Bestiario metropolitano II, 8, Die jungen Leute | Marco

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Bestiario metropolitano II, 8, Die jungen Leute | Marco
Bestiario metropolitano II,
8, Die jungen Leute | Marco
Benedettelli
Come è caldo stasera, sembra che spiri il vento dalle fessure
dei marciapiedi, sembra che i bei giovani a spasso e le facce
dolci e biondine delle cherubine che mi vengono incontro si
stiano per liquefare in un rivolo in cui anch’io forse mi
squaglierò, un attimo prima che tutto sia finito, prima di
ripartire ancora. Sono viola le case, e i tetti muggiscono nel
buio serale, non basta lo sfrecciare delle metropolitane sopra
le nostre teste a destarli dal loro muto sbocciare alle
stelle. Anche questa sera cammino lungo le strade di
Prenzlauerberg e attraverso fitti sciami di giovani di belle
speranza che si dondolano intorno ai tavolini delle
caffetterie, tutti acconciati con le capigliature asimmetriche
e le magliette multicolore.
Sulla Kastanienallee entro in un chiosco rigonfio di giornali
dai titoli dentati e di merce luccicante che schiuma e cade
dai banconi, stappo una bottiglia di birra scura con
l’accendino e mentre sono lì a guardare la gente che scorre
sul marciapiede, un viso conosciuto entra dentro il chiosco. È
un ragazzo italiano che fa qualcosa come il fotografo e che io
un po’ conosco. Insieme a lui, al suo fianco, c’è una
fanciulla dalla pelle color mozzarella e vestita come una
melanzana che gli blatera addosso discorsi all’apparenza
appassionati. Anche lui mi riconosce, si stacca dalla sua
amica a forma di melanzana e immediatamente mi invita da
qualche parte, ad una festa dice, e mi dà una pacca dietro la
schiena. Andiamo.
Io li seguo a qualche passo di distanza, non si curano di
dirmi niente, dove siamo diretti, nulla, parlano soltanto tra
loro e fanno discorsi intelligenti, credo. Da un portone
grande come la bocca di una balena di cemento esce un
gruppetto di gente. Sono tre uomini e una donna e ci vengono
incontro sorridendo raggianti. Si abbracciano e parlano coi
miei due compagni di marciapiede. Si conoscono, ma non si
capisce se si sono trovati lì per caso o avevano un
appuntamento. Dei quattro, i più loquaci sono due ragazzi
spagnoli con i jeans a zampa di coniglio, quelli stetti
stretti sulla caviglia in fondo. Il terzo è un tizio con degli
occhiali immensi che gli trasbordano dalla faccia e una giacca
marrone a scacchi e il viso un po’ a scopettone per via di una
masnada di capelli polverosi e secchi che gli penzolano dalla
testa. Ma lui non dice granché, sembra un po’ addormentato.
C’è anche una tipa che rimane appartata in penombra,
sfuggente. Ora siamo una allegra combriccola in questo antico
quartiere est della Berlino più cool e pop, attraversiamo le
strade e facciamo conoscenza tra noi sorridendo, mentre le
luci continuano a sfavillare e i tram a passare e il blu
liquido dalle finestre buie ci guarda come ci guardano le
crepe delle case non ancora coperte da un nuovo strato di
stucco.
Sulla Schönhauser Allee faccio conoscenza con la tizia rimasta
fino allora in disparte che è altissima e pallidissima e ha i
capelli spinosi, neri, corti e ritti come un procione e mi
sorride con due labbra morbide e belle come una vagina.
Entriamo dentro un portone nella Pappelalle, l’uomo con la
giacca marrone mi spiega di essere russo, gli altri scoppiano
a ridere, il mio amico italiano prende a braccetto la ragazza
dai capelli appuntiti. Saliamo le scale e entriamo in un
appartamento bianco con alle pareti grandi quadri pieni di
spruzzi di colore e un pianoforte a coda in mezzo al
soggiorno. Ci sediamo intorno a un tavolo, uno dei due
spagnoli va al pianoforte e inizia a suonare musica che
rimbalza sulle vetrate delle finestre mentre fuori le facciate
delle case ed i balconi traboccanti di piante trascolorano nel
buio. Intorno al tavolo la ragazza con la bocca bella mi versa
un bicchiere di vino e mi racconta che è arrivata dalla
provincia, dal Brandeburgo e adesso qui non sa che fare, che
ci sta pensando ma poi si fa silenziosa e non parla più.
Intanto lo spagnolo maneggia del- le cartine e dei cubetti
marroncini che sembrano dadi di terra e poi accende e dalla
bocca inizia a soffiare nuvole grigie e azzurrognole che
capriolano sopra il tavolino.
Dopo pochi minuti io mi alzo, vado verso un grande candelabro
e lo accendo, lentamente, moccolo di candela dopo moccolo,
godendomi la luce che emana la goccia di fuoco del mio cerino
nella stanza in penombra. Appena le candele si infiammano vedo
dorarsi la faccia dei miei compagni. Lo spagnolo è lì che si
agita con la tipa vestita come una melanzana, parlano di
sesso, e lui fa degli ampi gesti con la mano e con la bocca
aperta e tira e allunga il collo a mo’ di stantuffo. Il russo
è più distante, sta seduto su un divano bianco, con le braccia
sulle gambe e lo sguardo lambiccato, qualcuno suona il
pianoforte e le note si confondono con la musica jazz che
hanno fatto partire dallo stereo. Credo che siano degli
artisti, dei musicisti, o qualcosa del genere. Mentre torno
dal candelabro e mi rimetto a sedere attraverso una porta
avvisto il fotografo e la mia nuova amica di provincia che si
baciano con le teste spiaccicate una addosso all’altra,
appoggiati al lavandino in cucina. Chissà se stavano già
insieme o è il loro primo bacio, mi domando come sempre,
quando vedo gente che non conosco baciarsi.
Resto da solo e vedo la stanza che un po’ pulsa, penso che
forse è ora di andarmene ma poi invece rimango. Poi eccolo,
l’odore di sangue morto torna ad impregnarmi il naso. Forse è
emanato dal caldo tenue delle candele o forse sono io ad
averne intrisi i piedi od i calzini. Ma ormai lo so, adesso
devo solo aspettare perché prima o poi la mia ombra piumata mi
apparirà. Mi guardo intorno, tutto è immobile per qualche
secondo, tutti continuano a ripetere i loro gesti e mi
appaiono come delle piante in un giardino. I due si baciano in
cucina, appena appena abbracciati, il russo tace sul divano,
non so a che cosa pensi, forse anche a lui di tanto in tanto
appaiono degli animali. Qualcuno suona il piano e lo spagnolo
è lì che si porta il pugno chiuso vicino alla bocca e fa
movimenti a stantuffo col collo rivolto alla ragazza melanzana
e mima i gesti di un caricaturale rapporto orale.
Allora mi alzo per andare in bagno, che è una stanza grande,
dilatata dalla lucentezza delle piastrelle gialle e dagli
specchi. Apro il rubinetto dell’acqua fredda per sciacquarmi
la faccia, ed ecco che finalmente arriva. È lì, riflesso allo
specchio, è dentro la vasca da bagno. Osservo il suo collo
oblungo andare in su e in giù per tutta la lunghezza della
vasca, lo vedo vorticare gli occhi mentre la pendula massa
carnosa che gli esplode sotto il gozzo oscilla scomposta e una
vibrazione immonda, un raschiare di zampette unghiate sulla
maiolica arriva dalla conca della vasca. Di scatto prendo il
sapone da sopra il lavandino e lo lancio con tutta la violenza
che ho verso il tacchino e bam, il sapone si spiaccica sul
muro. L’ho mancato, è scomparso non so dove in un battito di
ciglia, forse risucchiato dentro lo scolo della vasca, senza
lasciare nulla di sé, né piume né escre-menti. Della sua
presenza resta solo un odore acre che appesta l’aria.