determinati ambiti e, stimolando la
riflessione, schiudono prospettive generative di nuovi approfondimenti. I risultati di un’indagine così impostata
dovrebbero far nascere ulteriori e nuove domande, in una prospettiva ricorsiva mai conclusa. Ad ogni domanda
è stato riservato uno spazio grafico piuttosto ampio, per permettere di rispondere anche in modo esteso. Alcune
domande sono volte a capire come l’intervistato percepisca le cose, il modo in cui le vive; altre a esplorare alcune pratiche, a raccogliere informazioni per organizzare i dati in un quadro coerente. Quando si mette a punto uno
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quindi sottoposti ad un’analisi di statistica descrittiva (frequenze, media aritmetica, scarto quadratico medio) e ad
un’analisi inferenziale (tabelle di contingenza e Chi-quadro) per verificare l’esistenza di differenze significative rispetto alla tipologia del servizio (nido vs scuola dell’infanzia), all’età delle operatrici, alla numerosità dei bambini
stranieri presenti nel gruppo sezione.
L’analisi dei dati è stata effettuata anche attraverso l’aggregazione di categorie in macrocategorie. Per quanto riguarda le interviste, si è proceduto con una modalità di conduzione non direttiva. Alle intervistate, prima di iniziare
il colloquio, è stato comunicato nuovamente lo scopo dell’intervista (dal primo contatto in cui si è richiesta la disponibilità erano nel frattempo passati alcuni mesi) dicendo che si trattava di approfondire alcuni temi emersi dall’analisi dei materiali della prima fase dell’indagine. Esse si sono focalizzate, a partire dai nuclei tematici del questionario-intervista, sugli elementi di significato evidenziati dall’analisi del materiale, quindi sulle categorie messe
a punto nella prima fase della ricerca. Nella seconda fase si è trattato di approfondire le proprietà dei fenomeni
già individuati e scoprirne di nuovi. Il testo audioregistrato delle interviste è stato trascritto integralmente. Nelle
interviste il metodo utilizzato per la categorizzazione è stato analogo a quello seguito per l’analisi dei questionari-intervista. L’analisi è stata svolta per nuclei tematici allo scopo di riconoscere costanti e varianti nelle risposte
dei soggetti ai singoli temi. Nel caso delle interviste è stato possibile procedere con una prima analisi simultaneamente
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alla raccolta dei dati e in modo più specifico e sistematico al termine del lavoro sul campo.39
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NOTE
1 Osservatorio Regionale sull’Immigrazione, Immigrazione straniera in Veneto: rapporto 2009, Franco Angeli, Milano, 2009.
2 Ibidem.
3 L’età media è pari a 29 anni, contro i 43/44 della popolazione totale.
4 Ultime previsioni demografiche sul futuro della popolazione.
5 Contrariamente a quanto avvenuto in altri Paesi europei, i processi migratori verso l’Italia hanno una storia relativamente recente.
6 Uno dei quattro obiettivi fondamentali dell’educazione, secondo il Rapporto all’UNESCO della Commissione internazionale sull’Educazione per il XXI secolo (Delors J., Nell’educazione un tesoro, Armando, Roma, 1997).
7 Bove C., Mantovani S., “Alle soglie della consapevolezza”, in Favaro G., Mantovani S., Musatti T. (a cura di), Nello stesso Nido. Famiglie e bambini stranieri nei servizi educativi, Franco Angeli, Milano, 2006.
8 Kanizsa S., Il lavoro educativo. L’importanza della relazione nel processo di insegnamento e apprendimento, Bruno Mondadori, Milano, 2007.
9 Bourhis R.Y., “Il modello di acculturazione interattiva e gli orientamenti della comunità ospitante nei confronti
degli immigrati: una rassegna di studi empirici” tr. it. in Brown R., Capozza D., Licciardello O. (a cura di), Immigrazione, acculturazione, modalità di contatto, Franco Angeli, Milano, 2007.
10 Mortari L., Ricercare e riflettere. La formazione del docente professionista, Roma, Carocci, 2009.
11 Bove C., Mantovani S., Op. cit., 2006.
12 Cooper J. E. (2007), “Strengthening the Case for Community-Based Learning in Teacher Education”, Journal of
Teacher Education, 58, 3, pp.245-55.
13 Il dato si riferisce alle persone previste e non a quelle alle quali è stato consegnato il questionario.
14 Il dato non è stato precisato nell’11,5% dei casi, l’8% dei quali si tratta servizi extrascolastici sul territorio.
15 MIUR, Alunni con cittadinanza non italiana Scuole statali e non statali. Anno scolastico 2007/08, Roma, 2009.
16 Sono considerati alunni con cittadinanza non italiana gli studenti, anche se nati in Italia, con entrambi i genitori non italiani.
17 Il dato è pressoché uniforme (dal 71,2 al 75,4%) nel Nord-Est, Nord-Ovest e nel Centro Italia.
18 MIUR, Op. cit., 2009.
19 In statistica descrittiva per moda si intende la frequenza assoluta più elevata tra quelle osservate in una determinata distribuzione di frequenze.
20 Il dato non è stato rilevato nel 100% dei casi, ma si ritiene tuttavia indicativo di una tendenza.
21 I dati percentuali riportati qui di seguito si riferiscono all’incidenza valoriale raggiunta dalle singole categorie
“difficoltà” sul totale delle categorie individuate.
22 Musatti T., Mayer S., “Crescere i figli altrove: l’esperienza delle madri immigrate a Roma” in Favaro G., Mantovani S., Musatti T. (a cura di), Op. cit., 2006.
23 Bove C., Mantovani S., “Alle soglie della consapevolezza”, in Favaro G., Mantovani S., Musatti T. (a cura di),
Op. cit.., 2006.
24 Cima R., Abitare le diversità, Carocci, Roma, 2005.
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BIBLIOGRAFIA
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28 Demetrio D., Favaro G., Bambini stranieri a scuola. Accoglienza e didattica interculturale nella scuola dell’infanzia e
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29 Abdelilah-Bauer B., Il bambino bilingue, Cortina, Milano, 2008.
30 Demetrio, Op. cit., 1997.
31 Cfr. Bettinelli G., Demetrio D., “Insegnanti e rappresentazioni del bambino straniero nella scuola elementare”
Scuola e città, 8, 1992; Ciccardi F. (a cura di), Atteggiamenti verso gli alunni extracomunitari. Indagine tra i Capi d’Istituto e docenti della scuola dell’obbligo, IRRSAE Lombardia, 1994; Ministero della Pubblica Istruzione, Le trasformazioni della scuola nella società multiculturale, Roma, 2001; Selleri P., “Di loro non si sa nulla: storie di immigrazione tra scuola ed extrascuola” in Psicologia dell’educazione e della formazione, vol. 7, 2005.
32 Cima, Op. cit., 2005
33 Ibidem.
34 Mortari L., Aver cura della mente, La Nuova Italia, Firenze, 2002.
35 Mortari L. (a cura di), Dire la pratica, Bruno Mondadori, Milano, 2010.
36 Sorzio P., La ricerca qualitativa in educazione, Carocci, Roma, 2005.
37 Mortari, Op. cit., 2002.
38 Giuseppina Messetti e Federica De Cordova, del Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università
di Verona.
39 Sorzio, Op. cit., 2005; Cicognani E., Psicologia sociale e ricerca qualitativa, Carocci, Roma, 2002.
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