RomanoCavagna-Il moto insurrezionale

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RomanoCavagna-Il moto insurrezionale
Convegno 150° anniversario dell’Unità d’Italia
organizzato dal Distretto Lions 108 Ta2
Il moto insurrezionale mazziniano del 1864 a Belluno
Relatore: Romano Cavagna
Fra il 1859 e 1860 si può dire che sia sostanzialmente avvenuta l’unificazione d’Italia. Infatti
con la 2^ guerra d’indipendenza del ’59 la Lombardia era stata ceduta al Regno di Sardegna, con la
Spedizione dei Mille Garibaldi aveva consegnato al Re Vittorio Emanuele II il Regno delle due
Sicilie, e quindi tutte le regioni del Sud, e per plebiscito avevano aderito allo Stato sabaudo
l’Emilia, la Toscana, le Romagne,Marche e Umbria e i Ducati.
L’unità d’Italia era di fatto compiuta e venne ufficialmente proclamata il 17 Marzo 1861 con
l’incoronazione di Vittorio Emanuele II col titolo di Re d’Italia.
Era stato raggiunto un grande traguardo politico, ma allo Stato unitario mancavano ancora
due importanti regioni: il Lazio con Roma (Stato della Chiesa) e il Triveneto, occupato dall’Austria.
Nonostante la proclamazione restavano pertanto aperte due fondamentali questioni: la questione
romana e la questione veneta. D’altra parte la proclamazione dell’Unità d’Italia, come se con
quanto era stato fatto tutto fosse stato compiuto, suscitava profonda amarezza nei democratici,
soprattutto nel Partito d’Azione, composto da repubblicani e garibaldini, l’ala democratica del
nuovo parlamento nazionale.
I patrioti speravano in Garibaldi, in una seconda Spedizione dei Mille nel Triveneto; e c’erano
indubbiamente diversi indizi che facevano credere in questa soluzione, soprattutto la dichiarata
disponibilità del Generale ad emissari mazziniani friulani, che lo incontrarono a Caprera, ad
intervenire con i suoi figli Ricciotti e Menotti appena l’insurrezione in Veneto fosse scoppiata, così
come diverse altre sue affermazioni analoghe.
Intanto nel Marzo del ’62 Garibaldi si incontra a Torino con il Re Vittorio Emanuele II e col
Ministro Urbano Rattazzi; Garibaldi è entusiasta dell’incontro: è convinto che gli sia stata data
carta bianca, anche se non ufficialmente, per costituire un corpo di volontari per liberare il
Triveneto. Si pensava che, una volta scoppiata l’insurrezione, sarebbe poi intervenuto l’esercito
regio a completare l’operazione, come del resto avvenne nel Sud.
A Garibaldi, come vice-presidente del Tiro a Segno Nazionale (il presidente ad honorem era
per statuto il principe ereditario Umberto) viene assegnato l’incarico di compiere un giro
propagandistico nelle principali città del Nord; egli interpretò questo incarico non tanto come
promozione del Tiro a Segno Nazionale quanto come una specie di implicito consenso, certo non
ufficiale, sebbene autorevole, per fare proselitismo per il reclutamento di un corpo di volontari per
un’azione militare contro l’Austria.
In tutte le città italiane teneva discorsi infuocati, vibranti di patriottismo: “Roma e Venezia
sia il vostro grido”, “In armi, in armi tutti e tutte le nostre questioni saranno risolte”; infiammava i
giovani che accorrevano ai Centri di Reclutamento per l’imminente campagna militare per liberare
il Triveneto.
Nell’Aprile del ’64 si reca a Londra per raccogliere fondi per l’impresa veneta, e qui ha un
fraterno incontro con Mazzini al quale dichiara: “fate che si gettino ad operare in cento, in
cinquanta, in venticinque; sanno che possono contare su di me”.
Tutto, insomma, faceva credere in una imminente azione militare garibaldina.
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Si accumulavano armi e munizioni, fatte clandestinamente passare in Veneto dal confine
“italiano” di Lombardia ed Emilia, si confezionavano camicie rosse, bandiere tricolori... col tacito
assenso (o comunque senza opposizione) del Governo che appariva quindi consenziente.
Ma da circa un anno la linea politica del Governo era cambiata; nel Maggio del 1863 era
stato firmato un trattato con la Francia in cui l’Italia si impegnava a non annettere lo Stato della
Chiesa e la Francia a ritirare le sue truppe da Roma; aveva poi avuto inizio una politica di
contenimento delle spese militari con conseguente riduzione degli effettivi e degli armamenti; e
anche i rapporti con l’Austria si erano ammorbiditi.
Come conseguenza di tale linea politica vennero introdotte norme di rigoroso controllo ai
posti di frontiera col Trentino e col Veneto e date disposizioni di arrestare chiunque trasportasse
armi o munizioni.
Intanto in tutte le città del Triveneto erano stati costituiti Comitati d’Azione Patriottica; il
Comitato Centrale veneto, sorto per iniziativa di uno studente universitario, Giovanni Battista
Bonaldi di Serravalle (oggi Vittorio Veneto) aveva sede a Padova ed era presieduto dal bellunese
prof. Ferdinando Coletti (di Tai di Cadore), docente della Facoltà di Medicina. L’università di
Padova era un centro di intensa attività patriottica e di diffusione delle idee mazziniane alle quali
aderirono la maggior parte dei patrioti veneti.
Nel Settembre del ’62 Mazzini convoca a Lugano l’affidabilissimo amico Ergisto Bezzi,
patriota trentino, già combattente con Garibaldi nella Spedizione dei Mille, e gli espone il suo
piano insurrezionale: reclutare un migliaio di volontari nel Trentino, in Friuli, in Veneto, nel
Cadore, sull’Altipiano dei 7 Comuni, suddividerli in bande di una cinquantina di uomini ciascuna,
armarli e porli agli ordini di esperti ufficiali garibaldini per addestrarli a compiere azioni di
guerriglia, a creare agitazione e sollevamento della popolazione contro i soldati austriaci ed essere
preparati per un moto insurrezionale che sarebbe dovuto scoppiare contemporaneamente in tutto
l’arco delle Prealpi, dal Ticino all’Isonzo, in contemporanea con analoghi moti in altre regioni
europee, come Serbia, Romania. Ungheria, Polonia. L’obiettivo strategico era quello di accendere
numerosi fuochi per impegnare le truppe austriache in più regioni dell’impero in modo che non
potessero concentrarsi in una specifica area (la famosa “guerra per bande”).
Il progetto politico di Mazzini non era infatti limitato solamente all’unificazione della
maggior parte delle regioni italiane, ma includeva la liberazione totale dalla occupazione straniera
di tutto il Paese e di tutti i Paesi d’Europa, dall’Italia ai Balcani, in una visione politica generale di
una federazione europea dei popoli.
Il 5 Maggio ’64 Mazzini invia ai patrioti veneti questo appello: “...Fratelli, è tempo di
riassumere la situazione e di dire chiaramente ciò che si dovrebbe fare. A voi spetterà di decidere
se potete, se volete farlo. Garibaldi ha segnato un patto col governo nazionale polacco, Kossuth e
Klapka predicano ciascuno a modo loro l’insurrezione in Ungheria; in Serbia e nei Principati, nei
Carpazi e in Transilvania il lavoro per l’insurrezione è inoltrato e diretto da uomini nostri sui quali
possiamo fidare... Un moto veneto susciterà un tale entusiasmo che il Governo dovrà
inevitabilmente seguire... Una iniziativa veneta produrrà ciò che l’iniziativa siciliana produsse nel
Mezzogiorno, azione di volontari del Paese e poi del Governo. Il momento è propizio... Ciò di cui
abbiamo bisogno è non già che voi conquistiate il Veneto a libertà; l’Italia deve farlo. Ciò di cui
abbiamo bisogno è che ci porgano l’occasione. Una insurrezione di bande nella zona delle Alpi:
ecco tutto”.
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Il 16 Giugno Mazzini promuove un incontro fra i responsabili dei Comitati Rivoluzionari
italiano, ungherese, romeno e polacco: questi si accordano per fare scoppiare moti insurrezionali
locali nel Triveneto, nella regione danubiana e i Galizia e attaccare le forze austriache. Dai Comitati
Centrali nazionali vengono inviati agenti propagandisti, reclutatori, ma anche armi, materiale
militare e denaro.
A Padova si convoca un Convegno Rivoluzionario per definire nei dettagli i piani
dell’insurrezione. Nel frattempo le due anime del Partito d’Azione, repubblicana e garibaldina, si
erano accordate sulla strategia e avevano formato un Comitato Nazionale Unitario, presieduto da
Benedetto Cairoli, che coordinava i comitati periferici. Questi avevano il compito di fare
propaganda patriottica, reclutare volontari, procurare materiale militare, provvedere
all’approvvigionamento.
A Belluno gli studenti democratici si riunivano segretamente (anche se la polizia li
sorvegliava attentamente) nella casa del prof. Tommaso Catullo, medico. Questa casa era una vera
e propria centrale operativa di propaganda mazziniana e di reclutamento.
Il Comitato Centrale Veneto era presieduto dal figlio del prof. Tommaso, il prof. Valerio
Catullo, docente di Scienze Naturali all’Università di Padova. In questo Comitato svolgevano
un’importante azione di raccordo anche donne, fra queste Teresa Cibele, che diffondevano
comunicati, trasferivano messaggi, passavano ordini, aiutavano le famiglie dei patrioti incarcerati.
Il 2 Maggio ’64 il Comitato di Padova scriveva a Verona: “Tutto è pronto. Non manca che la
parola di convenzione. Cadore e Friuli sono d’accordo”.
Il 5 Giugno, mentre in tutta Italia si celebra la Festa dello Statuto, in quasi tutte le città
venete avvengono dimostrazioni patriottiche: a Padova gli studenti fanno scoppiare fuochi
d’artificio in Prato della Valle, deridono e sbeffeggiano pubblicamente i gendarmi austriaci e
imbrattano le insegne con l’aquila bicipite; a Belluno vengono fatte scoppiare alcune bombe
presso il Teatro Sociale di via Rivizzola e in Piazza Castello, a Selva di Cadore viene gettato in un
ruscello lo stemma imperiale di uno spaccio, a Calalzo uno stemma viene fracassato, a Pieve di
Cadore e ad Auronzo vengono affissi sui muri proclami a stampa del Comitato Veneto; per la Festa
dello Statuto a Perarolo ed Auronzo si fanno dimostrazioni di bengala e fuochi sui monti.
I Comitati veneti sono impazienti e temono che l’impresa insurrezionale non sfrutti
l’occasione propizia: consapevoli delle difficoltà militari dell’esercito austro-ungarico e dubitando
che personaggi carismatici come Garibaldi avessero preso parte alla insurrezione, oltre che
preoccupati per la politica di disarmo del Governo italiano e della sua azione diplomatica,
decidono di fare scoppiare contemporaneamente in Trentino, Veneto e Friuli i moti rivoluzionari
nella notte di Domenica 16 Ottobre.
L’insurrezione in Trentino è guidata da Ergisto Bezzi che si pone alla testa di una colonna di
150 uomini e si dirige verso il confine lombardo-veneto. Ma in Val Trompia la colonna viene
fermata dai gendarmi italiani; la banda viene dispersa e Bezzi arrestato e rinchiuso nel carcere di
Alessandria.
In molte città italiane avvengono forti dimostrazioni di protesta, in particolare a Brescia dove
la manifestazione popolare sfocia in disordini: i soldati del 19° Fanteria ricevono l’ordine di sparare
sulla folla per disperderla; restano sul terreno 4 morti e numerosi feriti. Poi caricano nuovamente
la folla con le baionette innestate: altri morti e altri feriti.
Questo avvenimento suscita un profondo risentimento popolare verso il Governo: Garibaldi
lo accusa di tradimento. Ma dopo un incontro a Torino con i ministri Rattazzi e De Pretis, in cui
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probabilmente viene convinto che una guerra contro l’Austria sarebbe stata al momento
insostenibile per lo Stato italiano, scrive una lettera, che i giornali nazionali pubblicano, in cui dice
di essere stato male interpretato, che la sua intenzione non era quella di sostenere una
insurrezione armata; insomma, rinnega la sua disponibilità ad un progetto rivoluzionario.
Come centro della rivolta veneta viene scelta Belluno: città piccola, presidiata da pochi
militari (un battaglione di Jaeger in formazione ridotta), ma politicamente importante in quanto
capoluogo di provincia e sede amministrativa. I pochi ufficiali austriaci dormivano in abitazioni
private: con una rapida incursione notturna sarebbero stati colti nel sonno e fatti facilmente
prigionieri; immobilizzate le sentinelle della guarnigione militare, gli insorti si sarebbero poi
impadroniti delle armi e fatti prigionieri i soldati. Al suono delle campane, il segnale convenuto, i
patrioti bellunesi sarebbero quindi usciti dalle loro case e la città sarebbe così caduta nelle mani
degli insorti. La conquista di una città capoluogo di provincia, anche se occupata solo per poche
ore, avrebbe avuto una forte risonanza nazionale e un grande effetto propagandistico e
patriottico. Ovviamente non ci si illudeva di poter resistere ad un ritorno delle forze austriache; il
piano prevedeva che dopo l’azione gli insorti avrebbero dovuto disperdersi in montagna, salendo
verso il Cadore.
Il piano strategico era stato definitivamente stabilito in una riunione svoltasi a Navarons in
Friuli fra il dr Antonio Andreuzzi, fervido mazziniano e leader del moto friulano, e l’ing. Beniamino
Dal Fabbro, di Sedico, organizzatore della rivolta bellunese. In Friuli le bande guidate dal dr.
Andreuzzi avrebbero effettuato le loro incursioni nella Carnia, Del Favero e i suoi avrebbero
occupato Belluno.
A Belluno infatti sarebbero dovute convergere tre bande armate, formate da 30-40 uomini
ciascuna: una proveniente da Pieve di Soligo e ingrossata da elementi di Feltre, un’altra composta
da giovani provenienti da Conegliano, Ceneda, Serravalle, Fregona e una terza proveniente da
Fortogna, formata da giovani di Igne, Fortogna e Longarone.
Queste ultime due bande dovevano incontrarsi a Capo di Ponte, l’attuale Ponte nelle Alpi,
dove a loro si sarebbe unito un gruppo di friulani e di cadorini.
I capi della rivolta erano: a Belluno l’ing. Beniamino Dal Fabbro e l’agente comunale di Sedico
Vincenzo Lise, a Conegliano Innocente Pittoni, a Serravalle il tintore Domenico Tonello, a Capo di
Ponte (Ponte nelle Alpi) l’agente comunale Antonio Cappello, a Longarone l’agente comunale De
Bona e a Pieve di Soligo il tintore Giacomo Sartori.
La notte del 14 ottobre la banda proveniente da Pieve di Soligo si dirige verso Follina,
Valmareno e Praderadego, attraversa il Piave nei pressi di Mel, e giunge a Longano; frazione di
Sedico. Il giorno seguente raggiunge Sedico, dove si congiunge con il gruppo di bellunesi. Nella
notte l’ing. Dal Fabbro raduna i rivoltosi nel cimitero di Sedico e distribuisce loro 48 fucili e 2 casse
di munizioni; infine si incamminano verso Belluno e giungono a Prade, dove sostano nell’osteria di
Pietro Stiz, in attesa dell’ordine di entrare in città.
Il gruppo di Conegliano sale per Ceneda, Serravalle, valica il Fadalto e raggiunge Vich e sosta
nella casa colonica di Andrea Prest; qui si aggregano altri giovani del Vittoriese. Vengono quindi
armati ed equipaggiati e rivestiti con divise garibaldine. La notte di sabato 15 si dirigono, agli ordini
di ufficiali garibaldini, verso Capo di Ponte.
Nella stessa notte, a Fortogna nell’osteria di Lorenzo Fiorin, si riuniscono i giovani patrioti del
Cadore e del Longaronese. Qui vengono anch’essi equipaggiati con armi e munizioni procurate dai
cadorini e trasportate a Fortogna con carri, nascoste sotto carichi di fieno.
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Al comando di Pietro Ferrucci, ufficiale garibaldino, si dirigono quindi verso Capo di Ponte
(oggi Ponte nelle Alpi) per unirsi alla colonna proveniente da Conegliano. Il piano strategico
prevedeva infatti che queste due colonne avrebbero dovuto assaltare la città dal lato orientale
mentre la colonna di Dal Fabbro e Giacomo Sartori, che si trovava a Prade, avrebbe dovuto
attaccare sul versante occidentale.
Tutto è dunque pronto per l’azione. Si aspetta solamente il segnale convenuto, il suono a
martello delle campane bellunesi e i patrioti della città che sarebbero usciti al grido di “Viva
Garibaldi”.
Ma l’ing. Dal Fabbro viene a conoscenza che la polizia ha scoperto il piano dei rivoltosi e i
soldati sono stati posti all’erta. C’era stato infatti il tradimento del capo del Comitato trentino,
GioBatta Rossi, che aveva rivelato alla polizia austriaca i nomi dei patrioti e i nascondigli delle armi.
Dal Fabbro dà quindi l’ordine di deporre le armi, che vengono occultate in nascondigli di
fortuna, e di sciogliere le bande. A piccoli gruppi i giovani tornano quindi alle loro case, dove la
polizia li sta aspettando.
Il progetto rivoluzionario era stato scoperto e proseguire nell’azione sarebbe stata pura
follia. Il giorno seguente cominciano infatti le perquisizioni della Gendarmeria e gli arresti:
vengono incarcerate nelle prigioni di Innsbruck, Trieste, Lubiana e Klagenfurt, complessivamente
270 persone; viene dichiarato lo stato d’assedio in tutti i distretti che andavano dal Piave al
Tagliamento; vengono mobilitati i fedelissimi Standschuetzen, da Glorenza a Brunico.
Vengono perquisite le case di Fortogna e di Igne e arrestati con l’accusa di alto tradimento
Evaristo Salamini, negoziante, Gaspare Tezza, oste, e l’avvocato Giuseppe Del Vesco, tutti di
Longarone. Viene arrestato inoltre l’oste di Fortogna Lorenzo Fiorin che, dopo tre giorni di pesanti
interrogatori, fu trovato morto nella sua cella: l’autopsia dimostrò che si era suicidato per
soffocamento con un bolo di pane grosso quanto una mela.
A Prade vengono arrestati l’oste Pietro Stiz e le sue sorelle Rosa e Angela (che nonostante gli
interrogatori non parlarono). Fu arrestato anche il medico cadorino Giovanni Corradini, sospetto di
collusione con gli insorti friulani.
Perquisizioni nei pressi dell’osteria di Vich portarono al ritrovamento di armi (nascoste sotto
un covone) e furono quindi arrestati l’oste Andrea Prest e i suoi due figli oltre ad un certo Zuoni
dell’Alpago per avere partecipato alla riunione dei giovani della banda di Conegliano.
Alcuni capi della rivolta ebbero tuttavia la possibilità di fuggire: l’ing. Beniamino Dal Fabbro
fuggì prima a Mas di Sedico, poi ad Agordo; la Polizia lo cercò anche a Capo di Ponte, nella casa
della moglie, ma era già riuscito a fuggire verso Milano. Tornerà a Sedico due anni dopo, in seguito
al plebiscito del 21-22 Ottobre 1866. L’agente comunale Antonio Cappello riuscì ad oltrepassare il
confine lombardo, così come Ergisto Bezzi; altri 57 patrioti, trai quali Innocente Pittoni, Luigi
Mantovani, Domenico Tonello, Vincenzo Lise e altri ancora risultarono latitanti.
Il Tribunale di Innsbruck nel Maggio-Giugno ’65 giudicò e condannò i patrioti trentini; furono
emesse 18 sentenze con pene comprese fra 6 mesi e 12 anni di carcere duro.
A Venezia dal 15 Gennaio al 20 Febbraio 1866 si celebrò il processo a carico di 73 cospiratori,
fra i quali Teresa Marini, la vedova di Lorenzo Fiorin suicidatosi in carcere, Pietro Stiz e le sue
sorelle Rosa e Angela, accusati di alto tradimento: furono tutti condannati a 5 anni di carcere duro.
In conclusione, si potrebbe parlare di una insurrezione fallita; dunque niente di importante!
Ma non è così: infatti fallì un progetto, un piano, ma non fallirono gli ideali ai quali quel progetto si
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ispirava. La nostra democrazia, lo stato repubblicano, il rispetto dei diritti dell’uomo e del
cittadino, la nostra Costituzione derivano da quegli ideali mazziniani per i quali uomini e donne a
noi ignoti combatterono e pagarono duramente il loro concetto di dovere verso la Patria e verso
l’Uomo.
Il 7 Gennaio 1997 in occasione del bicentenario del Tricolore a Reggio Emilia il poeta Mario
Luzi pronunciò queste parole:
“...Ma le recriminazioni e le perorazioni del vecchio poeta nazionale ci stringono il cuore
perché le riascoltiamo da una condizione tutta mutata... E noi siamo qui, è inutile nasconderlo,
incerti ed esitanti di fronte a quella testimonianza di fede, che pure offesa e ferita, non vuole
morire. Senza di lei, più o meno coscientemente tutti lo sappiamo, la nostra comunità non tiene, la
nostra antica nazione si disgrega, la sua immagine si decompone, il suo popolo torna ad essere
volgo disperso.”
Per questo non dobbiamo dimenticare!
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CURRICULUM VITAE
Romano Cavagna è nato a Bondeno (Ferrara) nel 1937.
Dal 1978 vive a Belluno.
Laureato in Medicina e Chirurgia nel 1962
Specialista in Anestesiologia e Rianimazione, Chirurgia Generale e Nefrologia Medica.
Dal 1978 al 2000 è stato Primario di Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale di Belluno e dei Centri
Dialisi di Pieve di Cadore e Agordo.
Professore a contratto di Nefrologia e Tecniche dialitiche presso l’Università di Padova.
E’ autore di 120 pubblicazioni scientifiche
Laureato in Filosofia e Teoria delle Scienze presso l’Univ. Cà Foscari di Venezia nel 2004.
Perfezionamento post-lauream in Bioetica presso la stessa Università.
Componente del gruppo di studio “Etica e Medicina” della Fondazione Lanza di Padova ;
socio della Consulta di Bioetica di Milano.
Autore di numerosi articoli su temi bioetici. Ha tenuto lezioni ai corsi accademici di Bioetica e
di Scienze Sociali dell’Università Cà Foscari di Venezia.
E’ presidente della Sezione “Doveri dell’Uomo” della Associazione Mazziniana Italiana di
Belluno e Vice-presidente del Comitato Triveneto.
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