ST 33 - Società Italiana di Studi Araldici
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ST 33 - Società Italiana di Studi Araldici
N. 33 – Anno XIX – Marzo 2013 – Pubblicazione riservata ai soli Soci Saggio di stemmario di Barbarano Romano (Viterbo) Barbarano Romano sorge intorno al IX – X sec., presso la distrutta città di Marturanum. Le prime testimonianze documentarie dirette sono del 1188; nel 1228, dopo alterne vicende, passò sotto il potere del Comune di Roma, del quale, dopo alcune brevi periodi di infeudazione agli Anguillara ed altri, resterà feudo, insieme a Magliano, Vitorchiano, e Cori, fino alla fine dello Stato Pontificio. Fu anticamente sede vescovile, di cui si hanno notizie fino alla fine del X sec., e dell’antica sede diocesana rimase un capitolo canonicale insigne che si conservò fino al 1873, quando lo Stato ne incamerò i beni. Ebbe propria magistratura, sottoposta a quella del Senato Romano. Fra la fine del XV e il XVII sec. Barbarano conobbe un periodo di prosperità, testimoniata da bei palazzotti e case signorili, alcune con le facciate ornate da decorazioni graffite. Le famiglie notabili Barbaranesi seguirono gli stessi percorsi comportamentali tipici dei ceti aristocratici centroitaliani: case e palazzi rappresentativi, cappelle patronate e sepolcri gentilizi in chiesa, cariche nelle magistrature e nel clero locale, e, naturalmente, l’uso di uno stemma. Alcune delle armi Barbaranesi sono oggi perse, perché scolpite su camini monumentali poi distrutti o rimossi, o scolpite in pietra e poste sopra i portoni, ma di cui oggi non rimane che l’uncino in ferro per appenderli. Una peculiarità dell’araldica Barbaranese è la consistente presenza di gigli, che attribuirei all’influenza di Casa Farnese, nel periodo di maggiore prosperità di Barbarano. La presenza Farnesiana nel Viterbese fu importante ed antica; ricordiamo che lo stato di Castro e Ronciglione, e l’imponente villa Farnese di Caprarola non sono distanti da Barbarano. I gigli dunque potrebbero essere un omaggio araldico ai Farnese da parte di quelle famiglie Barbaranesi che furono legate alle corti dei potenti cardinali Farnese che, a partire da Alessandro, poi eletto Pontefice col nome di Paolo III, si succedettero senza soluzione di continuità dalla fine del XV sec. fino al cardinal Girolamo Farnese, morto nel 1688, periodo di due secoli che coincide con l’epoca di maggior splendore di Barbarano. Poiché gli smalti delle armi Barbaranesi sono per la maggior parte sconosciuti, manca un ulteriore elemento di conferma: l’uso dei colori Farnesiani, l’azzurro e l’oro, negli stemmi delle famiglie di Barbarano. È anche frequente la presenza dello stemma del Comune di Roma, feudatario di Barbarano, come sulla facciata graffita di una casa in via Umberto I (1° metà del XVI sec.), nella sala consiliare del Comune (marmo, prima metà del XVI sec.), ai lati dell’altar maggiore della chiesa di S. Maria del Piano, sulla torre della porta Romana (marmo, seconda metà del XVI sec.), nella parrocchiale (fonte battesimale, 1617, arco del presbiterio, 1753), ed in altri luoghi. Barbarano Romano Lo stemma attuale del comune è: D’azzurro, al castello di rosso, torricellato di tre pezzi, quella centrale più alta, fondato sulla campagna di verde. Gli stemmi più antichi hanno avuto due versioni: la più antica è quella corrispondente, con lievi differenze (e.g. la merlatura ghibellina), all’arma attuale; la seconda, in uso dal XVIII sec., presentava una sola torre, forse in riferimento alla torre che compare nell’iconografia di S. Barbara. Del resto, la parte più antica di Barbarano corrispondeva all’antico castello longobardo, di cui faceva parte l’imponente torre poligonale, e di cui è rimasta memoria nel nome del quartiere, il Castello, e che avrà determinato la scelta dell’elemento principale dell’arma civica, il castello turrito dalla torre centrale più alta. La versione più antica dello stemma civico è quella che appare sulla bandiera tenuta da S. Quirico, in un affresco della metà del cinquecento corrispondente ad un altare ora scomparso nella chiesa della Madonna del Piano: Di rosso, al castello d’argento, merlato e torricellato di tre pezzi, quella centrale più alta, aperto e finestrato di nero. Di qualche decennio più tarda è la versione a stampa che appare sugli Statuti di Barbarano: Di....., al castello merlato alla ghibellina e torricellato di tre pezzi, quella centrale più alta, aperto e finestrato di nero, fondato su una terrazza. Frontespizio, Statuta terrae Barbarani, Roma, tip. della R. Camera Apostolica, 1613; Barbarano, parrocchiale, fonte battesimale marmoreo donato dal Popolo Romano, 1617, stemma scolpito sul piede. La versione settecentesca è: D’azzurro, alla torre al naturale, aperta e finestrata di due pezzi. Lo scudo timbrato da una corona a sette punte di lancia. Barbarano, parrocchiale controfacciata, posto sotto la lapide commemorativa del rifacimento della chiesa, sormontata dallo stemma di Benedetto XIV,1753; parrocchiale, inciso sul piede del busto reliquiario di S.Barbara, XVIII sec.; chiesa della Misericordia, stendardo processionale raffigurante i SS: Nicola da Tolentino, Marco Evangelista, e Bartolomeo, stemma di S. Pio X accostato dallo stemma di Barbarano e da quello della Confraternita della Misericordia: l’arma qui è: d’azzurro, alla torre torricellata, aperta e finestrata di nero, fondata sulla campagna, il tutto al naturale. Scudo timbrato da una corona a cinque punte. Confraternita della Misericordia. L’arma compare su un gonfalone processionale raffigurante i SS: Nicola da Tolentino, Marco Evangelista, e Bartolomeo, ai cui piedi è dipinto lo stemma di S.Pio X accostato a sinistra da quello di Barbarano, ed a destra da quello che si ritiene sia della Confraternita: D’azzurro, ai tre monti, quello centrale più alto e sostenente una croce, quelli laterali sostenenti due rami di palma, il tutto al naturale, ed accompagnato in capo da tre stelle (6) d’oro maleordinate. Lo scudo sormontato da una correggia incurvata in arco sulla sommità dello scudo e svolazzante sui fianchi. Alessandri La famiglia era una delle più antiche e cospicue del paese. Assai facoltosa, nel 1544 Francesco Alessandri si aggiudicò l’affitto dei pascoli comunale con sc. 142. Nel 1574 Menico de Alexandris era Priore. Nel palazzotto cinquecentesco di questa famiglia, all’inizio della via principale, anticamente detta via di Mezzo e ora corso Vittorio Emanuele II, si trova un camino in peperino della metà (?) del XVI sec., sul quale è scolpito uno stemma in una targa a testa di cavallo. Di.... alla fascia, accompagnata in punta da tre monti all’italiana, ed in capo da due gigli sormontati da una stella (8). Berretta Il signorile palazzotto del XVI – XVII sec. sulla via principale sembra avesse uno stemma scolpito in pietra, ora disperso. È attribuito a questa famiglia uno stemma, dipinto su carta della prima metà del XX sec. Ritengo però che provenga da qualche ufficio araldico. 2 Partito: il primo troncato d’azzurro a tre stelle (6) maleordinate d’oro (?), e d’oro, al cuore di rosso(?); il secondo d’azzurro, al cavallo allegro di... sulla terrazza di verde, accompagnato in capo da una bandiera bifida di.... e svolazzante da un’asta uscente in banda dal fianco sinistro. Battilana Una delle famiglie notabili ed antiche del paese, ebbe vari ecclesiastici, fra cui arcipreti e canonici, notai e magistrati. L’altare del transetto destro della chiesa di S. M. del Piano apparteneva a questa famiglia, che vi aveva la tomba; sul fastigio del settecentesco altare compare una piccola lapide con le iniziali I B P. Altro altare, dei SS. G.B. e Stefano era di loro giuspatronato, fondato dal sac. Propizio Battilana nel 1622 in S. Angelo. Nel XVI sec. G.B. Battilana donò la metà del soffitto scolpito, dipinto e dorato in S.M. del Piano, e il suo busto in stucco venne posto presso l’altar maggiore. L’altare di S.Anna e S. Gioacchino nel 1830 era di giuspatronato Battilana, e vi avevano una sepoltura i membri delle famiglie di Francesco e Pietro Battilana. Vi è la lapide di Maria Barbara Pisaneschi, moglie di Filippo Battilana, morta l’8 Gennaio 1806, e di Maria Battilana (+ 1847) ed altri della famiglia; in quell’epoca era di loro giuspatronato anche la cappella della Flagellazione ove nel 1788 avevano la tomba. Sul timbro di tabellionato del notaio Filippo Battilana, vivente alla fine del ‘700, compare lo stemma: Di.... alla torre merlata alla ghibellina, aperta e finestrata, uscente dalla punta dello scudo, accompagnata in capo da un giglio. Motto: ALTA A LONGE COGNOSCIT Timbro a inchiostro, con le lettere P(hilippus) B(attilana) N(notarius) su volume di atti processuali, ultimo quarto del XVIII sec. Ferracci (?) Casa in via Ferracci, scudo appuntato scolpito su un camino in pietra della prima metà del XVI sec.: Di... alla pianta di limone(?) divisa in due rami, ricadenti a destra ed a sinistra, fogliata e fruttata di due pezzi, uno per ramo, nodrita su di un’incudine. In un’altra casa in via S. Angelo vi è un camino della metà del XVI sec. circa, sul quale è scolpito in una riserva circolare la seguente arma: Di.... al giglio sostenuto da un’incudine. Si potrebbe ipotizzare che gli stemmi appartengano a due rami della stessa famiglia, che potrebbe identificarsi con la famiglia Ferracci, come potrebbe far supporre l’incudine, quale elemento alludente al nome. Fiaschetti Famiglia notabile. Nel 1654 Domenico F. era Signore della festa della Natività di Maria che si celebrava in S.Maria del Piano. Lo stemma compare scolpito in pietra sulla chiave d’arco del settecentesco portone della casa Fiaschetti su corso Vittorio Emanuele II; nel centro della rosta in ferro battuto nell’arco compare il fiasco, elemento principale dell’arma. Di.... alla fascia, accompagnata in punta da un fiasco, ed in capo da un giglio. Cimiero: il giglio uscente. Gigli Famiglia notabile, che ebbe il palazzo sull’attuale piazza Marturanum. L’arma parlante, scolpita sulla chiave d’arco in peperino del portone, entro una riserva mistilinea, è: Di.... al giglio. Forse a questa famiglia è riferibile un’altra arma, scolpita in peperino in uno scudo ovale quale chiave della volta della cappella del transetto destro della chiesa della Madonna del Piano, databile alla metà del ‘500: Di.... al giglio da giardino, fogliato e fiorito di un pezzo, nodrito sulla terrazza. Madonna delle Grazie, sulla quale nel 1609 Giovanni Guerrini aveva istituito un giuspatronato. Laurenti Nel 1606 G.B. Laurenti e nipoti commissionano la decorazione dell’altar maggiore e abside di S.Angelo, come da iscrizione sul quadro con l’Ascensione ed i SS. G.B. e Tommaso: IOANNES BAPT(TIS)TA DE LAURENTIIS ET NEPOTES FIERI FECERUNT ANNO 1606. Lo stesso G.B. Laurenti, con atto not. Gregorio de Fabris, nel 1632 donava beni per due Messe annue; Barbara Laurenti, con lo stesso notaio, donava sc. 150 nel 1652. Nel 1606 Giovanni Battista Laurenti ed i nipoti fecero eseguire la ricca decorazione a stucchi policromi ed affresco dell’abside ed altar maggiore nella chiesa di S. Angelo, commissionando il quadro raffigurante l’Ascensione ed i Santi Giovanni Battista e Tommaso Apostolo, poi sostitui to con l’attuale copia del S.Michele Arcangelo del Reni. I Laurenti avevano nella chiesa il sepolcro gentilizio. La famiglia, che nel XVI sec. entrò a far parte del magistrato cittadino, aveva diritto di giuspatronato su questo altare. Sulla sommità dell’arco dell’abside è posto lo stemma: D’azzurro, alla pianta di lauro, divisa in due rami arcuati in corona e decussati, nodrita sulla campagna, il tutto d’oro. L’elemento araldico della pianta di alloro d’oro, dai rami intrecciantesi sul fondo azzurro, è stato ripreso nelle lesene dell’abside quale motivo decorativo. Mastini Sul portone del palazzo già Mocavini, poi passato ai Mastini, si può notare un incavo a forma di scudo sannitico scavato nella chiave d’arco del portone di ingresso; probabilmente eseguito nel XIX sec. quando il palazzo era passato ai Mastini, esso doveva ospitare lo stemma di questa cospicua famiglia. Mocavini In S.Angelo, l’altare del Crocifisso era di giuspatronato Mocavini nel 1573. Sulla chiave dell’arco del portone del palazzo, uno dei più imponenti di Barbarano, è infisso un gancio in ferro, originariamente sorreggente uno stemma in pietra. Il palazzo sull’attuale corso Vittorio Emanuele II venne costruito alla fine del ‘500 da SCIPIO MOCAVINUS PHISICUS (iscrizione sul fregio delle finestre). Guerrini Dell’esistenza dell’arma di questa famiglie abbiamo notizia dagli Atti della visita del vescovo Tiberio Muti del 1616, che descrive il sepolcro gentilizio, sul quale era scolpito lo stemma della famiglia, di fronte alla cappella della Marsuzi o Marsuti Il bel palazzo su corso Vittorio Emanuele II è databile all’ ultimo quarto del XVI sec.; sul fregio delle finestre si legge IAC. MARSUTIUS. DOC. Non vi sono tracce di stemmi, ma nella chiesa di S.M. del Piano, il quinto altare a destra venne eretto dallo stesso Giacomo Marsuzi, ed è data3 to 1597 nell’iscrizione che sovrasta l’ancona. Sopra l’altare vi sono tracce evidenti di uno stemma, ora asportato, consistenti in un gancio alla sommità della sagoma di uno scudo a tacca, e due nastri svolazzanti dalle parti, il tutto posto sopra un drappeggio rosso. Tuttavia sulla quinta arcata a destra della navata, corrispondente all’altare suddetto, appare affrescato il seguente stemma, in parte illegibile, ma che può essere così blasonato: D’azzurro, al cavaliere al naturale armato di tutto punto, sul cavallo allegro d’argento, sostenuto dalla terrazza di verde. Cimiero: l’uccello d’argento, affrontato e con le ali spiegate.... Lambrecchini d’argento e di rosso. Pisaneschi (?) Nella scala del palazzo della fine del XVI sec., all’angolo di piazza Cavour con corso Vittorio Emanuele, furono murati alcuni reperti marmorei araldici, cioè una lastra marmorea sulla quale è inciso uno stemma entro una corona di alloro, databile alla metà del ‘500; sopra la lastra una corona da nobile all’antica scolpita in peperino, ed al di sotto di essa la data MDCXC, presumibilmente data di collocazione della lastra e della corona. L’arma è:Di..... alla pianta di pisello o legumi fogliata e baccellata, divisa in tre steli, quello centrale più alto e sostenuto da due leoni nascenti da una fascia attraversante sullo stelo centrale. Lo stemma è stato riferito alla cospicua famiglia Vallerani, che, fino a pochi anni fa, possedette il palazzo; ma questa famiglia si stabilì a Barbarano nel corso del XVIII sec., posteriormente alla costruzione del palazzo ed al posiziona mento della lastra stemmata sulle scale (1690). Inoltre, la presenza di una pianta con baccelli di piselli, piuttosto che di una pianta di valeriana fiorita, come ci si aspetterebbe nel caso fosse l’arma Vallerani, lascia qualche dubbio. Si può ipotizzare che l’arma invece appartenga alla famiglia Pisaneschi, alla quale alluderebbe l’elemento principale dello stemma, la pianta di pisello. Questa famiglia diede il nome ad una delle antiche strade del paese, il vicolo Pisa4 nesco; era titolare del giuspatronato della cappella di S. Anna in S.M. del Piano, acquistato dai Barbacci, ove pure aveva il sepolcro. Questo altare passò poi ai Battilana, probabilmente in seguito al matrimonio di Maria Barbara Pisaneschi, morta nel 1806, con Filippo Battilana. Possenti Nel 1616 rogava il notaio Filippo Possenti; nel 1657 il capitano Quirico Possenti lasciava un legato di 40 scudi per Messe all’altare di S. Anna in S.M. del Piano. Nel 1681-2 rogava il notaio Giovanni Cristoforo Possenti. Il palazzo tardocinquecentesco della famiglia in via Teodosio Vescovo testimonia una posizione assai notabile, ed è verosimile che questa casata, una delle primarie di Barbarano, alzasse uno stemma, del quale però non si sono fino ad oggi trovate testimonianze. Sagretti, patrizi di Ascoli; nobili di Montalto La famiglia principale di Barbarano, proveniente da Carassei nelle Marche, vi si stabilì verso la prima metà del XVIII sec. in persona del capitano Eugenio Sagretti (morto a 73 anni nel 1803). La famiglia, già di nobile condizione, venne ascritta alla nobiltà di Ascoli il 14-9-1844 in persona di Mons. Salvo Maria, Prelato Domestico di S.S. e Referendario dell’una e dell’altra Segnatura, Delegato Apostolico di Ascoli, che ebbe un ruolo significativo negli ultimi tempi dello Stato Pontificio; nel 1849 era Presidente del Tribunale della Consulta Pontificia, nel 1871 era Uditore di S.S. Papa Pio IX che fu pure aggregato alla nobiltà di Montalto il 17-5-1844. Suo fratello Carlo Sagretti fu ufficiale dei Gendarmi Pontifici, chiudendo la carriera col grado di tenente colonnello; decorato degli Ordini Piano, di S. Gregorio Magno e di S. Silvestro. Nella "Cronaca di Roma" del Roncalli (1844–1870), si cita invece un Tenente Sagretti, che venne arrestato a Foligno e portato a Castel Sant'Angelo perché sorpreso a gettare per la città coccarde tricolori. Successivamente venne di nuovo arrestato, mentre era Comandante dei Carabinieri di Albano, perché implicato in una congiura. La famiglia era titolare del giuspatronato su due altari in S. Maria del Piano, ove pure aveva il sepolcro gentilizio. Nel 1829 la famiglia ottenne il privilegio dell’oratorio privato nel proprio palazzo. E’ probabile che il titolo comitale usato dalla famiglia fino ad oggi derivi da un titolo di conte palatino: infatti lo stemma in argento posto sulle portiere della carrozza era timbrato da una corona a sette punte di lancia, quella consueta per i conti palatini. I carichi militari ricoperti da alcuni membri della casata nel XVIII sec. possono aver dato origine al cannone, elemento principale dell’arma. Vi sono versioni lievemente differenti dello stemma, che, a partire dalla prima metà del XIX sec., è partita con l’arma di un’altra famiglia non identificata. Lo stemma che compare scolpito nella chiave d’arco in peperino dei due portoni del palazzo Sagretti in corso Vittorio Emanuele II, della metà del XVIII sec. circa, è: Di.... ai tre monti all’Italiana, sostenenti un fusto di cannone rivolto e posto in sbarra, accompagnato in capo da tre stelle (6) poste in sbarra. Lo scudo timbrato da una corona da nobile all’antica, a tre fioroni e due perle visibili. Alias: Partito: il primo di rosso, ai tre monti all’Italiana d’oro, sostenenti un cannone sul suo affusto al naturale, rivolto, ed accompagnato in capo da tre stelle (6) d’oro poste in sbarra; il secondo d’azzurro ai tre monti all’Italiana d’argento, sostenenti una colomba rivolta d’argento, tenente nel becco un ramo di olivo d’oro, accompagnata in capo da due stelle d’argento. Palazzo Sagretti, affresco sulla volta dello scalone, prima metà del XIX sec. Alias 1: Partito: il primo di rosso, ai tre monti all’Italiana d’oro, sostenenti un cannone sul suo affusto al naturale, rivolto, e accompagnato in capo da tre stelle d’oro maleordinate; il secondo d’azzurro, ai tre monti all’Italiana d’oro, sostenenti una colomba rivolta d’argento, tenente nel becco un ramo di ulivo d’oro, accompagnata in capo da una stella d’argento. Panca da sala, XVII-XVIII sec., stemma dipinto nel XIX sec.; cfr. manifesti di Mons. Sagretti, Delegato Apostolico di Ascoli, ma con le stelle tutte d’argento. Alias 2: Partito: il primo di rosso, ai tre monti all’Italiana, uscenti dalla punta, e sostenenti un cannone sul suo affusto al naturale, rivolto, e accompagnato in capo da una stella; il secondo d’azzurro, ai tre monti all’Italiana, sostenenti una colomba rivolta, tenente nel becco un ramo di olivo, accompagnata in capo da due stelle. Lo scudo timbrato da una corona a sette punte di lancia. Placca in metallo argentato, già applicata sugli sportelli della carrozza, 1840-60 circa. Sagretti alias 1 Sagretti alias 2 Altri stemmi non identificati Casa signorile in via Umberto I, prima metà del XVI sec., scudo a testa di cavallo scolpito sulla cornice in peperino di una finestra; la facciata è decorata da graffiti raffiguranti una caccia al cinghiale con cani. Secondo una testimonianza del geom. Beretta, nella sala all’interno, sopra il camino, erano murati due rami di cervo. Di... al cervo saliente e rivolto. Un camino della metà del XVI sec., ora trasferito in una villetta di recente costruzione ma proveniente da un palazzetto incompiuto confinante col palazzo Possenti, porta scolpito il seguente stemma: Di... al monte all’Italiana di sei cime, sostenente un giglio. In S. M. del Piano, sul fastigio del primo altare a destra, databile al XVII sec. compare il seguente stemma: Partito: il 1° d’azzurro, alle cinque spighe nodrite sulla campagna, ed accompagnate in capo da una stella (6), il tutto d’oro; il 2° d’azzurro, alla fascia diminuita, accompagnata in punta da una freccia posta in banda, ed in capo da una cometa (6) ondeggiante in sbarra, il tutto d’oro. È possibile che gli smalti di quest’arma possano essere il frutto di una ridipintura posteriore. In S. M. del Piano, sull’arco della navata centrale corrispondente al primo altare a sinistra, dedicato alla B.V. ed ai S.S. Francesco ed Antonio, compare affrescato il seguen-te stemma: Troncato da una fascia d’oro: il 1° d’argento, al busto di vecchio barbuto al naturale, vestito di rosso, nascente dalla fascia; il 2° d’argento, allo scaglione d’oro, accompagnato da tre stelle (8) dello stesso. Lo scudo posto sopra un drappeggio di verde. Sull’altare compare la seguente iscrizione: INCLITA REGINA ANGELORUM VICTORIA SOROR TERTII ORDINI DEDICAVIT ET DOTAVIT A.D. MDCXX. In S. M. del Piano la cappella del transetto sinistro è decorata da ricchissimi stucchi ed affreschi, databili alla seconda metà del XVI sec. L’arco della cappella è sormonta to da un grande scudo in stucco, posto su di un drappeggio rosso, con la seguente arma: Di.... all’uccello, sostenuto dal monte all’Italiana di sei cime, che nodrisce quattro spighe sulla cima dei monti laterali, due sul primo ordine, e due sul secondo. Cimiero: la coppa baccellata, da cui esce.... (?). In S. M. del Piano, sui due pilastri a fianco dell’altar maggiore, sono affrescati due stemmi pressochè illegibili, databili alla fine del XVI – inizio del XVII sec. Quello a sinistra è quello del Comune di Roma, l’altro è presumibilmente quello di Barbarano, che qui è: D’azzurro (?) alla campagna di.... Gli scudi sormontati entrambi dalla correggia incurvata ad arco e svolazzante sui fianchi. .Sembrerebbe poter ravvisare in uno di essi una torre; potrebbe trattarsi dello stemma civico, anche se la orreggia veniva usata generalmente negli stemmi familiari. In S. M. del Piano, sui piedistalli delle colonne del quarto altare a destra sono modellati in stucco una coppia di scudi, dallo stemma oggi abraso. Inoltre, sulla lesena a sinistra dell’altar maggiore vi sono tracce dell’asporto di una lapide sormontata da uno stemma. Casa in via Dante Alighieri, stemma scolpito in un ovale nella chiave dell’arco in peperino del portone, XVII sec.: Di.... alla lancia da torneo posta in palo. Potrebbe essere un’arma parlante; un Pasquino Lancillotti, mugnaio, risulta immigrato da Pistoia nel secondo quarto del XVI sec.; inoltre un Carissimo Mezzalancia con testamento del 1633 istituì un legato di Messe all’altare di S. Michele Arcangelo in S.Angelo. Casa in via Garibaldi, sulla chiave d’arco in peperino del portone, seconda metà del XVII sec, scudo barocco timbrato da elmo, illegibile perchè assai corroso. Di.... alla terrazza..... Bibliografia Don G. Musolino, Barbarano – Storia civile e religiosa, Viterbo 2001. Ringrazio il signor Rinaldo Marchesi per le preziose notizie e la cortesia con cui ha assistito le mie ricerche; e il nob. dott. Raniero Salvaggi per le notizie sugli ufficiali di casa Sagretti. Maurizio Bettoja 5 Aspetti della politica matrimoniale della Corona di Spagna in Italia Fra i tanti aspetti che caratterizzarono il radicamento spagnolo in Italia a partire dal XV secolo, uno che presenta caratteristiche d’interesse per gli studi araldici e genealogici è quello della politica matrimoniale di alcune famiglie spagnole che ebbe forti riflessi sulla conduzione degli affari in Italia. Mette in luce questo particolare lo storico Hayward Keniston che vi si sofferma a lungo nel suo libro Francisco de los Cobos Secretario de Carlos V, personaggio che sostituì nell’incarico di segretario dell’imperatore Carlo V Mercurino Arborio di Gattinara, l’illustre giurista che fu tale dal 1517 al 1530. Il discorso di questo storico si limita però ai soli interessi del los Cobos mentre l’esigenza da parte degli sia dei sovrani Aragonesi sia Spagnoli di consolidare il loro potere attraverso i legami familiari era stata già individuata sin dal 1503, quanto si erano impadroniti del regno di Napoli, seguendo peraltro la linea politica già adottata in Sicilia. Qui erano presenti due partiti uno di parte aragonese, che più che all’unione alla Spagna pensava all’indipendenza ed uno di parte angioina, alimentato quest’ultimo dai continui tentativi fatti dalla Francia sino al 1528, per riconquistare ciò dopo aver conquistato travolgendo il povero re Federico d’Aragona e che si era poi fatta portar via con le armi da Consalvo de Cordoba, il Grande Capitano. Sino al 1522 con l’arrivo di Carlo de Lannoy si verificarono alcune unioni fra le due aristocrazie ma non molte anche se alcune di grande importanza, la instabile situazione e le guerre in corso fra Francia e Spagna costituivano probabilmente una remora allo stabilirsi di legami parentali generalizzati. Senza dubbio la più significativa alleanza matrimoniale dei primi anni del Cinquecento nel Meridione d’Italia fu quella nel 1511 fra Pietro Antonio San Severino e Giovanna Requesens figlia di Calcerando conte di Trivento e di Avellino e di dona Beatriz Maurique de Leiva , finito però con la prematura morte della sposa. Una delle figlie del secondo matrimonio di Pietro Antonio, Eleonora nel 1543 sposò Federico Alarcon e Mendoza marchese di valle Siciliana e nipote del Fernando Alarcon che fu uno dei luogotenenti di Consalvo de Cordoba nel quadro di una politica di naturalizzazione seguita dalle famiglie spagnole che avevano acquisito sin dalla loro discesa in Italia ampi feudi. Requesens De Lannoy Colonna Castriota Tre dei numerosi figli di Filippo diedero poi luogo ad un allargamento delle parentele e alla realizzazione di un’importante rete di vincoli. Carlo (1538-1556) sposò Costanza Doria del Carretto figlia di Marcantonio principe di Melfi, Beatrice andò sposa ad Alberto Acquaviva d’Aragona Duca di Atri, Orazio sposò Antonia d’Avalos d’Aquino figlia di Alfonso principe di Pescara. Sanseverino Dato tuttavia che questa breve nota si limiterà alle più alte cariche del regno è da ricordare che fra il 1509 ed il 1522, quando fu viceré a Napoli Raimondo Cordoba, che era già stato con lo stesso incarico in Sicilia. i suoi figli Fernando e Catalina si erano già sposati il primo con Beatrice Fernandez de Cordoba dei duchi di Sessa e la seconda con Ferdinando d’Aragona che nel 1535 venne creato da Carlo 6 V duca di Montalto. Non si dovette comunque attendere l’arrivo di Francisco de los Cobos perché la politica delle alleanze matrimoniali fra spagnoli e grandi feudatari italiani avesse inizio. Restando però a livello dei viceré, furono due dei figli di Carlo de Lannoy, il primo dei viceré di Napoli nominati da Carlo V, che si ebbero i primi matrimoni fra figli di questi dignitari e membri della nobiltà locale. Carlo de Lannoy era membro del consiglio privato dell’Imperatore, nel 1515 era stato governatore di Tournai e nel 1522 venne inviato a Napoli a sostituire Raimondo de Cardona, e in seguito dopo aver lasciato l’incarico venne fatto conte di Asti nel 1526 e sempre in quell’anno principe di Sulmona e Ortona a mare. Suo figlio primogenito Filippo, colonnello della cavalleria spagnola e poi cavaliere del Toson d’Oro, sposò Isabella Colonna figlia di D. Vespasiano principe di Traetto, e Clemente, l’ultimogenito, Ipolita Castriota figlia di Ferrante marchese di Sant’Angelo e di Camilla di Capua . Doria Aquaviva d’Aragona d’Avalos Il Keniston nel citare alcuni esempi di unioni fra alti funzionari spagnoli o loro figli e la nobiltà locale lega tali eventi non tanto alla necessità di realizzare un’unione stabile fra quest’ultima e la Spagna ma per costruire una rete di relazioni e clientelare che consentisse al de los Cobos di esercitare un effettivo potere su ogni articolazione dell’amministrazione. Peraltro godendo della piena fiducia dell’imperatore che gli aveva lasciato l’assoluto controllo del disbrigo di tutti gli affari in Italia, non vi era dubbio che gli fosse possibile dislocare i suoi uomini ovunque lo desiderasse, con evidente funzione di controllo, poiché le decisioni alla fine spettavano a lui. In effetti Don Antonio de Leyva principe di Ascoli, governatore di Milano nel 1535 era amico del de los Cobos, ma non venne nominato a quell’incarico per questa amicizia ma in quanto era il comandante delle truppe spagnole che avevano sconfitto quelle francesi. Era stato investito nel 1531 del titolo e feudo di conte di Monza da Francesco II Sforza ed alla sua morte Carlo V confermò al figlio Luigi titolo e feudo. era divenuto maritali nomine marchese di Pescara dei suoi tre figli il primogenito Alfonso, sposato a Diana de Cardona, fu il padre di Ferdinando Francesco, detto Ferrante, brillante condottiero nell’esercito di Carlo V, marito di Vittoria Colonna figlia di Fabrizio Colonna, condottiero largamente beneficiato dagli Aragonesi e gran Connestabile del regno di Napoli; ma che rifiutava di considerarsi italiano, tanto che parlava solo in spagnolo anche con la moglie. Morto senza discendenza maschile il titolo di marchese di Pescara passò a suo cugino Alfonso (figlio di un Inigo terzogenito dell’Inigo giunto a Napoli nel 1442 e di Laura San Severino) anch’egli generale negli eserciti di Carlo V fu Governatore di Milano dal 1538 al 1546 e sposò Maria d’Aragona figlia di Ferdinando duca di Montalto (figlio naturale di Ferdinando I di Napoli). Stemma di Ferdinando d’Aragona duca di Montalto Non mette conto di proseguire con la progenie dei d’Avalos di cui si è visto sin dai primi anni del suo arrivo in Italia la propensione ad installarvisi. Più complessa e forse più aderente alla situazione descritta dal Keniston anche se non nei termini così forti da lui usati, la vicenda degli Alvarez de Toledo che si intreccia in parte con le relazioni sopra descritte creando una rete ancora più complessa ed ingarbugliata. Scrive lo storico che: «I Toledo ebbero un’influenza decisiva nella vita politica italiana del XVI secolo per il peso dei cardinali Juan Alvarez de Toledo e di Francisco Pacheco Osorio de Toledo nella Corte Pontificia e per la loro parentela con i Leyna (principi di Ascoli) e per la politica matrimoniale di don Pedro de Toledo (1484-1553).» Come noto la famiglia si radicò in Milano ed una bisnipote di Don Antonio fu la cosiddetta Monaca di Monza. Al de Leyva dopo l’interregno del Cardinale Caracciolo nel 1538 subentrò nell’incarico di governatore di Milano don Alfonso de Avalos de Aquino marchese del Vasto le cui origini spagnole si erano peraltro alquanto scolorite, sua nonna e sua madre erano infatti ambedue italiane, la prima era stata Antonella d’Aquino ultima della sua famiglia ed erede del marchesato di Pescara che passò appunto ai d’Avalos e la seconda era Laura San Severino, segno evidente che la preoccupazione di unire gli esponenti delle due aristocrazie e consolidare in tal modo il potere spagnolo era presente sin dai tempi di Alfonso I d’Aragona. In concreto i d’Avalos, giunti a Napoli nel 1442 al seguito di Alfonso I d’Aragona, dopo più di 50 anni si potevano considerare quasi come appartenenti alla nobiltà locale, infatti il primo di questi Inigo († 1484), come sopra accennato aveva sposato nel 1452 Antonella d’Aquino ed Stemma di Juan Alvarez de Toledo Stemma di Francisco Pacheco y Osorio Quest’ultimo, tanto per chiarire il senso dello scritto era figlio del II duca d’Alba, Fadrique Alvarez de Toledo y Enriquez (1460-1531), grande amico di Francisco de los Cobos e maritali nomine era marchese di Villafranca in quanto sposo di Maria Osorio e Pimentel. Prosegue ancora lo storico descrivendo la politica matrimoniale di don Pedro:«Il marchese di Villafranca sposò sua figlia Eleonora 7 con Cosimo de Medici e suo figlio Garcia con la figlia di Ferrante d’Avalos e Vittoria Colonna, marchesi di Pescara, e in questo modo s’imparentò con Alfonso d’Avalos e Aquino marchese del Vasto. I legami di parentela si estendevano quindi come per un’aggrovigliata matassa attraverso i matrimoni, Vespasiano Colonna marito di Giulia Gonzaga si collegava con Ferrante Gonzaga …». Alvarez de Toledo dei duchi di Alba Cosimo I de Medici d’Aquino vicende italiane del tempo sembra veramente un ipotesi azzardata. Riuscì data la stima che aveva nei sui confronti l’Imperatore Carlo V a far sì che questo desse l’ordine di cessare il sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi, ma per il resto si occupò poco degli affari italiani. Il don Pedro come politica matrimoniale si divise fra Italia e Spagna. In Italia come detto suo figlio Garcia sposò Vittoria Colonna, le sue figlie Isabella e Eleonora sposarono l’una Giovanni Battista Spinelli duca di Catrovillari, l’altra Cosimo de Medici e divenne Granduchessa di Toscana; in Spagna le figlie Giovanna ed Anna sposarono la prima Ferrante Ximenes d’Urla e l’altra Lopo de Moscoso y Osorio. Il fratello di don Pedro, Fernandez (1507-1582) fu il più famoso degli Alvarez del suo tempo il cui ricordo è ancora nelle leggende dei Pesi Bassi. III duca d’Alba fu generale nell’esercito di Spagna, nel quale militò sin da giovane a partire dalla battaglia di Pavia del 1525, partecipando poi a tutte le principali imprese di Carlo V e Filippo II, fu governatore di Milano nel 1555, viceré di Napoli dal 1556 al 1558 ed infine governatore dei Paesi Bassi dal 1567 al 1573. Eleonora Alvarez de Toledo Fernandez Alvarez de Toledo III duca d’Alba de Medici Tutto ciò ebbe un’influenza notevole nelle decisioni del consiglio di gabinetto dell’Imperatore e le speciali relazioni che il segretario del sovrano manteneva con la nobiltà italiana secondo lo storico emersero con chiarezza nel capitolo dell’Ordine del Toson d’Oro tenutosi a Tournai nel 1531, quando vennero insigniti del cavalierato Alfonso III d’Avalos marchese di Vasto, Andrea Doria principe di Melfi e Ferrante Gonzaga principe di Molfetta e conte di Guastalla.. Tornando agli Alvarez de Toledo, il fratello di don Pedro, Juan Alvarez de Toledo (1488-1557) eletto cardinale nel 1538 giunse a Roma nel 1540 prima come inquisitore e poi fu nominato Camerlengo, può darsi che abbia avuto qualche influenza nelle decisioni politiche della Santa Sede, ma che essa possa essere stata decisiva per le 8 Senza ovviamente entrare in polemica con storici qualificati sembra che più che una questione clientelare di un personaggio sia pure importante come poteva esserlo il segretario dell’Imperatore, la politica matrimoniale tesa a legare importanti personaggi dei seguiti dei sovrani aragonesi o spagnoli alla locale nobiltà sia stata una politica seguita con costanza sin dai primi passi dell’ insediamento spagnolo prima in Sicilia poi nell’Italia Meridionale . La secolare esperienza seguita alle vicende successive ai Vespri siciliani e quelle che contraddistinsero il conflitto franco-aragonese sia in Sicilia sia nel Napoletano fecero comprendere ai sovrani di Spagna e al loro entourage la convenienza di legare alla corona le nobiltà locali, verso le quali peraltro i sovrani spagnoli furono assai generosi dispensando titoli di principi e di duca senza troppi problemi, cosa che invece non facevano a casa loro. Pietro Gastone Riordinando alcune cartelle documentali del mio archivio famigliare ereditario, venni a rileggere delle lettere contenenti informazioni e specificazioni di carattere storico-nobiliare scritte dal conte Antonio CavagnaSangiuliani al proprio parente ed amico di studi il conte Giuseppe Morelli d’Aramengo, patrizio astese, padre di Anna, una delle mie bisavole. Unitamente a queste lettere, un piccolo libricino quinternato, a mano di Giuseppe Morelli, contenente appunti biografici del Cavagna-Sangiuliani, dal quale attingo notizie utili per ricordare questo illustre studioso delle “nostre” discipline. Il conte Antonio Cavagna-Sangiuliani di Gualdana e Balbiano persona di gran signorilità e bel portamento possedeva una cultura storico-umanistica fuori dal comune. guarnigione (infatti sia il padre che gli zii parteggiarono, in favore del Piemonte e di Casa Savoia, nelle imprese risorgimentali per il riscatto d’Italia, nelle campagne del 1848/49, del 1859 ed, ancora, fino al 1875). Volontario nel 1866, il giovane conte Antonio, prestò, anch’egli, servizio come ufficiale dei lancieri d’Aosta ed attraversò, in armi, i campi di Lombardia e Veneto, lasciandone testimonianza scritta nel suo personale carteggio ai genitori ed ad alcuni amici. Ritornato dalla guerra si occupò di amministrazione pubblica e sedette in consiglio comunale, nella deputazione provinciale, nel sindacato agrario, nelle presidenze di enti culturali e benefici delle città di Voghera e Pavia. Gli zii materni, i conti Sangiuliano di Balbiano, in mancanza di eredi, lo adottarono, in qualità di figlio, ed egli ne assunse il cognome ed i titoli divenendo, per successione nobiliare: il conte Antonio Cavagna-Sangiuliani di Gualdana e Balbiano.. Nato da famiglia originaria di Voghera, nella qual città i suoi antenati avevano tenuto, da epoca longobarda, la carica di sculdascio a titolo ereditario (ufficiale longobardo che esercitava sia il potere militare che civile alle dirette dipendenze di un gastaldo regio) poi, dal 1180, furono consoli del comune e godettero della nobiltà, con giurisdizione feudale, sopra alcune terre dell’agro vogherese. Carlo ed Antonio Cavagna furono membri del decurionato della città e Guglielmo, nel 1346, fu cancelliere della repubblica di Genova. Un ramo di questa famiglia, fiorito in Novara, fu, nel sec. XVI, fregiato del titolo comitale palatino, dall’imperatore Carlo V. Stefano Cavagna, nel mese di agosto del 1835, ottenne dal re di Sardegna Carlo Alberto, il titolo di conte di Gualdana (un podere della famiglia costituente il predicato). Antonio Cavagna nonostante queste, così marcate origini storiche vogheresi, nacque in Alessandria, il 15 agosto 1843, dove il padre, ufficiale dell’esercito piemontese, dimorava per ragioni di servizio presso la locale I Sangiuliani fiorirono in Como e in Milano. Furono decurioni di Como del sec.XV. Luigi e Martinolo furono delegati della città di Como a prestare, per essa, giuramento di fedeltà alla duchessa di Milano Bona di Savoia tutrice del figlio Giovan Galeazzo Sforza. Francesco, nel 1570, fu governatore dell’isola di Giamaica per il re di Spagna. Giovanni Stefano nel 1693 fu infeudato dal re di Spagna, Carlo II, della terra di Balbiano (lago di Como) con il titolo comitale. Il conte Antonio ebbe, tuttavia, quale principale scopo di vita, l’approfondimento dei suoi studi preferiti: quelli storico-nobiliari (così come si conveniva ad un agiato signore del par suo …) e, in cinquant’anni di ricerche e studi appassionati, (morirà in Milano nel 1913) pubblicò ben centosessanta lavori di carattere storico-araldiconobiliare ed artistico di cui, i principali, riguardarono l’Agro vogherese (quattro volumi); il Cartario vogherese; la storia dell’abbazia di Morimondo ed una lunga serie di monografie relative a monasteri, castelli del pavese e del comasco ed infine raccolse nella sua villa, denominata “la Zelata,” di Bereguardo (PV) una preziosa biblioteca statutaria italiana ricca di ben 85.000 volumi ed unica nel suo genere. L’ignavia del governo del tempo non seppe assicurare questa preziosa biblioteca alla cultura italiana, benché, il proprietario l’avesse offerta gratuitamente; così, questa, emigrò, nel 1920, negli Stati Uniti d’America, acquistata dall’Università dell’Illinois dove già si tenevano corsi di studio in lingua italiana. In detta importantissima biblioteca, alla “Zelata”, erano, inoltre, custoditi incunaboli, incisioni, carte geografiche antiche e numerosi stemmari pavesi e milanesi. Il conte inoltre aveva, privatamente, dato alle stampe: Regesti di carte storiche lombarde (in due volumi); Statuti di vari territori italiani (in due volumi, purtroppo, non seguiti dal terzo, per sopraggiunta morte dell’autore); Manoscritti relativi alla storia nobiliare italiana. Il conte Antonio Cavagna-Sangiuliani fu presente, in Alessandria, nel 1901, al congresso storico napoleonico ed a quelli tenuti, in provincia di Alessandria e di Tortona, sul “Barbarossa”. Il conte Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana - insigne storico ed araldista ( nel centenario della morte ) 9 Molte società di storia ed araldica lo vollero tra i propri soci e diverse onorificenze cavalleresche gli furono conferite dai più disparati governi. Ricevette, altresí, molte menzioni onorevoli anche da parte di istituti araldici e culturali. La nobiltà piemontese e quella lombarda gli saranno sempre debitrici per il suo così competente impegno di scrupoloso studioso. Le città di Voghera e Pavia gli hanno dedicato una via. Cavagna di Gualdana -Arma: di rosso, al leone d’oro, con la fascia d’azzurro caricata di una cesta per frutta d’oro, attraversante sul tutto. Col capo d’oro caricato di un’aquila di nero, sormontata da una corona all’antica. Cimiero: un’aquila nascente di nero coronata e rostrata d’oro. Sangiuliani di Balbiano -Arma: spaccato; nel 1° d’oro all’aquila di nero coronata del campo; nel 2° d’argento al castello di rosso, cimato da una torre dello stesso, aperto e finestrato del campo e posto sopra una terrazza di verde; la torre accostata da due leoni d’oro, affrontati e sostenuti dal castello. Cimiero: un’aquila di nero nascente. Alberto Gamaleri Calleri Gamondi I Conti di Adernò La Contea di Adernò è una delle più antiche terre feudali dell’isola, concessa come Contea da Ruggero il Primo Gran Conte ad un Goffredo normanno, i cui discendenti ressero lo stato per qualche generazione. Nel 1266 Carlo d’Angiò, rese la città demaniale. Dopo Vespri e l’avvento 10 al trono di Sicilia della dinastia aragonese venne prima eretta in baronia e concessa a Matteo Sclafani che nel 1338 venne creato dal re Pietro II conte d’Adernò. La Contea di Adernò è una delle più antiche terre feudali dell’isola, concessa come Contea da Ruggero il Primo Gran Conte ad un Goffredo normanno, i cui discendenti ressero lo stato per qualche generazione. Nel 1266 Carlo d’Angiò, rese la città demaniale. Dopo Vespri e l’avvento al trono di Sicilia della dinastia aragonese venne prima eretta in baronia e concessa a Matteo Sclafani che nel 1338 venne creato dal re Pietro II conte d’Adernò. Nel 1929 Adernò, che come molti altri paesi della Sicilia ha nome ed origini che sono un misto di leggenda e tradizioni, riprese l’antico nome tornando ad esser Adrano. Adernò era venuto nel tempo per trasformazione dell’antico Αδρανόν dei Greci o l’Adranum o Hadranum dei Romani, che derivava il nome dall’esistenza in quell’area di un antichissimo tempio dedicato al dio della guerra e del fuoco, Adrano, venerato dagli antichi abitatori della Sicilia, con i suoi 1000 cani sacri, il cui culto pare fosse connesso a con quello dei Palici (demoni, venerati in Sicilia, figli gemelli di Zeus e della Ninfa Talia). La nascita della città si lega a Dionisio il Maggiore che l’avrebbe costruita nel 400 a.C., ma esistono tracce che ne fanno risalire il primo insediamento nella zona in cui sorge al Neolitico della cittadina ne parlano antichi scrittori greci quali Diodoro e Plutarco e romani come Cicerone. Il cambio di nome del paese non ha avuto però alcuna influenza su quello del titolo che non è mutato e resta quello di conte di Adrano di cui resta titolare la famiglia Moncada. Troppo incerte e senza appoggi concreti le notizie sui personaggi che nel periodo normanno godettero del titolo e feudo di Adernò, di grande interesse invece la figura del primo conte creato dalla prima dinastia aragonese, Matteo Sclafani. Questi figlio di un miles, signore di Sclafani, Chiusa e del casale di Recalsisi, lo divenne anche di Ciminnà e dello stesso Adernò, di cui poi come si è già accennato venne creato conte. I suoi primi passi nella carriera politica, che lo portarono a ricoprire posizioni di vertice nell’amministrazione dello Stato e a divenire uno dei più ricchi feudatari del regno non poterono essere seguiti dallo zio materno, Matteo da Termini, militare comandante di parte della flotta, maestro razionale prima e maestro giustiziere del regno sotto Federico II, che morì nel 1309, quando egli aveva appena 19 anni, si può dire quindi che seppe farsi da solo. Lo zio peraltro lo lasciò erede di una notevole fortuna ma anche di un mare di debiti da cui uscì grazie all’abilità degli esecutori testamentari che riuscirono con una serie di concordati a ristabilire l’equilibrio di un patrimonio vasto ma amministrato in modo assai confuso. Nel 1325 Matteo Sclafani, un fedele all’autorità regia, si trovò fra i difensori di Palermo attaccata dalla flotta angioina guidata dal Duca di Calabria e cosa che gli capiterà ancora altre volte per far fronte alle scorrerie angioine contro le coste siciliane. Secondo la pace di Caltabellotta alla morte di Federico II, avvenuta nel 1337, la Sicilia sarebbe dovuta tornare nelle mani degli Angiò, ma ai Siciliani la cosa non garbava affatto, il figlio di Federico II, Pietro, già associato al trono di Sicilia nel 1321, venne dichiarato re. La Sicilia dovette far allora fronte sia alla posizione del Papa, Benedetto XII, che voleva imporre la restituzione dell’isola agli Angiò sia ovviamente del re di Napoli, Roberto d’Angiò. Matteo Sclafani fu uno dei feudatari convocati dal Papa a Roma per sentire le sue ragioni, ed egli come tutti gli altri non si mosse. Era allora il tempo in cui la feudalità siciliana era divisa in due grosse fazioni, la parzialità catalana e quella latina. Non era una suddivisione rigida, interessi di vario genere facevano si che si passasse da una parzialità all’altra a seconda di come si riteneva, che essa meglio favorisse i propri interessi. Non era poi detto che i catalani fossero solo quelli di origine spagnola e quelli latini fossero gli autoctoni o i provenienti da altre regioni d’Italia. Matteo Sclafani teneva per la parzialità catalana, ma poneva sopra il contrasto fra le parti la propria fedeltà alla corona, dimostrata in più di un occasione battendosi anche in condizioni di forte inferiorità contro Chiaramonte e Ventimiglia quando questi si erano ribellati al re . La sua adesione alla parzialità catalana s’individua nel fatto che le sue due figlie sposarono due esponenti delle maggiori famiglie di questa parzialità e non si può dire che lo abbiano fatto per amore, allora questo era un aspetto che non era preso in alcuna considerazione, ma non era detto che i matrimoni in qualche modo riuscissero egualmente. Aloisa, figlia del suo secondo matrimonio era andata sposa a Guglielmo Peralta conte di Caltabellotta, e Margherita figlia del primo matrimonio aveva sposato Guglielmo Raimondo Moncada. Questi matrimoni che ben lo collocavano nell’area catalana, per le sue disposizioni testamentarie provocarono poi una spaccatura nella fazione catalana. Egli infatti, morto senza figli maschi, eresse a suo erede universale il nipote Matteo Peralta, figlio della secondogenita Aloisa, imponendogli fra l’altro l’obbligo di assumere il cognome di Sclafani e di adottare l’arma della sua famiglia. Ciò provocò la reazione dell’altro nipote, figlio della primogenita Margherita, Matteo Moncada e Sclafani cui per diritto di primogenitura sarebbero dovuti andare titoli e feudi e diede luogo ad una vertenza giudiziaria che durò qualche decennio. Artale d’Alagona il maestro giustiziere del regno cui venne sottoposta inizialmente la questione non aveva alcuna intenzione di inimicarsi una delle due potenti famiglie catalane quindi non decise e prese tempo. Re Federico III, qualsiasi decisione avesse preso, certo che non avrebbe avuto la forza per farla rispettare, prese tempo anche lui. Spazientito da come andavano le cose Matteo Moncada passò al’uso delle armi e manu militari nel 1360 si impossessò della contea di Adernò, cosa che gli costò la prigionia della moglie, Allegranza Abate, fatta prigioniera dalle truppe del Peralta. Moncada Federico III cercò a questo punto di interporsi fra le parti, ordinò di rimettere in libertà la moglie del Moncada e diede ordine al Supremo Tribunale della Regia Gran Corte di esaminare gli atti e pronunciare la sentenza. Questa sentenziò in favore del Moncada, nel 1366 i Peralta riuscirono a far revocare tale decisione, ma la controparte non si diede per intesa e rimase in possesso della Contea. Il Moncada era comunque in una posizione tale da non dover temere nulla da parte del sovrano che sin dal 1359 lo aveva nominato Gran Siniscalco e Capitano Generale dei suoi eserciti, lo aveva inviato in Grecia, quando era stato eletto Duca di Neopatria e di Atene, ove aveva ottenuto successi in Morea ed infine lo aveva richiamato in Sicilia per far fronte all’invadenza dei Chiaromonte che minacciavano l’autorità regia. Nel 1372 Matteo fu uno dei quattro grandi feudatari che di fatto assunsero il governo dell’isola. Si sposò due volte, la prima con Giovanna Peralta, figlia di Raimondo e d’Isabella d’Aragona figlia di Federico II d’Aragona, e dopo al morte di essa con Allegranza Abbate. Dalla prima consorte ebbe Guglielmo Raimondo da cui il ramo dei Moncada conti di Caltanissetta e dalla seconda Antonio che venne investito della Contea di Adernò . Questi riuscì ad appianare la divergenza con i Peralta riguardo al feudo di Adernò, ricoprì l’incarico di Gran Siniscalco di Corte concessogli da Martino I nel 1392, si batté a favore della regina Bianca dopo la morte del re Martino contro il conte di Cabrera, che voleva sostituirla nel Viceregno di Sicilia. Sposato con Agata di Chiaramonte, appartenente ad una famiglia storicamente antagonista della sua, ma segno evidente di un tentativo di composizione dei contrasti, non ebbe eredi, per testamento lasciò quindi Adernò al figlio secondogenito di suo fratello Guglielmo Raimondo, Giovanni Moncada ed Alagona barone della Ferla, anch’egli un fedele della regina Bianca che aveva sconfitto le truppe del Cabrera che assediavano la regina a Siracusa. Ebbe numerosi importanti incarichi di vertice , far cui quello di Mastro Giustiziere del regno .Alfonso d’Aragona gli concesse numerosi feudi nelle Puglie, nella zona di Otranto, in Calabria e nel Napoletano, ebbe come successore nella Contea il figlio Guglielmo Raimondo, avuto dalla moglie Andrea Fonellar 11 Majorchino e Aragona (figlia Umberto e di Costanza d’Aragona baronessa di Avola), che venne investito del titolo e feudo nel 1452. Cresciuto ed educato alla corte di Alfonso d’Aragona, appena raggiunta la maggiore età questo venne investito di importanti incarichi, fra i quali quello di Amabsciatore presso il re di Francia nel 1443 per trattare il matrimonio dell’Infante D. Ferdinando con una delle figlie di quel sovrano. Fece ancora parte della delegazione che si recò a congratularsi dal Papa Callisto III per la sua elevazione al soglio pontificio, fu nominato Viceré di una parte delle province napoletane, nel 1453 fu nominato Gran Giustiziere del regno, incarico che ricoprì sino al 1466 quando divenne Gran Siniscalco e Gran Camerlengo., e ancora fra il 1458 ed il 1461, da re Giovanni venne nominato Viceré di Sicilia. Nel 1456 comprò Paternò, ma non fu una cosa semplice, a parte il prezzo (24000 fiorini), questa era una città demaniale, quindi inalienabile, per ottenerla dovette ottenere il consenso unanime di tutte le altre città del regno e la pratica si concluse solo nel 1472. Si sposò una prima volta con Diana Sanseverino e morta questa, in seconde nozze sposò Bartolomea Romano, figlia del barone di Montalbano. Dalla prima moglie ebbe Giovanni Tommaso che gli successe nelle contee di Adernò e Sclafani, questo fu Gentiluomo di camera di re Giovanni, Vicario generale di suo padre, allora Presidente del Regno, per far fronte alle continue offese delle navi dell’Impero Ottomano contro le coste siciliane, Capitano Generale delle Armi nel 1475 venne chiamato a sostituire il Viceré Lopez, deceduto, incarico che poi gli venne assegnato una seconda volta nel 1478. Si potrebbe continuare ancora a lungo ma a questo punto sembra giusto dire che la fila dei conti di Adernò, quale titolo di grande prestigio per la famiglia Moncada, si arrestò nel 1565, quando Francesco Moncada e Luna, conte di Adernò e Caltanissetta, venne creato da Filippo II principe di Paternò, da allora ovviamente la famiglia tese di fregiarsi del titolo di maggior rilievo. Quello di Paternò fu il quarto titolo di principe concesso in Sicilia dopo quelli di Butera, concesso l’11 aprile 1563 ad Ambrogio Santapau; di Castelvetrano, concesso il 24 aprile 1564 a Carlo Tagliavia ed Aragona; di Pietraperzia, concesso il 22 dicembre 1564 a Pietro Barrese e Santapau.. Anni dopo il nipote del primo principe di Paternò, anch’egli Francesco si sposò con Maria d’Aragona erede di Antonio d’Aragona (discendente da un figlio di re Ferrante d’Aragona) e suo figlio Luigi in osservanza delle disposizioni dotali ebbe si chiamò Aragona e Moncada. Il blasone del ramo della famiglia d’Aragona da cui discendeva Maria era: Arma degli Aragona duchi di Montalto 12 Il blasone dei Moncada principi di Paternò e conti di Adernò rimase per un certo numero di anni Arma Moncada: Di rosso ad otto bisanti d’oro Quello che venne poi adottato dai Moncada anche in relazione alle leggende che riguardavano l’origine della famiglia tenne conto della parentela regale e divenne Arma Moncada: Inquartato di nero al leone incoronato d’oro e fusato in banda d’argento e azzurro, che è di Baviera, e sul tutto partito di Moncada, che è di rosso ad otto bisanti d’oro, due su due e d’Aragona che è d’oro a quattro pali di rosso. ALFS Sul tutto periodico della SISA riservato ai Soci Direttore Alberico Lo Faso di Serradifalco Comitato redazionale Marco Di Bartolo, Andrew Martin Garvey, Vincenzo Pruiti, Angelo Scordo Testata del periodico di † Salvatorangelo Palmerio Spanu Indirizzi postali Direttore: Piazza Vittorio Veneto n. 12 10123 Torino Redattore: Marco Di Bartolo, via IV novembre n. 16 10092 Beinasco (Torino) Sito Internet www.socistara.it Posta elettronica [email protected] ; [email protected] I contributi saranno pubblicati se inviati su supporto ma-gnetico in formato word o via e-mail ai sopraccitati indirizzi. Quanto pubblicato è responsabilità esclusiva dell’autore e non riflette il punto di vista della Società o della redazione. Gli scritti verranno pubblicati compatibilmente con le esigenze redazionali ed eventualmente anche in due o più numeri secondo la loro lunghezza. La redazione si riserva la possibilità di apportare qualche modifica ai testi per renderli conformi allo stile del periodico.