Cassandra crossing

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Cassandra crossing
Cassandra crossing
Partiamo con una semplice domanda: quanti anni avevate nel 2001? E dieci anni prima, nel 1991? Che cosa
ricordate di quelle estati? Oppure, in stile poliziesco, così ci avviciniamo al tema: dove eravate il pomeriggio
del 20 o la notte del 21 luglio 2001?
Sono passati dieci anni dai giorni di Genova, dall'”eclisse della democrazia”, per citare il libro di Guadagnucci
e Agnoletto. Probabilmente mezza Italia è ancora convinta che, in quei giorni, un po' di giovani scalmanati (i
famosi “black bloc”), e i loro fiancheggiatori dei centri sociali e delle associazioni “della sinistra radicale” (i
famosi “no global”), misero a ferro e fuoco la città ligure, provocando la reazione, forse un po' esagerata in
alcuni casi, della polizia. Questa è la versione principale, o “mainstream ”, come si dice. La versione vera è
appannaggio di una minoranza consapevole.
Alzi la mano chi conosce gli esiti dei processi per le violenze commesse alla scuola Diaz o nella caserma di
Bolzaneto o nel corso delle manifestazioni.
Alzi la mano chi conosce le conseguenze per le carriere dei tanti altissimi funzionari dello Stato coinvolti, i
difensori dell'ordine pubblico (da De Gennaro a Manganelli, da Perugini a Mottola, da Canterini a Colucci).
In sintesi, e come pro memoria: sono stati tutti condannati in appello, e in attesa del giudizio della
Cassazione hanno continuato indisturbati a fare carriera nei corpi dello Stato. Nessuno ha mai chiesto
scusa, nemmeno l'ultimo dei sottosegretari del ministero dell'Interno si è mai sentito in dovere di dare
almeno un giudizio morale, politico, sulla questione, anche e soprattutto perché pochissimi giornalisti e
pochissimi parlamentari hanno chiesto un chiarimento, un'assunzione di responsabilità (vedi “Genova per
noi” e “Calci in faccia” su questa rubrica). Sarebbe comunque molto interessante chiederglielo oggi, invece
della solita domandina sulle alleanze o sulla legge elettorale..
Chiedere per esempio a Gianfranco Fini cosa ricorda di quei giorni, che lui ha vissuto molto da vicino;
oppure chiedere a Di Pietro se è pentito di aver votato contro la commissione parlamentare di inchiesta, e in
generale chiedere a tutti i nostri rappresentanti se ritengono che lo Stato abbia agito per il meglio, se a
distanza di dieci anni si può finalmente esprimere un giudizio limpido, non ambiguo, dal momento che i fatti
ormai sono incontestabili.
Non accadrà. Non lo hanno fatto quando dovevano, non lo faranno oggi. Ma come direbbe De André “per
quanto voi vi riteniate assolti, siete lo stesso coinvolti”.
Andiamo però al di là della vergogna italiana di quei giorni infami. E torniamo indietro nel tempo, al 1991, per
riprendere le domande iniziali e per allargare il quadro, arrivare ai contenuti. Perché a Genova si parlava di
globalizzazione, si parlava di “un altro mondo possibile”, prima che la violenza di Stato, molto più di quella
facilmente neutralizzabile dei “black bloc”, oscurasse tutto.
Il 1991 è un anno fondamentale. E' l'anno della morte dell'Unione Sovietica, del crollo finale del comunismo.
E' l'anno dell'inizio della guerra in Jugoslavia, dell'indipendenza di tanti nuovi stati.
Qualcuno disse, come già abbiamo ricordato in questa rubrica, che era l'anno in cui la Storia era finita.
Perché? Perché, finito nel fallimento totale l'esperimento comunista, il mondo non poteva che aprirsi
totalmente, definitivamente, al libero mercato. Qualcuno come corollario ci metteva anche la democrazia, ma
abbiamo visto che non è andata così, e ormai ci vuole una notevole dose di ipocrisia, anzi di faccia tosta, per
sostenere che le riforme capitaliste conducono inevitabilmente alla democrazia. Ma nel 1991 questa era
l'idea che incarnava lo spirito dei tempi: la libertà, economica e politica, aveva trionfato, non c'erano altre
strade percorribili, tutto il mondo, presto o tardi, si sarebbe somigliato, nella libertà e nel benessere.
Probabilmente fu in quel periodo che il termine “globalizzazione” diventò di uso comune, quasi una categoria
dello spirito. La “globalizzazione” (che alcuni intellettuali di “Le Monde diplomatique” definivano
“americanizzazione del mondo”) era rappresentata come un processo gigantesco e ineludibile, una marea
che trascinava tutto e tutti. Il capitalismo viaggiava velocissimo, il mondo sembrava in una specie di
frullatore, che avrebbe abbattuto le barriere e omogeneizzato stati, culture, società.
Questa era la visione ottimista, il consueto mito del Progresso, riproposto alle soglie del Terzo Millennio.
Poi c'era anche la versione pessimista: il trionfo del liberismo, sotto l'egida degli USA, unica potenza rimasta,
stava risvegliando antichi demoni apparentemente superati: la religione con i suoi integralismi,
l'appartenenza etnica con i suoi nazionalismi, l'ossessione dell'identità, con le sue esasperazioni sessuali.
Per dirla con due libri di successo, stavamo in mezzo fra “La fine della Storia” (appunto) e “Lo scontro di
civiltà”.
In mezzo a queste due visioni, entrambe di destra, diciamo una più liberale e una più conservatrice,
si è infilato zitto zitto un movimento estremamente eterogeneo, fatto di mille realtà diverse, ma unite in
qualche modo da quella che è la vera unica sfida della “modernità”, parola abusata all'inverosimile: la sfida
del Sud del mondo e quella ambientale. L'unica vera sfida della Politica, come diceva con grande lucidità il
vescovo brasiliano Helder Camara nel 1989, proprio a Genova.
Ecologisti, terzomondisti, pacifisti. Tutti aggettivi usati con sempre maggiore sarcasmo da tutto
l'establishment. Minoranze, perdenti nati, emarginati o radical chic (l'aggettivo più ipocrita della destra
cialtrona), oppure sognatori, perditempo, casinisti.
Per la serie: “Quando il saggio indica la luna, l'imbecille guarda il dito”. Il dibattito sulla globalizzazione in
Italia non è mai andato oltre la caricatura, oltre la battuta. Su tutto il resto, silenzio generale.
Nel 1991, poi, il paese era mediamente così grasso e soddisfatto (o così appariva a chi scrive, dopo due
anni in un villaggio africano) che certi temi non erano semplicemente concepibili; parlare del mondo era
impresa impossibile, era già tanto se si parlava di Europa.
La “modernità” stava tutta nei telefoni cellulari e nei computer, nelle tendenze del “look” e in quelle televisive
(i “reality show”), con una tendenza generale a vivere, ragionare e parlare da imprenditori, con le parole
inglesi prese in prestito dal marketing.
Vaglielo a spiegare, agli italiani, che la modernità erano gli albanesi, i marocchini, i cinesi, i sudamericani,
che arrivavano sempre più numerosi, a ricordarci che il mondo non finiva a Chiasso o a Ventimiglia (vedi
“Una vita extra”). Niente da fare. Noi non avevamo niente da imparare da nessuno, per chi aveva qualche
dubbio c'era sempre un fuoristrada e poi un SUV a ripristinare valori e sicurezze.
Povera Italia, che ventennio disgraziato che abbiamo vissuto, con una superficialità sconcertante.
Ma l'ipnosi consumista e televisiva, cioè l'humus mentale del berlusconismo, non poteva durare in eterno. I
temi proposti a Genova stanno tornando, uno ad uno, e si stanno imponendo, uno a uno. Nei modi di una
nuova forma politica, che noi pensiamo sia nata con Facebook e con i social network (strumenti utilissimi,
per carità) ma che in realtà sono semplicemente forme di democrazia partecipativa che altri paesi, con altri
mezzi hanno sperimentato prima di noi (vedi reportage sull'Ecuador, per esempio).
Se questi venti anni sono stati sprecati ignobilmente dall'Italia, certo non si può dire altrettanto dell'America
latina (e il bello deve ancora venire). E questo mentre gli USA, il presunto faro dell'umanità, si avviano
inesorabilmente verso la decadenza morale, culturale, politica.
Noi guardiamo a Obama, ma dovremmo guardare per esempio a Evo Morales, presidente della Bolivia.
Andategli a chiedere quando ha scoperto il tema dell'acqua bene pubblico.
A Genova si ricordano i giorni del 2001 con un ampio convegno intitolato giustamente “Cassandra” (il titolo lo
abbiamo preso in prestito): per quanto inascoltati (o peggio ancora, zittiti) i Social Forum avevano ragione.
La loro domanda di futuro, rimasta completamente inevasa dalla classe dirigente, si è fatta semplicemente
molto più forte e condivisa. Lo sarà sempre di più, proprio perché “un altro mondo è possibile”, e noi
abbiamo il dovere di cominciare a costruirlo.
Cesare Sangalli