ST 33 - Società Italiana di Studi Araldici

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ST 33 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 33 – Anno XIX – Marzo 2013 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
Saggio di stemmario di Barbarano
Romano (Viterbo)
Barbarano Romano sorge intorno al IX – X sec., presso la
distrutta città di Marturanum. Le prime testimonianze documentarie dirette sono del 1188; nel 1228, dopo alterne
vicende, passò sotto il potere del Comune di Roma, del
quale, dopo alcune brevi periodi di infeudazione agli Anguillara ed altri, resterà feudo, insieme a Magliano, Vitorchiano, e Cori, fino alla fine dello Stato Pontificio. Fu
anticamente sede vescovile, di cui si hanno notizie fino
alla fine del X sec., e dell’antica sede diocesana rimase un
capitolo canonicale insigne che si conservò fino al 1873,
quando lo Stato ne incamerò i beni. Ebbe propria magistratura, sottoposta a quella del Senato Romano.
Fra la fine del XV e il XVII sec. Barbarano conobbe un
periodo di prosperità, testimoniata da bei palazzotti e case
signorili, alcune con le facciate ornate da decorazioni graffite.
Le famiglie notabili Barbaranesi seguirono gli stessi percorsi comportamentali tipici dei ceti aristocratici centroitaliani: case e palazzi rappresentativi, cappelle patronate e
sepolcri gentilizi in chiesa, cariche nelle magistrature e nel
clero locale, e, naturalmente, l’uso di uno stemma.
Alcune delle armi Barbaranesi sono oggi perse, perché
scolpite su camini monumentali poi distrutti o rimossi, o
scolpite in pietra e poste sopra i portoni, ma di cui oggi
non rimane che l’uncino in ferro per appenderli.
Una peculiarità dell’araldica Barbaranese è la consistente
presenza di gigli, che attribuirei all’influenza di Casa Farnese, nel periodo di maggiore prosperità di Barbarano. La
presenza Farnesiana nel Viterbese fu importante ed antica;
ricordiamo che lo stato di Castro e Ronciglione, e l’imponente villa Farnese di Caprarola non sono distanti da Barbarano. I gigli dunque potrebbero essere un omaggio araldico ai Farnese da parte di quelle famiglie Barbaranesi che
furono legate alle corti dei potenti cardinali Farnese che, a
partire da Alessandro, poi eletto Pontefice col nome di
Paolo III, si succedettero senza soluzione di continuità
dalla fine del XV sec. fino al cardinal Girolamo Farnese,
morto nel 1688, periodo di due secoli che coincide con
l’epoca di maggior splendore di Barbarano. Poiché gli
smalti delle armi Barbaranesi sono per la maggior parte
sconosciuti, manca un ulteriore elemento di conferma:
l’uso dei colori Farnesiani, l’azzurro e l’oro, negli stemmi
delle famiglie di Barbarano.
È anche frequente la presenza dello stemma del Comune di
Roma, feudatario di Barbarano, come sulla facciata graffita di una casa in via Umberto I (1° metà del XVI sec.),
nella sala consiliare del Comune (marmo, prima metà del
XVI sec.), ai lati dell’altar maggiore della chiesa di S. Maria del Piano, sulla torre della porta Romana (marmo, seconda metà del XVI sec.), nella parrocchiale (fonte battesimale, 1617, arco del presbiterio, 1753), ed in altri luoghi.
Barbarano Romano
Lo stemma attuale del comune è: D’azzurro, al castello di
rosso, torricellato di tre pezzi, quella centrale più alta,
fondato sulla campagna di verde.
Gli stemmi più antichi hanno avuto due versioni: la più
antica è quella corrispondente, con lievi differenze (e.g. la
merlatura ghibellina), all’arma attuale; la seconda, in uso
dal XVIII sec., presentava una sola torre, forse in riferimento alla torre che compare nell’iconografia di S.
Barbara. Del resto, la parte più antica di Barbarano corrispondeva all’antico castello longobardo, di cui faceva
parte l’imponente torre poligonale, e di cui è rimasta memoria nel nome del quartiere, il Castello, e che avrà determinato la scelta dell’elemento principale dell’arma civica,
il castello turrito dalla torre centrale più alta.
La versione più antica dello stemma civico è quella che
appare sulla bandiera tenuta da S. Quirico, in un affresco
della metà del cinquecento corrispondente ad un altare ora
scomparso nella chiesa della Madonna del Piano:
Di rosso, al castello d’argento, merlato e torricellato di
tre pezzi, quella centrale più alta, aperto e finestrato di
nero.
Di qualche decennio più tarda è la versione a stampa che
appare sugli Statuti di Barbarano:
Di....., al castello merlato alla ghibellina e torricellato di
tre pezzi, quella centrale più alta, aperto e finestrato di
nero, fondato su una terrazza.
Frontespizio, Statuta terrae Barbarani, Roma, tip. della R.
Camera Apostolica, 1613; Barbarano, parrocchiale, fonte
battesimale marmoreo donato dal Popolo Romano, 1617,
stemma scolpito sul piede.
La versione settecentesca è:
D’azzurro, alla torre al naturale, aperta e finestrata di due
pezzi.
Lo scudo timbrato da una corona a sette punte di lancia.
Barbarano, parrocchiale controfacciata, posto sotto la lapide commemorativa del rifacimento della chiesa, sormontata dallo stemma di Benedetto XIV,1753; parrocchiale,
inciso sul piede del busto reliquiario di S.Barbara, XVIII
sec.; chiesa della Misericordia, stendardo processionale
raffigurante i SS: Nicola da Tolentino, Marco Evangelista,
e Bartolomeo, stemma di S. Pio X accostato dallo stemma
di Barbarano e da quello della Confraternita della Misericordia: l’arma qui è: d’azzurro, alla torre torricellata,
aperta e finestrata di nero, fondata sulla campagna, il
tutto al naturale. Scudo timbrato da una corona a cinque
punte.
Confraternita della Misericordia.
L’arma compare su un gonfalone processionale raffigurante i SS: Nicola da Tolentino, Marco Evangelista, e Bartolomeo, ai cui piedi è dipinto lo stemma di S.Pio X accostato a sinistra da quello di Barbarano, ed a destra da
quello che si ritiene sia della Confraternita:
D’azzurro, ai tre monti, quello centrale più alto e sostenente una croce, quelli laterali sostenenti due rami di palma, il tutto al naturale, ed accompagnato in capo da tre
stelle (6) d’oro maleordinate.
Lo scudo sormontato da una correggia incurvata in arco
sulla sommità dello scudo e svolazzante sui fianchi.
Alessandri
La famiglia era una delle più antiche e cospicue del paese.
Assai facoltosa, nel 1544 Francesco Alessandri si
aggiudicò l’affitto dei pascoli comunale con sc. 142. Nel
1574 Menico de Alexandris era Priore. Nel palazzotto
cinquecentesco di questa famiglia, all’inizio della via
principale, anticamente detta via di Mezzo e ora corso
Vittorio Emanuele II, si trova un camino in peperino della
metà (?) del XVI sec., sul quale è scolpito uno stemma in
una targa a testa di cavallo.
Di.... alla fascia, accompagnata in punta da tre monti
all’italiana, ed in capo da due gigli sormontati da una
stella (8).
Berretta
Il signorile palazzotto del XVI – XVII sec. sulla via principale sembra avesse uno stemma scolpito in pietra, ora
disperso. È attribuito a questa famiglia uno stemma, dipinto su carta della prima metà del XX sec. Ritengo però che
provenga da qualche ufficio araldico.
2
Partito: il primo troncato d’azzurro a tre stelle (6)
maleordinate d’oro (?), e d’oro, al cuore di rosso(?); il
secondo d’azzurro, al cavallo allegro di... sulla terrazza di
verde, accompagnato in capo da una bandiera bifida di....
e svolazzante da un’asta uscente in banda dal fianco
sinistro.
Battilana
Una delle famiglie notabili ed antiche del paese, ebbe vari
ecclesiastici, fra cui arcipreti e canonici, notai e magistrati.
L’altare del transetto destro della chiesa di S. M. del Piano
apparteneva a questa famiglia, che vi aveva la tomba; sul
fastigio del settecentesco altare compare una piccola lapide
con le iniziali I B P. Altro altare, dei SS. G.B. e Stefano
era di loro giuspatronato, fondato dal sac. Propizio Battilana nel 1622 in S. Angelo. Nel XVI sec. G.B. Battilana
donò la metà del soffitto scolpito, dipinto e dorato in S.M.
del Piano, e il suo busto in stucco venne posto presso l’altar maggiore. L’altare di S.Anna e S. Gioacchino nel 1830
era di giuspatronato Battilana, e vi avevano una sepoltura i
membri delle famiglie di Francesco e Pietro Battilana. Vi è
la lapide di Maria Barbara Pisaneschi, moglie di Filippo
Battilana, morta l’8 Gennaio 1806, e di Maria Battilana (+
1847) ed altri della famiglia; in quell’epoca era di loro
giuspatronato anche la cappella della Flagellazione ove nel
1788 avevano la tomba.
Sul timbro di tabellionato del notaio Filippo Battilana,
vivente alla fine del ‘700, compare lo stemma:
Di.... alla torre merlata alla ghibellina, aperta e finestrata,
uscente dalla punta dello scudo, accompagnata in capo da
un giglio.
Motto: ALTA A LONGE COGNOSCIT
Timbro a inchiostro, con le lettere P(hilippus) B(attilana)
N(notarius) su volume di atti processuali, ultimo quarto del
XVIII sec.
Ferracci (?)
Casa in via Ferracci, scudo appuntato scolpito su un
camino in pietra della prima metà del XVI sec.:
Di... alla pianta di limone(?) divisa in due rami, ricadenti
a destra ed a sinistra, fogliata e fruttata di due pezzi, uno
per ramo, nodrita su di un’incudine.
In un’altra casa in via S. Angelo vi è un camino della metà
del XVI sec. circa, sul quale è scolpito in una riserva
circolare la seguente arma:
Di.... al giglio sostenuto da un’incudine.
Si potrebbe ipotizzare che gli stemmi appartengano a due
rami della stessa famiglia, che potrebbe identificarsi con la
famiglia Ferracci, come potrebbe far supporre l’incudine,
quale elemento alludente al nome.
Fiaschetti
Famiglia notabile. Nel 1654 Domenico F. era Signore della
festa della Natività di Maria che si celebrava in S.Maria
del Piano.
Lo stemma compare scolpito in pietra sulla chiave d’arco
del settecentesco portone della casa Fiaschetti su corso
Vittorio Emanuele II; nel centro della rosta in ferro battuto
nell’arco compare il fiasco, elemento principale dell’arma.
Di.... alla fascia, accompagnata in punta da un fiasco, ed
in capo da un giglio.
Cimiero: il giglio uscente.
Gigli
Famiglia notabile, che ebbe il palazzo sull’attuale piazza
Marturanum.
L’arma parlante, scolpita sulla chiave d’arco in peperino
del portone, entro una riserva mistilinea, è:
Di.... al giglio.
Forse a questa famiglia è riferibile un’altra arma, scolpita
in peperino in uno scudo ovale quale chiave della volta
della cappella del transetto destro della chiesa della
Madonna del Piano, databile alla metà del ‘500:
Di.... al giglio da giardino, fogliato e fiorito di un pezzo,
nodrito sulla terrazza.
Madonna delle Grazie, sulla quale nel 1609 Giovanni
Guerrini aveva istituito un giuspatronato.
Laurenti
Nel 1606 G.B. Laurenti e nipoti commissionano la decorazione dell’altar maggiore e abside di S.Angelo, come da
iscrizione sul quadro con l’Ascensione ed i SS. G.B. e
Tommaso: IOANNES BAPT(TIS)TA DE LAURENTIIS
ET NEPOTES FIERI FECERUNT ANNO 1606. Lo stesso
G.B. Laurenti, con atto not. Gregorio de Fabris, nel 1632
donava beni per due Messe annue; Barbara Laurenti, con
lo stesso notaio, donava sc. 150 nel 1652.
Nel 1606 Giovanni Battista Laurenti ed i nipoti fecero eseguire la ricca decorazione a stucchi policromi ed affresco
dell’abside ed altar maggiore nella chiesa di S. Angelo,
commissionando il quadro raffigurante l’Ascensione ed i
Santi Giovanni Battista e Tommaso Apostolo, poi sostitui
to con l’attuale copia del S.Michele Arcangelo del Reni. I
Laurenti avevano nella chiesa il sepolcro gentilizio. La famiglia, che nel XVI sec. entrò a far parte del magistrato
cittadino, aveva diritto di giuspatronato su questo altare.
Sulla sommità dell’arco dell’abside è posto lo stemma:
D’azzurro, alla pianta di lauro, divisa in due rami arcuati
in corona e decussati, nodrita sulla campagna, il tutto
d’oro.
L’elemento araldico della pianta di alloro d’oro, dai rami
intrecciantesi sul fondo azzurro, è stato ripreso nelle lesene
dell’abside quale motivo decorativo.
Mastini
Sul portone del palazzo già Mocavini, poi passato ai Mastini, si può notare un incavo a forma di scudo sannitico
scavato nella chiave d’arco del portone di ingresso; probabilmente eseguito nel XIX sec. quando il palazzo era passato ai Mastini, esso doveva ospitare lo stemma di questa
cospicua famiglia.
Mocavini
In S.Angelo, l’altare del Crocifisso era di giuspatronato
Mocavini nel 1573. Sulla chiave dell’arco del portone del
palazzo, uno dei più imponenti di Barbarano, è infisso un
gancio in ferro, originariamente sorreggente uno stemma
in pietra. Il palazzo sull’attuale corso Vittorio Emanuele II
venne costruito alla fine del ‘500 da SCIPIO MOCAVINUS PHISICUS (iscrizione sul fregio delle finestre).
Guerrini
Dell’esistenza dell’arma di questa famiglie abbiamo notizia dagli Atti della visita del vescovo Tiberio Muti del
1616, che descrive il sepolcro gentilizio, sul quale era scolpito lo stemma della famiglia, di fronte alla cappella della
Marsuzi o Marsuti
Il bel palazzo su corso Vittorio Emanuele II è databile all’
ultimo quarto del XVI sec.; sul fregio delle finestre si legge IAC. MARSUTIUS. DOC. Non vi sono tracce di stemmi, ma nella chiesa di S.M. del Piano, il quinto altare a destra venne eretto dallo stesso Giacomo Marsuzi, ed è data3
to 1597 nell’iscrizione che sovrasta l’ancona. Sopra
l’altare vi sono tracce evidenti di uno stemma, ora asportato, consistenti in un gancio alla sommità della sagoma di
uno scudo a tacca, e due nastri svolazzanti dalle parti, il
tutto posto sopra un drappeggio rosso. Tuttavia sulla quinta arcata a destra della navata, corrispondente all’altare
suddetto, appare affrescato il seguente stemma, in parte illegibile, ma che può essere così blasonato:
D’azzurro, al cavaliere al naturale armato di tutto punto,
sul cavallo allegro d’argento, sostenuto dalla terrazza di
verde.
Cimiero: l’uccello d’argento, affrontato e con le ali
spiegate....
Lambrecchini d’argento e di rosso.
Pisaneschi (?)
Nella scala del palazzo della fine del XVI sec., all’angolo
di piazza Cavour con corso Vittorio Emanuele, furono
murati alcuni reperti marmorei araldici, cioè una lastra
marmorea sulla quale è inciso uno stemma entro una corona di alloro, databile alla metà del ‘500; sopra la lastra
una corona da nobile all’antica scolpita in peperino, ed al
di sotto di essa la data MDCXC, presumibilmente data di
collocazione della lastra e della corona.
L’arma è:Di..... alla pianta di pisello o legumi fogliata e
baccellata, divisa in tre steli, quello centrale più alto e sostenuto da due leoni nascenti da una fascia attraversante
sullo stelo centrale.
Lo stemma è stato riferito alla cospicua famiglia Vallerani,
che, fino a pochi anni fa, possedette il palazzo; ma questa
famiglia si stabilì a Barbarano nel corso del XVIII sec., posteriormente alla costruzione del palazzo ed al posiziona
mento della lastra stemmata sulle scale (1690). Inoltre, la
presenza di una pianta con baccelli di piselli, piuttosto che
di una pianta di valeriana fiorita, come ci si aspetterebbe
nel caso fosse l’arma Vallerani, lascia qualche dubbio. Si
può ipotizzare che l’arma invece appartenga alla famiglia
Pisaneschi, alla quale alluderebbe l’elemento principale
dello stemma, la pianta di pisello. Questa famiglia diede il
nome ad una delle antiche strade del paese, il vicolo Pisa4
nesco; era titolare del giuspatronato della cappella di S.
Anna in S.M. del Piano, acquistato dai Barbacci, ove pure
aveva il sepolcro. Questo altare passò poi ai Battilana, probabilmente in seguito al matrimonio di Maria Barbara Pisaneschi, morta nel 1806, con Filippo Battilana.
Possenti
Nel 1616 rogava il notaio Filippo Possenti; nel 1657 il
capitano Quirico Possenti lasciava un legato di 40 scudi
per Messe all’altare di S. Anna in S.M. del Piano. Nel
1681-2 rogava il notaio Giovanni Cristoforo Possenti.
Il palazzo tardocinquecentesco della famiglia in via Teodosio Vescovo testimonia una posizione assai notabile, ed
è verosimile che questa casata, una delle primarie di
Barbarano, alzasse uno stemma, del quale però non si sono
fino ad oggi trovate testimonianze.
Sagretti, patrizi di Ascoli; nobili di Montalto
La famiglia principale di Barbarano, proveniente da Carassei nelle Marche, vi si stabilì verso la prima metà del
XVIII sec. in persona del capitano Eugenio Sagretti (morto
a 73 anni nel 1803). La famiglia, già di nobile condizione,
venne ascritta alla nobiltà di Ascoli il 14-9-1844 in persona di Mons. Salvo Maria, Prelato Domestico di S.S. e
Referendario dell’una e dell’altra Segnatura, Delegato
Apostolico di Ascoli, che ebbe un ruolo significativo negli
ultimi tempi dello Stato Pontificio; nel 1849 era Presidente
del Tribunale della Consulta Pontificia, nel 1871 era Uditore di S.S. Papa Pio IX che fu pure aggregato alla nobiltà
di Montalto il 17-5-1844. Suo fratello Carlo Sagretti fu
ufficiale dei Gendarmi Pontifici, chiudendo la carriera col
grado di tenente colonnello; decorato degli Ordini Piano,
di S. Gregorio Magno e di S. Silvestro. Nella "Cronaca di
Roma" del Roncalli (1844–1870), si cita invece un Tenente Sagretti, che venne arrestato a Foligno e portato a Castel
Sant'Angelo perché sorpreso a gettare per la città coccarde
tricolori. Successivamente venne di nuovo arrestato, mentre era Comandante dei Carabinieri di Albano, perché implicato in una congiura.
La famiglia era titolare del giuspatronato su due altari in S.
Maria del Piano, ove pure aveva il sepolcro gentilizio. Nel
1829 la famiglia ottenne il privilegio dell’oratorio privato
nel proprio palazzo. E’ probabile che il titolo comitale usato dalla famiglia fino ad oggi derivi da un titolo di conte
palatino: infatti lo stemma in argento posto sulle portiere
della carrozza era timbrato da una corona a sette punte di
lancia, quella consueta per i conti palatini. I carichi militari
ricoperti da alcuni membri della casata nel XVIII sec.
possono aver dato origine al cannone, elemento principale
dell’arma. Vi sono versioni lievemente differenti dello
stemma, che, a partire dalla prima metà del XIX sec., è
partita con l’arma di un’altra famiglia non identificata.
Lo stemma che compare scolpito nella chiave d’arco in
peperino dei due portoni del palazzo Sagretti in corso
Vittorio Emanuele II, della metà del XVIII sec. circa, è:
Di.... ai tre monti all’Italiana, sostenenti un fusto di
cannone rivolto e posto in sbarra, accompagnato in capo
da tre stelle (6) poste in sbarra.
Lo scudo timbrato da una corona da nobile all’antica, a
tre fioroni e due perle visibili.
Alias:
Partito: il primo di rosso, ai tre monti all’Italiana d’oro,
sostenenti un cannone sul suo affusto al naturale, rivolto,
ed accompagnato in capo da tre stelle (6) d’oro poste in
sbarra; il secondo d’azzurro ai tre monti all’Italiana
d’argento, sostenenti una colomba rivolta d’argento,
tenente nel becco un ramo di olivo d’oro, accompagnata in
capo da due stelle d’argento.
Palazzo Sagretti, affresco sulla volta dello scalone, prima
metà del XIX sec.
Alias 1:
Partito: il primo di rosso, ai tre monti all’Italiana d’oro,
sostenenti un cannone sul suo affusto al naturale, rivolto, e
accompagnato in capo da tre stelle d’oro maleordinate; il
secondo d’azzurro, ai tre monti all’Italiana d’oro,
sostenenti una colomba rivolta d’argento, tenente nel
becco un ramo di ulivo d’oro, accompagnata in capo da
una stella d’argento.
Panca da sala, XVII-XVIII sec., stemma dipinto nel XIX
sec.; cfr. manifesti di Mons. Sagretti, Delegato Apostolico
di Ascoli, ma con le stelle tutte d’argento.
Alias 2:
Partito: il primo di rosso, ai tre monti all’Italiana, uscenti
dalla punta, e sostenenti un cannone sul suo affusto al
naturale, rivolto, e accompagnato in capo da una stella; il
secondo d’azzurro, ai tre monti all’Italiana, sostenenti una
colomba rivolta, tenente nel becco un ramo di olivo,
accompagnata in capo da due stelle.
Lo scudo timbrato da una corona a sette punte di lancia.
Placca in metallo argentato, già applicata sugli sportelli
della carrozza, 1840-60 circa.
Sagretti alias 1
Sagretti alias 2
Altri stemmi non identificati
Casa signorile in via Umberto I, prima metà del XVI sec.,
scudo a testa di cavallo scolpito sulla cornice in peperino
di una finestra; la facciata è decorata da graffiti raffiguranti
una caccia al cinghiale con cani. Secondo una testimonianza del geom. Beretta, nella sala all’interno, sopra il camino, erano murati due rami di cervo.
Di... al cervo saliente e rivolto.
Un camino della metà del XVI sec., ora trasferito in una
villetta di recente costruzione ma proveniente da un palazzetto incompiuto confinante col palazzo Possenti, porta
scolpito il seguente stemma:
Di... al monte all’Italiana di sei cime, sostenente un giglio.
In S. M. del Piano, sul fastigio del primo altare a destra,
databile al XVII sec. compare il seguente stemma:
Partito: il 1° d’azzurro, alle cinque spighe nodrite sulla
campagna, ed accompagnate in capo da una stella (6), il
tutto d’oro; il 2° d’azzurro, alla fascia diminuita,
accompagnata in punta da una freccia posta in banda, ed
in capo da una cometa (6) ondeggiante in sbarra, il tutto
d’oro.
È possibile che gli smalti di quest’arma possano essere il
frutto di una ridipintura posteriore.
In S. M. del Piano, sull’arco della navata centrale corrispondente al primo altare a sinistra, dedicato alla B.V. ed
ai S.S. Francesco ed Antonio, compare affrescato il
seguen-te stemma:
Troncato da una fascia d’oro: il 1° d’argento, al busto di
vecchio barbuto al naturale, vestito di rosso, nascente dalla fascia; il 2° d’argento, allo scaglione d’oro, accompagnato da tre stelle (8) dello stesso.
Lo scudo posto sopra un drappeggio di verde.
Sull’altare compare la seguente iscrizione: INCLITA REGINA ANGELORUM VICTORIA SOROR TERTII ORDINI DEDICAVIT ET DOTAVIT A.D. MDCXX.
In S. M. del Piano la cappella del transetto sinistro è decorata da ricchissimi stucchi ed affreschi, databili alla seconda metà del XVI sec. L’arco della cappella è sormonta
to da un grande scudo in stucco, posto su di un drappeggio
rosso, con la seguente arma:
Di.... all’uccello, sostenuto dal monte all’Italiana di sei
cime, che nodrisce quattro spighe sulla cima dei monti
laterali, due sul primo ordine, e due sul secondo.
Cimiero: la coppa baccellata, da cui esce.... (?).
In S. M. del Piano, sui due pilastri a fianco dell’altar
maggiore, sono affrescati due stemmi pressochè illegibili,
databili alla fine del XVI – inizio del XVII sec. Quello a
sinistra è quello del Comune di Roma, l’altro è presumibilmente quello di Barbarano, che qui è:
D’azzurro (?) alla campagna di....
Gli scudi sormontati entrambi dalla correggia incurvata
ad arco e svolazzante sui fianchi.
.Sembrerebbe poter ravvisare in uno di essi una torre;
potrebbe trattarsi dello stemma civico, anche se la orreggia
veniva usata generalmente negli stemmi familiari.
In S. M. del Piano, sui piedistalli delle colonne del quarto
altare a destra sono modellati in stucco una coppia di scudi, dallo stemma oggi abraso. Inoltre, sulla lesena a sinistra
dell’altar maggiore vi sono tracce dell’asporto di una lapide sormontata da uno stemma.
Casa in via Dante Alighieri, stemma scolpito in un ovale
nella chiave dell’arco in peperino del portone, XVII sec.:
Di.... alla lancia da torneo posta in palo.
Potrebbe essere un’arma parlante; un Pasquino Lancillotti,
mugnaio, risulta immigrato da Pistoia nel secondo quarto
del XVI sec.; inoltre un Carissimo Mezzalancia con
testamento del 1633 istituì un legato di Messe all’altare di
S. Michele Arcangelo in S.Angelo.
Casa in via Garibaldi, sulla chiave d’arco in peperino del
portone, seconda metà del XVII sec, scudo barocco
timbrato da elmo, illegibile perchè assai corroso.
Di.... alla terrazza.....
Bibliografia
Don G. Musolino, Barbarano – Storia civile e religiosa,
Viterbo 2001.
Ringrazio il signor Rinaldo Marchesi per le preziose
notizie e la cortesia con cui ha assistito le mie ricerche; e il
nob. dott. Raniero Salvaggi per le notizie sugli ufficiali di
casa Sagretti.
Maurizio Bettoja
5
Aspetti della politica matrimoniale della Corona
di Spagna in Italia
Fra i tanti aspetti che caratterizzarono il radicamento
spagnolo in Italia a partire dal XV secolo, uno che presenta
caratteristiche d’interesse per gli studi araldici e genealogici è quello della politica matrimoniale di alcune famiglie
spagnole che ebbe forti riflessi sulla conduzione degli affari in Italia.
Mette in luce questo particolare lo storico Hayward Keniston che vi si sofferma a lungo nel suo libro Francisco de
los Cobos Secretario de Carlos V, personaggio che sostituì nell’incarico di segretario dell’imperatore Carlo V Mercurino Arborio di Gattinara, l’illustre giurista che fu tale
dal 1517 al 1530. Il discorso di questo storico si limita
però ai soli interessi del los Cobos mentre l’esigenza da
parte degli sia dei sovrani Aragonesi sia Spagnoli di consolidare il loro potere attraverso i legami familiari era stata
già individuata sin dal 1503, quanto si erano impadroniti
del regno di Napoli, seguendo peraltro la linea politica già
adottata in Sicilia. Qui erano presenti due partiti uno di
parte aragonese, che più che all’unione alla Spagna pensava all’indipendenza ed uno di parte angioina, alimentato
quest’ultimo dai continui tentativi fatti dalla Francia sino
al 1528, per riconquistare ciò dopo aver conquistato
travolgendo il povero re Federico d’Aragona e che si era
poi fatta portar via con le armi da Consalvo de Cordoba, il
Grande Capitano. Sino al 1522 con l’arrivo di Carlo de
Lannoy si verificarono alcune unioni fra le due aristocrazie ma non molte anche se alcune di grande importanza, la
instabile situazione e le guerre in corso fra Francia e Spagna costituivano probabilmente una remora allo stabilirsi
di legami parentali generalizzati. Senza dubbio la più significativa alleanza matrimoniale dei primi anni del
Cinquecento nel Meridione d’Italia fu quella nel 1511 fra
Pietro Antonio San Severino e Giovanna Requesens figlia
di Calcerando conte di Trivento e di Avellino e di dona
Beatriz Maurique de Leiva , finito però con la prematura
morte della sposa. Una delle figlie del secondo matrimonio
di Pietro Antonio, Eleonora nel 1543 sposò Federico
Alarcon e Mendoza marchese di valle Siciliana e nipote
del Fernando Alarcon che fu uno dei luogotenenti di Consalvo de Cordoba nel quadro di una politica di naturalizzazione seguita dalle famiglie spagnole che avevano
acquisito sin dalla loro discesa in Italia ampi feudi.
Requesens
De Lannoy
Colonna
Castriota
Tre dei numerosi figli di Filippo diedero poi luogo ad un
allargamento delle parentele e alla realizzazione di un’importante rete di vincoli. Carlo (1538-1556) sposò Costanza
Doria del Carretto figlia di Marcantonio principe di Melfi,
Beatrice andò sposa ad Alberto Acquaviva d’Aragona Duca di Atri, Orazio sposò Antonia d’Avalos d’Aquino figlia
di Alfonso principe di Pescara.
Sanseverino
Dato tuttavia che questa breve nota si limiterà alle più alte
cariche del regno è da ricordare che fra il 1509 ed il 1522,
quando fu viceré a Napoli Raimondo Cordoba, che era già
stato con lo stesso incarico in Sicilia. i suoi figli Fernando
e Catalina si erano già sposati il primo con Beatrice Fernandez de Cordoba dei duchi di Sessa e la seconda con
Ferdinando d’Aragona che nel 1535 venne creato da Carlo
6
V duca di Montalto. Non si dovette comunque attendere
l’arrivo di Francisco de los Cobos perché la politica delle
alleanze matrimoniali fra spagnoli e grandi feudatari italiani avesse inizio. Restando però a livello dei viceré, furono due dei figli di Carlo de Lannoy, il primo dei viceré di
Napoli nominati da Carlo V, che si ebbero i primi matrimoni fra figli di questi dignitari e membri della nobiltà
locale.
Carlo de Lannoy era membro del consiglio privato
dell’Imperatore, nel 1515 era stato governatore di Tournai
e nel 1522 venne inviato a Napoli a sostituire Raimondo
de Cardona, e in seguito dopo aver lasciato l’incarico
venne fatto conte di Asti nel 1526 e sempre in quell’anno
principe di Sulmona e Ortona a mare.
Suo figlio primogenito Filippo, colonnello della cavalleria
spagnola e poi cavaliere del Toson d’Oro, sposò Isabella
Colonna figlia di D. Vespasiano principe di Traetto, e Clemente, l’ultimogenito, Ipolita Castriota figlia di Ferrante
marchese di Sant’Angelo e di Camilla di Capua .
Doria
Aquaviva d’Aragona
d’Avalos
Il Keniston nel citare alcuni esempi di unioni fra alti
funzionari spagnoli o loro figli e la nobiltà locale lega tali
eventi non tanto alla necessità di realizzare un’unione
stabile fra quest’ultima e la Spagna ma per costruire una
rete di relazioni e clientelare che consentisse al de los
Cobos di esercitare un effettivo potere su ogni articolazione dell’amministrazione. Peraltro godendo della piena
fiducia dell’imperatore che gli aveva lasciato l’assoluto
controllo del disbrigo di tutti gli affari in Italia, non vi era
dubbio che gli fosse possibile dislocare i suoi uomini
ovunque lo desiderasse, con evidente funzione di
controllo, poiché le decisioni alla fine spettavano a lui.
In effetti Don Antonio de Leyva principe di Ascoli,
governatore di Milano nel 1535 era amico del de los
Cobos, ma non venne nominato a quell’incarico per questa
amicizia ma in quanto era il comandante delle truppe
spagnole che avevano sconfitto quelle francesi. Era stato
investito nel 1531 del titolo e feudo di conte di Monza da
Francesco II Sforza ed alla sua morte Carlo V confermò al
figlio Luigi titolo e feudo.
era divenuto maritali nomine marchese di Pescara dei suoi
tre figli il primogenito Alfonso, sposato a Diana de
Cardona, fu il padre di Ferdinando Francesco, detto Ferrante, brillante condottiero nell’esercito di Carlo V, marito
di Vittoria Colonna figlia di Fabrizio Colonna, condottiero
largamente beneficiato dagli Aragonesi e gran Connestabile del regno di Napoli; ma che rifiutava di considerarsi italiano, tanto che parlava solo in spagnolo anche
con la moglie. Morto senza discendenza maschile il titolo
di marchese di Pescara passò a suo cugino Alfonso (figlio
di un Inigo terzogenito dell’Inigo giunto a Napoli nel 1442
e di Laura San Severino) anch’egli generale negli eserciti
di Carlo V fu Governatore di Milano dal 1538 al 1546 e
sposò Maria d’Aragona figlia di Ferdinando duca di
Montalto (figlio naturale di Ferdinando I di Napoli).
Stemma di Ferdinando d’Aragona duca di Montalto
Non mette conto di proseguire con la progenie dei d’Avalos di cui si è visto sin dai primi anni del suo arrivo in Italia la propensione ad installarvisi.
Più complessa e forse più aderente alla situazione descritta
dal Keniston anche se non nei termini così forti da lui usati, la vicenda degli Alvarez de Toledo che si intreccia in
parte con le relazioni sopra descritte creando una rete ancora più complessa ed ingarbugliata. Scrive lo storico che:
«I Toledo ebbero un’influenza decisiva nella vita politica
italiana del XVI secolo per il peso dei cardinali Juan
Alvarez de Toledo e di Francisco Pacheco Osorio de Toledo nella Corte Pontificia e per la loro parentela con i
Leyna (principi di Ascoli) e per la politica matrimoniale di
don Pedro de Toledo (1484-1553).»
Come noto la famiglia si radicò in Milano ed una
bisnipote di Don Antonio fu la cosiddetta Monaca di
Monza. Al de Leyva dopo l’interregno del Cardinale
Caracciolo nel 1538 subentrò nell’incarico di governatore
di Milano don Alfonso de Avalos de Aquino marchese del
Vasto le cui origini spagnole si erano peraltro alquanto
scolorite, sua nonna e sua madre erano infatti ambedue
italiane, la prima era stata Antonella d’Aquino ultima della
sua famiglia ed erede del marchesato di Pescara che passò
appunto ai d’Avalos e la seconda era Laura San Severino,
segno evidente che la preoccupazione di unire gli
esponenti delle due aristocrazie e consolidare in tal modo
il potere spagnolo era presente sin dai tempi di Alfonso I
d’Aragona.
In concreto i d’Avalos, giunti a Napoli nel 1442 al seguito
di Alfonso I d’Aragona, dopo più di 50 anni si potevano
considerare quasi come appartenenti alla nobiltà locale,
infatti il primo di questi Inigo († 1484), come sopra
accennato aveva sposato nel 1452 Antonella d’Aquino ed
Stemma di Juan Alvarez
de Toledo
Stemma di Francisco
Pacheco y Osorio
Quest’ultimo, tanto per chiarire il senso dello scritto era
figlio del II duca d’Alba, Fadrique Alvarez de Toledo y
Enriquez (1460-1531), grande amico di Francisco de los
Cobos e maritali nomine era marchese di Villafranca in
quanto sposo di Maria Osorio e Pimentel. Prosegue ancora
lo storico descrivendo la politica matrimoniale di don Pedro:«Il marchese di Villafranca sposò sua figlia Eleonora
7
con Cosimo de Medici e suo figlio Garcia con la figlia di
Ferrante d’Avalos e Vittoria Colonna, marchesi di Pescara, e in questo modo s’imparentò con Alfonso d’Avalos e
Aquino marchese del Vasto. I legami di parentela si
estendevano quindi come per un’aggrovigliata matassa
attraverso i matrimoni, Vespasiano Colonna marito di
Giulia Gonzaga si collegava con Ferrante Gonzaga …».
Alvarez de Toledo dei
duchi di Alba
Cosimo I de Medici
d’Aquino
vicende italiane del tempo sembra veramente un ipotesi
azzardata. Riuscì data la stima che aveva nei sui confronti
l’Imperatore Carlo V a far sì che questo desse l’ordine di
cessare il sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi, ma
per il resto si occupò poco degli affari italiani.
Il don Pedro come politica matrimoniale si divise fra Italia
e Spagna. In Italia come detto suo figlio Garcia sposò
Vittoria Colonna, le sue figlie Isabella e Eleonora
sposarono l’una Giovanni Battista Spinelli duca di
Catrovillari, l’altra Cosimo de Medici
e divenne
Granduchessa di Toscana; in Spagna le figlie Giovanna ed
Anna sposarono la prima Ferrante Ximenes d’Urla e l’altra
Lopo de Moscoso y Osorio.
Il fratello di don Pedro, Fernandez (1507-1582) fu il più
famoso degli Alvarez del suo tempo il cui ricordo è ancora
nelle leggende dei Pesi Bassi. III duca d’Alba fu generale
nell’esercito di Spagna, nel quale militò sin da giovane a
partire dalla battaglia di Pavia del 1525, partecipando poi a
tutte le principali imprese di Carlo V e Filippo II, fu
governatore di Milano nel 1555, viceré di Napoli dal 1556
al 1558 ed infine governatore dei Paesi Bassi dal 1567 al
1573.
Eleonora Alvarez de Toledo
Fernandez Alvarez de Toledo III duca d’Alba
de Medici
Tutto ciò ebbe un’influenza notevole nelle decisioni del
consiglio di gabinetto dell’Imperatore e le speciali
relazioni che il segretario del sovrano manteneva con la
nobiltà italiana secondo lo storico emersero con chiarezza
nel capitolo dell’Ordine del Toson d’Oro tenutosi a
Tournai nel 1531, quando vennero insigniti del cavalierato
Alfonso III d’Avalos marchese di Vasto, Andrea Doria
principe di Melfi e Ferrante Gonzaga principe di Molfetta
e conte di Guastalla..
Tornando agli Alvarez de Toledo, il fratello di don Pedro,
Juan Alvarez de Toledo (1488-1557) eletto cardinale nel
1538 giunse a Roma nel 1540 prima come inquisitore e poi
fu nominato Camerlengo, può darsi che abbia avuto
qualche influenza nelle decisioni politiche della Santa
Sede, ma che essa possa essere stata decisiva per le
8
Senza ovviamente entrare in polemica con storici
qualificati sembra che più che una questione clientelare di
un personaggio sia pure importante come poteva esserlo il
segretario dell’Imperatore, la politica matrimoniale tesa a
legare importanti personaggi dei seguiti dei sovrani
aragonesi o spagnoli alla locale nobiltà sia stata una
politica seguita con costanza sin dai primi passi dell’
insediamento spagnolo prima in Sicilia poi nell’Italia Meridionale . La secolare esperienza seguita alle vicende successive ai Vespri siciliani e quelle che contraddistinsero il
conflitto franco-aragonese sia in Sicilia sia nel Napoletano
fecero comprendere ai sovrani di Spagna e al loro entourage la convenienza di legare alla corona le nobiltà locali,
verso le quali peraltro i sovrani spagnoli furono assai
generosi dispensando titoli di principi e di duca senza
troppi problemi, cosa che invece non facevano a casa loro.
Pietro Gastone
Riordinando alcune cartelle documentali del mio archivio
famigliare ereditario, venni a rileggere delle lettere
contenenti informazioni e specificazioni di carattere
storico-nobiliare scritte dal conte Antonio CavagnaSangiuliani al proprio parente ed amico di studi il conte
Giuseppe Morelli d’Aramengo, patrizio astese, padre di
Anna, una delle mie bisavole.
Unitamente a queste lettere, un piccolo libricino
quinternato, a mano di Giuseppe Morelli, contenente
appunti biografici del Cavagna-Sangiuliani, dal quale
attingo notizie utili per ricordare questo illustre studioso
delle “nostre” discipline.
Il conte Antonio Cavagna-Sangiuliani di Gualdana e
Balbiano persona di gran signorilità e bel portamento
possedeva una cultura storico-umanistica fuori dal
comune.
guarnigione (infatti sia il padre che gli zii parteggiarono, in
favore del Piemonte e di Casa Savoia, nelle imprese
risorgimentali per il riscatto d’Italia, nelle campagne del
1848/49, del 1859 ed, ancora, fino al 1875).
Volontario nel 1866, il giovane conte Antonio, prestò,
anch’egli, servizio come ufficiale dei lancieri d’Aosta ed
attraversò, in armi, i campi di Lombardia e Veneto,
lasciandone testimonianza scritta nel suo personale
carteggio ai genitori ed ad alcuni amici.
Ritornato dalla guerra si occupò di amministrazione
pubblica e sedette in consiglio comunale, nella
deputazione provinciale, nel sindacato agrario, nelle
presidenze di enti culturali e benefici delle
città di Voghera e Pavia.
Gli zii materni, i conti Sangiuliano di Balbiano, in
mancanza di eredi, lo adottarono, in qualità di figlio, ed
egli ne assunse il cognome ed i titoli divenendo, per
successione nobiliare:
il conte Antonio Cavagna-Sangiuliani di Gualdana e
Balbiano..
Nato da famiglia originaria di Voghera, nella qual città i
suoi antenati avevano tenuto, da epoca longobarda, la
carica di sculdascio a titolo ereditario (ufficiale
longobardo che esercitava sia il potere militare che civile
alle dirette dipendenze di un gastaldo regio) poi, dal 1180,
furono consoli del comune e godettero della nobiltà, con
giurisdizione feudale, sopra alcune terre dell’agro
vogherese.
Carlo ed Antonio Cavagna furono membri del decurionato
della città e Guglielmo, nel 1346, fu cancelliere della
repubblica di Genova.
Un ramo di questa famiglia, fiorito in Novara, fu, nel sec.
XVI, fregiato del titolo comitale palatino, dall’imperatore
Carlo V.
Stefano Cavagna, nel mese di agosto del 1835, ottenne dal
re di Sardegna Carlo Alberto, il titolo di conte di Gualdana
(un podere della famiglia costituente il predicato).
Antonio Cavagna nonostante queste, così marcate origini
storiche vogheresi, nacque in Alessandria, il 15 agosto
1843, dove il padre, ufficiale dell’esercito piemontese,
dimorava per ragioni di servizio presso la locale
I Sangiuliani fiorirono in Como e in Milano.
Furono decurioni di Como del sec.XV.
Luigi e Martinolo furono delegati della città di Como a
prestare, per essa, giuramento di fedeltà alla duchessa di
Milano Bona di Savoia tutrice del figlio Giovan Galeazzo
Sforza.
Francesco, nel 1570, fu governatore dell’isola di Giamaica
per il re di Spagna.
Giovanni Stefano nel 1693 fu infeudato dal re di Spagna,
Carlo II, della terra di Balbiano (lago di Como) con il
titolo comitale.
Il conte Antonio ebbe, tuttavia, quale principale scopo di
vita, l’approfondimento dei suoi studi preferiti: quelli
storico-nobiliari (così come si conveniva ad un agiato
signore del par suo …) e, in cinquant’anni di ricerche e
studi appassionati, (morirà in Milano nel 1913) pubblicò
ben centosessanta lavori di carattere storico-araldiconobiliare ed artistico di cui, i principali, riguardarono
l’Agro vogherese (quattro volumi); il Cartario vogherese;
la storia dell’abbazia di Morimondo ed una lunga serie di
monografie relative a monasteri, castelli del pavese e del
comasco ed infine raccolse nella sua villa, denominata “la
Zelata,” di Bereguardo (PV) una preziosa biblioteca
statutaria italiana ricca di ben 85.000 volumi ed unica nel
suo genere.
L’ignavia del governo del tempo non seppe assicurare
questa preziosa biblioteca alla cultura italiana, benché, il
proprietario l’avesse offerta gratuitamente; così, questa,
emigrò, nel 1920, negli Stati Uniti d’America, acquistata
dall’Università dell’Illinois dove già si tenevano corsi di
studio in lingua italiana.
In detta importantissima biblioteca, alla “Zelata”, erano,
inoltre, custoditi incunaboli, incisioni, carte geografiche
antiche e numerosi stemmari pavesi e milanesi.
Il conte inoltre aveva, privatamente, dato alle stampe:
Regesti di carte storiche lombarde (in due volumi); Statuti
di vari territori italiani (in due volumi, purtroppo, non
seguiti dal terzo, per sopraggiunta morte dell’autore);
Manoscritti relativi alla storia nobiliare italiana.
Il conte Antonio Cavagna-Sangiuliani fu presente, in
Alessandria, nel 1901, al congresso storico napoleonico ed
a quelli tenuti, in provincia di Alessandria e di Tortona, sul
“Barbarossa”.
Il conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana
- insigne storico ed araldista ( nel centenario della morte )
9
Molte società di storia ed araldica lo vollero tra i propri
soci e diverse onorificenze cavalleresche gli furono
conferite dai più disparati governi.
Ricevette, altresí, molte menzioni onorevoli anche da parte
di istituti araldici e culturali.
La nobiltà piemontese e quella lombarda gli saranno
sempre debitrici per il suo così competente impegno di
scrupoloso studioso.
Le città di Voghera e Pavia gli hanno dedicato una via.
Cavagna di Gualdana
-Arma: di rosso, al leone d’oro, con la fascia d’azzurro
caricata di una cesta per frutta d’oro, attraversante sul
tutto. Col capo d’oro caricato di un’aquila di nero,
sormontata da una corona all’antica.
Cimiero: un’aquila nascente di nero coronata e rostrata
d’oro.
Sangiuliani di Balbiano
-Arma: spaccato; nel 1° d’oro all’aquila di nero
coronata del campo; nel 2° d’argento al castello di
rosso, cimato da una torre dello stesso, aperto e
finestrato del campo e posto sopra una terrazza di
verde; la torre accostata da due leoni d’oro, affrontati e
sostenuti dal castello.
Cimiero: un’aquila di nero nascente.
Alberto Gamaleri Calleri Gamondi
I Conti di Adernò
La Contea di Adernò è una delle più antiche terre feudali
dell’isola, concessa come Contea da Ruggero il Primo
Gran Conte ad un Goffredo normanno, i cui discendenti
ressero lo stato per qualche generazione. Nel 1266 Carlo
d’Angiò, rese la città demaniale. Dopo Vespri e l’avvento
10
al trono di Sicilia della dinastia aragonese venne prima
eretta in baronia e concessa a Matteo Sclafani che nel 1338
venne creato dal re Pietro II conte d’Adernò.
La Contea di Adernò è una delle più antiche terre feudali
dell’isola, concessa come Contea da Ruggero il Primo
Gran Conte ad un Goffredo normanno, i cui discendenti
ressero lo stato per qualche generazione. Nel 1266 Carlo
d’Angiò, rese la città demaniale. Dopo Vespri e l’avvento
al trono di Sicilia della dinastia aragonese venne prima
eretta in baronia e concessa a Matteo Sclafani che nel 1338
venne creato dal re Pietro II conte d’Adernò.
Nel 1929 Adernò, che come molti altri paesi della Sicilia
ha nome ed origini che sono un misto di leggenda e
tradizioni, riprese l’antico nome tornando ad esser Adrano.
Adernò era venuto nel tempo per trasformazione
dell’antico Αδρανόν dei Greci o l’Adranum o Hadranum
dei Romani, che derivava il nome dall’esistenza in
quell’area di un antichissimo tempio dedicato al dio della
guerra e del fuoco, Adrano, venerato dagli antichi abitatori
della Sicilia, con i suoi 1000 cani sacri, il cui culto pare
fosse connesso a con quello dei Palici (demoni, venerati in
Sicilia, figli gemelli di Zeus e della Ninfa Talia). La
nascita della città si lega a Dionisio il Maggiore che
l’avrebbe costruita nel 400 a.C., ma esistono tracce che ne
fanno risalire il primo insediamento nella zona in cui sorge
al Neolitico della cittadina ne parlano antichi scrittori
greci quali Diodoro e Plutarco e romani come Cicerone.
Il cambio di nome del paese non ha avuto però alcuna
influenza su quello del titolo che non è mutato e resta
quello di conte di Adrano di cui resta titolare la famiglia
Moncada.
Troppo incerte e senza appoggi concreti le notizie sui
personaggi che nel periodo normanno godettero del titolo e
feudo di Adernò, di grande interesse invece la figura del
primo conte creato dalla prima dinastia aragonese, Matteo
Sclafani.
Questi figlio di un miles, signore di Sclafani, Chiusa e del
casale di Recalsisi, lo divenne anche di Ciminnà e dello
stesso Adernò, di cui poi come si è già accennato venne
creato conte.
I suoi primi passi nella carriera politica, che lo portarono a
ricoprire posizioni di vertice nell’amministrazione dello
Stato e a divenire uno dei più ricchi feudatari del regno
non poterono essere seguiti dallo zio materno, Matteo da
Termini, militare comandante di parte della flotta, maestro
razionale prima e maestro giustiziere del regno sotto
Federico II, che morì nel 1309, quando egli aveva appena
19 anni, si può dire quindi che seppe farsi da solo.
Lo zio peraltro lo lasciò erede di una notevole fortuna ma
anche di un mare di debiti da cui uscì grazie all’abilità
degli esecutori testamentari che riuscirono con una serie di
concordati a ristabilire l’equilibrio di un patrimonio vasto
ma amministrato in modo assai confuso.
Nel 1325 Matteo Sclafani, un fedele all’autorità regia, si
trovò fra i difensori di Palermo attaccata dalla flotta
angioina guidata dal Duca di Calabria e cosa che gli
capiterà ancora altre volte per far fronte alle scorrerie
angioine contro le coste siciliane. Secondo la pace di
Caltabellotta alla morte di Federico II, avvenuta nel 1337,
la Sicilia sarebbe dovuta tornare nelle mani degli Angiò,
ma ai Siciliani la cosa non garbava affatto, il figlio di
Federico II, Pietro, già associato al trono di Sicilia nel
1321, venne dichiarato re. La Sicilia dovette far allora
fronte sia alla posizione del Papa, Benedetto XII, che
voleva imporre la restituzione dell’isola agli Angiò sia
ovviamente del re di Napoli, Roberto d’Angiò. Matteo
Sclafani fu uno dei feudatari convocati dal Papa a Roma
per sentire le sue ragioni, ed egli come tutti gli altri non si
mosse. Era allora il tempo in cui la feudalità siciliana era
divisa in due grosse fazioni, la parzialità catalana e quella
latina. Non era una suddivisione rigida, interessi di vario
genere facevano si che si passasse da una parzialità
all’altra a seconda di come si riteneva, che essa meglio
favorisse i propri interessi. Non era poi detto che i catalani
fossero solo quelli di origine spagnola e quelli latini
fossero gli autoctoni o i provenienti da altre regioni
d’Italia. Matteo Sclafani teneva per la parzialità catalana,
ma poneva sopra il contrasto fra le parti la propria fedeltà
alla corona, dimostrata in più di un occasione battendosi
anche in condizioni di forte inferiorità contro Chiaramonte
e Ventimiglia quando questi si erano ribellati al re . La sua
adesione alla parzialità catalana s’individua nel fatto che le
sue due figlie sposarono due esponenti delle maggiori
famiglie di questa parzialità e non si può dire che lo
abbiano fatto per amore, allora questo era un aspetto che
non era preso in alcuna considerazione, ma non era detto
che i matrimoni in qualche modo riuscissero egualmente.
Aloisa, figlia del suo secondo matrimonio era andata sposa
a Guglielmo Peralta conte di Caltabellotta, e Margherita
figlia del primo matrimonio aveva sposato Guglielmo
Raimondo Moncada. Questi matrimoni che ben lo
collocavano nell’area catalana, per le sue disposizioni
testamentarie provocarono poi una spaccatura nella fazione
catalana. Egli infatti, morto senza figli maschi, eresse a suo
erede universale il nipote Matteo Peralta, figlio della
secondogenita Aloisa, imponendogli fra l’altro l’obbligo di
assumere il cognome di Sclafani e di adottare l’arma della
sua famiglia.
Ciò provocò la reazione dell’altro nipote, figlio della
primogenita Margherita, Matteo Moncada e Sclafani cui
per diritto di primogenitura sarebbero dovuti andare titoli e
feudi e diede luogo ad una vertenza giudiziaria che durò
qualche decennio. Artale d’Alagona il maestro giustiziere
del regno cui venne sottoposta inizialmente la questione
non aveva alcuna intenzione di inimicarsi una delle due
potenti famiglie catalane quindi non decise e prese tempo.
Re Federico III, qualsiasi decisione avesse preso, certo che
non avrebbe avuto la forza per farla rispettare, prese
tempo anche lui. Spazientito da come andavano le cose
Matteo Moncada passò al’uso delle armi e manu militari
nel 1360 si impossessò della contea di Adernò, cosa che
gli costò la prigionia della moglie, Allegranza Abate, fatta
prigioniera dalle truppe del Peralta.
Moncada
Federico III cercò a questo punto di interporsi fra le parti,
ordinò di rimettere in libertà la moglie del Moncada e
diede ordine al Supremo Tribunale della Regia Gran Corte
di esaminare gli atti e pronunciare la sentenza. Questa
sentenziò in favore del Moncada, nel 1366 i Peralta
riuscirono a far revocare tale decisione, ma la controparte
non si diede per intesa e rimase in possesso della Contea. Il
Moncada era comunque in una posizione tale da non dover
temere nulla da parte del sovrano che sin dal 1359 lo aveva
nominato Gran Siniscalco e Capitano Generale dei suoi
eserciti, lo aveva inviato in Grecia, quando era stato eletto
Duca di Neopatria e di Atene, ove aveva ottenuto successi
in Morea ed infine lo aveva richiamato in Sicilia per far
fronte all’invadenza dei Chiaromonte che minacciavano
l’autorità regia. Nel 1372 Matteo fu uno dei quattro grandi
feudatari che di fatto assunsero il governo dell’isola. Si
sposò due volte, la prima con Giovanna Peralta, figlia di
Raimondo e d’Isabella d’Aragona figlia di Federico II
d’Aragona, e dopo al morte di essa con Allegranza Abbate.
Dalla prima consorte ebbe Guglielmo Raimondo da cui il
ramo dei Moncada conti di Caltanissetta e dalla seconda
Antonio che venne investito della Contea di Adernò .
Questi riuscì ad appianare la divergenza con i Peralta
riguardo al feudo di Adernò, ricoprì l’incarico di Gran
Siniscalco di Corte concessogli da Martino I nel 1392, si
batté a favore della regina Bianca dopo la morte del re
Martino contro il conte di Cabrera, che voleva sostituirla
nel Viceregno di Sicilia. Sposato con Agata di
Chiaramonte, appartenente ad una famiglia storicamente
antagonista della sua, ma segno evidente di un tentativo di
composizione dei contrasti, non ebbe eredi, per testamento
lasciò quindi Adernò al figlio secondogenito di suo fratello
Guglielmo Raimondo, Giovanni Moncada ed Alagona
barone della Ferla, anch’egli un fedele della regina Bianca
che aveva sconfitto le truppe del Cabrera che assediavano
la regina a Siracusa. Ebbe numerosi importanti incarichi di
vertice , far cui quello di Mastro Giustiziere del regno
.Alfonso d’Aragona gli concesse numerosi feudi nelle
Puglie, nella zona di Otranto, in Calabria e nel Napoletano,
ebbe come successore nella Contea il figlio Guglielmo
Raimondo, avuto dalla moglie Andrea Fonellar
11
Majorchino e Aragona (figlia Umberto e di Costanza
d’Aragona baronessa di Avola), che venne investito del
titolo e feudo nel 1452. Cresciuto ed educato alla corte di
Alfonso d’Aragona, appena raggiunta la maggiore età
questo venne investito di importanti incarichi, fra i quali
quello di Amabsciatore presso il re di Francia nel 1443 per
trattare il matrimonio dell’Infante D. Ferdinando con una
delle figlie di quel sovrano. Fece ancora parte della
delegazione che si recò a congratularsi dal Papa Callisto
III per la sua elevazione al soglio pontificio, fu nominato
Viceré di una parte delle province napoletane, nel 1453 fu
nominato Gran Giustiziere del regno, incarico che ricoprì
sino al 1466 quando divenne Gran Siniscalco e Gran
Camerlengo., e ancora fra il 1458 ed il 1461, da re
Giovanni venne nominato Viceré di Sicilia. Nel 1456
comprò Paternò, ma non fu una cosa semplice, a parte il
prezzo (24000 fiorini), questa era una città demaniale,
quindi inalienabile, per ottenerla dovette ottenere il
consenso unanime di tutte le altre città del regno e la
pratica si concluse solo nel 1472. Si sposò una prima volta
con Diana Sanseverino e morta questa, in seconde nozze
sposò Bartolomea Romano, figlia del barone di
Montalbano. Dalla prima moglie ebbe Giovanni Tommaso
che gli successe nelle contee di Adernò e Sclafani, questo
fu Gentiluomo di camera di re Giovanni, Vicario generale
di suo padre, allora Presidente del Regno, per far fronte
alle continue offese delle navi dell’Impero Ottomano
contro le coste siciliane, Capitano Generale delle Armi nel
1475 venne chiamato a sostituire il Viceré Lopez,
deceduto, incarico che poi gli venne assegnato una
seconda volta nel 1478.
Si potrebbe continuare ancora a lungo ma a questo punto
sembra giusto dire che la fila dei conti di Adernò, quale
titolo di grande prestigio per la famiglia Moncada, si
arrestò nel 1565, quando Francesco Moncada e Luna,
conte di Adernò e Caltanissetta, venne creato da Filippo II
principe di Paternò, da allora ovviamente la famiglia tese
di fregiarsi del titolo di maggior rilievo. Quello di Paternò
fu il quarto titolo di principe concesso in Sicilia dopo
quelli di Butera, concesso l’11 aprile 1563 ad Ambrogio
Santapau; di Castelvetrano, concesso il 24 aprile 1564 a
Carlo Tagliavia ed Aragona; di Pietraperzia, concesso il 22
dicembre 1564 a Pietro Barrese e Santapau..
Anni dopo il nipote del primo principe di Paternò,
anch’egli Francesco si sposò con Maria d’Aragona erede
di Antonio d’Aragona (discendente da un figlio di re
Ferrante d’Aragona) e suo figlio Luigi in osservanza delle
disposizioni dotali ebbe si chiamò Aragona e Moncada.
Il blasone del ramo della famiglia d’Aragona da cui discendeva Maria era:
Arma degli Aragona duchi di Montalto
12
Il blasone dei Moncada principi di Paternò e conti di
Adernò rimase per un certo numero di anni
Arma Moncada: Di rosso ad otto bisanti d’oro
Quello che venne poi adottato dai Moncada anche in relazione alle leggende che riguardavano l’origine della famiglia tenne conto della parentela regale e divenne
Arma Moncada: Inquartato di nero al leone incoronato
d’oro e fusato in banda d’argento e azzurro, che è di
Baviera, e sul tutto partito di Moncada, che è di rosso ad
otto bisanti d’oro, due su due e d’Aragona che è d’oro a
quattro pali di rosso.
ALFS
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