Visualizza l`estratto - LibriProfessionali.it
Transcript
Visualizza l`estratto - LibriProfessionali.it
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. ISSN 1593-7305 N. 6 GIUGNO$QQR;;;, RIVISTA MENSILE de Le Nuove Leggi Civili Commentate LA NUOVA GIURISPRUDENZA CIVILE COMMENTATA a cura di Guido Alpa e Paolo Zatti La Rivista contribuisce a sostenere la ricerca giusprivatistica nell’Università di Padova Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano In questo numero segnaliamo: parte prima Diritto di visita dei nonni (Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/10) Adempimento parziale e rinuncia alla solidarietà a favore di un condebitore (Cass., n. 1453/2015) Attività professionale in forma societaria e prescrizione presuntiva (Cass., n. 1184/2015) parte seconda Appalto: le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ. Sindacato sui termini dello scambio nei contratti di consumo Danno non patrimoniale della persona giuridica “Degiurisdizionalizzazione” e controversie agrarie www.edicolaprofessionale.com/NGCC Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. LA NUOVA GIURISPRUDENZA CIVILE COMMENTATA ANNO XXXI 2015 RIVISTA MENSILE de Le Nuove Leggi Civili Commentate a cura di Guido Alpa e Paolo Zatti Comitato Editoriale G. Alpa, G. Iudica, S. Patti, E. Quadri, P. Zatti, F. Addis, G. Amadio, A. Barba, G. Conte, S. Delle Monache, A. Federico, G. Ferrando, An. Fusaro, E. Lucchini Guastalla, F. Macario, M. Mantovani, M.R. Maugeri, E. Navarretta, M. Orlandi, F. Padovini, G. Ponzanelli, R. Pucella, C. Scognamiglio, P. Sirena Redazione Responsabili Ar. Fusaro M. Cinque M. Piccinni B. Checchini, G. Cinà, M. Farneti, A. Pasqualetto U. Roma, F. Viglione Redazione giudiziaria V. Durante L.A. Scarano Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Comitato Scientifico per la valutazione G. Ajani, F. Anelli, A. Antonucci, T. Auletta, P. Auteri, M. Basile, A. Bellelli, A. Belvedere, G.A. Benacchio, F. Bianchi D’urso, G. Bonilini, U. Breccia, C. Campiglio, F. Capriglione, V. Carbone, P. Cendon, C. Cester, A. Checchini, S. Chiarloni, G. Collura, V. Colussi, L.P. Comoglio, M. Confortini, G. D’Amico, A. D’Angelo, M. De Acutis, M. De Cristofaro, M.V. De Giorgi, R. De Luca Tamajo, A.M. De Vita, E. del Prato, M. Fortino, M. Franzoni, G. Furgiuele, A. Gambaro, A. Gentili, F. Giardina, A. Giussani, A. Gorassini, C. Granelli, B. Grasso, M. Graziadei, C.A. Graziani, A. Guarneri, L. Lenti, F.P. Luiso, A. Luminoso, M. Maggiolo, G. Marasà, M.R. Marella, A. Masi, C.M. Mazzoni, O. Mazzotta, E. Merlin, P.G. Monateri, E. Moscati, A. Natucci, M. Nuzzo, R. Pane, M. Paradiso, R. Pardolesi, R. Pescara, A. Plaia, D. Poletti, P. Pollice, V. Roppo, F. Ruscello, L. Salvaneschi, C. Salvi, G. Sbisà, M. Sesta, P. Stanzione, M. Tamponi, M. Taruffo, C. Tenella Sillani, R. Tommasini, M. Trimarchi, S. Troiano, D. Valentino, G. Vettori, R. Weigmann, A. Zaccaria, V. Zeno-Zencovich Norme di autodisciplina 1. La valutazione dei contributi inviati alla NGCC per pubblicazione, sia su iniziativa degli autori, sia in quanto richiesti dal Comitato editoriale, è affidata a due membri del Comitato per la valutazione scientifica scelti per rotazione all’interno di liste per area tematica formate in base alle indicazioni di settore fatte da ciascun componente del Comitato e disposte in ordine casuale. 2. Il contributo è avviato ai valutatori senza notizia dell’identità dell’autore. 3. L’identità dei valutatori è coperta da anonimato. In ciascun fascicolo della Rivista è pubblicato in ordine alfabetico l’elenco dei valutatori che hanno collaborato alla revisione del fascicolo. 4. In caso di pareri contrastanti la Direzione assume la responsabilità della decisione. 5. Ove dalle valutazioni emerga un giudizio positivo condizionato a revisione o modifica del contributo, la Direzione promuove la pubblicazione solo a seguito dell’adeguamento del saggio assumendosi la responsabilità della verifica. I contributi del presente fascicolo sono stati valutati da: M. Basile, A. Bellelli, U. Breccia, F. Capriglione, P. Cendon, C. Cester, L.P. Comoglio, A. Giussani, F.P. Luiso, M.R. Marella, P.G. Monateri, M. Paradiso, G. Sbisà, R. Weigmann Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. INDICE-SOMMARIO DEL FASCICOLO 6o (giugno 2015) LEGENDA: Il simbolo [,] a fianco del titolo segnala che il commento/saggio è stato oggetto di referee secondo quanto indicato alla pagina precedente. Parte prima - Sentenze commentate Cass. civ., III sez., 12.12.2014, n. 26157 [Cassazione civile-Errores in procedendo-Onere di allegazione della parte ricorrente/Impugnazioni civili in genere-Errore di fatto-Ricorso per Cassazione] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 511 Commento di F. Ferrari, L’errore di fatto tra cassazione e revocazione e il pregiudizio derivante dal vizio in procedendo [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 513 Cass. civ., sez. trib., ord. 9.1.2015, n. 174 [Cassazione civile-Precedente giudiziale-Interpretazione di norme processuali] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 501 Commento di G. Molinaro, Mutamento di giurisprudenza e tutela dell’affidamento: alla ricerca di una soluzione coerente [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 505 Cass. civ., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590 [Danni civili-Danni non patrimoniali-Risarcimento/Lavoro (rapporto)-Imprenditore-Integrità fisica del prestatore di lavoro] . . . . . . » 519 Commento di F. Malzani, Tutela del lavoratore e personalizzazione del danno: oltre le tabelle? [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 526 Cass. civ., III sez., 27.1.2015, n. 1453 [Obbligazioni in genere-Obbligazioni solidali nel debito-Accettazione di un pagamento parziale da un condebitore] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 531 Commento di S. Balbusso, Sulla rinuncia alla solidarietà a favore di un condebitore in caso di adempimento parziale [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 535 Trib. Messina, 11.11.2014 [Personalità (diritti della)-Diritto all’identità sessuale-Identità di genere] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 543 Commento di A. Vesto, Favorire l’emersione dell’identità sessuale per tutelare la dignità umana nella sua unicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 547 Trib. Genova, ord. 5.11.2014, [Sentenza, ordinanza e decreto-Sentenza costitutivaAccertamento costitutivo dell’effetto risolutorio contrattuale] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 551 Commento di F. Bossi, La provvisoria esecutività delle pronunce costitutive di mero accertamento: un obiettivo o un mito da sfatare? [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 552 » » 558 563 » 568 » 571 Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 [Separazione dei coniugi-FiliazioneAffidamento] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Commento di G. Spelta, Il lungo percorso per l’affermazione del diritto di visita dei nonni [,] . . Cass. civ., II sez., 22.1.2015, n. 1184 [Società-Società tra professionisti-Esercizio di attività professionale «protetta» e «non protetta»] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Commento di C. Macrì, Esercizio in forma societaria di attività professionale e prescrizione presuntiva [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . NGCC 2015 I Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Parte seconda – Saggi e Aggiornamenti La tutela civile degli anziani alla luce dell’art. 25 della carta di Nizza [,] di E. Bacciardi Sommario: 1. Premessa: la «terza età» nell’età dei diritti. – 2. La condizione giuridica degli anziani nel dibattito dottrinale. – 3. L’art. 25 della Carta di Nizza. – 4. La tutela degli anziani in ambito patrimoniale... – 5. Segue: e nella sfera dei rapporti personali. – 6. Le esigenze abitative ed assistenziali nell’età senile. – 7. L’anziano e il risarcimento del danno. – 8. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 293 «Degiurisdizionalizzazione» e controversie agrarie di M. Tamponi Sommario: 1. Il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito con modificazioni in l. 10.11.2014, n. 162. – 2. Trasferibilità alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria. – 3. Ricorribilità alla negoziazione assistita. – 4. Credito nascente da rapporto agrario e negoziazione assistita. – 5. Rilievi conclusivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 309 » 317 Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ. di G. Iudica Sommario: 1. Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ. – 2. Il diritto potestativo del committente di controllo e verifica. – 3. Il diritto potestativo del committente di risolvere il contratto. – 4. Limiti al potere del committente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il sindacato sui termini dello scambio nei contratti di consumo: nuovi scenari [,] di M. Dellacasa Sommario: 1. L’esclusione dell’equilibrio economico dello scambio dal sindacato giudiziale: struttura e funzione del limite. – 2. Il limite nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: controllo procedimentale (nel diritto comunitario) vs. controllo sostanziale (eventualmente, nel diritto interno). – 3. La portata del limite: le clausole esenti dal controllo giudiziale. – 4. La trasparenza «presa sul serio»: chiarezza della clausola e comprensibilità delle sue implicazioni economiche. – 5. Le conseguenze del difetto di chiarezza e comprensibilità. – 6. Come evitare un paradosso: l’integrazione legislativa della clausola essenziale ritenuta abusiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 324 – Rassegne di giurisprudenza Danno non patrimoniale e persona giuridica privata [,] di S. Nobile de Santis Sommario: 1. Introduzione. – 2. Danno non patrimoniale e persona giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. – 3. La vexata quaestio del danno non patrimoniale subito da società commerciali. – 4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio. – 5. Le pronunce delle sezioni unite del 2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale. – 6. Segue: danno non patrimoniale da reato. – 7. Segue: danno non patrimoniale in ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattaII NGCC 2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. mento dei dati personali. – 8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. – 9. Segue: danno non patrimoniale per lesione di un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. – 10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 339 Vendita di partecipazioni sociali di «controllo» e garanzie patrimoniali: rassegna critica [,] di G. Buset Sommario: 1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni sociali di «controllo». – 2. Oggetto del contratto di vendita di partecipazioni sociali: le quote o azioni e non il patrimonio. – 3. Segue: le eccezioni... – 4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. – 5. Natura delle garanzie patrimoniali: primi tentativi di inquadramento (App. Genova, 6.11.1946 e Cass., n. 338/1967). Le reazioni della dottrina. – 6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. – 7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita. – 8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle garanzie: pronunce di merito... – 9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/ 2014. – 10. Considerazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 355 INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Cassazione civile - Errores in procedendo - Onere di allegazione della parte ricorrente Contenuto (Cass. civ., III sez., 12.12.2014, n. 26157) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cassazione civile - Precedente giudiziale - Interpretazione di norme processuali - Mutamento di orientamenti costanti della Corte di Cassazione - Principio dell’affidamento - Applicabilità - Condizioni (Cass. civ., sez. trib., ord. 9.1.2015, n. 174) . . . . pag. 511 » 501 Danni civili - Danni non patrimoniali - Risarcimento - Personalizzazione del danno Criteri (Cass. civ., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 519 Impugnazioni civili in genere - Errore di fatto - Ricorso per Cassazione - Esclusione Revocazione (giudizio di) - Sussistenza (Cass. civ., III sez., 12.12.2014, n. 26157) . . » 511 » 519 » 519 Obbligazioni in genere - Obbligazioni solidali nel debito - Accettazione di un pagamento parziale da un condebitore - Rilascio di quietanza senza riserva per il residuo - Rinuncia alla solidarietà - Sussistenza - Remissione del debito - Esclusione (Cass. civ., III sez., 27.1.2015, n. 1453) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 531 Personalità (diritti della) - Diritto all’identità sessuale - Identità di genere - Rettificazione di attribuzione di sesso - Trattamento medico-chirurgico - Necessità - Esclusione (Trib. Messina, 11.11.2014) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 543 Lavoro (rapporto) - Imprenditore - Integrità fisica del prestatore di lavoro - Obbligo di sicurezza - Fondamento (Cass. civ., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590) . . . . . . . . . . . . . . . Lavoro (rapporto) - Imprenditore - Obbligo di sicurezza ex art. 2087 - Natura ed estensione (Id.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza civile di primo grado - Principio generale della provvisoria esecutività ex art. 282 cod. proc. civ. - Eccezioni giurisprudenziali reNGCC 2015 III Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. lative alle sentenze costitutive e dichiarative - Interpretazione restrittiva (Trib. Genova, ord. 5.11.2014) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza costitutiva - Accertamento costitutivo dell’effetto risolutorio contrattuale - Capo accessorio di condanna alla restituzione della caparra - Rapporto di mera dipendenza dall’effetto costitutivo - Provvisoria esecutività - Sussistenza (Id.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Separazione dei coniugi - Filiazione - Affidamento - Diritto di visita degli ascendenti Art. 8 Conv. eur. dir. uomo - Ambito di applicazione (Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Società - Società tra professionisti - Esercizio di attività professionale «protetta» e «non protetta» - Prescrizione presuntiva - Applicabilità - Questione di massima di particolare importanza - Rimessione degli atti al primo Presidente (Cass. civ., II sez., 22.1.2015, n. 1184) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 551 » 551 » 558 » 568 » » 568 531 » » 551 543 INDICE CRONOLOGICO Corte eur. dir. uomo 20.1.2015, ric. 107/2010 . . . . . . . . . . pag. 558 Tribunali Corte di Cassazione 12.12.2014, n. 26157 - sez. III . . . . . 17.12.2014, n. 26590 - sez. lav. . . . . 9. 1.2015, n. 174 - sez. trib. . . . . 22. 1.2015, n. 1184 - sez. II . . . . . . . 27. 1.2015, n. 1453 - sez. III . . . . . . » » » 511 519 501 Genova, 5.11.2014 (ord.) . . . . . . . Messina, 11.11.2014 . . . . . . . . . . . . . INDICE PER AUTORI (Parte prima) S. Balbusso – Commento a Cass., 27.1.2015, n. 1453 – Sulla rinuncia alla solidarietà a favore di un condebitore in caso di adempimento parziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . F. Bossi – Commento a Trib. Genova, 5.11.2014 – La provvisoria esecutività delle pronunce costitutive di mero accertamento: un obiettivo o un mito da sfatare? . . . . . . . . . . . . . . . . . F. Ferrari – Commento a Cass., 12.12.2014, n. 26157 – L’errore di fatto tra cassazione e revocazione e il pregiudizio derivante dal vizio in procedendo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . C. Macrì – Commento a Cass., 22.1.2015, n. 1184 – Esercizio in forma societaria di attività professionale e prescrizione presuntiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . F. Malzani – Commento a Cass., 17.12.2014, n. 26590 – Tutela del lavoratore e personalizzazione del danno: oltre le tabelle? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . IV pag. 535 » 552 » 513 » 571 » 526 NGCC 2015 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. G. Molinaro – Commento a Cass., 9.1.2015, n. 174 – Mutamento di giurisprudenza e tutela dell’affidamento: alla ricerca di una soluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . G. Spelta – Commento a Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 – Il lungo percorso per l’affermazione del diritto di visita dei nonni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A. Vesto – Commento a Trib. Messina, 11.11.2014 – Favorire l’emersione dell’identità sessuale per tutelare la dignità umana nella sua unicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . NGCC 2015 pag. 505 » 563 » 547 V Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 c CASS. CIV., sez. trib., ord. 9.1.2015, n. 174 Conferma Comm. trib. reg. Lazio, 14.3.2013, n. 194 Cassazione civile - Precedente giudiziale - Interpretazione di norme processuali - Mutamento di orientamenti costanti della Corte di Cassazione - Principio dell’affidamento - Applicabilità - Condizioni I precedenti della Corte di Cassazione sulla necessità di tutelare la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, hanno riguardato esclusivamente gli effetti processuali di un mutamento giurisprudenziale e non quelli di natura sostanziale, introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Pertanto, affinché si possa parlare di prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte. (massima non ufficiale) [Massima ufficiale: L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nell’interpretazione delle norme giuridiche mira ad una tendenziale stabilità e valenza generale, sul presupposto, tuttavia, di una efficacia non cogente ma solo persuasiva trattandosi di attività consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, sicché non può mai costituire limite all’attività esegetica di un altro giudice. Ne consegue che un mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non soggiace al principio di irretroattività, non è assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal giudice di merito, il quale può applicare l’indirizzo NGCC 2015 - Parte prima Cassazione civile giurisprudenziale che ritiene idoneo a definire in modo corretto la controversia, senza essere tenuto a motivare le ragioni che lo hanno indotto a seguire lo stesso.] dal testo: Il fatto. M.E. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, contro la sentenza resa dalla comm. trib. reg. Lazio n. 194/14/13, depositata il 14.3.2013. La comm. trib. reg. ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza resa dal giudice di primo grado, il quale aveva accolto il ricorso proposto dalla contribuente contro l’avviso di liquidazione emesso sul presupposto della decadenza dell’agevolazione per acquisto prima casa relativa all’atto di vendita stipulato dalla suddetta per non avere acquistato entro l’anno un nuovo immobile da adibire ad abitazione principale. Secondo la comm. trib. reg. aveva errato il primo giudice nel ritenere tardivo l’esercizio della potestà impositiva, dovendosi applicare la proroga biennale del termine di tre anni previsto in tema di imposta di registro dal d.p.r. n. 131 del 1986, art. 76, in forza della l. n. 289 del 2001, art. 11, comma 1, per come aveva chiarito la giurisprudenza di questa Corte superando i dubbi interpretativi sorti all’atto dell’entrata in vigore della disposizione di cui al d.l. n. 282 del 2002, art. 5 bis, conv. nella l. n. 27 del 2003. L’Agenzia delle entrate non ha depositato difese scritte. I motivi. Con l’unico complesso motivo proposto la contribuente prospetta il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio e la lesione del principio del legittimo affidamento sulle posizioni giurisprudenziali, in relazione al canone della certezza del diritto. Secondo la ricorrente la decisione impugnata si era fondata su alcuni precedenti giurisprudenziali che avevano mutato le regole consolidate in tema di termini decadenziali previsti in ordine al recupero delle agevolazioni prima casa dal d.p.r. n. 131 del 1986, art. 76, sulle quali la contribuente medesima aveva fatto legittimo affidamento. 501 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 Ciò contrastava con il principio di certezza del diritto, poiché anche a volere ritenere che nel sistema non opera il principio dello stare decisis, non poteva dubitarsi come la decisione contrastante con il precedente orientamento era tenuta ad esporre le motivazioni del suo ragionevole distacco dall’indirizzo precedente. Il giudice solo con grande cautela avrebbe potuto discostarsi dal precedente orientamento e solo in presenza di un errore interpretativo della norma, ovvero quando il precedente aveva perso di attualità. Caratteristiche non riscontrabili nella vicenda controversa. Proprio in ossequio al rispetto della tutela dell’affidamento questa Corte a Sezioni Unite – sent. n. 15144/2011 – prosegue la ricorrente, aveva escluso la retroattività dei mutamenti giurisprudenziali idonei a determinare effetti preclusivi del diritto di azione e di difesa. Nel caso di specie l’impossibilità di applicare la l. n. 289 del 2002, art. 11, comma 1, nasceva dall’esistenza di una giurisprudenza di questa Corte che aveva escluso tale possibilità. Pertanto, la comm. trib. reg., senza fornire alcuna valida motivazione, si era discostata dai principi espressi da numerose decisioni – Cass. n. 1628/ 2003, Cass. n. 26180/2010, Cass. n. 12416/ 2010; Cass. n. 28880/2008. Da qui la necessità, sollecitata dalla ricorrente, di chiarire che il mutamento giurisprudenziale sul quale si era fondata la comm. trib. reg. non poteva spiegare effetto che per il futuro. Orbene, la censura, che sostanzialmente la parte ricorrente prospetta, pur anche sotto il paradigma dell’omessa e insufficiente motivazione, riguarda la lesione dei principi in tema di affidamento e di certezza del diritto, è infondata. Giova premettere che la posizione espressa dalla comm. trib. reg. a proposito della prorogabilità del termine triennale previsto dal d.p.r. n. 131 del 1986, art. 76, alle agevolazioni tributarie relative alla medesima imposta si inscrive nel principio, più volte affermato da questa Corte, secondo il quale “La proroga di due anni dei termini per la rettifica e la liquidazione della maggiore imposta di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni e sull’incremento di valore degli immobili, prevista dalla l. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 11, com502 Cassazione civile ma 1, in caso di mancata presentazione o inefficacia dell’istanza di condono quanto ai valori dichiarati o agli incrementi di valore assoggettabili a procedimento di valutazione, è applicabile anche all’ipotesi di cui al comma 1 bis, riguardante la definizione delle violazioni relative all’applicazione di agevolazioni tributarie sulle medesime imposte, in quanto, nell’uno e nell’altro caso, l’Ufficio è chiamato a valutare l’efficacia dell’istanza di definizione cosicché, trattandosi delle medesime imposte, sarebbe incongrua l’interpretazione che riconoscesse solo nella prima ipotesi la proroga dei termini per la rettifica e la liquidazione del dovuto” (Cass. n. 12069/2010). Di tale decisione la ricorrente si duole non tanto rispetto al merito della questione, quanto piuttosto per il fatto che tale indirizzo non poteva alla stessa applicarsi in forza del rispetto dei canoni di affidamento e di certezza del diritto. Ciò perché (a suo dire) esisteva un pregresso indirizzo giurisprudenziale di diverso tenore sul quale la stessa aveva fatto pieno affidamento. Orbene, il tema che viene qui sollecitato presuppone l’analisi di due differenti questioni, peraltro fra loro intimamente connesse. Per l’un verso, infatti, viene in discussione la possibilità stessa del giudice di applicare un orientamento giurisprudenziale – proveniente dalla Corte di Cassazione – innovativo rispetto a quello eventualmente sorto all’epoca in cui la fattispecie concreta ebbe a verificarsi. Secondo la ricorrente ciò sarebbe possibile solo in limitatissimi casi – errore interpretativo, inattualità dell’indirizzo giurisprudenziale. Per l’altro verso, si prospetta l’impossibilità assoluta di applicare il mutamento di giurisprudenza successivamente formatosi proprio in forza dei principi di certezza e di affidamento che renderebbero, eventualmente, possibile l’applicazione di tale indirizzo innovativo solo per il futuro. Entrambe le prospettazioni della ricorrente non sono persuasive e meritano di essere disattese, nei termini in cui le stesse sono state avanzate. Quanto alla prima, occorre muovere dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo – la quale – Corte dir. uomo 18 dicembre 2008, Unedic c. Francia, (rie. n. 20153/04) – ha escluso che il revirement di un NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 orientamento giurisprudenziale adottato da un giudice di ultima istanza – in quel caso le Sezioni riunite della Corte di Cassazione francese (sez. Lavoro) – può vulnerare il principio della certezza del diritto anche se è destinato ad incidere retroattivamente sulle posizioni giuridiche soggettive – cfr. p. 74: “la Cour considère cependant que les exigences de la sécurité juridique et de protection de la confiance légitime des justiciables ne consacrent pas de droit acquis à une jurisprudence constante”. La Corte Europea ha escluso la violazione dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo, ritenendo che il principio della certezza del diritto non impone il divieto per la giurisprudenza di modificare i propri indirizzi e di seguire un indirizzo costante, tutte le volte in cui siano rispettate le generali prerogative garantite dal principio del giusto processo come tutelato dall’art. 6 – accesso alla giustizia, carattere equo del processo e principio della certezza del diritto rapportata all’epoca in cui è dovuto intervenire l’autorità giudiziaria. In questa direzione, peraltro, questa Corte è ferma nel ritenere che “...l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta da un Giudice, in quanto consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non possa mai costituire limite alla attività esegetica esercitata da un altro Giudice, dovendosi richiamare al proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dalla efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 cod. civ., rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello ‘stare decisis’ (cioè del ‘precedente giurisprudenziale vincolante’) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale” – cfr. Cass. n. 23723/2013; conf. Cass. n. 24438/2013; Cass. n. 24339/13; Cass. n. 23722/13. Non mancano certo i moniti, provenienti dalla stessa Corte di Strasburgo – Corte eur. dir. uomo sent. 6 dicembre 2007, Beian c. Romania; Corte eur. dir. Uomo, 2 luglio 2009, Iordan Iordanov c. Bulgaria, Corte dir. uomo. 24 giugno 2009, Tudor Tudor e Romania – in ordine al fatto che, a fronte dell’assoluta fisiologia connessa alla diversità di orientamenti giurisprudenziali fra le corti di merito e quella di legittimità, non è tollerabile che vi siano marcate diversità di vedute all’interno dell’organo che ha il compito di dare uniformità NGCC 2015 - Parte prima Cassazione civile alla giurisprudenza. Sul punto, Corte dir. Uomo, 20 ottobre 2011, Nejdet, Sahin e Perihan, Sahin e Turchia, ha infatti sottolineato la necessità di uno sviluppo giurisprudenziale improntato alla salvaguardia del canone della certezza del diritto – cfr. pp. 55 ss. sent. cit. “... In this regard, the Court has reiterated on many occasions the importance of setting mechanisms in place to ensure consistency in court practice and uniformity of the courts’ case-law (see Schwarzkopf and Taussik, cited above). It has likewise declared that it is the States’ responsibility to organise their legal systems in such a way as to avoid the adoption of discordant judgments (...). Its assessment of the circumstances brought before it for examination has also always been based on the principle of legal certainty which is implicit in all the Articles of the Convention and constitutes one of the fundamental aspects of the rule of law”. Ma tali principi non hanno mai messo in discussione la possibilità di un dinamico affinamento della giurisprudenza, affermandosi nel precedente da ultimo menzionato (p. 58) che “... the requirements of legal certainty and the protection of the legitimate confidence of the public do not confer an acquired right to consistency of case – law...”, così proprio richiamando il caso Unedic c. Francia cit. Si è poi aggiunto, nel medesimo contesto, che “...Caselaw development is not, in itself, contrary to the proper administration of justice since a failure to maintain a dynamic and evolutive approach would risk hindering reform or improvement (see Atanasovski V. ‘The Former Yugoslav Republic Of Macedonia’, no. 36815/03, p. 38, 14 January 2010)”. Si tratta di una posizione che trova speculare risalto nella giurisprudenza di questa Corte, a sezioni Unite - Cass. S.U. n. 13620/2012; conf. Cass. n. 7355/2003; Cass. n. 23351/13 – allorché si afferma che “...benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa tuttavia costituisce un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente all’ordinamento, in base alla quale non ci si può discostare da una interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza delle forti ed apprezzabili ragioni giustificative...”, pure aggiungendosi che l’in503 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 troduzione dell’art. 380 bis cod. proc. civ. “...ha accentuato maggiormente l’esigenza di non cambiare l’interpretazione della legge in difetto di apprezzabili fattori di novità (Cass. S.U. 5.5.2011 n. 9847), in una prospettiva di limitazione dell’accesso al giudizio di legittimità coerente con l’esercizio della funzione nomofilattica”. Sulla medesima lunghezza d’onda si muove la Corte costituzionale – sent. n. 230/12 – secondo la quale l’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione “aspira indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma si tratta di connotati solo tendenziali, in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente persuasivo. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni unite possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto”. Le indicazioni che sembrano emergere dall’indirizzo appena espresso lasciano, dunque, intatta la possibilità del giudice di merito della controversia di applicare l’indirizzo giurisprudenziale reso in sede di nomofilachia che si ritiene idoneo a definire in modo corretto la controversia, senza che detto giudice sia tenuto a motivare le ragioni che lo hanno indotto a seguire detto indirizzo. E nella stessa direzione questa stessa Corte, con un risalente indirizzo, ancora di recente confermato, non dubita del fatto che un mutamento di indirizzo verificatosi nella giurisprudenza di legittimità, in ordine ai principi già affermati dalla stessa Suprema Corte in precedenti decisioni, non è assimilabile allo ius superveniens, onde non soggiace al principio di irretroattività, fissato, per la legge in generale dall’art. 11 preleggi, comma 1, e, per le leggi penali in particolare, dall’art. 25 Cost., comma 2. cfr. Cass. n. 565/2007; Cass. n. 8820/2007; Cass. n. 6225/14. Il discorso non sembra potere mutare sotto il profilo della tutela dell’affidamento – al quale 504 Cassazione civile fa specifico riferimento la parte ricorrente – considerando i principi espressi da Cass. S.U. n. 15144/2011 che, sulla scia di taluni precedenti – Cass. n. 14627/2010 e Cass. n. 15811/ 2010 – e seguita da Cass. S.U. n. 24413/11 (su cui v. Cass., ord. n. 959/2013), ha intravisto nel mutamento, ad opera della stessa Corte di cassazione, di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo (dunque, imprevedibile e idonea a precludere il diritto di azione prima ammesso), la necessità di tutelare la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, proprio in forza del principio costituzionale del “giusto processo”, la cui portata risente dell’“effetto espansivo” dell’art. 6 CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ora, è sufficiente evidenziare che i precedenti da ultimo ricordati hanno riguardato, esclusivamente, gli effetti processuali di un mutamento giurisprudenziale e non quelli di natura sostanziale che qui vengono semmai in discussione – in termini v. Cass. a 13087/12 – introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Ragion per cui, in dottrina, si è opportunamente ritenuto che si può profilare una netta distinzione tra mutamenti di orientamenti costanti di giurisprudenza della Corte di cassazione riguardanti l’interpretazione di norme sostanziali e mutamenti che concernono norme processuali, dovendosi per i primi confermare il carattere in via di principio retrospettivo dell’efficacia del precedente giudiziario. In questa direzione si è espressa, del resto, Cass. S.U. n. 13676/14, affermando che “...affinché si possa parlare di prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (Cass. nn. 28967 del 2011,6801 e 13087 del 2012, 5962 e 20172 del 2013)”. NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento Orbene, è certo nel giusto la parte ricorrente laddove, nella sostanza, sottolinea come il sistema rimane in equilibrio se il giudice offre all’interno del suo prodotto un’analisi argomentativa capace di supportare in maniera adeguata l’iter decisionale adottato. In questa direzione, del resto, la già ricordata Corte cost. n. 230/12 non mancò di ricordare che il giudice di cognizione può “...disattendere – sia pure sulla base di adeguata motivazione – la soluzione adottata dall’organo della nomofilachia (provocando eventualmente, con ciò, un nuovo mutamento di giurisprudenza)”. E tuttavia, la critiche che in punto di motivazione hanno riguardato la decisione impugnata sono manifestamente infondate, se solo si consideri che: a) il giudice di merito non si è discostato dall’indirizzo espresso dalla Corte di legittimità; b) i precedenti di legittimità richiamati dalla ricorrente a sostegno dell’asserito contrasto all’interno della giurisprudenza di questa Corte – pag. 13 ricorso – non riguardano, a ben considerare, il tema della proroga biennale del termine di decadenza venuto in essere per effetto dell’entrata in vigore della L. n. 289 del 2002, art. 11, ma, semmai, la decorrenza iniziale di detto termine. In definitiva, la decisione impugnata ha espresso in modo appropriato e completo le ragioni della decisione, evocando un principio giurisprudenziale – reso da questa Corte sulla base dell’interpretazione di una norma positiva – che ha ritenuto di fare proprio senza mostrare alcuna delle lacune invece prospettate dalla ricorrente. Il ricorso va rigettato. Nulla sulle spese. [Iacobellis Presidente – Conti Estensore. – M.E. (avv. Mari) – Agenzia delle entrate (avv. dello Stato)] Nota di commento: «Mutamento di giurisprudenza e tutela dell’affidamento: alla ricerca di una soluzione coerente» [,] I. Il caso Un contribuente lamenta che un asserito mutamento della giurisprudenza di legittimità, che avreb[,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte prima Cassazione civile be recentemente reso applicabile la proroga di un termine decadenziale per l’esercizio della potestà impositiva, ha consentito all’Agenzia delle entrate di richiedergli il pagamento di una somma a titolo di imposta di registro. Ciò le sarebbe stato precluso secondo la più vecchia interpretazione. Il contribuente impugna, quindi, l’avviso di liquidazione, facendo valere l’affidamento riposto in un precedente indirizzo giurisprudenziale, che aveva ritenuto applicabile alla fattispecie un termine più breve. La comm. trib. prov., in primo grado, accoglie le doglianze del contribuente, mentre la comm. trib. reg., in appello, le rigetta in applicazione della giurisprudenza più recente. La Supr. Corte conferma la decisione di secondo grado, in quanto conforme ai più recenti indirizzi della Corte stessa, aggiungendo, inoltre, che il mutamento giurisprudenziale, in realtà, ha riguardato un aspetto diverso da quello segnalato dal ricorrente (ovverosia la decorrenza iniziale del termine di decadenza per far valere la pretesa fiscale, non già la sua proroga). Tali statuizioni, espresse in poche righe, sono, invece, precedute da una dettagliata premessa sul tema della tutela dell’affidamento della parte su un precedente indirizzo giurisprudenziale, mutato dopo il verificarsi dei fatti dedotti in giudizio. Dopo tale ragionata esposizione, la Corte ritiene inapplicabili i principi statuiti dalle sez. un. nel 2001 in materia di mutamento di giurisprudenza (forse impropriamente etichettato con il lemma inglese overruling). Secondo il Collegio, l’affidamento della parte è tutelabile mediante la dichiarazione di non retroattività del nuovo indirizzo giurisprudenziale soltanto quando quest’ultimo riguardi una norma processuale, abbia carattere repentino e determini una preclusione nell’esercizio del diritto di azione o difesa della parte. Nel caso di specie, tali requisiti non sussistono, in quanto la disposizione in questione ha carattere sostanziale, riguardando una decadenza dell’amministrazione finanziaria dall’esercizio di una potestà impositiva, oggetto di un contrasto di giurisprudenza poi composto in senso sfavorevole al contribuente. II. La questione La decisione in esame si colloca nel solco, di particolare rilevanza in questi ultimi anni, di quell’indirizzo che sta formando, nel nostro Paese, ciò che si può definire una giurisprudenza al quadrato: sempre più decisioni, soprattutto della Supr. Corte, affrontano la natura e gli effetti della pronuncia del giudice e in particolare, la tutela dell’affidamento della parte in caso di mutamento di un indirizzo giurisprudenziale consolidato, giungendo a risultati che 505 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento presentano delle gravi contraddizioni interne. La colpa di ciò, come si dirà, non può, però, essere fatta ricadere soltanto sulla giurisprudenza: l’ordinamento italiano è, infatti, in buona parte privo di un’elaborazione dogmatica della teoria del precedente giudiziale che possa dirsi completa e adeguata ai nostri tempi. Non si pretende, in una breve nota, di contribuire all’opera della sua costruzione, ma soltanto di segnalare le aporie dell’esistente tentando di indicarne almeno le cause principali. È un fatto risaputo che il tema del precedente giudiziario, il quale sembrava essere governato da norme tanto antiche quanto immutabili, sia stato riscoperto negli ultimi anni a seguito delle due celebri e criticate sentenze delle sez. un., che hanno rispettivamente riguardato il rilievo ufficioso del difetto di giurisdizione nei gradi d’impugnazione, o meglio la sua preclusione (Cass., sez. un., 9.10.2008, n. 24883, infra, sez. III) e soprattutto la dimidiazione del termine di costituzione dell’opponente un decreto ingiuntivo (Cass., sez. un., 9.9.2010, n. 19246, infra, sez. III). Lo sviluppo di quest’ultima vicenda giurisprudenziale (divenuta, poi, anche legislativa) è talmente noto da non aver bisogno che di un rapido cenno: interpretando il testo allora vigente dell’art. 645, comma 2o, cod. proc. civ., nel senso che esso contenesse un termine perentorio di costituzione dell’opponente pari a cinque giorni, un numero assai elevato di opposizioni pendenti sarebbe stato destinato alla ghigliottina dell’improcedibilità, nonostante la più assoluta buona fede e diligenza del difensore, che si era comportato in conformità a un indirizzo giurisprudenziale di lunghissimo corso. Altrettanto conosciuta è stata la durissima reazione della dottrina, che ha visto nascere dal nulla una gravissima (e, per molti, non condivisa) preclusione idonea a compromettere seriamente i diritti del debitore opponente un decreto ingiuntivo. Ci si è, così, resi conto che il nostro ordinamento versa in una situazione inidonea a essere governata dai principi tralatizi per cui, essendo il giudice la bocca della legge, l’interpretazione da questi adottata non può che risalire alla data di entrata in vigore di quella: era talmente summa l’iniuria, che si è unanimemente percepita l’esigenza di rivisitare l’interpretazione dello ius. L’anno successivo alla sentenza sul decreto ingiuntivo, le sez. un. sono, così, nuovamente intervenute, con pronuncia altrettanto celebre (Cass., sez. un., 11.7.2011, n. 15144, infra, sez. III), per affrontare il difficile problema che consiste nel conciliare la tutela dell’affidamento della parte nell’interpretazione consolidata di una norma processuale con gli effetti pacificamente retroattivi del mutamento di giurisprudenza. Tale pronuncia può, almeno fino a oggi, essere definita quale leading case del S.C. sul 506 Cassazione civile punto. In estrema sintesi, essa prende le mosse dall’interpretazione che la dottrina prevalente, anche se non unanime (Gorla, voce «Precedente giudiziale», 4; Id., Postilla, 133, entrambi infra, sez. IV), dà dell’art. 101, comma 2o, Cost., con riferimento al precedente giudiziale: nessuno, eccetto la legge, può interferire con la libertà interpretativa del giudice, sicché egli è libero di non seguire quella proposta da altri magistrati. Il mutamento di giurisprudenza si giustifica, peraltro, vuoi in forza di un’evoluzione del contesto giuridico e sociale, vuoi perché si ammetta che la precedente esegesi era sbagliata. Tuttavia, si riconosce che, nel campo processuale, un mutamento repentino è in grado di introdurre delle decadenze ex post, cioè a rendere successivamente inefficace un atto processuale che, quando fu compiuto, era pienamente rispettoso dei canoni normativi allora vigenti. Il massimo dell’attrito tra esigenze giuridiche apparentemente inconciliabili si coglie quando la Corte passa all’individuazione di una soluzione al dilemma. I giudici, infatti, arrivano a scrivere che «ciò che non è consentito alla legge non possa similmente essere consentito alla giurisprudenza. I cui mutamenti (...) debbono, al pari delle leggi retroattive, a loro volta rispettare il principio di ragionevolezza, non potendo frustrare l’affidamento ingenerato come, nel cittadino, dalla legge previgente, così, nella parte, da un pregresso indirizzo ermeneutico, in assenza di indici di prevedibilità della correlativa modificazione». La soluzione è, quindi, dichiarare inapplicabile il mutamento di giurisprudenza su norme processuali preclusive a casi precedenti il momento della sua conoscibilità. La Supr. Corte, nel trattare apertis verbis la modificazione di un indirizzo giurisprudenziale allo stesso modo dell’emendamento di una disposizione di legge, sia pur limitatamente al campo del diritto processuale e ai casi di mutamento repentino, impiega il lemma inglese «overruling». Ciò nonostante si continui ad affermare con forza che, in Italia, il precedente giudiziale non ha alcuna efficacia vincolante: ciò che è stato ribadito ancora, di recente, dalle stesse sez. un. civili (Cass., sez. un., ord. 6.11.2014, n. 23675, infra, sez. III). Di conseguenza, il giurista italiano dovrebbe scandalizzarsi di fronte all’impiego di un termine (e dell’istituto che esso definisce) che di per sé presuppone l’efficacia vincolante della giurisprudenza, così come accade in altri sistemi giuridici. Senonché, proprio da un’attenta analisi di quest’ultima decisione, emerge che ciò che dovrebbe destare l’attenzione dello studioso del diritto italiano è, piuttosto, un vistoso avvicinamento della Cassazione italiana alla concezione del precedente nei sistemi di common law. Nel prosieguo dell’ordinanza n. 23675/2014 da ultimo citata, infatti, i giudici scrivono che «un overruling delle sezioni uniNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento te in materia processuale può pertanto essere giustificato solo quando l’interpretazione fornita dal precedente in materia risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa e/o comunque dia luogo (eventualmente anche a seguito di mutamenti intervenuti nella legislazione o nella società) a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti”». In sostanza, dalla lettura del provvedimento sembra emergere che lo stesso S.C. si senta vincolato ai propri precedenti, anche se erronei, purché non si tratti di interpretazioni arbitrarie della legge (contra legem, o, come direbbero gli inglesi, precedenti emessi per incuriam, cioè ignorando una disposizione di legge a essi contraria), ovvero non urtino contro il valore costituzionale della ragionevolezza che, com’è noto, deriva direttamente dal principio di uguaglianza. In una frase, si potrebbe dire che la regola, in materia processuale, è ... stare decisis et quieta non movere, salvo che il precedente in questione sia stato emesso per incuriam o sia riconosciuto incostituzionale (nella stessa nozione di «ingiustizia» non può che notarsi un riferimento ai principi del giusto processo, anch’essi di natura costituzionale). Ciò, almeno, per quanto riguarda il comportamento della Supr. Corte. D’altro canto, un fenomeno giurisprudenziale di avvicinamento del precedente alla legge si ritrova anche in altre recenti decisioni della Cassazione su fattispecie di cui è indubbia l’appartenenza al campo del diritto sostanziale. Si prenda, per esempio, una decisione del 2013 in materia di responsabilità dell’avvocato, in cui la Corte ha riscontrato la negligenza del professionista che, in presenza di un contrasto giurisprudenziale circa la durata di un termine prescrizionale, non abbia agito entro il termine più breve e poi sia risultato soccombente in seguito alla risoluzione del contrasto nel senso più restrittivo. Orbene, la Corte, richiamato un proprio precedente, reso «in un caso che presenta stretta analogia con quello attualmente all’esame», cassa la sentenza di merito che vi si era discostata, aggiungendo che proprio a causa del contrasto giurisprudenziale, l’avvocato avrebbe dovuto adoperare la massima prudenza possibile, interrompendo la prescrizione nel termine più breve, a pena del riconoscimento della sua «colpa grave». Aggiunge poi la Corte, in un significativo obiter dictum, che la decisione sarebbe stata diversa (cioè assolutoria nei confronti del professionista) «nella ben diversa ipotesi di overruling, ovverosia di mutamento giurisprudenziale, nell’interpretazione di una norma o di un sistema di norme, inatteso o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi (...), e sino a quando esso possa ancora reputarsi tale, in ragione dell’onere di costante informazione del difensore sulla giurisprudenza» (Cass., 5.8.2013, n. 18162, infra, sez. III). A questo punto, vi sono due possibilità. La prima è riNGCC 2015 - Parte prima Cassazione civile tenere che il precedente non abbia efficacia che per il singolo caso e l’avvocato abbia il dovere di seguire la via che, secondo una corretta e motivata interpretazione della legge, gli pare giusta, indicandola altresì al giudice, il quale deve discostarsi dal precedente eventualmente errato. Allora, questa decisione dev’essere ritenuta assurda, perché impone all’avvocato di seguire una norma giuridica che non è tale, a pena di responsabilità per colpa grave. La seconda è riconoscere che il precedente giudiziale ha un valore giuridico, non solo di mero fatto, il quale, anche se indubbiamente subordinato a quello della legge, consente di imporre agli operatori del diritto di conformarvisi. Ciò giustificherebbe non solo la ratio decidendi, ma pure l’obiter dictum: così come non si può imporre all’avvocato di prevedere che (in ipotesi) il Parlamento approverà una legge retroattiva, non si può nemmeno attribuirgli il dovere di prevedere un repentino mutamento di giurisprudenza con effetti retroattivi. Il suo obbligo professionale, infatti, si limita alla conoscenza (aggiornata e ragionata) del diritto vigente, non di quello futuro. Un indice ancor più significativo (o allarmante, sotto altro punto di vista) dell’atteggiamento della Supr. Corte si riscontra in un’altra nota decisione del 2011, la quale ha escluso la tutelabilità dell’affidamento in un precedente orientamento, poi oggetto di repentino mutamento (ancora una volta, denominato «overruling»), mediante rimessione in termini, dal momento che la sentenza delle sez. un. recante il nuovo indirizzo era stata pubblicata nel «Servizio novità» del sito Internet della Corte prima del compimento dell’atto processuale inammissibile secondo il nuovo orientamento (Cass., 7.2.2011, n. 3030, infra, sez. III). In questo caso, la Corte va addirittura alla ricerca del momento in cui la propria giurisprudenza può dirsi legalmente nota a tutti gli operatori giuridici, con conseguente impossibilità di invocare a propria tutela un precedente orientamento, proprio come se si trattasse di una norma legislativa. Ne risulta una posizione gravemente contraddittoria da parte della Supr. Corte, la quale, da un lato, afferma in principio che il precedente giudiziale non ha carattere vincolante, in forza del principio di indipendenza della magistratura, ma poi si comporta come se la regola fosse quella esattamente opposta, avvicinando la giurisprudenza alla legge quasi come nessun autore italiano avrebbe osato fare fino a pochi anni or sono. Non solo. La giurisprudenza italiana ha preso a prestito istituti tipici del diritto inglese e americano, quali l’overruling e il prospective overruling. Entrambi presuppongono, però, che si segua la doctrine of binding precedent, in assenza della quale non ha senso discorrere di overruling. In estrema e approssimativa sintesi, quest’ultimo si può definire 507 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento quale eccezione alla regola dello stare decisis (et quieta non movere), in base alla quale le Corti supreme si sono autoattribuite il potere eccezionale di discostarsi dai propri precedenti, producendo per essi un effetto simile a ciò che noi chiameremmo annullamento, con efficacia retroattiva, salvi i diritti quesiti. Si noti che sia la doctrine of binding precedent, sia il potere di overruling non trovano fondamento in una norma espressa di legge, che imponga ai giudici di attenervisi, ma in una scelta di questi ultimi, fortemente radicata in quelle tradizioni giuridiche, di seguire i precedenti in quanto, da molto tempo, essi sono ritenuti parte del diritto oggettivo. Il prospective overruling, poi, costituisce la massima espressione del potere dei giudici statunitensi (e in qualche raro caso, inglesi) di creare diritto: esso si sostanzia in un obiter dictum, con il quale la corte in questione avverte che, per tutti i casi decisi successivamente, il precedente fino ad allora in vigore sarà superato, giacché esso non è più ritenuto adeguato ai tempi, ma non si vuole ledere l’affidamento riposto dai consociati nella norma giurisprudenziale fino a quel momento vigente. Si tratta, quindi, di un potere rilevantissimo, alla base del quale non può non esservi il disconoscimento della teoria per cui il giudice si limita a dichiarare il diritto vigente, senza potere di mutarlo (teoria invalsa, con notevoli varianti, sia nei sistemi di common law, che in quelli di civil law). Vale, infine, la pena di precisare, a scanso di equivoci, che in entrambi i sistemi, inglese e statunitense, alla legge formale (statutes) è riconosciuta una posizione superiore nella gerarchia delle fonti del diritto, sicché il potere legislativo è sempre in grado di espungere dall’ordinamento o modificare una norma di origine giurisprudenziale che non approvi, esattamente come avviene da noi (ex multis Barsotti-Varano, 315 ss.; Marinelli, 881-884; Mattei, 277 ss.; Monateri, in Vacca (a cura di), 103 ss.; Serio, La rilevanza, in part. 357-363; Id., Il valore, passim, tutti infra, sez. IV). Dopo queste necessarie precisazioni sul contesto giurisprudenziale che ha influenzato tutta la prima parte della sentenza in commento, è ora possibile esaminare con maggior cognizione di causa il punto più rilevante del percorso argomentativo dei giudici. Orbene, essi dichiarano espressamente di aderire a quanto statuito dalle sez. un. nel 2014 in relazione a un caso, anch’esso in materia tributaria, che, a loro avviso, presenta importanti similitudini con quello loro sottoposto (Cass., sez. un., 16.6.2014, n. 13676, infra, sez. III). La questione riguardava la decorrenza del termine per richiedere il rimborso di un’imposta versata e poi dichiarata illegittima dalla Corte giust. UE: il contribuente, paragonando la sentenza dei giudici di Lussemburgo a uno dei fenomeni di mutamento di giurisprudenza appena esaminati, so508 Cassazione civile steneva che il termine decadenziale per l’istanza di rimborso decorresse dal momento della pronuncia europea (emessa, naturalmente, su rinvio in un procedimento diverso dal suo) che aveva mutato il quadro giuridico di riferimento e non dal versamento dell’imposta illegittima, com’è la regola. Dopo alcune premesse sulla vicenda normativa che aveva riguardato l’imposta in esame e sulle ragioni per cui la legge prevede ipotesi di decadenza e prescrizione, con riferimento alla materia fiscale, il S.C. spiega perché, a suo avviso, «deve escludersi che sulla questione in esame possa esplicare effetti diretti la nota pronuncia di questa Corte in tema di overruling» (cioè Cass. n. 15144/2011). Al di là della (all’apparenza, dopo ciò che si è appena detto) sorprendente idea per cui un precedente italiano possa esplicare «effetti diretti» in un altro caso, ciò che merita di essere sottolineato è il modo in cui la Corte giunge a escludere tali effetti nel caso di specie: «nel caso di pronuncia che dichiari la contrarietà di una norma nazionale al diritto comunitario non si è in presenza di un “mutamento della giurisprudenza”; e, con riferimento alla questione in esame e con argomento ancor più decisivo, va rilevato che la sentenza della Corte di giustizia non solo non è intervenuta (in malam partem, cioè con effetti preclusivi dell’esercizio del diritto) su norme di carattere processuale, ma neanche sulle disposizioni, di natura sostanziale, che qui interessano, relative ai termini (di prescrizione o decadenza) per l’esercizio del diritto alla ripetizione dell’indebito tributario, bensì, con effetto ampliativo, su una norma tributaria che riduceva illegittimamente la portata di un beneficio fiscale». In definitiva, le sez. un. escludono l’applicabilità del proprio precedente non perché erroneo, ma perché i fatti di causa sono differenti rispetto a quelli che avevano portato alla sua pronuncia. Si tratta, ancora una volta, di un’operazione tipica degli ordinamenti in cui vige la dottrina del precedente vincolante e che là è denominata distinguishing. Facendo ancora una volta, per la necessità della sintesi, violenza alla complessità dei sistemi giuridici, si può affermare che esso si sostanzia nel rilievo che, stante la differenza della fattispecie concreta dedotta in giudizio, la quale non è sovrapponibile a quella decisa da un certo precedente, quest’ultimo non vincola il giudice nel caso che gli è sottoposto. La necessità del distinguishing nasce dalla stessa natura del precedente giudiziale: esso non si sostanzia mai in una norma generale e astratta, ma nel principio in base a cui è stato deciso un caso concreto, le cui particolarità fattuali sono una componente fondamentale della ratio decidendi adottata; di conseguenza, se i fatti mutano, può e talora deve mutare anche la decisione e dove questo è normalmente vigente, non si applica lo stare decisis (ex multis, Barsotti-VaraNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento no, 322-323; Bin, passim; Gorla, Lo studio, 76 s.; Marinelli, 885-887; Monateri, in Vacca (a cura di), 103 ss.; Serio, La rilevanza, 364 ss.; Id., Il valore, 115 ss.; Taruffo, Precedente e giurisprudenza, 9 ss., tutti infra, sez. IV). D’altro canto, dove non v’è vincolo all’osservanza dei precedenti, ma totale libertà di discostarsene, non v’è nemmeno ragione di far uso del distinguishing, essendo, al contrario, sufficiente enunciare la regola applicabile al caso e le relative ragioni giuridiche: più banalmente, non ha senso che il giudice spieghi perché sta compiendo un’operazione che è in ogni caso e pacificamente in suo potere. Le sez. un., esclusa l’operatività diretta del precedente in tema di overruling, si chiedono se esso possa essere richiamato in via analogica, giungendo, cioè, alle medesime conclusioni in virtù di un’esigenza generale di tutela dell’affidamento. La risposta è, ragionevolmente, negativa, giacché «la posizione del soggetto che, in vigenza della norma che lo escludeva dal beneficio, è rimasto inerte fino all’intervento della sentenza (o anche successivamente), così trovandosi in tutto o in parte decaduto dal diritto al rimborso, non è assimilabile, sotto il profilo dell’esigenza di tutela, a quella», già accennata, che ha dato causa all’introduzione, nel nostro ordinamento, di una forma nostrana dell’istituto del prospective overruling di norme processuali da parte di Cass. n. 15144/2011. In definitiva, i fatti di causa sono troppo differenti anche per escludere l’esistenza di effetti indiretti del precedente giudiziale, sicché si deve adottare una differente ratio decidendi e, di conseguenza, dichiarare decaduto il contribuente dal diritto al rimborso. La sentenza qui in commento, richiama il precedente appena riassunto e ritiene che i fatti siano suscettibili di essere decisi secondo la medesima ratio: nel caso di specie, si trattava non di una decadenza gravante sul contribuente a causa del mutamento di giurisprudenza, ma di un ampliamento del termine decadenziale imposto dalla legge alla controparte (Agenzia delle entrate). Nel merito, la decisione può senz’altro essere condivisa, anche perché l’esclusione della retroattività del mutamento di giurisprudenza, come si è già ricordato, costituisce una fattispecie del tutto eccezionale tanto nei Paesi di common law, quanto in quelli di civil law e senz’altro non si giustifica alla luce dei fatti del caso in esame. Quanto al metodo con cui è stata elaborata questa sentenza, nel contesto giurisprudenziale che si è appena tentato di descrivere, sia consentita la metafora per cui gli Ermellini, alle prese con le insormontabili difficoltà derivanti dalla tradizione, sembrano aver sostituito, sopra la toga, il tocco di velluto con la parrucca di crine di cavallo tipica dei giudici delle corti superiori inglesi. Si tratta di un colpo di Stato? NGCC 2015 - Parte prima Cassazione civile Probabilmente, qualunque avvocato d’oggi risponderebbe di no, alla luce della sempre maggiore importanza che il precedente giudiziale ha assunto nella prassi italiana degli ultimi decenni. Dal punto di vista teorico, si deve senz’altro condividere l’avvertenza di più d’un autorevole studioso, secondo la quale la tradizionale (e troppo comoda) distinzione netta tra le categorie dell’efficacia vincolante e persuasiva del precedente non rispecchia la realtà e dovrebbe essere rivisitata alla luce della complessità di questo fenomeno giuridico (tra gli altri, Gorla, voce «Precedente giudiziale», 4 s.; Lupoi, in Vacca (a cura di), in part. 99 ss.; Serio, Il valore, passim; Taruffo, Precedente ed esempio, 24-27, tutti infra, sez. IV). D’altra parte, lo sviluppo degli studi sul tema condurrà, nel tempo, verosimilmente al definitivo superamento dell’utopia illuministica del giudice bouche de la loi e di tutto ciò che da essa è derivato, come da tempo è avvenuto, al di là della Manica, per le teorie dichiarative, un tempo prevalenti, secondo le quali la funzione del giudice sarebbe stata non quella di creare diritto, bensì quella di scoprire norme già appartenenti alla common law. Per il momento, tuttavia, non pare possibile dolersi troppo del fatto che la nostra Cassazione attinga alle nozioni proprie dei sistemi giuridici dove il tema è affrontato in maniera più completa, pagando il prezzo consistente nelle contraddizioni che sono state segnalate: in conclusione, la strada verso la ricerca di una soluzione coerente è stata sicuramente intrapresa, ma buona parte del percorso verso tale obiettivo deve ancora essere compiuto. III. I precedenti Secondo l’opinione più diffusa, hanno ridestato l’interesse per il tema dei mutamenti giurisprudenziali Cass., sez. un., 9.10.2008, n. 24883, in Riv. dir. proc., 2009, 1071 ss., con note di Petrella e di E.F. Ricci; in Giur. it., 2009, 406 ss., con note di Socci e Vaccarella e ivi, 1459 ss., con nota di Carratta; in Corr. giur., 2009, 372 ss., con note di Caponi e Cuomo Ulloa; in Foro it., 2009, I, 806 ss., con nota di Poli e Cass., sez. un., 9.9.2010, n. 19246, in questa Rivista, 2011, 253 ss., con nota di P. Comoglio; in Corr. giur., 2010, 1447 ss., con nota di Tedoldi; in Giur. it., 2011, 1599 ss., con nota di Dalmotto; in Foro it., 2011, I, 3014 ss., con note di Barone e Caponi e ivi, 2011, I, 117, con nota di Proto Pisani; in Riv. dir. proc., 2011, 210 ss., con nota di Ruggeri. Il leading case, finora, sul mutamento di interpretazione di norme processuali si ritrova in Cass., sez. un., 11.7.2011, n. 15144, in Riv. dir. proc., 2012, 1072 ss., con nota di Vanz; in Corr. giur., 2011, 1392 ss., con note di Cavalla, Consolo, De Cri509 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento stofaro; in Foro it., 2011, I, 2254 ss., con note di Costantino e Mazzullo e ivi, 3343 ss., con nota di Caponi; in Giusto proc. civ., 2011, 1117 ss., con nota di Auletta. Sull’efficacia (apparentemente) solo persuasiva del precedente giudiziale vedi di recente Cass., sez. un., ord. 6.11.2014, n. 23675, nella banca dati Pluris. La sentenza citata in materia di responsabilità dell’avvocato è Cass., 5.8.2013, n. 18162, in Giur. it., 2014, 841, con nota di Favale. Sulla pubblicazione su Internet della sentenza delle sez. un. come limite alla tutelabilità dell’affidamento v. Cass., 7.2.2011, n. 3030, in Foro it., 2011, I, 1075 ss., con nota di Costantino e in Giur. it., 2011, 1600 ss., con nota di Dalmotto. Il precedente a cui la sentenza in commento dichiara espressamente di aderire è Cass., sez. un., 16.6.2014, n. 13676, in Riv. giur. trib., 2015, 17 ss., con nota di Bodrito. IV. La dottrina Sulla sentenza in commento, vedi anche l’analisi critica di Lanzafame, Retroattività degli overruling e tutela dell’affidamento. L’istituto del prospective overruling nella giurisprudenza italiana tra occasioni mancate e nuove prospettive applicative. Note a margine di Cass. civ., VI, n. 174/2015, in www.judicium. it. Sulla recente giurisprudenza della Supr. Corte in materia di mutamenti di giurisprudenza vedi, oltre alle note citt. nella sez. che precede, P. Comoglio, Minime riflessioni di ordine sistematico in tema di perpetuatio iurisdictionis, tempus regit actum e ovverruling processuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, 525 ss.; Punzi, Il ruolo della giurisprudenza e i mutamenti d’interpretazione di norme processuali, in Riv. dir. proc., 2011, 1337 ss. e Vincenti, Le sezioni unite della Cassazione sull’overruling in materia processuale, in Giusto proc. civ., 2012, 289 ss. Sul tema, rapportato con i principi del giusto processo, L.P. Comoglio, Rigore sistematico ed etica «interna» del processo «giusto», in Jus, 2013, 19 ss., in part. 43-45. La letteratura italiana in tema di precedente giudiziale è assai vasta e ci si limita, quindi, in questa se- 510 Cassazione civile de, ad alcuni richiami ritenuti essenziali per le questioni analizzate nel presente scritto. Dopo gli (ormai assai risalenti, ma con acute intuizioni) studi di Bigiavi, Appunti sul diritto giudiziario, 1933 (rist. Cedam, 1989, a cura di Bin) e Calamandrei, Appunti sulla sentenza come fatto giuridico, in Riv. dir. proc. civ., 1932, 15 ss., v., in tempi più recenti, Aa.Vv., Otto voci sul precedente giudiziario, in Contr. e impr., 1988, 504 ss.; Bin, Il precedente giudiziario. Nozione e interpretazione, Cedam, 1995; L.P. Comoglio-V. Carnevale, Il ruolo della giurisprudenza e i metodi di uniformazione del diritto in Italia, in Riv. dir. proc., 2004, 1037 ss.; Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, in Contr. e impr., 1985, 701 ss.; Gorla, voce «Precedente giudiziale», in Enc. giur., XXIII, Treccani, 1990; Id., Postilla su «l’uniforme interpretazione della legge e i tribunali supremi», in Foro it., 1976, V, 127 ss.; Id., Lo studio interno e comparativo della giurisprudenza e i suoi presupposti: le raccolte e le tecniche per la interpretazione delle sentenze, in Foro it., 1964, V, 73 ss.; Marinelli, voce «Precedente giudiziario», in Enc. del dir., Agg. VI, Giuffrè, 2002, 871 ss.; Taruffo, Precedente e giurisprudenza, Editoriale scientifica, 2007; Id., Precedente ed esempio nella decisione giudiziaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 19 ss.; Visintini (a cura di), La giurisprudenza per massime e il valore del precedente, Cedam, 1988. Per gli aspetti di diritto comparato succintamente riferiti nel testo, si sono consultati, oltre ai riferimenti comparatistici nelle opere appena citate, Barsotti-Varano, La tradizione giuridica occidentale. Testo e materiali per un confronto civil law common law, 5a ed., Giappichelli, 2014; Mattei, Stare decisis. Il valore del precedente giudiziario negli Stati Uniti d’America, Giuffrè, 1988; Serio, La rilevanza del fatto nella struttura del precedente giudiziario inglese, in Eur. e dir. priv., 2013, 357 ss.; Id., Il valore del precedente tra tradizione continentale e common law: due sistemi ancora distanti?, in Riv. dir. civ., suppl. annuale 2008, 109 ss.; Vacca (a cura di), Lo stile delle sentenze e l’utilizzazione dei precedenti. Profili storico-comparatistici, Giappichelli, 2000. Gabriele Molinaro NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 c CASS. CIV., III sez., 12.12.2014, n. 26157 Conferma Trib. Palermo, 4.2.2008 Impugnazioni civili in genere - Errore di fatto - Ricorso per Cassazione Esclusione - Revocazione (giudizio di) - Sussistenza (cod. proc. civ., art. 395, n. 4) (a) Cassazione civile - Errores in procedendo - Onere di allegazione della parte ricorrente - Contenuto (cod. proc. civ., art. 360, nn. 3, 4 e 5) (b) (a) Ove si imputi al giudice del merito un errore di percezione della realtà in riferimento al contenuto materiale della relata di notificazione, assumendosi che la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario in essa rinvenuta (ossia che il nominativo della C. si trovava «sul campanello» del domicilio in Piazza XIII Vittime) è, in realtà, inesistente, si addebita un errore di fatto, di immediata e oggettiva rilevabilità, che sarebbe stato tale da aver indotto il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dal documento esaminato; ciò legittima la parte ad esperire il rimedio della revocazione ex art. 395 cod. proc. civ., comma 1o, n. 4, non già il ricorso per cassazione. (b) La parte che propone ricorso per cassazione, deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice, lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata. (Nella specie, con riguardo ad un asserito vizio di notifica del pignoramento, sanato per la proposizione dell’opposizione, la parte si era limitata a dedurre l’avvenuta lesione NGCC 2015 - Parte prima Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile del suo diritto di difesa in forza del notevole lasso temporale intercorso tra la notificazione del pignoramento e l’introduzione del giudizio di opposizione). dal testo: Il fatto. Con ricorso ex art. 615 cod. proc. civ., C.P. proponeva opposizione avverso l’espropriazione promossa nei suoi confronti dal B., deducendo la nullità ed inefficacia dell’atto di precetto e del pignoramento immobiliare. A tal fine, l’attrice sosteneva che la notificazione del precetto era avvenuta in luogo diverso da quello di residenza ed assumeva, altresì, il mancato rispetto delle norme di cui all’art. 139 cod. proc. civ., con riguardo alla notificazione dell’atto di pignoramento. Con sentenza resa pubblica il 2 febbraio 2008, l’adito Tribunale di Palermo rigettava l’opposizione. (Omissis). I motivi. Con il primo mezzo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e 479 cod. proc. civ. Il giudice del merito avrebbe errato nell’escludere la nullità insanabile, ex art. 156 cod. proc. civ., comma 2o, delle notificazioni dell’atto di precetto e del pignoramento, in quanto eseguite in un luogo non avente alcuna relazione con l’effettiva residenza, dimora o ufficio del destinatario. Infatti, sarebbe “destituita di ogni fondamento” l’affermazione del Tribunale – posta alla base del convincimento che il luogo di effettuazione delle notificazioni anzidette fosse quello di residenza effettiva di essa C. – in ordine alla circostanza che l’ufficiale giudiziario aveva “rinvenuto il nominativo del destinatario sul campanello”, giacché “nessuna dichiarazione o certificazione in questo senso è rilasciata dall’Ufficiale Giudiziario nella relata di notifica, effettuata ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ.”. Inoltre, non sarebbe stata necessaria la querela di falso “avverso le dichiarazioni rese dall’UNEP nella relata dell’atto di precetto”, sulla “cui genuinità non v’è motivo di dubitare”, ma non avendo “le due notifiche dell’atto di precetto, la prima negativa e la seconda ex art. 140 cod. proc. civ., alcuna relazione”. Peraltro, “diversi erano gli elementi 511 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 probatori di cui era in possesso il Giudice che evidenziavano il reale domicilio della Sig.ra C.”. (Omissis). Con il secondo mezzo viene prospettata violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. Il Tribunale sarebbe incorso nella violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., in quanto non avrebbe compiuto l’accertamento del luogo di residenza e/o domicilio del destinatario della notificazione sulla base di quanto allegato e provato dalle parti. E, infatti, le uniche prove fornite sul punto – consistenti in un certificato storico di residenza, in una sentenza di omologa della separazione consensuale e in una serie continua di bollette Enel – confermerebbero che la residenza effettiva del destinatario della notifica non era quella ritenuta in sentenza dal giudice del merito (Omissis). Con il terzo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1o, n. 5 e art. 111 Cost., comma 6o, insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Il Tribunale, nel desumere la riferibilità al destinatario del luogo di notificazione (Omissis) ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., avrebbe fatto leva su una dichiarazione dell’ufficiale giudiziario – quella di aver “rinvenuto il nominativo del destinatario sul campanello” – in realtà inesistente, “in quanto nessuna dichiarazione o certificazione in questo senso è rilasciata dall’Ufficiale Giudiziario nella relata di notifica, effettuata ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ.”. Il vizio di motivazione deriverebbe, dunque, dal fatto che il giudice del merito ha “considerato fatti in realtà insussistenti”, mancando altresì di valutare le prove documentali prodotte dalla opponente (certificato storico di residenza, sentenza di omologa della separazione consensuale con assegnazione della casa coniugale, bollette Enel), senza ammettere l’esame “di alcuni testi in grado di riferire sulla effettiva residenza” di essa attuale ricorrente. Il motivo si conclude con l’indicazione del seguente “fatto controverso, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.: È viziata nella motivazione, per palese illogicità, contraddittorietà e insufficienza, la decisione del Giudice a quo che, al fine di desumere la riferibilità al destinatario del luogo di notifica di cui alla relata, fa riferimento ad una inesistente dichiarazione dell’Ufficiale Giudiziario che, secondo quanto erroneamente ritenuto dal Decidente, avrebbe dichiarato di aver rinvenuto nel campanello il 512 Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile nominativo del destinatario. È, altresì, viziata nella motivazione, per palese illogicità, contraddittorietà e insufficienza, la decisione del Giudice a quo che, a fronte di prove documentali (certificato storico di residenza, bollette Enel, omologa di separazione), che rilevano sulla effettiva residenza, domicilio e dimora del destinatario della notifica, effettuata in luogo diverso rispetto a quanto si desume dai medesimi elementi probatori, non valuta adeguatamente dette prove documentali, e non compie ulteriori accertamenti istruttori richiesti (prove testimoniali), giungendo a conclusioni in contrasto con gli elementi probatori già acquisiti e che potevano essere oggetto di ulteriori accertamenti”. Con il quarto mezzo è prospettata violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 156 cod. proc. civ. e art. 24 Cost., nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione. Il giudice del merito sarebbe incorso nella violazione dell’art. 24 Cost., che garantisce l’inviolabilità del diritto di difesa, dal momento che, nel ritenere sanata ex art. 156 cod. proc. civ., la nullità della notifica dell’atto di pignoramento, non avrebbe tenuto conto del dato temporale, ovvero della circostanza per cui l’odierna ricorrente è venuta a conoscenza dell’atto notificato solo dopo diversi anni dalla sua notifica, vedendo, dunque, compromesso e/o pregiudicato il suo diritto di difesa, stante il lasso di tempo intervenuto. Per le stesse ragioni, la motivazione sul punto sarebbe palesemente illogica, insufficiente e contraddittoria. Viene formulato il seguente quesito ex art. 366 bis cod. proc. civ.: “Viola gli artt. 140 e 156 cod. proc. civ. e l’art. 24 Cost. il decidente a quo nella misura in cui, a fronte dell’accertata nullità della notifica dell’atto di pignoramento effettuata nelle forme di cui all’art. 140 cod. proc. civ., senza che risulti fosse stata effettuata l’affissione nella porta dell’abitazione dell’avviso della notifica, come previsto dalla stessa norma, la ritiene sanata ex art. 156 cod. proc. civ., in virtù della avvenuta conoscenza dell’atto, riscontrabile dalla intervenuta opposizione, di cui al presente giudizio e, pertanto, non tenendo conto della mancanza di tempestività della conoscenza dell’atto notificato, in considerazione degli anni trascorsi tra la notifica e l’introduzione del giudizio di opposizione all’esecuzione; tutto ciò nella considerazione che la mancanza di tempestività della conoscenza viola il diritto di difeNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento sa, pregiudicando la posizione sostanziale e processuale del debitore e non potendosi, pertanto, ritenere raggiunto lo scopo ex art. 156 cod. proc. civ.? È viziata nella motivazione, per palese illogicità, insufficienza e contraddittorietà la decisione del Giudice a quo che, ritenendo sanata ex art. 156 cod. proc. civ., la nullità della notifica dell’atto di pignoramento, non tiene conto del dato temporale, ovvero della circostanza per cui l’odierna ricorrente è venuta a conoscenza dell’atto notificato solo dopo diversi anni dalla sua notifica, vedendo, dunque, compromesso e/o pregiudicato il suo diritto di difesa; stante il lasso di tempo intervenuto e non valutato dal Giudice a quo ai fini della sanatoria?”. I primi tre motivi – che possono essere esaminati congiuntamente – sono inammissibili. Lo sono, anzitutto, le censure svolte con il primo e terzo motivo, che insistono sulla inesistenza della dichiarazione dell’ufficiale giudiziario di aver “rinvenuto il nominativo del destinatario sul campanello” del domicilio (effettivo) di Piazza XIII Vittime, in forza della quale il Tribunale ha fondato il proprio convincimento circa la regolarità della notificazione dell’atto di precetto ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. (altresì evidenziando che le dichiarazioni rese dal pubblico ufficiale non erano state oggetto di impugnazione con querela di falso). Con tali censure, infatti, si imputa al giudice del merito un errore di percezione della realtà in riferimento al contenuto materiale della relata di notificazione, assumendosi che la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario in essa rinvenuta (ossia che il nominativo della C. si trovava “sul campanello” del domicilio in Piazza XIII Vittime) era, in realtà, inesistente. Trattasi, all’evidenza, di addebito di un errore di fatto, di immediata e oggettiva rilevabilità, che sarebbe stato tale da aver indotto il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dal documento esaminato; ciò avrebbe, dunque, legittimato la parte ad esperire il rimedio della revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ma non già il presente ricorso per cassazione (cfr., tra le altre, Cass., 20.12.2011, n. 27555, infra, sez. III). [Russo Presidente – Vincenti Estensore – Carestia P.M. (conc. conf.). – C.P. (avv. Zummo) – B.S. s.p.a.] NGCC 2015 - Parte prima Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile Nota di commento: «L’errore di fatto tra cassazione e revocazione e il pregiudizio derivante dal vizio in procedendo» [,] I. Il caso La vicenda dalla quale trae origine la pronuncia oggetto di queste considerazioni è un procedimento esecutivo, nel contesto del quale si era provveduto alla notificazione del precetto e del pignoramento. L’opposizione veniva proposta nei confronti dell’espropriazione e l’opponente censurava la validità e l’efficacia di precetto e pignoramento per violazione delle norme in materia di notificazione. Esauritosi il giudizio di primo grado con il rigetto dell’opposizione, l’opponente – stante l’inappellabilità della sentenza che conclude il giudizio di opposizione agli atti esecutivi – proponeva ricorso per cassazione. I profili di interesse della pronuncia citata riguardano il rapporto tra ricorso per cassazione e revocazione ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ., la censura di errores in procedendo e le modalità di formulazione della stessa, l’individuazione del nesso causale che deve sussistere tra il vizio denunciato e l’esito del giudizio nonché la conciliabilità tra la posizione espressa dalla Supr. Corte nel caso di specie e l’affermazione della giurisprudenza maggioritaria della stessa Corte ove sostiene che tutte le volte in cui venga prospettato un vizio in procedendo ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ. il giudice di legittimità è anche giudice del fatto. II. Le questioni 1. Il rapporto tra ricorso per cassazione e revocazione ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ. La Corte ritiene che le censure proposte dalla ricorrente relativamente al contenuto della relata di notifica del precetto si possano considerare come errore di fatto di immediata ed oggettiva rilevabilità, con la conseguenza di qualificare come inammissibile il ricorso proposto ai sensi del n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., posto che tale errore avrebbe legittimato la parte ad instaurare il giudizio di revocazione ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ. La Corte in primo luogo distingue la censura di cui sopra dalle altre censure, nel contesto delle quali la ricorrente si duole della erronea valutazione di determinate prove documentali e della mancata ammissione di una prova testimoniale. Ed infatti dal concetto di errore di fatto revocatorio vanno certa[,] Contributo pubblicato in base a referee. 513 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento mente esclusi tutti i casi nei quali si ponga un problema di interpretazione e valutazione giudiziale e, dunque, si faccia riferimento ad attività che il giudice compie ai fini della formazione del proprio convincimento. In realtà l’errore di fatto revocatorio è, in questo caso, un errore di fatto processuale, ossia un errore di lettura e percezione, da parte del giudice, degli atti acquisiti al processo, che attiene ad un elemento decisivo della decisione da revocare. Ciò che rileva in particolare è il confine tra errore di fatto e errore di giudizio, posto che il primo legittima la proposizione della revocazione ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ., mentre il secondo legittima il ricorso per cassazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. La distinzione tra l’errore di fatto e quello di giudizio è talvolta molto sottile, come la dottrina ha già da tempo sottolineato, tuttavia nel caso di specie, anche alla luce delle interpretazioni più restrittive del presupposto di cui all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., sembra che si versi in questa ipotesi. Ed infatti dalla pronuncia della Corte si desume che, nella motivazione della sentenza di primo grado, è riferito expressis verbis il contenuto della relata, contrastante con quanto dalla stessa risultante. Dalla lettura della parte in fatto della sentenza non sembra invece sussistere, nel caso concreto, l’altro elemento che qualifica l’errore di fatto revocatorio e precisamente il non attenere tale errore ad un punto controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato. Anzi, per la verità – nel vigore dell’art. 366 bis cod. proc. civ. introdotto dall’art. 6 d. legis. n. 40/2006 e abrogato dall’art. 47 l. n. 69/2009, applicabile ratione temporis al ricorso che ha introdotto l’odierno giudizio – sembra potersi desumere, dalla stessa formulazione del quesito di diritto, che il fatto in questione era controverso. 2. La censura di errores in procedendo e la formulazione della stessa. Il nesso causale. Con il quarto motivo di ricorso viene dedotta sia la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 156 cod. proc. civ. e 24 Cost. sia l’illogicità e contraddittorietà della motivazione; la ricorrente propone dunque due motivi di ricorso per cassazione riconducibili ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. A fronte del ricorso così come formulato, la Corte, premesso che la ricorrente non ha indicato quale sia stato il pregiudizio effettivamente subito dal suo diritto di difesa, ritiene che si possa applicare al caso il principio consolidato – in merito all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. – ai sensi del quale, ove venga proposto ricorso per cassazione ex art. 360, n. 4 e, dunque, censurando la nullità della sentenza per un error in procedendo, il ricorrente ha l’onere di indicare il pregiudizio subito dal proprio diritto di difesa, nonché 514 Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile il nesso causale del vizio sull’esito della sentenza. In realtà sembra che il motivo di ricorso sia stato innanzitutto ricondotto anziché ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. al n. 4 della stessa norma. Nel caso di specie, infatti, ciò che parte ricorrente censura è la violazione – da parte del giudice – di norme processuali, precisamente l’art. 140 cod. proc. civ. in materia di notificazioni e l’art. 156 cod. proc. civ. in materia di nullità, che avrebbe determinato, a dire della ricorrente, la pronuncia di un provvedimento di sanatoria della notificazione dell’atto di pignoramento e perciò leso il suo diritto di difesa. La precisazione si ritiene non sia irrilevante posto che, da un lato, la Corte richiama il principio formulato in merito all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., ma, dall’altro lato, omette di riqualificare il ricorso. Riconosciuto che, nel caso di specie, il vizio fatto valere è qualificabile quale error in procedendo, ci si chiede se lo stesso possa essere dedotto sub art. 360, n. 3, cod. proc. civ. e sul punto non si può che richiamare quella dottrina che ha più volte messo in luce come le norme di diritto alla cui violazione o falsa applicazione fa riferimento il n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. sono certamente le norme sostanziali, ma in alcuni casi possono essere anche le norme processuali. In realtà tale ricostruzione, seppur condivisibile nei fini, conduce inevitabilmente ad ulteriori qualificazioni quale quella di error in iudicando de iure procedendi. Corretta sembra dunque quella ricostruzione secondo la quale ciò che rileva è la distinzione tra fatto processuale e fatto extraprocessuale e, relativamente al caso di specie, certamente di fatto processuale si tratta. Se l’approccio della Corte in questo caso, così come in molti altri, sembra potersi giustificare alla luce dell’ormai ben noto congestionamento del contenzioso affidato alla corte stessa, sul quale si ritiene non sia neppure utile soffermarsi ulteriormente, è però indubbio che, nel contesto dell’iter argomentativo della corte, è sorprendente che – a fronte di un ricorso fondato sui nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. – la Corte si limiti a richiamare un principio da sempre formulato in merito al n. 4 dello stesso art. 360; delle due l’una: o il ricorso andava riqualificato o qualche parola avrebbe dovuto essere spesa al fine di giustificare l’applicazione del principio in questione anche in relazione al motivo di ricorso ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Non si può infatti dimenticare che comunque esiste nel nostro ordinamento un onere di specificare i motivi di ricorso per cassazione e che tale onere sembra difficilmente conciliabile con operazioni di riqualificazione implicita, quale quella che pare essere stata attuata nel caso di specie. Se infatti è ben noto che la giurisprudenza ha escluso la necessità NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento per il ricorrente di individuare con assoluta precisione la natura del vizio censurato e l’indicazione numerica del motivo al quale il vizio va ricondotto, purché vi sia nell’ambito del ricorso un’esposizione chiara delle ragioni per le quali il vizio è fatto valere, è però altrettanto vero che l’art. 366 bis cod. proc. civ. è esplicito nel precisare che il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, motivi specifici, completi e riferibili alla sentenza impugnata ed anzi la Suprema Corte ha in più occasione fatto riferimento proprio a questo principio anche al fine di individuare il fondamento giuridico delle più aberranti applicazioni del principio di autosufficienza del ricorso. Peraltro la giurisprudenza ha altresì chiarito che la riqualificazione del ricorso proposto ex art. 360, nn. 3 o 5 in ricorso ex art. 360, n. 4, che lo sottrae alla scure della declaratoria di inammissibilità, si può verificare solo ove lo stesso contenga un inequivocabile riferimento alla nullità della decisione derivante dal vizio fatto valere. Premesso che, per quanto desumibile dalla pronuncia della Corte, il riferimento di cui sopra non risulta essere incluso nel ricorso, la Suprema Corte, in relazione al caso di specie, precisa che il ricorso deve contenere altresì la chiara indicazione del pregiudizio causato al ricorrente dal vizio di attività del giudice. La necessità di individuare il danno al diritto di difesa subito dal ricorrente, richiamata dalla Corte, trova la sua ragion d’essere non solo nei principi di ragionevole durata del processo e di economia processuale, ma ancor prima in quello di cui all’art. 100 cod. proc. civ.; sotto questo profilo la giurisprudenza è unanime nel ritenere che la ratio del principio in questione deriva dalla ratio dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. che si deve individuare non nella tutela dell’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, bensì nella eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito, a causa del vizio, dal ricorrente; tutto ciò con la conseguenza che si può addivenire alla cassazione della sentenza solo nel caso in cui, nel successivo giudizio di rinvio, il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole. È dunque evidente che la Corte tratta il motivo di ricorso come se lo stesso fosse ricondotto al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. e ciò senza peraltro fornire alcuna motivazione. Alla luce di quanto sostenuto dalla Supr. Corte si deve, peraltro, ritenere che tutte le volte in cui il ricorrente faccia valere un vizio relativo ad un fatto processuale egli sia tenuto non solo ad indicare il vizio, ma altresì come lo stesso abbia inciso dapprima sull’attività del giudice e, in seconda istanza, sui diritti del ricorrente. Nel caso di specie ciò che la Corte censura è non tanto la mancata indicazione del nesso causale, NGCC 2015 - Parte prima Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile quanto proprio la mancata allegazione del pregiudizio subito dalla parte ricorrente; si tratta dunque di un prius in quanto solo in presenza delle deduzioni di un pregiudizio la Corte sarà tenuta ad accertare se lo stesso possa dirsi funzionalmente collegato al vizio censurato. 3. Il controllo del fatto ad opera della Corte di Cassazione. È ben noto che il sindacato di cui gode la Corte nell’ambito di valutazione di un ricorso ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ. è ben più ampio di quello che la stessa può esercitare in caso di ricorso per motivi diversi da quello richiamato. In particolare, ove il fatto censurato in cassazione costituisca un vizio di attività, alla Corte è riconosciuto il potere di percepire direttamente e pienamente il fatto, di riesaminare gli atti processuali e di valutare le risultanze processuali. A tale pienezza di poteri cognitori riconosciuta alla Corte, fa da contraltare anche il potere della stessa Corte di ritenere fondata la censura per un motivo diverso da quello specificamente indicato dalla parte. Il tema che la sentenza non affronta, ma che sembra derivi dalle statuizioni della Corte, concerne la possibilità di ritenere operante questo sindacato «aperto» non solo in relazione alle ipotesi di ricorso ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ., ma anche al ricorso ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. Pur senza addivenire alla valutazione secondo la quale il sindacato della Corte, nel caso di ricorso ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., «concerne illico et immediate la norma processuale (quale norma che disciplina il contenuto della sentenza) e soltanto per suo tramite quello sostanziale» (Fazzalari, voce «Revocazione (dir. proc. civ.)», 584, infra, sez. IV), pare indubbio che i confini tra i motivi di cui al n. 4 e quelli di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. siano divenuti in molte ipotesi evanescenti. In questi casi tuttavia sembrerebbe restare immutato il principio in forza del quale la Corte non può, ove adita ai sensi del n. 3, procedere alla ricostruzione del fatto. Le giustificazioni addotte a sostegno di tale divieto risiederebbero nel fatto che il motivo di cui al n. 3 dovrebbe ritenersi «classico» (Tiscini, 579, infra, sez. IV) in quanto avrebbe il ruolo di fungere da spartiacque tra il giudizio di diritto e quello di fatto, attribuendo alla Corte solo il sindacato sul primo (Silvestri, 1349, infra, sez. IV). Ciò che ci si deve chiedere è se tale divieto abbia ancora senso. In relazione al caso di specie per esempio, vero è che il ricorso censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 140, 156 cod. proc. civ. e 24 Cost., vero però è anche che tale censura deriva dal fatto che – nella prospettazione della ricorrente – il giudice del merito avrebbe illegittimamente considerato 515 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento sanata una notifica in virtù dell’avvenuta conoscenza dell’atto, senza considerare il pregiudizio al diritto di difesa cagionato al ricorrente in forza del lasso di tempo trascorso. A chi scrive sembra evidente che la norma che si assume illegittimamente applicata e interpretata è una norma processuale e che, rispetto al vizio censurato, non si comprende per quale ragione non dovrebbe essere consentito al giudice di legittimità di utilizzare poteri cognitori lati, quali quelli allo stesso riconosciuti nel caso di ricorso ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ. Tale conclusione si ritiene ancor più fondata nei casi – come quelli di specie – nell’ambito dei quali la sentenza di primo grado viene censurata direttamente in cassazione in quanto non appellabile. III. I precedenti La giurisprudenza è unanime nel definire l’errore di fatto revocatorio come falsa percezione di ciò che emerge dagli atti del giudizio, svista materiale immediatamente rilevabile (Cass., sez. un., 28.5.2013, n. 13181, in Mass. Giust. civ., 2013; Cass., 15.1.2009, n. 844, ivi, 2009; Cass., 25.5.2004, n. 10027, ivi, 2004; nello stesso senso si esprime anche la giurisprudenza amministrativa, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 5.3.2013, n. 1316, in Foro amm., 2013, III, 771) che deve avere ad oggetto un fatto decisivo (Cass., 25.5.1992, n. 632, in Mass. Giust. civ., 1993). La giurisprudenza individua la distinzione tra l’errore di fatto revocatorio e l’errore di giudizio, denunciabile ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nel fatto che, pur essendo entrambi rilevabili ex actis, il secondo si qualifica rispetto al primo in quanto relativo all’attività ermeneutica e valutativa del giudice (Cass., 19.2.2009, n. 4056, in Mass. Giust. civ., 2009; Cass., 19.2.2009, n. 3365, ibidem; Cass., sez. un., 2.4.2003, n. 5150, ivi, 2003; nel contesto della giurisprudenza amministrativa cfr.: Cons. Stato, sez. V, 30.8.2013, n. 4319, in Foro amm., 2013, 2107; Cons. Stato, ad. plen., 24.1.2015, n. 5, in Foro it., III, 557 ss., con nota di Travi). Si è ritenuto riconducibile all’errore di fatto revocatorio l’omesso esame di atti difensivi che abbia determinato un’omissione di pronuncia o un errore di percezione da parte del giudice (Cass., 20.12.2011, n. 27555, in Mass. Giust. civ., 2011; Cass., 30.3.1994, n. 3137, ivi, 1994; Cons. Stato, sez. I, 11.4.2007, n. 1662, in Foro amm., 2007, IV, 1203; Cons. Stato, sez. IV, 25.7.2002, n. 4070, ivi, 2002, IV, 1809), ma non il vizio che attiene all’interpretazione da parte del giudice della domanda giudiziale (Cass., 10.3.1992, n. 2884, Mass. Giust. civ., 1992). Si è altresì evidenziato come non si possa avere errore di fatto revocatorio relativo a norme di diritto e 516 Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile dunque non possa considerarsi tale quello relativo all’affermata idoneità di un atto di notificazione a determinare effetti giuridici (Cass., sez. un., 12.6.1997, n. 5303, ivi, 1997; relativamente alla decorrenza del termine per impugnare), mentre si è ritenuto qualificabile come errore di fatto revocatorio l’aver ritenuto inesistente una notificazione documentata in atti (Cass., 24.8.2000, n. 11056, ivi, 2000). Peraltro il fatto del quale si discute e sul quale cade l’errore deve costituire un punto non controverso in causa (Cass., 15.12.2011, n. 27094, ivi, 2011) neppure implicitamente (Cons. Stato, sez. IV, 7.6.2005, n. 2904, in Foro amm., 2005, VI, 1698), né controvertibile (Cass., 28.8.1997, n. 8118, in Mass. Giust. civ., 1997). Quanto, invece, all’ormai abrogato art. 366 bis cod. proc. civ. la norma prevedeva che, in ipotesi di motivo di ricorso incentrato sull’omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione fosse necessario indicare chiaramente il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assumeva omessa, insufficiente o contraddittoria nonché con l’orientamento della Suprema Corte che ha fornito un’interpretazione rigida della norma in questione, sostenendo che l’onere de quo non potesse ritenersi assolto ove non fosse possibile individuare il fatto controverso se non da una completa lettura del ricorso e dunque, in ultima analisi, identificando nell’indicazione del fatto controverso un momento di sintesi del ricorso assolutamente omologo al quesito di diritto (cfr. Cass., 1o.10.2007, n. 20603, in Foro it., 2008, I, 521 con nota di Caponi; Cass., sez. un., 16.11.2007, n. 23730, in Mass. Giust. civ., 2008, in Corr. giur., con nota di Consolo-Costantino; Cass., sez. un., 24.3.2009, n. 7032, in Mass. Giust. civ., 2010, con nota di Morozzo della Rocca). Quanto al principio in forza del quale affinché la censura dell’error in procedendo sia ammissibile è necessario non solo che il vizio non sia sanato, ma anche che lo stesso si sia ripercosso sulla sentenza ed abbia determinato un pregiudizio al ricorrente cfr. Cass., 27.1.2012, n. 1201, in Mass. Giust. civ., 2012; Cass., 21.2.2008, n. 4435, ivi, 2008; Cass., 14.1.2003, n. 365, in Int’l Lis, 2003, fasc. 2, 84, con nota di Kofler; Cass., 7.2.2011, n. 3024, in Mass. Giust. civ., 2008, all’esito di un giudizio di divisione di comunione ereditaria, ove sottolinea che non solo il pregiudizio al diritto di difesa deve essere allegato, ma deve anche essere plausibile. In merito all’error in iudicando de iure procedendi Cass., 4.9.2012, n. 14788, in Guida al dir., 2012, fasc. 44, 65, qualifica come tale il caso in cui, col ricorso, si censuri la qualifica dell’arbitrato – operata dalla Corte che si sia pronunciata su impugnazione del lodo arbitrale – come rituale. NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento In relazione alla giurisprudenza che ha escluso la necessità per il ricorrente di individuare con assoluta precisione la natura del vizio censurato e l’indicazione numerica del motivo al quale il vizio va ricondotto cfr. Cass., sez. un., 24.7.2013, n. 17931, in Riv. dir. proc., 2014, 1, 179, con nota di Poli il quale ha escluso che, nel caso di censura di omessa pronuncia, sia determinante il riferimento al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., richiedendo tuttavia che almeno sia indicata la nullità della sentenza nel contesto del ricorso. In senso conforme cfr. Cass., 14.11.2011, n. 23794, in Mass. Giust. civ., 2011, che ha ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione nonostante il vizio fosse stato qualificato erroneamente dal ricorrente; Cass., 21.1.2013, n. 1370, ivi, 2013, che ha negato che la corretta menzione del vizio sia condizione necessaria per l’ammissibilità del ricorso. In senso contrario, ritengono che il ricorrente debba indicare specificamente il motivo di ricorso: Cass., 14.5.2013, n. 11542, in Guida al dir., 2013, fasc. 32, 24; Cass., 13.12.2012. n. 22912, ibidem, fasc. 10, 70; Cass., 29.5.2012, n. 8565, in DeJure; Cass., 4.3.2010, n. 5207, in Guida al dir., 2010, fasc. 15, 66, secondo cui il singolo motivo di ricorso ha «funzione identificativa»; Cass., 20.11.2007, n. 24139, ivi, 2008, fasc. 9, 46; Cass., 18.9.2007, n. 19356, ivi, 2007, fasc. 44, 81; Cass., 26.1.2006, n. 1701, ivi, 2006, fasc. 15, 54; Cass., 15.7.2005, n. 15022, in Dir. e giust., 2005, 40, 37, con nota di Rossetti; Cass., 26.5.2005, n. 11187, in DeJure. In materia di vizi in procedendo la Supr. Corte ha precisato che non è consentito alla parte interessata di formulare in sede di legittimità la censura di omessa motivazione, spettando alla Corte medesima accertare se vi sia stato o meno il denunciato vizio di attività attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito sul punto (Cass., 16.12.2005, n. 27728, in Resp. civ. e prev., 2006, 937; Cass., 24.11.2004, n. 22130, in Mass. Giust. civ., 2005). Quanto alla difficoltà di discernere tra errores in procedendo e in iudicando cfr. Cass., 19.5.2004, n. 9471, in Danno e resp., 2005, 30, con nota di De Matteis. In merito all’omessa pronuncia su una domanda giudiziale ed all’erronea interpretazione del contenuto della domanda proposta. In merito al controllo del fatto che compete alla Corte di Cassazione ove adita ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ. cfr. da ultimo le pronunce di Cass., sez. un., 22.5.2012, n. 8077, in Il giusto processo civile, 2012, 837 s., con nota di Balena nonché in Giust. civ., 2012, I, 1173, con nota di Didone e Cass., sez. un., 22.5.2012, n. 8078, in Il civilista, 2012, fasc. 6, 25, che hanno composto il contrasto denunciato con due ordinanze interlocutorie dalla NGCC 2015 - Parte prima Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile prima sezione civile ed hanno chiarito che, in questa ipotesi, spetta al giudice di legittimità il potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, posto che la Corte stessa, ai soli fini del sindacato sull’error in procedendo denunciato è anche giudice del fatto. Nello stesso senso cfr. anche Cass., 1o.6.2007, n. 12904, in Mass. Giust. civ., 2007; Cass., 7.3.2006, n. 4840, in Il civilista, 2011, 5, con nota di Scarpa; Cass., 23.1.2006, n. 1221, in Giur. it., 2006, 2119. Quanto alla possibilità di estendere il sindacato sul giudizio di fatto della Corte di Cassazione anche alle ipotesi nelle quali sia denunciato un vizio processuale ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 360 cod. proc. civ., cfr. Cass., 9.1.2008, n. 169, in Giust. civ., 2009, I, 1110, in merito al ricorso per questioni di giurisdizione nonché Cass., 8.1.2007, n. 13514, in Mass. Giust. civ., 2007, in merito ad una censura di competenza ricondotta al n. 2 della norma citata. IV. La dottrina La dottrina si è a lungo interrogata sul significato da attribuire all’errore di fatto revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ. In generale sul tema ed ai fini di individuare le varie definizioni cfr. Colesanti, voce «Sentenza civile (revocazione della)», nel Noviss. Digesto it., XVI, Utet, 1969, 1161 che riferisce le opinioni di Carnelutti, Istituzioni del processo civile italiano, II, Soc. ed. del Foro it., 1956, 615 ove distingue tra pensiero del giudice e realtà, ma anche quelle di Redenti, Liebman, Satta, Andrioli, giungendo alla conclusione che, «operare una scelta tra le diverse definizioni (...) o proporne di nuove, pare (...) una sterile fatica» e che la miglior definizione si rinviene proprio nella lettera della norma [nello stesso senso Fazzalari, voce «Revocazione (dir. proc. civ.)», in Enc. del dir., XL, Giuffrè, 1989, 297 s.], peraltro recepita integralmente nel vigente codice di rito da quello del 1865 e prima ancora da quello degli Stati Sardi. A seguito della modifica di cui all’art. 115, comma 1o, cod. proc. civ., volta ad integrare la norma con il principio di contestazione, gli Autori si sono anche interrogati sulla possibilità di far ricadere, nell’ambito dell’errore di fatto in questione, l’errore sul fatto non contestato. Secondo una prima lettura tale riconduzione non sarebbe possibile, posto che la non contestazione determinerebbe solo una relevatio ad onere probandi [Rota, voce «Revocazione (dir. proc. civ.)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XVII, Utet, 1998, 473 ss.], secondo invece altra prospettiva – che per la verità pare a chi scrive più condivisibile – il fatto non contestato è un fatto pacifico e come tale non controverso (Petrillo, nel Commentario del codice di procedura civile, V, Utet, 517 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento 2013, sub art. 395, 65). Vi è peraltro chi ha sostenuto che ove si censurasse l’erroneo apprezzamento della non contestazione il ricorso non potrebbe che essere proposto ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. (Balena, Questioni processuali e sindacato del fatto in Cassazione, in Il giusto processo civile, 2012, 842). Quanto al confine tra revocazione ordinaria ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ. e ricorso per cassazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nonostante la rilevabilità d’ufficio di entrambi, la dottrina ha evidenziato come il primo si qualifichi come mero vizio documentale (Consolo, Mancata considerazione di una decisione che ebbe ad annullare un regolamento: sentenza revocabile ex art. 395 cod. proc. civ., per errore di fatto revocatorio o per contrasto con un precedente giudicato, in Giur. it., 1993, III, 1, 976) di percezione del fatto, il secondo, invece, implichi una censura in merito al ragionamento giudiziale (Asprella, Breve rassegna tematica dell’errore di fatto in Cassazione, in Giust. civ., 2001, 703 ss., nota a Cass., sez. un., 15.11.2000, n. 1178; Colesanti, op. cit., 1168 precisa che «pur sotto il velame delle varie formulazioni, l’erronea supposizione del fatto, quale elemento costitutivo del motivo di revocazione, viene comunque posta agli antipodi dell’errore di giudizio, nel senso che fin dove c’è giudizio, non vi è non può esserci supposizione di un fatto»; De Stefano, La revocazione, Giuffrè, 1957, 183 s.; Baccaglini, Travisamento della consulenza tecnica, fra errore di fatto revocatorio e vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., in Resp. civ. e prev., 2002, 1050 s.). Quanto alla possibilità che l’errore di fatto revocatorio possa cadere non solo su fatti sostanziali, ma anche su fatti processuali si pronunciano in modo favorevole Petrillo, op. cit., 65; Luiso, Diritto processuale civile, II, Giuffè, 2013, 506. In relazione alla distinzione fra errores in procedendo e errores in iudicando cfr. Calamandrei, Sulla distinzione tra error in iudicando ed error in procedendo, in Id., Studi sul processo civile, I, Cedam, 1930, 213 ss.; Id., La teoria dell’«error in iudicando» nel diritto italiano intermedio, nello stesso volume, 64 ss.; Id., La Cassazione civile. II. Disegno generale dell’istituto, Fratelli Bocca, 1920, 168 s. ove richiama altresì la distinzione tra vizio di attività e vizio di giudizio di Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Jovene, 1965, 76, II, 893 s., ma anche Lorenzetto Peserico, Errores in procedendo e giudizio di fatto in cassazione, in Riv. dir. civ., 1976, I, 638 s.; Fazzalari, op. cit., 56 s., secondo il quale «il culto di quelle categorie e della problematica che le concerne deve essere svalutato»; posizione simile esprime l’a. in Id., Il processo ordinario di cognizione, II, Le impugnazioni, Utet, 1990, 169 e Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassa518 Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile zione, Cedam, 1964, 170. In realtà anche la dottrina più recente critica tale distinzione; cfr. Panzarola, La Cassazione civile giudice del merito, II, Giappichelli, 2005, 744 s., ove qualifica tale distinzione come empirica e approssimativa e relativa, alla luce del diverso punto di vista dal quale potrebbe essere considerato l’error, nonché alle pp. 777 s., ove chiarisce che si tratta di un «quadro dai contorni complessi» ed evidenzia come l’opinabilità del criterio discretivo derivi dal fatto che «come l’errore d’attività può rampollare da quello di giudizio (assorbendolo), così potrebbe avvenire anche il reciproco», ma non manca chi, tra gli aa., sottolinea l’utilità pratica della distinzione; cfr. Gradi, Vizi in procedendo e ingiustizia della decisione, in Aa.Vv., Studi in onore di Carmine Punzi, III, Le impugnazioni, Giappichelli, 2008, 69; Nardo, «Errores in procedendo» e giudizio di fatto nella giurisprudenza della Cassazione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, 692 s. Quanto alla possibilità di dedurre ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ. solo la violazione di norme sostanziali e non processuali, cfr. Calamandrei-Furno, voce «Cassazione civile», nel Noviss. Digesto. it., II, Utet, 1974 s.; Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, II, Giappichelli, 2014, 566, una qualche apertura tuttavia si desume alle pp. 559 s., nt. 67; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, 2006, 517; attribuiscono invece alle «norme di diritto» di cui alla previsione un ambito di applicazione più esteso e tale da ricomprendere anche la violazione di norme processuali: Liebman, Manuale di diritto processuale civile, rist., Giuffrè, 1984, 258 s.; Fazzalari, op. cit., 63 s.; Luiso, op. cit., 428; Balena, La riforma del processo di cognizione, Jovene, 1994, 482 s.; Id., op. cit., 840; Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Cedam, 2012, 329 s.; si esprime in senso dubitativo Mazzarella, Analisi del giudizio civile di cassazione, Cedam, 2003, 66 s. In merito al controllo spettante alla Corte di Cassazione in ipotesi di deduzione del motivo di cui all’art. 360, n. 4 cfr.: Travaglino, Errores in procedendo e poteri della Cassazione, in Corr. merito, 2012, 791; Scarpa, Nullità della citazione, errores in procedendo ed accesso diretto della Corte di Cassazione agli atti del procedimento, in Corr. giur., 2013, 92 s.; Ferrari, Il giudizio sul «fatto processuale» in cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 6, 1462 s. A favore di una latitudine del sindacato della Corte che non si fonda sul «tipo di vizio denunciato, bensì sulla natura e qualità dei «fatti» dal cui accertamento dipende la sussistenza di tale vizio e dalla circostanza che si tratti di fatti interni o esterni al processo» si esprime Balena, op. cit., 842, che peraltro sottolinea come anche la distinzione fra fatto interno e fatto esterno al processo può risultare di NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 Lavoro (rapporto) / Danni civili non facile applicazione e, al riguardo, fa riferimento al ben noto tema del sindacato da attribuirsi alla Corte con riferimento all’esistenza di un precedente giudicato, sul quale cfr. Consolo, Giudicato «esterno» non eccepito e disciplina nelle fasi di gravame (corollari di un bisecolare «crittotipo»), in Corr. giur., 2000, 1051 s.; Menchini, Il giudicato civile, nella Giur. Sist. dir. proc. civ., a cura di Proto Pisani, Utet, 2002, 62, nonché la giurisprudenza e in particolare Cass., sez. un., 25.5.2001, n. 226, in Corr. giur., 2001, 1460 s., con nota di Fittipaldi, e in Foro it., 2001, I, 2810, con nota di Iozzo, che ha composto il contrasto di giurisprudenza sulla rilevabilità di ufficio del giudicato esterno, enunciando il seguente principio di diritto: «poiché nel nostro ordinamento vige il principio della normale rilevabilità di ufficio delle eccezioni, derivando la necessità dell’istanza di parte solo da una specifica previsione normativa, l’eccezione di giudicato esterno, in difetto di una tale previsione, è rilevabile d’ufficio ed il giudice è tenuto a pronunciare sulla stessa, qualora il giudicato risulti da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito, con la conseguenza che, in mancanza di pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice del merito abbia affermato la tardività dell’allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito»; in senso analogo si è poi espressa anche Cass., sez. un., 28.11.2007, n. 24664, in Riv. dir. proc., 2008, 6, 1687 s., con nota di E.F. Ricci e in Giust. civ., 2008, I, 1487 s., con nota di Nappi. Infine, quanto all’estensione dell’esame del fatto da parte della Supr. Corte a ricorsi fondati su motivi diversi da quello ex n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., cfr.: Ferri, Note in tema di pronunce sulla giurisdizione, Pubbl. Un. n. 147, 1968, 65, quanto al motivo di cui al n. 1, e Buongiorno, Il regolamento di competenza, Giuffrè, 1970, 294 s., quanto al motivo n. 2, nonché il già citato Balena, op. cit., 842. In generale sul motivo di cui all’art. 360 n. 3 cfr. Tiscini, nel Commentario del codice di procedura civile, Utet, 2013, sub art. 360, 579 s.; Silvestri, nel Commentario breve del codice di procedura civile, Cedam, 2012, sub art. 360, 1349; De Cristofaro, nel Codice di procedura civile, II, Wolters Kluwer, sub art. 360, 823 s. c CASS. CIV., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590 per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 cod. civ. Cassa App. Milano, 31.10.2011 Lavoro (rapporto) - Imprenditore Integrità fisica del prestatore di lavoro - Obbligo di sicurezza - Fondamento (cod. civ., artt. 1218, 2087) (a) Lavoro (rapporto) - Imprenditore Obbligo di sicurezza ex art. 2087 Natura ed estensione (cod. civ., artt. 1218, 2087) (b) Danni civili - Danni non patrimoniali - Risarcimento - Personalizzazione del danno - Criteri (cod. civ., artt. 1218, 2056, 2059, 2087, 2697) (c) (a) La responsabilità dell’imprenditore NGCC 2015 - Parte prima Francesca Ferrari (b) La responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro delle misure e cautele atte a preservare la salute del lavoratore, tenuto conto della concreta realtà aziendale e 519 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 della maggiore o minore conoscibilità dei fattori di rischio in un determinato momento storico. (c) Il risarcimento del danno deve essere personalizzato al fine di dare una risposta congrua, adeguata e satisfattiva rispetto alla lesione di beni giuridici preminenti quali la vita e la salute, anche svincolandolo dalle tabelle dei Tribunali. dal testo: Il fatto. La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di quella stessa sede, accoglieva la domanda di B.A., M.A., M.M.G., M.V.G. in proprio e quali eredi di M.U., dipendente di A.E. S.p.A. dal 7 maggio 1963 al 26 giugno 1987, riconosciuto affetto da mesotelioma pleurico in data 1998 e deceduto il 16 marzo 1999, proposta nei confronti di detta società tendente ad ottenere la condanna di quest’ultima al risarcimento, ex art. 2087 c.c., dei danni da liquidarsi iure proprio ed iure hereditatis conseguenti all’evento che aveva colpito il proprio dante causa. A base del decisum la Corte del merito, innanzitutto, poneva il rilievo che doveva condividersi la consulenza espletata nel corso del giudizio di secondo grado, secondo la quale il decesso del lavoratore era avvenuto a causa di mesotelioma pleurico maligno e non, a differenza di quanto affermato dal CTU di primo grado e condiviso dal Tribunale, in ragione di mesotelioma pericardico e tanto sia per le manifestazioni clinico somatiche in vita – che non avevano mai evidenziato una patologia di pertinenza del cavo pericardio – sia per i rilievi autoptici che dimostravano una cavità pericardica completamente libera. Osservava, poi, la Corte territoriale relativamente al nesso di causalità tra l’attività lavorativa e la patologia di cui era portatore il M. che: le misure di protezione adottate dalla società non potevano considerarsi sufficienti alla luce delle conoscenze tecniche del tempo così come emergente anche dalla comunicazione del Responsabile della sicurezza; i verbali che richiamavano l’accordo aziendale del 1977 rilevava520 Lavoro (rapporto) / Danni civili no la conoscenza della pericolosità dell’amianto; l’esposizione derivava dalla natura delle mansioni svolte dal lavoratore. Quanto al danno la Corte milanese, premesso che in base agli arresti della Sezioni Unite della cassazione (sentenze nn. 26972 e 26975 del 2008) il riferimento a tipi di pregiudizi diversi rispondeva ad esigenze descrittive e non implicava riconoscimento di distinte categorie di danno rilevava che il danno morale, inteso come sofferenza fisica, costituiva una componente del danno biologico. Su tali premesse liquidava per invalidità parziale e temporanea la somma totale di E. 10.500,00 e per il danno biologico cd. terminale quella di E. 150.000,000 con giudizio equitativo (età del soggetto e sofferenze fisiche correlate alle malattie che avevano determinato il decesso e psichiche per la situazione di attesa dello spegnersi della vita). Il danno subito dai congiunti veniva quantificato dalla Corte del merito, in considerazione della gravità della perdita subita, del rapporto di parentela e di convivenza, in E. 330.000,00. Tale somma veniva anch’essa con giudizio equitativo “sulla base della gravità della perdita subita, del rapporto di parentela e di convivenza” ripartita in favore di B.A. per E. 110.000,00, in favore di M.M.G. e di M.A, per E. 80.000,00 ciascuno e in favore di M. V. G. per E. 60.000,00. Sulle somme liquidate, specificava la Corte di Appello, comprensive della rivalutazione monetaria ad oggi, spettavano gli interessi legali dalla data della domanda fino all’effettivo pagamento. Avverso questa sentenza la società A.E. ricorre in cassazione sulla base di quattro censure. M.V.G. resiste con controricorso e propone impugnazione incidentale assistita da un’unica censura. Le altre parti intimate resistono con controricorso. Vengono depositate memorie illustrative. I motivi. I ricorsi vanno preliminarmente riuniti riguardando l’impugnazione della stessa sentenza. Con il primo motivo del ricorso principale la società deduce vizio di motivazione in quanto NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 la Corte del merito non ha tenuto conto: delle critiche mosse dal consulente di parte alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio; delle diverse conclusioni cui è pervenuta la consulenza d’ufficio espletata nel corso del giudizio di primo grado; delle attività lavorative prestate in precedenza dal M. presso altri datori di lavoro. Il motivo è infondato. Mette conto, innanzitutto, richiamare la ricorrente affermazione di questa Corte, condivisa dal Collegio, secondo cui qualora il giudice aderisca al parere del consulente la motivazione della sentenza è sufficiente – ed è escluso quindi il vizio deducibile in cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – pur se tale adesione non sia specificamente giustificata, ove il parere tecnico fornisca gli elementi che consentano, su un piano positivo, di delineare il percorso logico seguito e, sul piano negativo, di escludere la rilevanza di elementi di segno contrario, siano essi esposti in una prima difforme relazione, nella relazione di parte o aliunde deducibili (v. per tutte Cass. n. 7494/ 2011, n. 4850/2009, n. 19256/2003 e n. 3747/ 2002). Parallelamente, deve essere richiamato il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, per cui in sede di giudizio di legittimità non possono essere prospettati temi nuovi di dibattito non tempestivamente affrontati nelle precedenti fasi, principio che trova applicazione anche in riferimento alle contestazioni mosse alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio, e per esse alla sentenza che le abbia recepite nella motivazione, che intanto sono ammissibili, in sede di ricorso per cassazione, in quanto ne risulti la tempestiva proposizione davanti al giudice di merito e che la tempestività di tale proposizione risulti, a sua volta, dalla sentenza impugnata, o, in mancanza, da adeguata segnalazione contenuta nel ricorso, con specifica indicazione dell’atto del procedimento di merito in cui le contestazioni predette erano state formulate, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità dell’asserzione prima di esaminare nel merito la questione sottopostale (cfr. ex plurimis Cass. n. 12532/2011 e n. 7696/2006). Alla stregua dei richiamati principi sono infondate le censure che il ricorrente muove alla NGCC 2015 - Parte prima Lavoro (rapporto) / Danni civili sentenza impugnata in punto di erronea valutazione delle condizioni patologiche in quanto, per un verso non risulta la tempestiva proposizione davanti al giudice di merito delle contestazioni mosse alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio, né è specificato dalla società ricorrente in quale atto processuale tali contestazioni sono state dedotte, e dall’altro il giudice di appello dà adeguatamente conto della non condivisibilità dal punto di vista medico legale della consulenza espletata nel primo grado del giudizio e tanto in considerazione delle manifestazioni clinico somatiche in vita – che non avevano mai evidenziato una patologia di pertinenza del cavo del pericardio – e dei rilievi autoptici che dimostravano una cavità pericardica completamente libera. Né può attribuirsi rilievo decisivo al richiamo operato dalla società ricorrente alle attività lavorative prestate in precedenza dal M. presso altri datori di lavoro, atteso che in ordine a tali attività la relativa incidenza sulla patologia è meramente assertiva. Con la seconda censura del ricorso principale la società, denunciando violazione degli artt. 2087, 1218 e 2697 c.c., D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21 e art. 115 c.p.c., sostiene che erroneamente la Corte territoriale, relativamente al nesso di causalità tra la morte del M. e l’esposizione alle polveri di amianto, ha fatto riferimento alla nozione di responsabilità oggettiva ritenendo automaticamente sussistente la responsabilità risarcitoria di essa ricorrente in assenza di un indagine istruttoria correlata alla vicenda lavorativa del M. Con la terza critica del ricorso principale la società A.E., assumendo vizio di motivazione, denuncia che la Corte milanese ha omesso d’individuare la condotta positiva che se posta in essere avrebbe evitato il prodursi dell’evento. Le censure, che in quanto strettamente connesse da un punto di vista logico-giuridico vanno tratte unitariamente, sono infondate. Devesi al riguardo rilevare che, come ribadito anche di recente da questa Corte (Cass. n. 13956/2012 nonché Cass. n. 17092/2012 e Cass. n. 18626/2013), la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando 521 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori (v. fra le altre Cass. n. 6377/2003, Cass. n. 16645/2003). In particolare, con riferimento all’inalazione di polveri di amianto questo giudice di legittimità (nel confermare la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabili ex art. 2087 c.c. le Ferrovie dello Stato per non aver predisposto, negli anni ’60, le cautele necessarie a sottrarre il proprio dipendente al rischio amianto), ha asserito che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma tuttavia non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v. Cass. n. 644/2005). Parallelamente (in relazione ad una fattispecie concernente il periodo 1975/1995) questa Corte ha riaffermato che la detta responsabilità pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio (Cass. n. 2491/2008 e Cass. n. 15156/2011). Inoltre è stata anche ritenuta la irrilevanza della circostanza che il rapporto di lavoro si fosse svolto (in quel caso) dall’anno 1956 sino al gennaio 1980 mentre specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto sono state introdotte per la prima volta col D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15 (Cass. n. 14010/2005). Infatti si è rimarcato che “la pericolosità della lavorazione dell’amianto era nota da epoca ben 522 Lavoro (rapporto) / Danni civili anteriore all’inizio del rapporto di lavoro de quo”. Già il R.D. 14 giugno 1909, n. 442 che approvava il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art. 29, tabella B, n. 12, includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l’applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Analoghe disposizioni dettava il regolamento per l’esecuzione della legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli, emanato con D.Lgt. 6 agosto 1916, n. 1136, art. 36, tabella B, n. 13 e il R.D. 7 agosto 1936, n. 1720 che approvava le tabelle indicanti i lavori per i quali era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni, prevedeva alla tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri in cui era consentita l’occupazione delle donne minorenni e dei fanciulli, subordinatamente all’osservanza di speciali cautele e condizioni e, tra questi, al n. 5, la lavorazione dell’amianto, limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura. Lo stesso R.D. 14 aprile 1927, n. 530, tra gli altri agli artt. 10, 16 e 17, conteneva diffuse disposizioni relative alla aerazione dei luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche. D’altro canto l’asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin dai primi del ’900 e fu inserita tra le malattie professionali con la L. 12 aprile 1943, n. 455. In epoca più recente, oltre alla legge delega 12 febbraio 1955, n. 52, che, all’art. 1, lett. F, prevedeva di ampliare il campo della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 e alle visite previste dal D.P.R. 20 marzo 1956, n. 648, si deve ricordare il regolamento 21 luglio 1960, n. 1169 ove all’art. 1 si prevede, specificamente, che la presenza dell’amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio alla salute può infine ricordarsi che il premio supplementare stabilito dal T.U. n. 1124 del 1965, art. 153 per le lavorazioni di cui all’allegato n. 6, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi. D’altro canto l’imperizia, nella quale rientra la ignoranza delle necessarie conoscenze tecniNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 co-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro. Da quanto esposto discende che all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti era ben nota l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto, tanto che l’uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre. Si imponeva, quindi, il concreto accertamento della adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c. ed al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce che “nei lavori che danno normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro” soggiungendo che “le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione” cioè devono avere caratteristiche adeguate alla pericolosità delle polveri. Devono altresì esser tenute presenti altre norme dello stesso D.P.R. n. 303 ove “si disciplina il dovere del datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che proibisce l’accumulo delle sostanze nocive, l’art. 19, che impone di adibire locali separati per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi specificamente mediante l’uso di aspiratori, l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione”. Da questa ricostruzione storico-giuridica dell’art. 2087 c.c. in relazione alla fattispecie di cui è causa, alla quale il Collegio pienamente aderisce ribadendola nella presente sede, emerge la correttezza della sentenza impugnata che adeguandosi ai richiamati principi sanciti da questa Corte nella specifica materia ha fatto corretta applicazione della norma codicistica denunciata ed ha appunto ritenuto la responNGCC 2015 - Parte prima Lavoro (rapporto) / Danni civili sabilità della società in relazione alla mancata adozione di quelle cautele – prescritte da norma specifica ed in via generale dall’art. 2087 c.c. – che avrebbero ridotto il rischio, non essendo necessaria, ai fini di cui trattasi, per le ragioni sopra esposte, la prova che ove adottate siffatte cautele avrebbero evitato l’evento. Con l’ultima censura del ricorso principale la società, prospettando violazione degli artt. 2059 e 2697 c.c., deduce che la Corte del merito, quanto al danno iure hereditatis, riconoscendo il danno biologico cd. terminale ed il danno da inabilità, ha erroneamente proceduto ad una duplicazione del risarcimento del danno, mentre in relazione al danno iure proprio ha riconosciuto una pluralità di danni in assenza di prova del concreto pregiudizio patito. In particolare per quanto attiene agli attuali controricorrenti, eredi di M.U., la S.p.A. A.E. rimarca come il danno non patrimoniale morale non ricorre automaticamente e che, quindi, le controparti avrebbero dovuto allegare concrete e significative circostanze atte a dimostrare lo sconvolgimento foriero di “scelte di vita diverse” e cioè lo sconvolgimento della esistenza obiettivamente accertabile in ragione della alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della vita comune di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare. Rileva il Collegio che la censura è, alla luce della giurisprudenza più recente di questa Corte, qui da ribadire infondata, nella parte in cui contesta la liquidazione dei danni subiti dal M.U. sia sul versante patrimoniale, sia di quello della sofferenza fisica e di quelle psichiche e morali, scaturenti dalla consapevolezza del malato dello spegnersi della vita. Questo giudice di legittimità, infatti, ha sancito che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita – bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile – è garantito dall’ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, (per tutte v. Cass. 1361/2014). Tanto comporta che non vi è stata alcuna duplicazione del danno in parola avendo la Corte riconosciuto iure hereditatis, il danno biologico cd. terminale ed il danno da inabilità. Sotto altro profilo, ossia quello dei danni liquidati in favore degli eredi, la censura è fon523 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 data perché la Corte del merito ha proceduto alla loro liquidazione senza dare conto – anche sulla base di presunzioni – della esistenza di tali danni e perché ha applicato criteri di valutazione non idonei alla loro “personalizzazione”. È oramai da tempo acquisita la condivisione dell’assunto che il principio dell’integrale risarcimento del danno non può subire restrizione quando è in discussione la tutela dei diritti fondamentali ed individuali della persona (cfr. Corte Cost. 485/1991) e che alla inderogabilità di tale tutela debba conseguire, come è stato osservato in dottrina, una consequenziale personalizzazione dei pregiudizi che tenga conto delle modalità del caso concreto e della sua specificità al fine di pervenire ad una “totale restaurazione della persona”. Corollario, sul piano della realtà fattuale, è che i principi ora enunciati portano ad evidenziare – ancora una volta in linea con quanto sostenuto con la dottrina civilistica – come soprattutto in tema di quantificazione dei danni non patrimoniali si possa evidenziare la necessità di una drastica riduzione dell’applicazione delle poste liquidatorie indicate nelle tabelle normative (di cui al D. Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 e al D. Lgs. n. 209 del 2005 e successive modifiche, artt. 138 e 139) o in quelle di diversa natura, come le tabelle del Tribunale di Milano, la cui applicabilità in giudizio ha trovato riconoscimento anche a livello di giurisprudenza di legittimità (cfr. ex plurimis: Cass. 14402/ 2011 nonché Cass. 12408/2011, che ha evidenziato come il richiamo alle tabelle di Milano garantisce una unità di trattamento di riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal suddetto Tribunale essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale tanto da assumere la valenza in linea generale di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.). Le suddette considerazioni hanno indotto – specialmente in settori come quello giuslavoristico in cui non di rado si assiste alla lesione di diritti primari dei lavoratori aventi copertura costituzionale – ad auspicare un progressivo allargamento dell’area della risarcibilità dei danni non patrimoniali, quali quelli morali, ed alla formulazione di un catalogo di diritti inviolabili al fine di garantire una piena tutela della in524 Lavoro (rapporto) / Danni civili tegrità sia fisica che morale della persona, che quale espressione primaria della dignità umana, viene tutelata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 1 della Carta di Nizza (che antepone la dignità finanche alla vita) ed ora dal Trattato di Lisbona ratificato dall’Italia con la L. 2 agosto 2007, n. 290). Alla stregua delle svolte riflessioni può affermarsi che il “principio della personalizzazione del danno non patrimoniale” e, in primo luogo, del danno morale soggettivo per richiedere un’attenta valutazione delle modalità delle singole ed individuali situazioni esistenziali in cui versa il danneggiato e per richiedere, altresì, un esame delle possibili ricadute delle sofferenze sulla salute anche psichica dello stesso danneggiato ha portato ad un graduale “declinio delle tabelle” ed a rendere la materia in esame poco permeabile ai criteri di quantificazione delle summenzionate tabelle per essere queste volte ad equiparare – al fine di garantire in tutto il territorio nazionale un uguale trattamento nella loro liquidazione – danni che, invece, per loro natura, devono rimanere differenziati. Detti danni, infatti, in quanto non omologabili sulla base di indici standard di liquidazione ed in quanto non suscettibili di essere risarciti – in ragione di una propria specifica natura – nel “loro preciso ammontare” sono assoggettabili da parte del giudice, alla stregua di quanto disposto dagli artt. 1226 e 2056 c.c., unicamente ad una valutazione equitativa, che deve fare riferimento a criteri funzionalizzati alla “personalizzazione” del danno, in linea con i dieta giurisprudenziali più volte ribaditi, con i quali è stato rimarcato il dovere del giudice del merito di dare conto dei criteri di valutazione equitativa e del percorso logico che ha condotto al risultato finale della liquidazione, in ordine al quale deve considerare tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente – quali elementi di riferimento pertinenti – l’attività espletata, le condizioni sociali e familiari del danneggiato, la gravità delle lesioni e degli eventuali postumi permanenti subiti (cfr. in tali sensi Cass. 20320/2005 e Cass. 11039/2006). Per gli enunciati principi il giudice di merito, pur non essendo tenuto, nel liquidare equitativamente il danno non patrimoniale, ad una motivazione minuziosa e particolareggiata, è obbligato, però, a perseguire una “personalizNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 zazione” del danno, che passi attraverso la individuazione di criteri valutativi parametrata alla specificità del caso esaminato e, conseguentemente, dando il dovuto rilievo anche alla natura ed alla entità delle sofferenze ed alle consequenziali ricadute sul vivere quotidiano del danneggiato (cfr. al riguardo per riferimenti Cass. 11039/2006 cit.). Corollario ultimo dell’iter argomentativo seguito, e che, in parziale accoglimento del quarto motivo del ricorso principale, la sentenza della Corte territoriale va cassata nella parte in cui – dopo avere riconosciuto agli eredi di M.U., in proprio e quali eredi del suddetto M., danni non patrimoniali nella complessiva somma di trecentomila Euro – ha ripartito tale somma, così come riportato nello storico di lite, senza procedere ad una motivata ed esauriente personalizzazione dei danni subiti da ciascuno degli eredi, per non avere indicato con la necessaria specificità le ragioni poste a base della differenza nel riparto; differenza oscillata tra massimo di centodiecimila Euro (in favore di B.A.) ed un minimo di sessantamila Euro (in favore di M.V.G.), e giustificata con richiamo del tutto generico solamente al “rapporto di parentela e convivenza”, senza nessun esame e valutazione delle specifiche ricadute che l’evento doloroso della morte del M. ha determinato nella vita di ciascuno dei suoi congiunti e conviventi. Per concludere, dunque, a seguito della cassazione della sentenza impugnata la causa va rimessa alla Corte di Appello di Milano (in diversa composizione) che si atterrà al seguente principio di diritto: “nella liquidazione dei danni non patrimoniali patiti dagli eredi per la morte di un loro congiunto per malattia professionale (nella specie per mesiotelioma polmonare) il giudice del merito pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una motivazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, nella valutazione equitativa di detti danni ex artt. 1226 e 2059 c.c., ad individuare dei validi criteri di giudizio parametrati alla specificità del caso da esaminare e, conseguentemente, funzionalizzati ad una ‘personalizzazione’ di detti danni, non conseguibile, invece, attraverso standards valutativi delle tabelle normative (di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 e del D.Lgs. n. 209 del 2005 e successive modifiNGCC 2015 - Parte prima Lavoro (rapporto) / Danni civili che, artt. 138 e 139) o di quelle del Tribunale di Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità”. Con il ricorso incidentale M.V.G., denunciando violazione dell’art. 1219 c.c. sostiene che la Corte del merito ha erroneamente liquidato interessi e rivalutazione monetaria (quest’ultima già calcolata nelle somme liquidate) dalla domanda intendendo con ciò erroneamente la data del primo atto giudiziale, mentre in realtà interessi e rivalutazione monetaria dovevano farsi decorrere dalla raccomandata del 27 maggio 2000 con cui gli eredi del M., chiedendo il risarcimento dei danni patiti a seguito della malattia e morte del loro congiunto, mettevano in mora la società A.E. La censura è infondata. Invero il ricorrente incidentale con la censura in esame deduce un omessa pronuncia, tuttavia non allega, in violazione del principio di autosufficienza, di aver chiesto nell’atto introduttivo del giudizio la liquidazione degli accessori con decorrenza dalla data della allegata messa in mora. Né specifica di aver fatto riferimento in detto atto alla raccomandata del 27 maggio 2000. In conclusione va accolto, e solo in parte, il quarto motivo del ricorso principale mentre gli altri motivi di detto ricorso in uno a quello incidentale vanno rigettati. Conseguentemente la sentenza impugnata va, in relazione al motivo accolto, cassata con rinvio anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione. P.Q.M. La Corte riuniti i ricorsi accoglie in parte il quarto motivo del ricorso principale, rigetta gli altri motivi ed il ricorso incidentale. Cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Milano in diversa composizione. [Vidiri Presidente – Napoletano Estensore – Celentano P.M. (concl. parz. diff.). – A.E. s.p.a. (avv.ti Morrico e Del Franco) – B.A., M.M.G., M.A. (avv. Paganetti Bianchi) – M.V.G. (avv.ti Aurelio e Poggi Longostrevi] 525 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento Nota di commento: «Tutela del lavoratore e personalizzazione del danno: oltre le tabelle?» [,] I. Il caso La sentenza della Cassazione muove dal riconoscimento della malattia professionale (mesotelioma) del lavoratore, dipendente della Società A.E. dal 1963 al 1987. La malattia è stata diagnosticata nel corso dell’anno 1998 e il lavoratore è deceduto nel marzo 1999. Gli eredi della vittima hanno agito nei confronti della Società per ottenere la condanna al risarcimento dei danni iure proprio e iure hereditatis conseguenti all’evento (malattia e successivo decesso) che ha colpito il dante causa. La Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale, ha accolto la domanda degli eredi e liquidato le seguenti poste risarcitorie: 10.500,00 euro per invalidità parziale e temporanea e 150.000,00 euro per il danno biologico subiti dal lavoratore. Il danno subito dai congiunti, invece, è stato stimato, con giudizio equitativo, nella somma di 330.000,00 euro, in ragione della gravità della perdita subita, del rapporto di parentela e di convivenza, ripartita in modo differenziato tra gli eredi. Avverso la sentenza, la Società A.E. ha proposto ricorso in Cassazione sulla base di quattro censure che attengono al rapporto tra consulenza peritale e decisione del giudice, al nesso causale e al ruolo dell’art. 2087 cod. civ. come norma di chiusura del sistema, nonché alla necessaria personalizzazione del danno che non è assicurata dalla mera applicazione delle tabelle dei Tribunali. II. Le questioni 1. L’art. 2087 cod. civ. come norma di chiusura del sistema prevenzionistico. Il primo profilo esaminato dal giudice, di cui si può dare solo brevemente conto per soffermarsi, invece, sui punti centrali della motivazione, riguarda il ruolo di peritus peritorum svolto dal giudice a fronte delle consulenze tecniche fornite dal c.t.u. e dai c.t.p. L’orientamento della giurisprudenza è pacifico laddove ritiene che il giudice può aderire al parere del consulente senza giustificare in modo analitico tale adesione sempre che dal parere si possa evincere il ragionamento logico seguito e al contempo escludere la rilevanza di elementi di segno contrario esposti nella relazione di parte o altrove deducibili (Cass., [,] Contributo pubblicato in base a referee. 526 Lavoro (rapporto) / Danni civili 31.3.2011, n. 7494; Cass., 27.2.2009, n. 4850, entrambe infra, sez. III). Il secondo e terzo motivo, che vengono trattati congiuntamente dalla Supr. Corte, attengono al nesso causale tra la morte del lavoratore e l’esposizione alle polveri di amianto e, strettamente connesso a tale profilo, al ruolo di chiusura del sistema offerto dall’art. 2087 cod. civ. Ciò anche al fine di individuare la condotta positiva attesa dall’obbligato principale alla sicurezza (Cass., 5.8.2013, n. 18626; Cass., 8.10.2012, n. 17092; Cass., 3.8.2012, n. 13956; Cass., 5.11.2003, n. 16645; Cass., 19.4.2003, n. 6377, tutte infra, sez. III). La Società ha, infatti, lamentato come la Corte territoriale abbia attribuito una responsabilità risarcitoria senza una effettiva indagine istruttoria sulle condizioni lavorative e sulla sussistenza del nesso eziologico tra tale attività e il decesso del lavoratore, configurando così una responsabilità oggettiva in capo alla medesima. Va precisato che, nel nostro ordinamento, l’interpretazione tradizionalmente rigorosa e garantista dell’art. 2087 cod. civ. ha sì integrato, ed esteso, il contenuto dell’obbligo prevenzionistico, includendo i c.d. nuovi rischi, attraverso il parametro della massima sicurezza tecnologicamente possibile, ma non ha mai inficiato il principio di responsabilità per colpa, sia in sede civile che penale. Ciò sebbene si sia spesso sostenuta l’esistenza di una difficoltà del datore di lavoro a fornire la prova liberatoria (o a discarico) dell’adozione di tutte le misure necessarie per evitare l’infortunio o la malattia professionale. La giurisprudenza penale, al fine di individuare la responsabilità del datore di lavoro, ricorre al giudizio di prevedibilità ed evitabilità del pericolo che è considerato il fondamento della responsabilità per colpa; tale ragionamento è mutuato, con gli opportuni accorgimenti, in sede civile. Alla base di norme precauzionali volte a rimuovere il pericolo derivante dalle diverse attività umane si collocano, pertanto, regole di esperienza dedotte da giudizi reiterati sulla pericolosità dei comportamenti e sui mezzi più idonei ad evitarne le conseguenze: le regole di esperienza rappresentano la «cristallizzazione di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo». Nel valutare la posizione del datore di lavoro si devono, pertanto, considerare due fattori: il rispetto delle regole di condotta e il rinnovo (volta per volta) del giudizio prognostico per verificare la persistente validità delle suddette regole. Secondo la Corte, qualora le misure prevenzionistiche non siano indicate da norme specifiche, dovranno essere adottate proprio sulla base dell’art. 2087 cod. civ. che impone al datore di lavoro una diligenza particolarmente qualificata nel rispetto delNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento l’obbligo di sicurezza, per i preminenti valori giuridici tutelati dalla norma (vita, salute e, nelle letture più recenti, dignità, benessere). Il datore di lavoro dovrà, in ragione della concreta realtà aziendale e dei rischi ad essa connessi (Cass., 11.7.2011, n. 15156; Cass., 1.2.2008, n. 2491; Cass., 14.1.2005, n. 644, tutte infra, sez. III), attivarsi sulla scorta della c.d. best available technology che subordina l’adozione delle misure alla loro disponibilità sul mercato, prescindendo dal costo economico (considerando 13 dir. n. 391/89 CE): chi pone in essere un’attività economica deve, pertanto, dimostrare di aver predisposto la miglior tecnologia o che l’attività non presenti rischi per la salute. Con riguardo a quest’ultimo profilo, la Società, nel caso concreto, non poteva opporre la non conoscenza della pericolosità dell’amianto, quale premessa esimente per la mancata adozione di opportune cautele. La Supr. Corte, infatti, ricostruisce con minuzia i precedenti normativi – in particolare l’art. 21 e gli artt. 9, 15, 18, 19, 20 e 25 del d.p.r. n. 303/ 1956 – in cui sono contenuti peculiari divieti, limitazioni, indicazioni di necessari e speciali presidi in relazione all’utilizzo o al contatto con l’amianto. In presenza di tali disposizioni il datore di lavoro difficilmente sarebbe riuscito a sostenere di ignorare la nocività della sostanza. E comunque, prosegue la Corte, «l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi a cui commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro». L’art. 2087 cod. civ. si conferma, così, anello di congiunzione tra le norme di diligenza e la disciplina tecnica e, come spesso definito, norma di chiusura del sistema di prevenzione. Il quarto motivo concerne, invece, il risarcimento del danno riconosciuto alla vittima ed ai suoi eredi e, soprattutto, la quantificazione dello stesso alla luce del principio di integrale riparazione. Nel contratto di lavoro, è l’art. 2087 cod. civ. che inserisce nell’area del rapporto interessi non suscettibili di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) la cui lesione a seguito di inadempimento del (o ascrivibile al) datore di lavoro determina, se soddisfatti i requisiti di prova, il risarcimento del danno non patrimoniale. Il filtro offerto dall’art. 2087 cod. civ., in questa ed in altre vicende legate alla tutela della persona nel rapporto di lavoro, garantisce il rispetto del principio di tipicità sotteso all’art. 2059 cod. civ. Le sentenze di San Martino del novembre 2008 avevano ribadito, infatti, l’autosufficienza dell’art. 2087 cod. civ. nel far emergere i diritti inviolabili del lavoratore – anche in combinato disposto con le norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 32 e 41) – la cui leNGCC 2015 - Parte prima Lavoro (rapporto) / Danni civili sione può dar corso al risarcimento del danno non patrimoniale, senza dover ricorrere al danno esistenziale. Nell’ordinanza di rimessione aveva colpito il quesito sull’autonomia e la risarcibilità del danno esistenziale da contratto e, nello specifico, nel rapporto di lavoro, come se il danno non patrimoniale qui assumesse caratteristiche specifiche. In realtà, il contenzioso in materia di lavoro offre spunti interessanti di discussione che muovono dall’atteggiamento delle Corti a mostrarsi, in molti casi, più disponibili a riconoscere le diverse voci in cui il danno non patrimoniale viene suddiviso per esigenze descrittive: in particolare, il danno morale spesso concesso anche in vicende che non sono connotate dall’esistenza di una fattispecie, seppur astratta, di reato (Cass., 28.6.2013, n. 16413, infra, sez. III). Il danno non patrimoniale si conferma, però, un danno conseguenza «determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica». Ai fini del risarcimento devono sussistere tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile: condotta; nesso di causalità; danno, che viene appunto distinto in danno evento – ossia l’ingiustizia determinata dalla lesione non giustificata di interessi meritevoli di tutela – e danno conseguenza ovvero il pregiudizio derivante dalla condotta. A questi requisiti, va aggiunto quello della prevedibilità, come indicato da Cass., 31.5.2003, n. 8828 (in questa Rivista, 2004, I, 232 ss.). A differenza del danno patrimoniale, la tipicità del danno non patrimoniale esige una selezione rigorosa dei beni tutelati funzionale alla sopravvivenza di un sistema di responsabilità civile con ormai sempre più scarse risorse da redistribuire. Tale selezione viene operata o, a monte, dal legislatore o, a valle, dal giudice, che si orienta utilizzando alcuni criteri: l’ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno (e non l’ingiustizia generica di cui all’art. 2043 cod. civ.), la gravità dell’offesa e la serietà del pregiudizio. Questi criteri sono stati indicati dalle sez. un. del 2008 come limiti alla risarcibilità del danno ed attuano un «bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il c.d. pregiudizio non sia futile». Sebbene il danno non patrimoniale sia inteso come categoria unitaria, a fini descrittivi e di quantificazione, è ammessa una articolazione che viene in parte riproposta nella sentenza in commento, dove sono stati individuati: il danno biologico che consiste nel pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale; il danno morale che rappresenta la sofferenza sogget527 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento tiva (transeunte o meno), di cui le sez. un. del 2008 hanno escluso l’automatica risarcibilità come frazione del biologico; il danno non patrimoniale subito dagli eredi per il venir meno del rapporto parentale e di convivenza. 2. La quantificazione del danno. Punto interessante della pronuncia concerne la quantificazione e, soprattutto, la necessaria personalizzazione del danno (Cass., 18.11.2014, n. 24473; Cass., 18.11.2014, n. 23778; Cass., 8.7.2014, n. 15491, Cass., 18.5.2012, n. 7963, tutte infra, sez. III). Le sentenze di San Martino chiedevano al giudice di procedere ad una adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico nella sua dinamicità, con valutazione delle sofferenze fisiche e psichiche patite nella loro effettiva consistenza: l’obiettivo è quello della riparazione integrale, «ma non oltre». Per raggiungere tale obiettivo, la giurisprudenza ha fatto ricorso alle tabelle, tra cui in particolare quelle di Milano, che tuttavia sono considerate dalla Supr. Corte come non vincolanti; esse costituiscono, infatti, «un parametro meramente orientativo ed indicativo della liquidazione equitativa nella singola fattispecie e necessitano comunque di un’attività di compiuta ed adeguata personalizzazione, al fine di renderle aderenti alla peculiarità del caso», senza che sia necessario ricercare quella correttamente applicata al tempo della liquidazione nell’ufficio giudiziario procedente o in altri uffici. L’unico obbligo per il giudice è quello di motivazione, indicando l’iter logico seguito e salvo solo il ricorso a parametri o a ragioni incongrui o illogici (Cass., 24.3.2011, n. 6737, infra, sez. III). Negli ultimi anni, molti Tribunali hanno aggiornato il valore di punto del danno biologico, anche a fronte della nozione totalizzante/omnicomprensiva del c.d. danno biologico dinamico nel d. legis. 7.9.2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), in cui si dà risalto all’incidenza sulle attività quotidiane e ai profili relazionali del danno alla salute ampliando così la nozione rispetto a quella dell’art. 13 del d. legis. 20.2.2000, n. 38 (Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, a norma dell’art. 55, comma 1o, della legge 17 maggio 1999, n. 144), in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali. L’indennizzo offerto dall’Inail risponde, infatti, ad una ratio diversa ossia a quelle esigenze solidaristiche ed assistenziali sottese all’art. 38, comma 2o, Cost.; la soddisfazione del principio di integrale riparazione del danno è così affidata, in tale ambito, al danno differenziale. Nelle tabelle milanesi – che risultano essere le più utilizzate – la componente di sofferenza soggettiva viene inserita e conglobata nel valore di liquidazione 528 Lavoro (rapporto) / Danni civili medio del punto, soggetto poi alle variazioni quantitative relative alla gravità delle lesioni e all’età dell’infortunato; è, altresì, ammessa la possibilità di una personalizzazione con applicazione discrezionale di una variazione percentuale da modellare sul caso concreto (Trib. Pavia, 19.11.2010, infra, sez. III). L’adeguamento delle tabelle è quindi necessario, oltre che apprezzabile. Tuttavia, nella sentenza in commento la Cassazione nel rinviare al criterio equitativo e al suo ancoraggio a validi criteri di giudizio – parametrati alla specificità del caso da esaminare e funzionalizzati ad una personalizzazione dei danni – asserisce che detta personalizzazione non è perseguibile attraverso gli standard valutativi delle tabelle predisposte dal legislatore o dai Tribunali. Ciò conferma quanto sostenuto dalla dottrina che ritiene la quantificazione operata attraverso le tabelle un «il minimo risarcitorio», uniforme per tutte le vittime che hanno subito lo stesso tipo di lesione, ma a cui va aggiunta una personalizzazione effettiva basata su parametri che attengono alla funzione assegnata al risarcimento del danno, anche in chiave deterrentepunitiva. Si offre, così, maggior margine di manovra alla valutazione equitativa del giudice. Sebbene essa sia inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione e, pertanto, suscettibile di rilievi in sede di legittimità, lo è, secondo la Cassazione, solo «se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria» (Cass., 26.1.2010, n. 1529; Cass., 16.9.2008, n. 23725, infra, sez. III). Si può parlare, quindi, di criterio equitativo «puro», quando la determinazione è svincolata da tabelle standardizzate e criteri automatici (Cass., 14.9.2010, n. 19517, infra, sez. III) e di «criteri equitativi correttivi», quando questi vengono finalizzati alla effettiva personalizzazione del ristoro pecuniario, integrando la quantificazione tabellare (Cass., 20.2.2015, n. 3374, infra, sez. III). Ciò assegna al giudice una valutazione ponderata dei connotati caratterizzanti il singolo caso sottoposto alla sua attenzione, sebbene non vada trascurato il fatto che ciò può portare a scostamenti notevoli nella liquidazione anche in casi simili. Va segnalato che nella pronuncia del 2011 sulla c.d. vocazione nazionale delle tabelle milanesi, la Cassazione ha sostenuto che «il concetto di equità racchiude in sé due caratteristiche»: la prima è quella di «giustizia del caso singolo», strumento di adattamento della legge al caso concreto; la seconda attiene alla «funzione di garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che i casi uguali non siano trattati in modo diseguale». La finalità sarebbe quella di garantire sia il principio di eguaglianza sia la certezza del diritto NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento (Cass., 7.6.2011, n. 12408; Cass., 26.4.2010, n. 9921, entrambe infra, sez. III). A ciò si aggiungono le considerazioni svolte supra sulla funzione del risarcimento che trova peculiare declinazione in alcune sentenze relative al rapporto di lavoro. Nella pronuncia della Cassazione del 2010 (Cass., 19.5.2010, n. 12318, infra, sez. III), in un caso di molestie sessuali nei confronti di una lavoratrice, è stato dedicato ampio spazio ai criteri di liquidazione equitativa del danno. Nel caso specifico, il giudice di merito si era discostato dalle tabelle utilizzate del Tribunale di Torino. Secondo la Supr. Corte, il giudice territoriale aveva correttamente adottato criteri diversi, in ragione della peculiarità del caso. Infatti, da un lato, si è ritenuto che il danno biologico fosse di lieve entità mentre, dall’altro, la gravità della condotta discriminatoria e la sua idoneità a offendere beni personali di rilevanza costituzionale hanno fatto sì che venissero personalizzati sia il danno morale (per la odiosità della condotta molesta) sia quello esistenziale (per il clima di intimidazione creato nell’ambiente di lavoro con ricadute anche sui rapporti affettivi e sulla vita familiare). La Corte ha parlato di «particolare gravità ed odiosità del comportamento lesivo e notevole capacità di offendere i beni personali costituzionalmente protetti», che ha portato il giudice a disattendere le indicazioni contenute nelle tabelle adottate nel foro di competenza, per garantire una più effettiva personalizzazione del risarcimento (Cass., 24.3.2011, n. 6737), e a stabilire che la somma liquidata fosse in grado di fungere da monito solo qualora non rappresentasse un «simulacro di risarcimento» (Cass., 10.3.2010, n. 5770, infra, sez. III). Alla funzione compensatoria del danno il giudice ha evidentemente affiancato, nel caso specifico, una funzione afflittivo-deterrente. È quanto viene espressamente affermato dal Tribunale di Pistoia, sempre in un caso di molestie sessuali sul luogo di lavoro (Trib. Pistoia, 8.9.2012, infra, sez. III). Il giudice ha ritenuto che nei casi di discriminazione fondate sul genere (e le molestie sono equiparate alle discriminazioni ai sensi dell’art. 2 dir. n. 43/2000 CE e dir. n. 78/2000 CE, nonché ai sensi dell’art. 26, comma 2o, d. legis. n. 198/2006, c.d. codice delle pari opportunità) la quantificazione del danno deve essere «idonea a soddisfare la funzione non solo ripristinatoria, ma anche dissuasiva del rimedio». Tale funzione, secondo il Tribunale, trova la sua radice nel diritto comunitario e, in particolare, nella dir. n. 54/2006 CE che, in continuità con le direttive del 2000, non solo ha incluso il risarcimento del danno non patrimoniale tra le sanzioni comminabili, ma ha specificato che le sanzioni devono assumere il carattere della effettività, proporzionalità e dissuasività. La direttiva del 2006, inoltre, ha stabilito che il risarNGCC 2015 - Parte prima Lavoro (rapporto) / Danni civili cimento, in generale, «non può avere un massimale stabilito» (art. 18). Le argomentazioni della giurisprudenza sono interessanti in relazione ai dubbi sollevati dopo le pronunce di San Martino sul ruolo di cenerentola assegnato al danno morale, nei passaggi in cui si nega la sua liquidazione calcolata come frazione del danno biologico senza indagine sulla sua sussistenza. La liquidazione «può essere effettuata dal giudice sulla base di criteri standardizzati e predeterminati, assumendosi come parametro il valore medio per punto, calcolato sulla media dei precedenti in virtù della cosiddette “Tabelle” presso l’ufficio giudiziario, sempre che il risultato, in tal modo raggiunto, venga poi “personalizzato”, tenendo conto della particolarità del caso concreto e della reale entità del danno» (Cass., 26.4.2010, n. 9921). Sebbene l’adozione di meccanismi semplificativi non sia sempre idonea a far intendere come siano state apprezzate la gravità del fatto, le condizioni soggettive della persona, l’entità della sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, al fine di dare una risposta congrua, adeguata e satisfattiva della lesione della dignità umana «desumibile dall’art. 2 Cost. in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza» (Cass., 12.12.2008, n. 29191, infra, sez. III), non va dimenticato che, in alcuni casi, l’allontanamento dalle tabelle ha portato il giudice a risarcire meno di quanto si sarebbe stato riconosciuto ai danneggiati utilizzando il parametro standardizzato (Cass., 17.4.2013, n. 9231, infra, sez. III). La Supr. Corte, nella sentenza in commento, fornisce, infine, al giudice del rinvio il principio di diritto cui attenersi: «nella liquidazione dei danni non patrimoniali patiti dagli eredi per la morte di un loro congiunto per malattia professionale (...) il giudice del merito pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una valutazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, nella valutazione equitativa dei danni ex artt. 1226 e 2059 cod. civ., ad individuare dei validi criteri di giudizio parametrati alla specificità del caso da esaminare e, conseguentemente, funzionalizzati ad una “personalizzazione” di detti danni, non conseguibile, invece, attraverso standard valutativi delle tabelle normative o di quelle del Tribunale di Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità». Se l’obiettivo è quello dell’integrale riparazione del danno, le tabelle rimangono un buon punto di partenza, in quanto il delta della possibile liquidazione permette comunque un apprezzamento equitativo del giudice. L’allontanamento dalle tabelle – nella prospettiva di una personalizzazione del ristoro, innegabilmente utile soprattutto in vicende come quelle che attengono al rapporto di lavoro in cui non sempre è apprezzabile la componente biologica 529 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento della lesione – può, in alcuni casi, tradursi in un’arma a doppio taglio perché non determina de plano un innalzamento dei valori che sarebbero liquidati sulla scorta delle tabelle stesse. Trovare una composizione tra istanze di certezza ed oggettività, garantite dalle tabelle, e di giustizia, offerte dalla valutazione oculata del caso concreto, resta una sfida aperta. III. I precedenti Sul rapporto tra perizia e decisione del giudice, v. Cass., 31.3.2011, n. 7494; Cass., 27.2.2009, n. 4850, entrambe ined. Sul ruolo di norma di chiusura svolto dall’art. 2087 cod. civ., v. Cass., 5.8.2013, n. 18626; Cass., 8.10.2012, n. 17092; Cass., 3.8.2012, n. 13956, tutte ined.; Cass., 5.11.2003, n. 16645, in Orient. giur. lav., 2003, I, 997ss.; Cass., 19.4.2003, n. 6377, in Resp. civ. e prev., 2003, 1069 ss. Sulla necessaria valutazione delle specificità del contesto lavorativo per assolvere all’obbligo di sicurezza, v. Cass., 11.7.2011, n. 15156, in Foro it., 2012, I, 2147 ss.; Cass., 1o.2.2008, n. 2491, ined.; Cass., 14.1.2005, n. 644, in Orient. giur. lav., 2005, I, 123 ss. Sulla c.d. «vocazione nazionale» delle tabelle di Milano, v. Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Foro it., 2011, I, 2274 ss.; Cass., 30.6.2011, n. 14402, in Resp. civ. e prev., 2011, 2025 ss. Sulla liquidazione e personalizzazione del danno, in generale, v. Cass., 20.2.2015, n. 3374, in D & G, 6, 2015, 55 ss.; Cass., 18.11.2014, n. 24473, in D & G, 19.11.2014; Cass., 18.11.2014, n. 23778, ined.; Cass., 8.7.2014, n. 15491, in D & G, 9.7.2014. Nel rapporto di lavoro, Cass., 28.6.2013, n. 16413, in Danno e resp., 2013, 1081 ss.; Cass., 17.4.2013, n. 9231, in D & G, 18.4.2013; Trib. Pistoia, 8.9.2012, ined.; Cass., 18.5.2012, n. 7963, in Notiz. giur. lav., 2006, 632 ss.; Cass., 24.3.2011, n. 6737, ined.; Cass., 26.4.2010, n. 9921, ined.; Trib. Pavia, 19.11.2010, in Note informative, 2011; Cass., 10.3.2010, n. 5770, in Arch. giur. circ., 2011, 605 ss. Sul criterio equitativo, v. Cass., 14.9.2010, n. 19517, in Il civilista, 2010, n. 11, 22 ss.; Cass., 19.5.2010, n. 12318, in Danno e resp., 2010, 1043 ss.; Cass., 26.1.2010, n. 1529, ined.; Cass., 12.12.2008, n. 29191, in Resp. civ. e prev., 2009, 811 ss.; Cass., 16.9.2008, n. 23725, in Giust. civ., 2009, 12, 2714 ss. 530 Lavoro (rapporto) / Danni civili IV. La dottrina Cfr. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, nel Commentario al codice civile, diretto da Busnelli, Giuffrè, Milano, 2008; Amato, voce «Danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., agg., 2011, 302 ss.; Busnelli-Patti, Danno e responsabilità civile, Giappichelli, 2013; Corazza, Mobbing e discriminazioni, in Pedrazzoli (diretto da), Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli, 2007, 81 ss.; Del Punta, Il danno non patrimoniale dopo le Sezioni unite del 2008: riflessioni di sistema e ricadute lavoristiche, in Giur. it., 2009, 1038 ss.; Id., Diritti della persona e contratto di lavoro, in Dir. lav. e rel. ind., 2006, 195 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte Generale, Zanichelli, 1995, 488 ss.; Giubboni-Ludovico-Rossi, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Cedam, 2014; Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, in Galgano (diretto da), Trattato di Diritto commerciale e di Diritto pubblico dell’economia, Cedam, 2010; Lazzeroni, Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, 2007, 379 ss.; Malzani, Ambiente di lavoro e tutela della persona. Diritti e rimedi, Giuffrè, 2014; Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Giuffrè, 2010; Nogler, (Ri)scoprire le radici giuslavoristiche del «nuovo» diritto civile, in Eur. e dir. priv., 2013, 959 ss.; Ponzanelli, Quale danno? Quanto danno? E chi lo decide poi?, in Danno e resp., 2015, 71 ss.; Id., Il danno non patrimoniale giuslavorista è diverso da quello «generale»?, ivi, 2013, 1081 ss.; Id., Tabelle, prova del danno e concezione unitaria del danno non patrimoniale, ibidem, 595 ss.; Id., Il danno non patrimoniale: una possibile agenda per il nuovo decennio (20102020), in Studi in onore di Tiziano Treu, Università Cattolica del Sacro Cuore, 2011, 235 ss.; Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile. Osservazione sui criteri per la liquidazione del danno non patrimoniale, in Eur. e dir. priv., 2014, 517 ss.; Tullini, I nuovi danni risarcibili nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2004, 571 ss.; Vallauri, Il danno non patrimoniale alla luce della giurisprudenza delle Sezioni unite, in Riv. dir. sic. soc., 2009, 407 ss. Francesca Malzani NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 c CASS. CIV., III sez., 27.1.2015, n. 1453 Cassa App. Firenze, 13.10.2010, n. 1428 Obbligazioni in genere - Obbligazioni solidali nel debito - Accettazione di un pagamento parziale da un condebitore - Rilascio di quietanza senza riserva per il residuo - Rinuncia alla solidarietà - Sussistenza - Remissione del debito - Esclusione (cod. civ., artt. 1301, 1311, 1312, 1313) In tema di obbligazioni solidali, la circostanza che il creditore accetti da uno dei debitori il pagamento di una parte del debito complessivo, rilasciandone quietanza e non riservandosi di agire nei confronti dello stesso debitore per il residuo, integra gli estremi della rinuncia alla solidarietà disciplinata dall’artt. 1311, comma 2o, n. 1), cod. civ., con conseguente conservazione dell’azione in solido nei confronti degli altri condebitori, non rinvenendosi nella specie gli estremi per l’applicazione della remissione del debito liberatoria per gli altri coobbligati, disciplinata dall’art. 1301, comma 1o, cod. civ., giacché l’effetto della rinuncia è solo quello di ridurre l’importo del debito residuo verso quell’obbligato e non di abdicare al diritto di esigere dagli altri coobbligati il pagamento di quanto ancora dovuto. dal testo: Il fatto. 1. L.F.P., C.G. e N.S. convennero in giudizio La.Sa. e An.Ma. e chiesero il pagamento, in solido, del compenso residuo (pari a Euro 38.734,27), essendo le convenute obbligate quali debitrici solidali. Esposero: – di essere stati componenti del collegio arbitrale in un procedimento (irrituale) relativo a una controversia tra le convenute e la sorella El., nella quale la stessa era restata soccombente; – che il collegio arbitrale aveva liquidato in loro favore il doppio della somma, comprensiva del compenso per il segretario, e che la soccombente El. aveva corrisposto la metà dell’importo totale. NGCC 2015 - Parte prima Obbligazioni in genere Ai fini che ancora rilevano, le convenute La. sostennero che, avendo l’attore liberato El. da qualsiasi ulteriore onere dopo il pagamento della metà, non avendola citata in giudizio, doveva ravvisarsi una remissione di debito ex art. 1301 cod. civ. nei confronti della stessa, estesa alle obbligate solidali per mancanza di riserva nei loro confronti. Gli attori, unitamente alla memoria ex art. 183 cod. civ., depositarono un documento a propria firma nel quale dichiaravano di aver ricevuto la metà della somma da El. e di liberare la stessa da qualsiasi onere e si riservavano il recupero del residuo nei confronti delle coobbligate in solido. Le convenute contestarono la data del documento. Il Tribunale di Lucca accolse la domanda. La Corte di appello di Firenze, in totale riforma, rigettò la domanda. Ritenne l’obbligazione estinta ex art. 1301, per intervenuta remissione del residuo debito nei confronti di un condebitore solidale, liberatoria anche nei confronti degli altri in mancanza di riserva del diritto nei loro confronti; compensò interamente tra le parti le spese dei due gradi di giudizio (sentenza del 13 ottobre 2010). 2. Avverso suddetta sentenza, gli arbitri propongono ricorso affidato a quattro motivi, esplicati da memoria. Resistono con unico controricorso La.Sa. e An.Ma., che propongono ricorso incidentale in riferimento alla compensazione delle spese processuali operata dalla sentenza impugnata. La decisione ha per oggetto i ricorsi riuniti proposti avverso la stessa sentenza. I motivi. 1. La Corte di merito ha rigettato la domanda seguendo, per vero in modo tortuoso, il percorso logico che può essere così sintetizzato. Gli arbitri hanno rimesso il debito residuo ad uno dei condebitori solidali (El.) ai sensi dell’art. 1301 cod. civ.; tanto emerge da un atto processuale, la memoria ex art. 183 cod. proc. civ., e dal documento prodotto con la stessa, costituente prova contra se nei confronti di coloro che lo hanno prodotto. Per stabilire le conseguenze verso gli altri coobbligati dell’avvenuta remissione del debito nei confronti di un condebitore solidale, rileva 531 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 il documento prodotto, atteso che in esso è contenuta la riserva nei confronti dei coobbligati, che è la condizione posta dall’art. 1301 cit. affinché la remissione del debito effettuata nei confronti di un coobbligato non si estenda nei confronti degli altri. Non avendo il documento data certa, stante la mancanza di tutte le condizioni previste dall’art. 2704 cod. civ. affinché sia opponibile ai terzi (i coobbligati), non può ritenersi esistente la riserva nei confronti dei coobbligati che, pertanto, sono liberati dall’obbligazione per effetto della remissione. Infatti, per poter operare verso i coobbligati, la riserva deve essere espressa, contestuale alla remissione del debito e deve essere comunicata ai coobbligati, anche per il principio di correttezza dei rapporti tra creditore e debitore. In mancanza della data certa del documento che la contiene vengono a mancare tutte le condizioni che la riserva deve avere per poter operare e la remissione nei confronti di un coobbligato libera gli altri. 2. I quattro motivi del ricorso principale sono strettamente connessi. Con il primo motivo, si deduce la violazione degli artt. 2730, 2735 e 2734 cod. civ., unitamente a vizi motivazionali per avere la Corte di appello ritenuto che il documento ha valore di prova legale quanto alla remissione ed è invece non opponibile ai coobbligati quanto alla riserva. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 1301 e 2697 cod. civ. oltre a insufficienza di motivazione. Con il terzo motivo, si deduce la violazione degli artt. 2704, 1301 e 1236 cod. civ., unitamente a vizi motivazionali, sostenendo la non applicabilità dell’art. 2704 cod. civ. Con il quarto motivo, si deduce la violazione dell’art. 1301, dell’art. 1175, oltre a vizi motivazionali. 2.1. In estrema sintesi, i ricorrenti censurano la sentenza per aver, fermo restando il pagamento parziale di un condebitore e la relativa quietanza rilasciata dai creditori, ritenuto esistente la remissione del debito verso un coobbligato e non esistente la riserva verso gli altri coobbligati, sulla base dello stesso documento, considerando applicabile allo stesso l’art. 2704 cod. civ., e considerando necessari i requisiti della riserva verso i coobbligati solidali, quali il 532 Obbligazioni in genere carattere espresso, e non i comportamenti univoci e concludenti, la comunicazione ai coobbligati, oltre che la contestualità alla avvenuta remissione; caratteristiche tutte che non sarebbero ricavabili dal documento prodotto perché non opponibile ai coobbligati. Aggiungono che sarebbe stato onere probatorio dei coobbligati, che fanno valere un fatto estintivo, provare la remissione del debito e la riserva. 2.2. I motivi vanno accolti per quanto di ragione. Con il ricorso, fermo il pagamento parziale di un condebitore e la relativa quietanza rilasciata dai creditori, si mette in discussione l’esistenza stessa della remissione del debito a favore di uno dei coobbligati, che è il presupposto essenziale per l’applicabilità dell’art. 1301 cod. civ. e della riserva ivi prevista, idonea ad impedire l’estensione della remissione del debito agli altri coobbligati. Tanto consente alla Corte di procedere ad una diversa qualificazione in diritto dei fatti, come accertati nel merito ed emersi nel ricorso per cassazione. 3. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità – in riferimento ai poteri della Cassazione, individuati in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge – quello secondo cui “Nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di Cassazione può dare al rapporto una qualificazione giuridica diversa da quella accolta dal giudice di merito, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi di merito ed esposti nel ricorso per cassazione e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che l’esercizio del potere di qualificazione non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto” (Cass. n. 9143 del 2007; n. 6935 del 2007). Nella specie, i fatti, quali accertati nel merito e esposti nel ricorso sono questi: La.El. era soccombente sulla base del lodo arbitrale; il collegio arbitrale aveva determinato il compenso degli arbitri; El. aveva versato agli arbitri la metà delle somme determinate dalla ordinanza arbitrale; questi avevano rilasciato quietanza e avevano dichiarato di liberarla da qualunque NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 ulteriore onere relativo alle spese arbitrali; nello stesso documento gli arbitri si erano riservati di agire per il residuo loro dovuto nei confronti degli altri obbligati in solido; nello stesso documento erano fatti salvi i diritti di questi altri obbligati verso El.; gli arbitri hanno agito verso i coobbligati in solido per la parte residua del loro credito. Ritiene il Collegio che, sulla base dei fatti accertati e della domanda proposta, la fattispecie trovi regolazione nella previsione legislativa dell’art. 1311, n. 1, cod. civ., trattandosi di una ipotesi tipica di rinunzia alla solidarietà e non di remissione del debito verso uno dei coobbligati. 3.1. Non è in discussione il carattere solidale dell’obbligo dei contendenti del procedimento arbitrale nei confronti degli arbitri, relativamente al compenso dovuto per la prestazione d’opera intellettuale; né, nella specie, è rilevante come l’obbligazione in solido si divide nei rapporti interni tra i diversi debitori (l’essere El. l’unica obbligata nei rapporti interni sulla base della soccombenza dichiarata dal lodo), avendo i creditori agito in solido per il recupero del residuo credito. Si discute, invece, sul se l’adempimento parziale della prestazione oggetto dell’obbligazione da parte di uno dei coobbligati mediante il pagamento della metà del compenso dovuto, con relativa quietanza rilasciata dai creditori, abbia comportato la remissione del debito residuo da parte degli arbitri verso lo stesso obbligato parzialmente adempiente, e la conseguente estensione, o meno, della remissione del residuo debito agli altri, a seconda che si valuti come non esistente o esistente la riserva verso i coobbligati, contenuta nella stessa quietanza. 3.2. La particolarità della specie è data dalla circostanza che i convenuti abbiano prospettato, e il giudice, sulla base della loro prospettazione, abbia ritenuto che oggetto della remissione sia stato il debito residuato dopo l’adempimento parziale e a favore dello stesso soggetto che aveva effettuato un adempimento parziale dell’obbligazione, essendo stato questi liberato da ogni ulteriore onere rispetto alle spese, inquadrando la fattispecie nella previsione codicistica dell’art. 1301 cit. Ma, nella remissione di obbligazioni solidali regolata dall’art. 1301 il debitore a favore del NGCC 2015 - Parte prima Obbligazioni in genere quale essa opera è liberato verso il creditore remittente per la propria quota – che gli è stata rimessa e si estingue per ragioni diverse dall’adempimento – e non di quanto residua rispetto all’obbligazione solidale cui era tenuto per l’intero sulla base del vincolo di solidarietà. E, nel caso di riserva verso gli altri coobbligati, questi saranno tenuti non per l’intera prestazione, ma solo per il residuo una volta detratta la parte del debitore a favore del quale è avvenuta la remissione per ragioni diverse dall’adempimento. Tanto, in virtù di una regola di fondo della solidarietà per la quale il condebitore non è tenuto per le parti di debito inesistenti o estinte. Mentre, se la riserva non è stata formulata, il legislatore presume, secondo il principio della estensione ai condebitori solidali degli effetti vantaggiosi proprio delle obbligazioni solidali, che la remissione, per ragioni diverse dall’adempimento, compiuta a favore di un debitore in solido si estenda all’intero debito e quindi, alle quote degli altri coobbligati. In definitiva, presupposto per l’applicabilità dell’art. 1301 cod. civ. è la liberazione dalla prestazione della propria quota e l’estinzione di tale obbligazione per ragioni diverse dall’adempimento della stessa, quale modo non satisfattivo di estinzione dell’obbligazione, a favore del beneficiario della remissione. Non è la liberazione di colui che ha adempiuto una parte dell’obbligazione solidale dalla esigibilità del residuo, che è, invece, il presupposto di fatto della specie all’attenzione della Corte. 3.3. Questa diversa ipotesi è quella regolata dall’art. 1311, n. 1 cod. civ., quale rinuncia alla solidarietà. In generale, il creditore – salvo che la solidarietà non sia prevista dalla legge per motivi di ordine pubblico – può rinunciare all’effetto principale della solidarietà, cioè alla possibilità di agire per l’intero verso ogni debitore, essendo la solidarietà passiva prevista nell’esclusivo suo vantaggio con la funzione di rafforzare il credito; mentre, per il debitore potrà derivare solo un vantaggio dall’essere tenuto verso il creditore esclusivamente per la propria quota, con conseguente sufficienza della sola volontà del creditore, anche in atto unilaterale. E, la rinuncia alla solidarietà può essere limitata solo ad alcuno dei condebitori, con la conseguenza che il creditore conserva l’azione solidale verso 533 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 gli atri per l’intero credito, sostanziandosi la rinuncia alla solidarietà quale beneficium divisionis comportante solo la rinuncia all’effetto principale della solidarietà di poter agire per intero verso ciascun condebitore e restando ferme le regole della solidarietà per altri effetti, come nel caso, previsto dall’art. 1313 cod. civ., dell’insolvenza di un condebitore (Cass. n. 16125 del 2006). Ai nostri fini, rispetto alle differenze tra l’art. 1311 e l’art. 1301, basta rilevare che, nel primo caso gli altri debitori continueranno a rispondere per l’intero nei rapporti esterni con il creditore, mentre, nel secondo, la previsione legislativa è che – sempre che vi sia stata riserva nei loro confronti – non dovranno adempiere la quota del debitore liberato, proprio perché nel primo caso si tratta della rinuncia ad un effetto della solidarietà, cioè della rinuncia a pretendere l’intero dal coobbligato, e nel secondo si tratta della rinuncia alla prestazione. 3.3.1. In alcuni casi la legge presume che vi sia stata rinuncia alla solidarietà. Ed esiste tale presunzione a norma di legge quando il creditore rilascia ad uno dei condebitori quietanza “per la parte di lui” ricevuta senza alcuna riserva (art. 1311, n. 1); cioè rilascia quietanza a chi adempie parzialmente la prestazione dovuta, senza riservarsi di agire nei suoi confronti per il residuo. A rilevare ai fini della operatività della presunzione, non è la corrispondenza della quota ricevuta con la quota interna gravante sull’adempiente, ma il rilascio della quietanza senza alcuna riserva di agire nei confronti della stessa parte; attuandosi in tal modo la rinuncia a far valere la solidarietà nei confronti di una parte. Questa è, appunto, l’ipotesi entro cui si inquadra la specie all’attenzione della Corte, atteso che i creditori avevano rilasciato quietanza per l’importo ricevuto da uno dei coobbligati e avevano dichiarato di liberarlo, quanto al vincolo della solidarietà rilevante nei rapporti esterni, da qualunque ulteriore onere relativo alle spese arbitrali. Ed allora, la fattispecie all’esame rientra pienamente nella previsione legislativa di cui all’art. 1311, n. 1, cod. civ. di presunzione di rinuncia alla solidarietà verso uno dei condebitori. Dalla rinuncia alla solidarietà nei confronti di un coobbligato derivante dalla quietanza rilasciata nel ricevere l’adempi534 Obbligazioni in genere mento parziale del proprio credito, con l’esclusione della riserva di agire verso lo stesso per il residuo, consegue la conservazione per legge dell’azione solidale verso gli altri obbligati. Pertanto, non si pone proprio il problema della estensione nei loro confronti della rimessione del debito e della eventuale esistenza della riserva per impedire l’estensione della remissione. Di conseguenza, non si pongono le questioni esaminate dal giudice quanto alle caratteristiche della riserva e alla opponibilità del documento che la contiene, poiché la conservazione dell’azione solidale verso gli altri condebitori deriva direttamente dalla legge e non dalla riserva nei confronti degli stessi nel documento di quietanza e di liberazione del debitore parzialmente adempiente da ogni onere relativo alle spese, quale rinuncia alla solidarietà. 3.4. In conclusione, il ricorso è accolto e la sentenza impugnata è cassata sulla base del seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di adempimento parziale dell’obbligazione da parte di uno dei coobbligati solidali, con relativa quietanza rilasciata dai creditori senza alcuna riserva di questi di agire verso lo stesso debitore per il residuo, è integrata la fattispecie di presunzione di rinuncia alla solidarietà disciplinata dall’art. 1311, n. 1 cod. civ., e conseguente conservazione dell’azione in solido verso gli altri obbligati solidali ai sensi del primo comma dello stesso articolo, non assumendo rilievo la riserva di agire verso gli altri obbligati ai sensi dell’art. 1301 cod. civ., che regola la diversa fattispecie di remissione del debito a favore di uno dei debitori solidali”. 3.4.1. Risultando la quietanza rilasciata dai creditori ad uno dei condebitori per l’adempimento parziale dell’obbligazione, senza alcuna riserva nei suoi confronti, ed avendo agito i creditori nei confronti degli altri obbligati per ottenere la condanna in solido degli stessi al residuo del credito – tanto anche nel rispetto della regola della solidarietà che il condebitore non è tenuto per le parti del debito estinte, in questo caso mediante adempimento – non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto e la causa può essere decisa nel merito mediante il rigetto dell’appello. 4. Dall’accoglimento del ricorso, con cassazione della sentenza impugnata, deriva l’assorbimento del ricorso incidentale, volto ad otteNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento nere la revisione della pronuncia di appello sulle spese processuali che erano state compensate. 5. Quanto alle spese processuali del giudizio di merito, le stesse seguono la soccombenza; trattandosi di un’attività difensiva ormai esaurita, si deve applicare la normativa vigente al tempo in cui l’attività stessa è stata compiuta, e, quindi, le tariffe previste dal d.m. n. 127 del 2004 e non i parametri sopravvenuti (Cass. 18 dicembre 2012, n. 23318). Le spese del processo di cassazione, che pure seguono la soccombenza, sono liquidate sulla base dei parametri vigenti (Sez. Un. 12 ottobre 2012, n. 17406). (Omissis) [Russo Presidente – Carluccio Estensore – Corasaniti P.M. (concl. diff.). – C.G., N.S. e L.F.P. (avv.ti Iacomini e Sassani) – La.Sa. e La.An.Ma. (avv. Saponaro)] Nota di commento: «Sulla rinuncia alla solidarietà a favore di un condebitore in caso di adempimento parziale» [,] I. Il caso Al termine di un procedimento arbitrale, i componenti del collegio ricevevano dalla parte soccombente la metà del compenso loro spettante per l’attività svolta. A fronte di tale pagamento parziale, i creditori rilasciavano quietanza in favore dell’adempiente, dichiarando di liberare la stessa da ogni ulteriore onere e riservandosi di agire per il residuo nei confronti delle altre parti del procedimento. Dopo essersi inutilmente rivolti a queste ultime per conseguire il loro credito residuo, gli arbitri agivano in giudizio contro le stesse al fine di ottenerne la condanna in solido al pagamento delle somme richieste. Il Tribunale di Lucca accoglieva la domanda. La decisione di primo grado veniva riformata dalla Corte d’Appello di Firenze (con sentenza del 13.10.2010, n. 1428, infra, sez. III), che respingeva la domanda di condanna al pagamento proposta dagli arbitri. Il giudice dell’impugnazione, ritenuto che i creditori avessero concesso a favore della condebitrice (parzialmente) adempiente la remissione del debito residuo, riconosceva a tale remissione piena efficacia liberatoria anche in favore delle altre coobbligate, sulla base dell’art. 1301, comma 1o, cod. civ., secondo il quale «[l]a remissione a favore di [,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte prima Obbligazioni in genere uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori, salvo che il creditore abbia riservato il suo diritto verso gli altri (...)». Gli arbitri – argomentava la Corte territoriale – avevano infatti prodotto in giudizio un documento nel quale affermavano di aver ricevuto dalla soccombente la metà della somma loro dovuta e dichiaravano di liberare la stessa da qualsiasi onere. Dalla medesima scrittura risultava bensì che i creditori si fossero riservati il recupero del residuo dalle altre parti, ma tale riserva sarebbe stata in concreto inidonea a precludere il dispiegarsi della piena efficacia estintiva in favore delle condebitrici: secondo la Corte, infatti, poiché la data del documento non era certa e computabile rispetto ai terzi (nella specie, le coobbligate) ai sensi dell’art. 2704 cod. civ., i creditori non avevano fornito sufficiente prova di due circostanze ritenute essenziali per l’efficacia della riserva, ossia la contestualità rispetto al pagamento e la comunicazione ai condebitori. Con la sentenza in commento, il S.C. cassa la decisione della Corte d’Appello, svolgendo un ampio esame in merito ai differenti presupposti applicativi della disciplina in materia di remissione (art. 1301, comma 1 o , cod. civ.) e di rinuncia alla solidarietà a vantaggio di un coobbligato (artt. 1311-1313 cod. civ.). Più specificamente, la Supr. Corte, procedendo a una diversa qualificazione in diritto dei fatti di causa, esclude nel caso di specie la configurabilità di una remissione a beneficio della condebitrice adempiente, ravvisando piuttosto, a favore della stessa, gli estremi di una rinuncia alla solidarietà. Conseguentemente, visto il comma 1o dell’art. 1311 cod. civ., secondo il quale il creditore che rinuncia alla solidarietà verso uno degli obbligati conserva l’azione in solido verso gli altri, la Corte reputa che il diritto degli arbitri verso le altre condebitrici per il conseguimento del residuo compenso fosse rimasto in vita e non si fosse, per converso, estinto a seguito del rilascio in favore della condebitrice adempiente di una quietanza che espressamente liberava la stessa da ogni ulteriore onere. Sull’esclusione dell’effetto estintivo nei confronti delle altre obbligate neppure avrebbe potuto incidere, a parere della Supr. Corte, la questione circa la sussistenza o no di un’idonea dichiarazione con cui i creditori si fossero riservati i propri diritti verso gli altri obbligati. Una tale riserva, argomenta il Collegio, è contemplata dall’art. 1301, comma 1o, cod. civ. in relazione alla diversa ipotesi della remissione in favore di uno dei condebitori, mentre non viene in considerazione nel caso di rinuncia alla solidarietà, figura che risulta caratterizzata di per sé dalla permanenza dell’azione in solido verso gli altri debitori. 535 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento II. Le questioni 1. La disciplina della remissione e della rinuncia alla solidarietà in favore di un condebitore in solido. Nella decisione in commento vengono in rilievo le ipotesi della remissione e della rinuncia alla solidarietà in favore di uno dei coobbligati. Di tali figure è opportuno richiamare i tratti essenziali di disciplina. Ai sensi dell’art. 1301, comma 1o, cod. civ., la remissione accordata dal creditore a uno dei condebitori in solido produce di regola la liberazione di tutti gli obbligati. Soltanto qualora il creditore si sia riservato il suo diritto verso gli altri consorti, la remissione comporta la liberazione integrale del debitore direttamente beneficiato e la liberazione parziale degli altri obbligati in ragione della quota del primo. La soluzione coincide, nella sostanza, con quella contemplata dall’art. 1281 del codice civile del 1865, e trova corrispondenza nell’art. 1285 del Code Napoléon (diversa è la regola contenuta nell’art. 1329.1 dell’attuale versione del projet d’ordonnance per la riforma del diritto dei contratti e del regime generale e della prova delle obbligazioni, infra, sez. IV). Alla previsione appena ricordata si affianca l’art. 1237, comma 1o, cod. civ., ove si stabilisce che «[l]a restituzione volontaria del titolo originale del credito, fatta dal creditore al debitore, costituisce prova della liberazione anche rispetto ai condebitori in solido» (cfr. art. 1279 cod. civ. 1865; con alcune differenze si v., quanto al codice francese, la previsione di cui all’art. 1284, unitamente agli artt. 1282 e 1283). Nella diversa ipotesi della rinuncia alla solidarietà in favore di un condebitore, quest’ultimo rimane tenuto a rispondere non più per l’intero debito ma – salvo ciò che si dirà in relazione all’ipotesi di insolvenza di alcuno fra gli altri coobbligati – soltanto per la sua quota. Quanto alla posizione degli ulteriori obbligati, l’art. 1311, comma 1o, cod. civ. afferma che il creditore «conserva l’azione in solido contro gli altri». Nell’attuale norma è stata soppressa la precisazione contenuta nell’art. 1195 cod. civ. 1865 in forza della quale l’azione nei confronti degli altri debitori risultava conservata «per l’intero credito». Peraltro, dalla mancata riproposizione dell’inciso non si è tratto argomento per affermare che la nuova disposizione comporti conseguenze diverse rispetto al suo antecedente storico nel codice abrogato, onde anche per il diritto vigente continua ad affermarsi che la rinuncia alla solidarietà concessa a un condebitore lascia in vita l’azione in solido del creditore verso gli altri per la totalità del debito, senza alcuna decurtazione (per riff., infra, sez. IV). Questa conclusione trova conferma anche nella sentenza in commento, la quale espressamente afferma che gli 536 Obbligazioni in genere altri condebitori restano obbligati in solido «per l’intero» nei confronti del creditore (cfr. la motivazione al § 3.3.; analogamente si esprimono precedenti decisioni: v. infra, sez. III). Un discorso più complesso richiede invece, sotto questo profilo, la corrispondente disciplina francese, come meglio si vedrà nel par. seguente. Peraltro, è necessario chiarire che la generale enunciazione secondo cui, a seguito della rinuncia alla solidarietà, il diretto beneficiario resta tenuto per la sua sola quota mentre gli altri obbligati continuano a rispondere dell’intero debito può richiedere alcune precisazioni a seconda dell’interpretazione che si accolga dell’art. 1313 cod. civ. Quest’ultima disposizione prende in considerazione l’ipotesi dell’insolvenza di uno dei condebitori, disponendo che la sua quota venga ripartita fra tutti i cobbligati, compreso quello che abbia beneficiato della liberazione dalla solidarietà. La previsione – così come le corrispondenti regole nel codice italiano del 1865 e nel codice francese – ha sollevato complesse questioni ermeneutiche (parla di disposizione dal «significato assai controverso» M. Giorgianni, 683, infra, sez. IV). Così, vi è chi sostiene che la norma in esame ascriverebbe soltanto fittiziamente, in via di mero computo aritmetico, una quota delle insolvenze al beneficiario della rinuncia, ponendo in realtà il peso delle stesse a carico del creditore, con correlativa parziale liberazione degli altri condebitori. All’opposto, altri interpreti sostengono che il beneficiario della rinuncia debba effettivamente sostenere il carico delle insolvenze verificatesi fra gli altri obbligati, discutendosi tuttavia, fra questi autori, sull’ulteriore questione se tale debitore risponda per contributo dell’insolvenza di altri coobbligati soltanto nei rapporti interni o anche nei rapporti esterni con il creditore (per un quadro delle opinioni, G. Rossetti, 852 ss., e Busnelli, 230 s., 234 s., nonché, con riguardo al codice previgente, Melucci, 176 ss., ove anche riff. all’esperienza francese; tutti infra, sez. IV). È evidente, dunque, che le diverse letture dell’art. 1313 cod. civ. possono imporre adattamenti di segno diverso alla generale affermazione in base alla quale il beneficiario della rinuncia resta tenuto soltanto per la propria quota, mentre i condebitori continuano a rispondere dell’intero. Nondimeno, per semplicità di esposizione, nel prosieguo ci si atterrà a tale enunciazione di massima, prescindendo dai possibili significati attribuibili all’art. 1313 cod. civ., la cui specifica indagine esula dai limiti del presente commento. Tornando alla distinzione tra remissione e rinuncia alla solidarietà, è opportuno evidenziare le diverse conseguenze che queste comportano nei rapporti fra il creditore e i condebitori (difformità di esiti, peraltro, che una parte della dottrina ha ritenuto NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento non del tutto coerente: con riguardo alle corrispondenti regole del Code Napoléon, v. Demolombe, §§ 460 s., 395 ss.; Baudry-Lacantinerie-Barde, § 1280, 401 s.; tutti infra, sez. IV). Quando il creditore, senza riservarsi i propri diritti verso gli altri debitori, accorda la remissione (anche solo parziale) a uno degli obbligati, l’effetto liberatorio (eventualmente limitato a una parte del credito) si estende a tutti i consorti; diversamente, se il creditore rinuncia alla solidarietà in favore di un singolo coobbligato, soltanto il diretto beneficiario della rinuncia resta esonerato dall’obbligo di corrispondere ciò che eccede la sua quota, mentre gli altri continuano a rispondere dell’intero debito. 2. La rinuncia alla solidarietà ai sensi dell’art. 1210 del codice civile francese. Si è visto che, in tema di remissione, la regola accolta dall’art. 1281 del codice previgente e mantenuta nell’art. 1301, comma 1o, del codice attuale coincide sostanzialmente con quanto previsto dal codice civile francese all’art. 1285. Per contro, tanto nel codice italiano del 1865 quanto nel codice attuale, la disciplina della rinuncia alla solidarietà si allontana dal modello transalpino. Secondo quanto dispone il code civil all’art. 1210, infatti, in caso di rinuncia alla solidarietà («division de la dette», secondo l’espressione impiegata nella norma) a beneficio di un condebitore gli altri consorti restano invero obbligati in solido, ma non per l’intero debito originario, bensì con deduzione della quota di quel debitore che il creditore ha liberato dalla solidarietà («sous la déduction de la part du débiteur qu’il a déchargé de la solidarité»). Sulla base del tenore letterale dell’art. 1210 cod. civ. fr. (nell’attuale versione del projet d’ordonnance di riforma, la regola, che è contenuta nell’art. 1315, continua a prevedere la decurtazione della quota del diretto beneficiario dal vincolo degli altri consorti; per riff., infra, sez. IV), la division de la dette non avrebbe allora come effetto soltanto quello di limitare alla sua propria quota il vincolo del debitore a cui è concessa, ma comporterebbe altresì la parziale estinzione dell’obbligazione degli altri consorti – conseguenza estranea alla rinuncia alla solidarietà per come disciplinata tanto dall’art. 1195 cod. civ. abr., quanto dall’art. 1311 del codice vigente. La previsione del codice francese ha peraltro dato luogo a vivaci discussioni fra gli interpreti. Secondo alcuni autori, la division de la dette avrebbe effettivamente come conseguenza anche la riduzione del vincolo degli altri condebitori (Demolombe, § 464, 399 s.; Marcadé, sub art. 1210, 515 ss.; Rodière, § 145, 106 s.; Laurent, §§ 346 s., 347 ss., BaudryLacantinerie-Barde, § 1281 s., 402 ss.; e così sembra orientato, recentemente, anche Hontebeyrie, 156; tutti infra, sez. IV). Peraltro, secondo quanto NGCC 2015 - Parte prima Obbligazioni in genere osserva una nota opinione critica (il riferimento è, in particolare, ai rilievi di Marcadé, sub art. 1210, 515 ss.; e v. altresì le considerazioni di Laurent, §§ 346 s., 347 ss., e Baudry-Lacantinerie-Barde, § 1281, 402), col prevedere l’effetto parzialmente estintivo in favore dei debitori estranei il legislatore avrebbe accolto una soluzione ingiustificata. A seguito della rinuncia alla solidarietà, si osserva, il condebitore resta pur sempre tenuto a corrispondere la propria quota, onde nessun pregiudizio si verifica a carico degli altri obbligati, i quali, nel caso in cui debbano provvedere al pagamento integrale del debito, rimangono legittimati a rivalersi contro il primo in via di regresso; sicché, non vi sarebbe alcuna necessità di defalcare la quota del beneficiario della rinuncia dal vincolo degli altri obbligati. Se poi, si aggiunge, il creditore effettivamente volesse scorporare la quota di debito del beneficiario e sottrarla dal credito totale, non ricorrerebbe alla rinuncia alla solidarietà, ma si avvarrebbe della remissione. Queste critiche, peraltro, non sono condivise da un’altra parte degli interpreti. La decurtazione, secondo questi autori, si spiegherebbe in base alla considerazione per cui il creditore non può migliorare la situazione di uno dei condebitori a scapito degli ulteriori obbligati: poiché rinunciando alla solidarietà in favore di uno di essi, egli renderebbe deteriore la posizione degli altri, che vedrebbero accresciute le probabilità di essere richiesti del pagamento dell’intero, la riduzione del vincolo di questi ultimi risulterebbe pienamente giustificata (in partic. Demolombe, § 464, 401 ss.; in un ordine di idee analogo, Colmet de Santerre, § 144 bis III, 234, infra, sez. IV). Una diversa opinione sostiene invece che l’art. 1210 cod. civ. fr. dispone la parziale liberazione dei condebitori estranei non tanto come conseguenza della rinuncia alla solidarietà, quanto piuttosto sull’implicito presupposto che il debitore beneficiario della divisione effettui altresì il pagamento della propria quota (ovvero, come talora si aggiunge, operi un’altra causa estintiva del debito, quale ad es. una remissione). Quella prevista dall’art. 1210, allora, sarebbe in realtà soltanto l’ipotesi particolare in cui la rinuncia alla solidarietà sia accompagnata da un pagamento parziale da parte del beneficiario; al contrario, quando alla rinuncia non si affianchi un pagamento parziale, l’art. 1210 non troverebbe applicazione e si resterebbe alla conclusione per cui la division de la dette comporta la limitazione dell’obbligo del beneficiario alla sua propria quota, con conservazione dell’intero credito (vale a dire, senza alcuna decurtazione) in solido verso gli altri condebitori (si v. le opinioni di Delvincourt, 510; Duranton, § 231, 279; Larombière, sub 1210, n. 7, 481 s.; Aubry-Rau, § 298 ter, 52, nt. 42; e più di recente Mignot, 91, 568; tutti infra, sez. IV). 537 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento Come è noto, la scelta del legislatore francese di prevedere la decurtazione del vincolo a carico dei condebitori estranei è stata consapevolmente disattesa nell’elaborazione del codice italiano del 1865 dalla Commissione speciale per il coordinamento delle disposizioni del codice civile, con espresso richiamo, in particolare, ai rilievi critici svolti in area francese da Marcadé (v. il verbale n. 33, seduta antimeridiana del 15.5.1865, in I processi verbali delle sedute della commissione speciale nominata con R. Decreto del 2 aprile 1865 al fine di proporre le modificazioni di coordinamento delle disposizioni del codice civile e le relative disposizioni transitorie a mente della legge di detto giorno, Marghieri e Perrotti, 1866, 208, nonché in Gianzana, 293 s., infra, sez. IV). 3. La rinuncia alla solidarietà che consegue al rilascio a un condebitore della «quietanza per la parte di lui senza alcuna riserva» (art. 1311, comma 2o, n. 1, cod. civ.). L’art. 1311, comma 2o, ai nn. 1 e 2, e l’art. 1312 cod. civ. prevedono tre casi di rinuncia alla solidarietà comunemente indicata come presunta, secondo un inquadramento accolto anche dalla sentenza in commento. In queste ipotesi non è richiesta la prova di un’effettiva volontà di rinuncia da parte del creditore, essendo sufficiente che siano presenti gli elementi previsti dalle relative disposizioni. Si tende inoltre a ritenere che si tratti di presunzioni assolute, con conseguente esclusione della possibilità di invocare una difforme volontà del creditore (ma per un accenno alla necessità di fare riferimento alla «volontà che sorregge l’operazione» v., in giurisprudenza, Cass., 12.1.1978, n. 130, infra, sez. III). Si ammette, peraltro, che pure al di fuori di tali fattispecie sia ammissibile una rinuncia tacita, la quale presuppone tuttavia, a differenza delle rinunce c.d. presunte, la dimostrazione di una reale volontà abdicativa del creditore. L’ipotesi legale di rinuncia c.d. presunta che viene in rilievo nella decisione in commento è quella contemplata dall’art. 1311, comma 2o, n. 1, cod. civ., ai sensi del quale rinuncia alla solidarietà «il creditore che rilascia a uno dei debitori quietanza per la parte di lui senza alcuna riserva». Tale previsione trova i suoi antecedenti nell’art. 1196, commi 1o e 2o, cod. civ. 1865 e nell’art. 1211, commi 1o e 2o, cod. civ. fr. (ma la regola non compare più nell’attuale versione del projet d’ordonnance di riforma), peraltro differenziandosi da questi modelli per una redazione più sintetica. Nella genesi della regola ha svolto un ruolo determinante, come è noto, l’insegnamento di Pothier, il quale osservava che «lorsque le créancier donne quittance en ces termes à l’un de ses codébiteurs solidaires: J’ai reçu d’un tel la somme de... pour sa part, il le reconnoît débiteur de 538 Obbligazioni in genere la dette pour une part; et par conséquent il consent qu’il ne soit plus solidaire, étant deux choses opposées, d’être débiteur pour une part, et d’être débiteur solidaire» (§ 277, 114, corsivi dell’a.; infra, sez. IV). L’ipotesi di rinuncia c.d. presunta di cui all’art. 1311, comma 2o, n. 1, cod. civ. presuppone anzitutto che il creditore ottenga da parte di uno degli obbligati un pagamento pari alla sua quota (Gangi, Le obbligazioni, 246; Scuto, 305; Rubino, 323; tutti infra, sez. IV). Si precisa, peraltro, che la semplice richiesta (Rubino, 323 s.; Amorth, 101, 105, infra, sez. IV) o ricezione (Scuto, 305; La Porta, 336, infra, sez. IV; Amorth, 105; la puntualizzazione si ritrova già in Pothier, § 277, 115, che richiama il principio per cui le rinunce non si presumono) ad opera del creditore di una parte della prestazione non implica di per sé rinuncia alla solidarietà in assenza degli ulteriori presupposti contemplati dalla disposizione, onde in tali casi il creditore resta legittimato a pretendere il pagamento del residuo debito allo stesso solvens. La norma richiede poi che il creditore rilasci quietanza al debitore adempiente, e che in essa non sia contenuta alcuna riserva: l’apposizione di quest’ultima, si afferma in dottrina, sarebbe incompatibile con la presunzione di rinuncia alla solidarietà (v. in questo senso Gangi, Le obbligazioni, 246; Scuto, 305; Rubino, 324 s.). Discussa è la necessità di un ulteriore presupposto, consistente nell’esplicita dichiarazione da parte del creditore circa il fatto che il pagamento ricevuto vada riferito alla quota del solvens. In senso affermativo si esprime la dottrina maggioritaria, sostenendo che tale è «il significato dell’inciso “per la parte di lui”» (v. in partic. Rubino, 324; similmente v. anche Gangi, Le obbligazioni, 246; Scuto, 305; Capobianco, 208, infra, sez. IV; la necessità di un espresso riferimento alla parte del solvens era già stata evidenziata da Pothier, § 277, 115). In direzione opposta si è invece osservato che una siffatta dichiarazione non è richiesta dalla norma, onde la circostanza per cui «si tratta della parte del debitore p[otrebbe] risultare obiettivamente dallo stesso ammontare del pagamento» (C.M. Bianca, 749; e v. anche Giaquinto, 272; ancora diversa è l’opinione di Longo, 103, che sembra assegnare alla norma attuale un significato differente rispetto all’art. 1196 cod. civ. 1865; tutti infra, sez. IV). La sentenza che si annota sembra aderire, almeno implicitamente, alla prima impostazione (accolta invece in maniera più univoca in precedenti decisioni della stessa Supr. Corte: Cass., 12.1.1978, n. 130; Cass., 12.7.2001, n. 9424; Cass., 18.5.2006, n. 11749; tutte infra, sez. III), là dove esclude che la semplice coincidenza quantitativa del solutum con la quota interna dell’adempiente sia sufficiente a inNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento tegrare la presunzione di rinuncia («[a] rilevare ai fini della operatività della presunzione, non è la corrispondenza della quota ricevuta con la quota interna gravante sull’adempiente, ma il rilascio della quietanza senza alcuna riserva di agire nei confronti della stessa parte»), ancorché manchi, nelle parole della Corte, una chiara menzione del riferimento della prestazione alla «parte» dell’adempiente. Nel codice abrogato, l’art. 1196, comma 2o (sul modello del cpv. dell’art. 1211 cod. civ. fr.) espressamente escludeva la presunzione di rinuncia qualora la quietanza non specificasse che il pagamento era ricevuto per la parte del debitore adempiente. Ora, malgrado la più concisa formulazione dell’attuale disposizione, la necessità di tale indicazione non sembra essere venuta meno anche alla stregua della disciplina vigente. La mera corrispondenza quantitativa dell’importo versato con la quota del solvens non appare un elemento sufficientemente univoco per distinguere la rinuncia alla solidarietà dalla mera ricezione di una prestazione parziale con conservazione dell’azione in solido verso lo stesso condebitore adempiente. E non potendosi, nel dubbio, presumere una rinuncia da parte del creditore, è preferibile accogliere un’interpretazione restrittiva dell’art. 1311, comma 2o, n. 1, cod. civ. che ricolleghi all’espressione «per la parte di lui» la necessità che il pagamento parziale venga riferito, nella quietanza, alla quota di spettanza del condebitore adempiente; in mancanza, la prestazione parziale andrà intesa quale semplice acconto sul credito complessivo (in questo senso v. Gangi, Le obbligazioni, 246 e, con riguardo al codice previgente, Giorgi, vol. I, 243; Melucci, 184). Non appare peraltro necessario che la quietanza riporti la precisa formula secondo cui il pagamento è ricevuto «per la parte» del debitore adempiente, essendo all’uopo idonee anche dizioni analoghe (Giorgi, vol. I, 243; Melucci, 184). 4. Adempimento parziale di un condebitore e dichiarazione liberatoria da parte del creditore: problemi qualificatori. La riflessione sul fenomeno delle quietanze c.d. a saldo ha da tempo posto in luce i problemi qualificatori che sorgono allorché, a fronte di un adempimento parziale da parte del debitore, il creditore rilasci una dichiarazione nella quale asserisca di null’altro aver a pretendere dal solvens o affermi di liberare quest’ultimo da ogni ulteriore peso. Simili questioni possono porsi anche in presenza di un’obbligazione solidale, nei casi in cui il creditore riceva un pagamento parziale da parte di uno dei condebitori e rilasci a quest’ultimo una quietanza corredata da una dichiarazione di carattere lato sensu liberatorio in suo favore. Fra le diverse configurazioni prospettabili a seNGCC 2015 - Parte prima Obbligazioni in genere conda dei casi concreti, l’alternativa che assume rilievo nella decisione in commento è quella tra remissione parziale del residuo debito e rinuncia alla solidarietà in favore del solvens. In questa sede si prescinde, per esigenze di sintesi, dal prendere in considerazione l’ulteriore variabile costituita dall’eventuale riserva del creditore con la quale egli faccia salve le sue pretese nei confronti degli altri obbligati, dichiarazione che potrebbe assumere rilievo, ai sensi dell’art. 1301, comma 1o, cod. civ., al fine di circoscrivere l’effetto liberatorio per i condebitori estranei alla sola quota di spettanza del beneficiario della remissione. Una simile riserva era invero contenuta, nel caso di specie, nella quietanza rilasciata dai creditori alla debitrice adempiente; tuttavia, essa non ha assunto rilievo né nel giudizio d’appello, dove è stata ritenuta inopponibile alle altre obbligate, né dinanzi alla Supr. Corte la quale, dopo aver inquadrato la fattispecie nell’alveo della rinuncia alla solidarietà anziché in quello della remissione, ha ritenuto assorbita la questione inerente all’efficacia della riserva stessa. Va inoltre puntualizzato che un passaggio della sentenza in commento (§ 3.2 dei motivi della decisione) potrebbe evocare l’idea per cui la fattispecie in esame dovrebbe dirsi già in astratto del tutto estranea all’ordine di ipotesi a cui ha riguardo l’art. 1301, comma 1o, cod. civ. [in particolare, là dove si afferma che «presupposto per l’applicabilità dell’art. 1301 cod. civ. è la liberazione dalla prestazione della propria quota e l’estinzione di tale obbligazione per ragioni diverse dall’adempimento della stessa, quale modo non satisfattivo di estinzione dell’obbligazione, a favore del beneficiario della remissione. Non è la liberazione di colui che ha adempiuto una parte dell’obbligazione solidale dalla esigibilità del residuo (...)»]. Peraltro, non si tratta di una lettura obbligata, in quanto l’argomentazione sviluppata dalla Supr. Corte potrebbe essere semplicemente intesa come volta a sottolineare la diversità fra gli effetti scaturenti rispettivamente dalla remissione e dalla rinuncia alla solidarietà, e non già come diretta a prendere posizione sull’astratta configurabilità di una remissione parziale per il residuo a fronte di un adempimento pro quota ad opera di un condebitore e sulla riconducibilità di tale fattispecie alla previsione di cui all’art. 1301, comma 1o, cod. civ. Ciò precisato, quindi, può ritenersi che, qualora nell’ipotesi in esame si ravvisassero nella dichiarazione del creditore gli estremi di una remissione parziale del residuo debito, troverebbe applicazione la disciplina di cui all’art. 1301, comma 1o, cod. civ., tenuto conto che la remissione ha avuto ad oggetto non già l’intero debito, ma soltanto una frazione dello stesso. Di conseguenza, l’effetto liberatorio si estenderebbe (in mancanza di riserva da parte del 539 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento creditore) anche agli altri coobbligati, i quali potrebbero cumulare il vantaggio dell’effetto estintivo prodotto dal pagamento parziale effettuato dal primo debitore con quello conseguente alla remissione del restante debito. Una diversa situazione si verificherebbe, invece, ritenendo sussistente una rinuncia alla solidarietà: questa comporterebbe l’esonero del solvens dall’obbligo di corrispondere il residuo debito, per il quale tuttavia continuerebbero a rispondere gli altri obbligati; questi ultimi, dunque, non beneficerebbero se non dell’effetto estintivo conseguente all’adempimento parziale del primo. Sembra corretto ritenere che la scelta fra le due ricostruzioni debba farsi dipendere, innanzitutto, dal concreto contenuto della dichiarazione resa dal creditore. Il problema, quindi, si pone in prima istanza come quaestio voluntatis, dovendosi allora appurare se il creditore abbia inteso soltanto concedere al debitore il beneficio della rinuncia alla solidarietà o non piuttosto rimettere il proprio credito residuo, con conseguente liberazione dei condebitori estranei. Nondimeno, ben può darsi l’eventualità che l’esame del tenore della dichiarazione del creditore non fornisca risultati univoci e rimanga incerto il risultato che egli intendeva perseguire. In tali casi, appare corretto fare riferimento al criterio secondo il quale, nel dubbio, alla dichiarazione a sé sfavorevole resa dal creditore nei confronti del solvens devono ricollegarsi le più ridotte conseguenze pregiudizievoli a carico del suo autore. Conseguentemente, l’alternativa fra rinuncia alla solidarietà e remissione parziale dovrà essere sciolta, nel dubbio, in favore della prima soluzione. Questa conclusione risulta anzitutto la più coerente con il principio per cui l’onere di provare l’intervenuta remissione grava, ex art. 2697, cpv., cod. civ., sul debitore che invoca la liberazione dall’obbligazione (v. infra, sez. III), oltre che con il consolidato criterio in base al quale l’intenzione di rimettere il debito (pur potendo risultare anche in forma tacita) non può, di regola, ritenersi presunta e deve essere dimostrata in modo inequivoco (per riff., infra, sezz. III e IV). Sicché, qualora i condebitori solidali che invocano la liberazione dal vincolo non forniscano la prova dell’intenzione del creditore di rimettere il residuo debito, o comunque non riescano a dimostrare l’esistenza di indici che implichino univocamente una volontà del creditore incompatibile con la permanenza in vita dell’obbligazione a loro carico, la sussistenza di una remissione del debito dovrà essere esclusa e la dichiarazione del creditore potrà al più, ricorrendone i presupposti, essere qualificata come rinuncia alla solidarietà. Quando poi nella tradizionale massima «renuntiatio non praesumitur» non si rintracci soltanto una riaffermazione della generale regola sull’onere probatorio per 540 Obbligazioni in genere cui spetta al debitore la dimostrazione del fatto estintivo che egli invoca, ma da essa si deduca un vero e proprio canone ermeneutico (v. su questo aspetto Kleinschmidt, Der Verzicht, 41, nt. 124; Id., sub § 397, Rn 21, 2269 s., nt. 127; entrambi infra, sez. IV), allora anche dal punto di vista interpretativo dovrà riconoscersi, nel dubbio, la più ridotta portata possibile alla dichiarazione del creditore; conseguentemente, essa andrà intesa come una rinuncia alla solidarietà piuttosto che come una remissione, dal momento che la prima lascia sussistere l’obbligo a carico degli altri condebitori, mentre la seconda comporta una definitiva estinzione del credito. Per queste ragioni, appare condivisibile, nel suo esito, la scelta della Supr. Corte di ravvisare nella vicenda in esame una rinuncia alla solidarietà anziché una remissione parziale. Quanto al percorso argomentativo seguito nella sentenza, si potrebbe forse porre l’interrogativo se, al di là dell’operatività nel caso di specie della c.d. presunzione di rinuncia di cui all’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., la dichiarazione con la quale i creditori esplicitamente liberavano la debitrice adempiente da ogni ulteriore peso non potesse essere considerata una rinuncia espressa alla solidarietà. L’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., infatti, postula bensì l’elemento negativo costituito dall’assenza di una riserva da parte del creditore, ma prescinde dal rilascio di qualunque dichiarazione in cui positivamente il creditore stesso asserisca di liberare il debitore dalla solidarietà, affermazione riscontrabile, invece, nella vicenda giunta all’attenzione della Supr. Corte. Tale profilo, peraltro, non è specificamente affrontato nella decisione in commento, giacché la fattispecie viene senz’altro inquadrata nell’ipotesi di rinuncia c.d. presunta senza che emerga la questione relativa alla possibile sussistenza di una rinuncia espressa. Dovendo pertanto limitare il discorso a un piano generale, può osservarsi che, rispetto all’ipotesi in cui la rinuncia debba affermarsi in virtù dell’operatività dell’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., in presenza di un’espressa dichiarazione di rinuncia alla solidarietà perde rilievo il problema circa l’esistenza o no, all’interno della quietanza, del riferimento del pagamento parziale alla quota di debito di spettanza del solvens; in tal caso, infatti, il riferimento non è più necessario per la liberazione del debitore adempiente dalla solidarietà (in questa direzione, nella giurisprudenza francese, v. le affermazioni di Cour d’appel Lyon, 30.11.1989, infra, sez. III, secondo la quale la rinuncia alla solidarietà può conseguire alla dichiarazione per cui il pagamento è intervenuto «pour soldes de tous comptes concernant la créance du débiteur»). NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento III. I precedenti La sentenza App. Firenze, 13.10.2010, n. 1428, cassata dalla decisione in commento, può consultarsi nella banca dati Lex24. Del tutto simile è la controversia oggetto di App. Firenze, 13.10.2010, n. 1455, ibidem, che riguarda il medesimo procedimento arbitrale e concerne la pretesa al compenso spettante al consulente tecnico; quest’ultima decisione è stata cassata, con pronuncia pressoché identica alla sentenza che si annota, da Cass., 27.1.2015, n. 1454, in DeJure. Nel senso che in caso di rinuncia alla solidarietà verso un condebitore gli altri rimangono tenuti in solido per l’intero debito, v. Cass., 24.9.1979, n. 4919, in Rep. Foro it., 1979, voce «Obbligazioni e contratti», n. 71; Cass., 5.3.1997, n. 1934, ivi, 1997, voce cit., n. 71; Cass., 28.3.2001, n. 4507, ivi, 2001, voce «Obbligazioni in genere», n. 53; Cass., 14.7.2006, n. 16125, in Danno e resp., 2007, 655, con nota di Selvini, e in Foro it., 2007, I, 1552, con nota di Caputi. Affermano la rilevanza della previsione di cui all’art. 1313 anche nei rapporti esterni con il creditore, ma senza ulteriore approfondimento, Cass., 28.3.2001, n. 4507, cit.; Cass., 14.7.2006, n. 16125, cit. A proposito delle ipotesi di cui all’art. 1311, cpv., cod. civ., e in particolare di quella di cui al n. 1, per il riferimento all’idea della presunzione di rinuncia, fra le altre, v. Cass., 29.5.1958, n. 1813, in Rep. Foro it., 1958, voce «Obbligazioni e contratti», n. 149; Cass., 12.1.1978, n. 130, in Arch. civ., 1978, 435; Cass., 5.3.1997, n. 1934, cit.; Cass., 4.10.2000, n. 13169, in Dir. ed econ. ass., 2001, 559, e in Resp. civ. e prev., 2002, 170, con nota di Capilli; Cass., 12.7.2001, n. 9424, in Rep. Foro it., 2001, voce «Obbligazioni in genere», n. 50; Cass., 18.5.2006, n. 11749, in Foro it., 2007, I, 184. Nel senso che la semplice accettazione di un pagamento parziale, benché di importo pari alla quota del solvens, non comporta di per sé rinuncia alla solidarietà da parte del creditore, in mancanza degli ulteriori presupposti costituiti dal rilascio di una quietanza per la parte del debitore e dall’assenza di riserva per il residuo, v. Cass., 12.1.1978, n. 130, cit.; Cass., 12.7.2001, n. 9424, cit.; Cass., 18.5.2006, n. 11749, cit.; similmente, App. Bari, 11.11.1948, in Rep. Foro it., 1949, voce «Obbligazioni e contratti», nn. 146, 147; Trib. Palermo, 13.2.1948, ivi, 1948, voce cit., n. 170. In senso diff., v. Trib. Roma, 14.4.2003, reperibile nella banca dati DeJure, nonché, con riguardo alla richiesta di pagamento della quota del singolo debitore, App. Genova, 16.12.1955, in Foro pad., 1956, II, 23 (in massima). Si ammette che la remissione, pur non potendosi NGCC 2015 - Parte prima Obbligazioni in genere presumere, possa risultare in via tacita, esigendosi tuttavia che la relativa volontà emerga «da una serie di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito» (così, fra le tante, Cass., 14.7.2006, n. 16125; similmente, Cass., 18.5.2006, n. 11749, cit.; Cass., 4.10.2000, n. 13169, cit.; Cass., 7.4.1999, n. 3333, in Foro pad., 1999, I, 350). Nel senso che la remissione costituisce eccezione non rilevabile d’ufficio e grava sul debitore che invoca tale fatto estintivo l’onere di allegazione e prova, Cass., 18.5.2006, n. 11749, cit.; e con riferimento alla «rinuncia al credito fatto valere in giudizio», Cass., 10.8.1990, n. 8155, in Rep. Foro it., 1990, voce «Procedimento civile», n. 112. La sentenza Cour d’appel Lyon, 30.11.1989, richiamata nel testo, si legge in Recueil Dalloz Sirey, 1990, Inf. rap., 23. IV. La dottrina Per un inquadramento generale dei temi della remissione e della rinuncia alla solidarietà in favore di un condebitore, v. fra i contributi più recenti, senza pretesa di completezza, G. Rossetti, in G. Rossetti e M. De Cristofaro, Le obbligazioni solidali, nel Trattato di diritto delle obbligazioni, diretto da L. Garofalo e Talamanca, V, Le figure speciali, a cura di S. Patti e Vacca, Cedam, 2010, 803 ss., 849 ss.; Siclari, Delle obbligazioni in solido, in Gorassini-Siclari, Di alcune specie di obbligazioni, nel Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, Esi, 2013, 307; La Porta, Delle obbligazioni in solido, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 2014, sub artt. 1300-1304, 245 ss., e sub artt. 1311-1313, 333 ss.; Dellacasa, sub art. 1301, e Grondona, sub art. 1311-1313, entrambi nel Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, a cura di Cuffaro, artt. 1277-1320. Leggi collegate, Utet, 2013, rispett. 321 ss. e 438 ss. Con riguardo al cod. civ. 1865, v. Melucci, La teoria delle obbligazioni solidali nel diritto civile italiano, Utet, 1884, 113 ss., 163 ss.; Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, vol. I, 7a ed. (rist.), Fratelli Cammelli, 1924, 186 ss. (sulla remissione), 238 ss. (sulla rinuncia alla solidarietà), e Id., Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, vol. VII, 7a ed. (rist.), Fratelli Cammelli, 1924, 435 ss. (sulla remissione). Sulla restituzione volontaria del titolo originale del credito o della copia spedita in forma esecutiva del titolo in forma pubblica, ai sensi dell’art. 1237, commi 1o e 2o, v., fra i tanti, Boero, sub art. 1237, nel Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, a cura di Cuffaro, artt. 541 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento 1218-1276, Utet, 2013, 527 ss.; Romeo, La remissione del debito, in Maffeis-Fondrieschi-Romeo, Le obbligazioni, 4, I modi di estinzione delle obbligazioni, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, Utet, 2012, 104 ss. Per un raffronto dell’art. 1311, comma 1o, cod. civ. con la corrispondente norma del codice previgente (art. 1195), v. Gangi, Le obbligazioni. Concetto – obbligazioni naturali – solidali – divisibili e indivisibili, Giuffrè, 1951, 239 ss., il quale giunge alla conclusione per cui la remissione della solidarietà a favore di un debitore non comporta alcuna decurtazione del vincolo degli altri [come escluso esplicitamente anche dalla Relazione al progetto preliminare del libro delle obbligazioni, n. 56, lett. c); cfr. Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori del codice civile (anni 1939-1941). Progetti preliminari del libro delle obbligazioni, del codice di commercio e del libro del lavoro, vol. I, Istituto Poligrafico dello Stato. Libreria, 1942, 32]. E nel senso che in caso di remissione della solidarietà a favore di uno soltanto dei debitori gli altri restano tenuti in solido per l’intero, v. anche, espressamente, fra i tanti, M. Giorgianni, voce «Obbligazione solidale e parziaria», nel Noviss. Digesto it., XI, Utet, 1965, 683; Rubino, Delle obbligazioni. Obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili. Art. 1285-1320, 2a ed. (rist.), nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1968, 318; Siclari, Delle obbligazioni in solido, cit., 307; La Porta, op. cit., 334 s. Sulle diverse letture dell’art. 1313 cod. civ., v. G. Rossetti, op. cit., 852 ss.; F.D. Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici, Giuffrè, 1974, 230 s., 234 s. In generale, sulla rinuncia alla solidarietà e sulla remissione in favore di un condebitore nel sistema francese, v. Terré-Simler-Lequette, Droit civil. Les obligations, 11e éd., Dalloz, 2013, 1305, 1505 s.; le Tourneau-Julien, «Solidarité», in Rép. civ. Dalloz, 2010, 16, 18 s., 24 s. Il Projet d’ordonnance portant réforme du droit des contrats, du régime général et de la preuve des obligations può consultarsi all’indirizzo internet www. justice.gouv.fr/publication/j21_projet_ord_reforme_ contrats_2015.pdf. Sulla rinuncia alla solidarietà ai sensi dell’art. 1210 cod. civ. fr., v., ex multis, le letture di Delvincourt, Cours de Code Civil, t. II (Notes et explications, 3e éd.), 1834, 510; Duranton, Cours de droit français suivant le Code civil, 4e éd., t. XI, ThorelGuilbert, 1844, 286; Demolombe, Cours de Code Napoléon, XXVI, Traité des contrats ou des obligations conventionnelles en général, t. III, Lahure-Durand et Pedone Lauriel (e altri), 1880, § 464, 399 s.; Larombière, Théorie et pratique des obligations, 542 Obbligazioni in genere nouvelle éd., t. III, Durand et Pedone-Lauriel, 1885, sub art. 1210, n. 7, 481 s.; Marcadé, Explication théorique et pratique du code civil, 8e éd., t. IV, Delamotte, 1892, sub art. 1210, 515 ss.; Rodière, De la solidarité et de l’indivisibilité, Durand, Jougla, Gimet, 1852, §§ 145 s., 106 s.; Colmet de Santerre, in Demante-Colmet de Santerre, Cours analytique de Code civil, 2e éd., t. V, Plon et Cie, 1883, 144 bis III, 234; Laurent, Principes de droit civil français, t. XVII, 5e éd., Bruylant-Christophe et Cie – Marescq, 1893, §§ 344 ss., 346 ss.; Aubry-Rau, Cours de droit civil français d’après la méthode de Zachariæ, 6e éd. par Bartin, t. IV, Éditions techniques, 1942, § 298 ter, 52, nt. 42; Baudry-Lacantinerie-Barde, Delle obbligazioni, II, nel Trattato teorico-pratico di Diritto Civile, trad. it. a cura di Bonfante-Pacchioni-Sraffa, Vallardi, 1915, §§ 1279 ss., 401 ss.; più di recente, Mignot, Les obligations solidaires et les obligations in solidum en droit privé français, Dalloz, 2002, spec. 90 ss., 567 ss.; Hontebeyrie, Le fondement de l’obligation solidaire en droit privé français, Economica, 2004, 156. Sulle ragioni dell’allontanamento, nella redazione dell’art. 1195 cod. civ. 1865, dal corrispondente modello francese dell’art. 1210, cfr. Codice civile, ordinato da Gianzana, III, Verbali della Commissione di Coordinamento, Utet, 1887, 293 s.; e v. altresì Gangi, Le obbligazioni, cit., 240 s., e Id., Remissione del debito solidale e remissione della solidarietà, tip. C. Nava, Siena, 1905, ora in appendice a Le obbligazioni, cit., 354 s. (da cui la citazione). In relazione alle ipotesi di rinuncia alla solidarietà previste dagli artt. 1311, comma 2o, nn. 1 e 2, e 1312 cod. civ. parlano di rinuncia tacita Giaquinto, nel Codice civile. Commentario, diretto da D’Amelio e Finzi, Libro delle obbligazioni, I, Barbèra, 1948, sub artt. 1311-1312, 272, e Scuto, Teoria generale delle obbligazioni con riguardo al nuovo codice civile, pt. I, 3a ed., Treves, 1950, 304 s.; ma più frequentemente si richiama l’idea della rinuncia presunta, sovente con la precisazione che si tratta di presunzioni assolute; cfr. Gangi, Le obbligazioni, cit., 244 ss.; Rubino, op. cit., 322, testo e nt. 2; Amorth, L’obbligazione solidale, Giuffrè, 1959, 102 s.; Longo, Diritto delle obbligazioni, Utet, 1950, 103; M. Giorgianni, op. cit., 683; La Porta, op. cit., 335. Nel senso che si tratti di ipotesi di rinuncia alla stregua di una «valutazione legale tipica», v. Capobianco, Contributo allo studio della quietanza, Esi, 1992, 208; Breccia, Le obbligazioni, nel Trattato Iudica-Zatti, Giuffrè, 1991, 187, e C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Giuffrè, 1993, 750, (il quale afferma che il creditore può, a evitare le conseguenze previste dalle norme in esame, «esplicitare una volontà contraria alla rinuncia»). Sull’ammissibilità, al di fuori dei casi previsti daNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 Personalità (diritti della) gli artt. 1311 e 1312 cod. civ., di una rinuncia tacita, Longo, op. cit., 103; Rubino, op. cit., 322. Influenza decisiva, nella redazione dell’art. 1211 cod. civ. fr., ha esercitato, come è noto, il pensiero di Pothier: cfr. Traité des obligations, Dalloz, 2011, § 277, 114 ss. Sui presupposti di operatività della c.d. presunzione di rinuncia di cui all’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., cfr. le opinioni di Giaquinto, op. cit., 272; Gangi, Le obbligazioni, cit., 245 ss.; Longo, op. cit., 103; Rubino, op. cit., 323 ss.; C.M. Bianca, op. cit., 749. In generale, sul fenomeno delle quietanze c.d. a saldo, v., ex multis, L. Pellegrini, sub art. 1199, nel Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, a cura di Cuffaro, artt. 1173-1217, Utet, 2012, 632 ss.; Granelli, voce «Quietanza», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XVI, Utet, 1997, 162 s., 173 ss.; G. Cian, voce «Pagamento», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XIII, Utet, 1995, 249 s.; Capobianco, op. cit., spec. 55 ss., 167 s.; M. Prosperetti, Adempimento parziale e liberazione del debitore, Jovene, 1980. Secondo La Porta, op. cit., 355, in caso di pagamento parziale accompagnato dalla piena liberazione del solvens, non troverebbe applicazione l’art. 1301 cod. civ., non potendosi ravvisare una remissione parziale da parte del creditore; l’ipotesi andrebbe piuttosto assoggettata alla disciplina dell’adempimento, con conseguente effetto estintivo generale ex art. 1292 cod. civ. Ritiene C.M. Bianca, op. cit., 473, che la remissione debba risultare in modo non equivoco, in ac- cordo con il «principio secondo il quale le rinunzie non si presumono»; similmente, v. P. Stanzione, in P. Stanzione-Sciancalepore, Remissione e rinuzia, Giuffrè, 2003, 223. V. peraltro, in tema di rinuncia, per aperture al ragionamento presuntivo, ma entro limiti rigorosi, A. Bozzi, voce «Rinunzia (diritto pubblico e privato)», nel Noviss. Digesto it., XV, 1968, 1151; Macioce, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, t. I, Parte generale, Esi, 1992, 207; Distaso, Un luogo comune in tema di rinunzia, nota a Cass., 15.5.1948, n. 720, in Giur. compl. Cass. civ., 1948, II, 126 ss. Sui presupposti per affermare la sussistenza di un’idonea dichiarazione del creditore volta a porre in essere una remissione v., con riguardo al sistema tedesco, fra i tanti, Kleinschmidt, Der Verzicht im Schuldrecht. Vertragsprinzip und einseitiges Rechtsgeschäft im deutschen und US-amerikanischen Recht, Mohr Siebeck, 2004, 40 s.; Id., sub § 397, in Historisch-kritischer Kommentar zum BGB, herausgegeben von Schmoeckel, Rückert, Zimmermann, Bd. II/2, Mohr Siebeck, 2007, Rn 21, 2269 s.; per l’esperienza francese, Simler, Contrats et obligations – Remise de dette, in JurisClasseur Civil Code, Art. 1282 à 1288, 2010, nn. 27 s. In prospettiva storica, sul criterio espresso dalle massime «renuntiatio non praesumitur» e dalla connessa «renuntiatio est strictissimae interpretationis», A. Wacke, Donatio non praesumitur. Ein sprichwörtliches Naturrechtsprinzip gegen ein versteinertes Beweislast-Dogma, in Archiv für die civilistische Praxis, 191, 1991, spec. 4. Stefano Balbusso TRIB. MESSINA, 11.11.2014 loro caratteri sessuali primari, ma anche a coloro che senza modificare i caratteri sessuali primari abbiano costruito una diversa identità di genere e si siano limitati ad adeguare in modo significativo l’aspetto corporeo. Personalità (diritti della) - Diritto all’identità sessuale - Identità di genere - Rettificazione di attribuzione di sesso - Trattamento medico-chirurgico - Necessità - Esclusione (l. 14.4.1982, n. 164, art. 1; d. legis. 1o.9.2011, n. 150, art. 31, comma 4o) dal testo: Il diritto all’identità sessuale va pienamente riconosciuto non solo a coloro che, sentendo in modo profondo di appartenere all’altro genere, abbiano modificato i Il fatto. I motivi. Con citazione notificata al Pubblico Ministero in data 28.04.2014, ai sensi dell’art. 31 D. Lgs. 01.09.2011, n. 150, D.D. NGCC 2015 - Parte prima 543 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 nato a Messina il XXX, chiedeva che fosse rettificata con sentenza l’attribuzione di sesso contenuta nell’atto di nascita dell’istante, che fosse ordinato all’ufficiale dello stato civile del Comune di Messina di effettuare la rettificazione nel relativo registro e che fosse assegnato all’istante il prenome S.A. A sostegno della domanda evidenziava che egli era affetto da disturbo di identità di genere, sentendosi appartenere al sesso femminile; che egli aveva da tempo preso coscienza del proprio stato che gli aveva provocato profondo disagio psicofisico, ed aveva accettato la propria diversità; che egli aveva interesse ad ottenere una sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso per potere condurre un’esistenza serena e superare la propria sofferenza esistenziale. Il Giudice Istruttore, all’udienza del 7 ottobre 2014, effettuava l’audizione dell’attore e, udite le conclusioni del procuratore dell’istante, rimetteva la causa al collegio per la decisione, concedendo il termine di venti giorni per il deposito di comparsa conclusionale e disponendo la trasmissione degli atti al P.M. in sede, che in data 15.10.2014 esprimeva il proprio parere. Ritiene il collegio che la domanda vada accolta. La peculiarità del caso consiste nel fatto che l’attore non ha effettuato un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali, ma solamente una terapia ormonale femminilizzante, ed ha chiesto la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri di stato civile da maschile a femminile in quanto la percezione psicologica del sesso da parte dell’istante era sicuramente quella femminile, mentre un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali sarebbe risultato inopportuno e rischioso rispetto al raggiungimento dell’equilibrio nella sua vita sessuoaffettiva. Occorre, pertanto, verificare in primo luogo se la normativa in tema di rettifica di attribuzione di sesso introdotta dalla legge 14.04.1982, n. 164, in parte sostituita dalla disciplina contenuta nell’art. 31 D. Lgs. 01.09.2011, n. 150, consenta l’accoglimento della domanda anche in assenza di un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali. L’art. 1 della legge 14.04.1982, n. 164, stabilisce che “la rettificazione si fa in forza di sen544 Personalità (diritti della) tenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, mentre il menzionato art. 31 D. Lgs. 01.09.2011 n. 150 recita, al 4o comma, “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”. La disciplina, com’è stato giustamente evidenziato, è “fumosa e generica”. Come è noto, il sesso anagrafico viene attribuito al momento della nascita in base a un esame morfologico degli organi genitali. Tale accertamento avviene ai sensi degli artt. 28 e seg. D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), ove viene stabilito che l’atto di nascita riporta “il sesso del bambino”, facendo così coincidere il sesso anagrafico col sesso “biologico”. Tuttavia, se per la maggior parte degli individui tale attribuzione rispecchia fedelmente tutte le componenti sessuali, possono verificarsi ipotesi nelle quali questa coincidenza non sussiste o cessa ed in questi casi in cui la componente psicologica si discosta dal dato biologico, l’attribuzione di sesso si atteggia a pura finzione, essendovi una dissociazione tra il sesso e il genere. In questi casi si parla di transessualismo; infatti, secondo la dottrina medico legale, transessuale è il soggetto che, presentando i caratteri genotipici di un determinato genere sente in modo profondo di appartenere all’altro genere, del quale ha assunto l’aspetto esteriore ed adottato i comportamenti e nel quale, pertanto, vuole essere riconosciuto. Il legislatore non ha disciplinato tutti gli aspetti del transessualismo, ma solo i profili attinenti alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, trascurando tutti gli altri. Anzi sembra che la legge non guardi immediatamente alla realtà del transessualismo, ma si preoccupi della mancata corrispondenza tra il sesso attribuito ad una persona con l’atto di nascita e quello che, a causa di “intervenute modificazioni” possa essere stato riscontrato in una fase successiva, con la finalità di tutelare i terzi rispetto alle intervenute modificazioni sessuali che il soggetto trasporta nelle relazioni sociali. In proposito, appare siNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 gnificativo che l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico va autorizzato dal Tribunale quando “lo ritenga necessario”, sicché il legislatore ha rimesso esclusivamente al Giudice tale valutazione, trascurando di specificare i presupposti e di esaminare le peculiarità della situazione del transessuale, anche se il controllo da parte del giudice sulla necessità del trattamento non può certamente risolversi in una valutazione circa l’opportunità o la convenienza in sé dell’intervento, ma va effettuato in ragione della necessità dell’intervento ai fini dell’adeguamento dei caratteri sessuali. È stata, invero, la Corte costituzionale con l’ordinanza del 24 maggio 1985, n. 161, ad effettuare una lettura “personalistica” della legge n. 164 del 1982 e ad applaudire alla legge stessa come espressione di “una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità”, strumento per la “ricomposizione dell’equilibrio tra soma e psiche” del transessuale. Orbene, il conflitto tra vissuto personale e sociale ed identità esteriore non sempre necessariamente sfocia nella scelta di sottoporsi ad un intervento chirurgico demolitivo e ricostruttivo. Emerge, nondimeno, chiaramente, dalla lettera della legge, che il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso è riconosciuto nei limiti dell’“intervenuta modificazione dei caratteri sessuali”, requisito che la giurisprudenza maggioritaria ha interpretato come necessità dell’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso. Eppure, dalla lettera della legge non si ricava immediatamente quali debbano essere i caratteri sessuali da modificare, potendosi ritenere sufficiente anche una modifica dei caratteri sessuali secondari (che a partire dalla pubertà consentono di distinguere i maschi dalle femmine, come la distribuzione delle masse muscolari e della forza, dell’adipe, dei peli, della laringe e della voce, delle mammelle), per la quale è normalmente sufficiente effettuare delle cure ormonali, e non anche una modifica dei caratteri sessuali primari (ossia gli organi genitali e riproduttivi), che richiede, invece, una operazione chirurgica particolarmente invasiva. Per comprendere in cosa debba consistere la modificazione dei caratteri sessuali occorre muovere dal concetto di identità di NGCC 2015 - Parte prima Personalità (diritti della) genere, la quale è costituita da tre componenti: il corpo, l’autopercezione e il ruolo sociale. Ciò significa che non si può prestare attenzione esclusivamente alla componente biologica, poiché l’apparenza fisica non può essere disgiunta dall’autopercezione e dalla relazione che l’individuo sviluppa con la società e con le sue norme comportamentali concernenti la sfera della sessualità, sicché la soluzione interpretativa che ritiene l’intervento chirurgico come momento essenziale della modificazione dei caratteri sessuali è sotto molti aspetti riduttiva, non considerando gli aspetti psichici e comportamentali. D’altronde, il legislatore specifica che “l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico” va effettuato “quando risulta necessario” e tale espressione può essere ritenuta come l’indice normativo della mera “eventualità” dell’intervento chirurgico, mentre nella visione tradizionale è stata interpretata nel senso “quando l’intervento non sia già stato effettuato”. Infine, va osservato che l’utilizzazione del termine “adeguamento” sembra stare a significare che non occorre una modifica di tutti i caratteri sessuali, potendo ritenersi sufficiente una evoluzione incompleta o imperfetta dei caratteri e della stessa identità sessuale risultante dalla loro considerazione unitaria, purché venga realizzato un significativo avvicinamento dell’identità del richiedente a quella tipica del nuovo sesso. Al riguardo si è, d’altra parte, constatato come una totale coincidenza non sia spesso realizzabile ed è per tale motivo che la legge fa riferimento alla circostanza che i caratteri della persona devono presentare solo una certa corrispondenza con quelli propri dell’identità affermata. La lettera della legge consente, pertanto, una ermeneusi del dettato normativo diversa da quella tradizionale secondo la quale l’effettuazione dell’intervento chirurgico dovrebbe rappresentare il passaggio obbligato per realizzare l’auspicata corrispondenza tra corpo e psiche. Non vi è dubbio che nel 1982, la realtà con la quale si è misurato il legislatore era quella delle persone transessuali biologicamente solo di sesso maschile, che avevano fatto ricorso all’operazione chirurgica per modificare i loro caratteri sessuali primari, ed i primi interpreti 545 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 della legge sono stati certamente condizionati da tale presupposto culturale, ma il fenomeno del transessualismo nella società contemporanea è profondamente mutato, poiché vi sono persone transessuali biologicamente di sesso maschile ed altre biologicamente di sesso femminile; inoltre, con l’ausilio delle terapie ormonali e della chirurgia estetica, la fissazione della propria identità di genere spesso prescinde temporaneamente o definitivamente dalla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari e si è spesso utilizzato il termine “transgenderismo”, per distinguere tale fenomeno dal “transessualismo” tradizionale. Occorre, allora, verificare se l’interpretazione tradizionale risponda ad una qualche esigenza prevalente rispetto a quella sottesa alla diversa interpretazione, maggiormente coerente con la realtà contemporanea del transessualismo, per la quale la rettificazione di sesso prescinde dall’esecuzione di un intervento chirurgico demolitivo ricostruttivo. Si deve premettere che, tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona umana, l’art. 2 della Costituzione riconosce e garantisce anche il diritto all’identità personale, quale espressione della dignità del soggetto e del suo diritto ad essere riconosciuto nell’ambito sociale di riferimento per quello che si è (Corte Cost. 03.02.1994 n. 13). La Corte Costituzionale ha, poi, specificato che nel concetto di identità personale deve farsi rientrare anche il concetto di identità sessuale, ricostruibile non solo sulla base della natura degli organi riproduttivi esterni bensì anche sulla base di elementi di ordine psicologico e sociale (Corte Cost. 24.05.1985 n. 161). A prescindere dalla disputa dogmatica se la dignità umana sia un diritto o un valore, tutelare la dignità significa, infatti, rispettare l’insieme di valori di cui l’individuo è portatore e consentire all’individuo di viverli nella quotidianità con la massima libertà. Sennonché, non sussiste un concetto fisso ed immutabile di dignità umana, poiché tale concetto sintetizza sul piano giuridico il livello di sensibilità espresso dalla società ed il rispetto dovuto alla persona secondo le esigenze ed i valori avvertiti in un determinato tempo. Il concetto di dignità umana svolge, allora, un ruolo insostituibile quale criterio interpretativo evolutivo delle 546 Personalità (diritti della) norme che definiscono l’oggetto dei diritti individuali e di quelle che individuano gli strumenti giuridici per assicurarne effettività, evitando il rischio di cristallizzazioni ermeneutiche. Nel caso in esame il diritto all’identità sessuale va, allora, pienamente riconosciuto non solo a coloro che, sentendo in modo profondo di appartenere all’altro genere, abbiano modificato i loro caratteri sessuali primari, ma anche a coloro che senza modificare i caratteri sessuali primari abbiano costruito una diversa identità di genere e si siano limitati ad adeguare in modo significativo l’aspetto corporeo. Una notevole spinta a tale evoluzione viene data non solo dalla attuale percezione sociale del fenomeno, ma anche dalla giurisprudenza delle Corti Europee. Già nel 1996 la Corte di Giustizia della Comunità europea aveva ritenuto che il tollerare discriminazioni nei confronti dei transessuali equivarrebbe “a porre in non cale il rispetto della dignità e della libertà che la Corte deve tutelare” (Corte Giustizia Comunità Europee, 30 aprile 1996, in causa C-13/14), un orientamento che ha trovato ulteriore conferma in altra e successiva sentenza della medesima Corte (Corte Giustizia Comunità Europee, Sez. I, 27 aprile 2006). La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella nota sentenza Goodwin c. Regno Unito n. 28957/95 dell’11 luglio 2002, modificando il proprio precedente indirizzo, ritenne violati sia l’art. 8 (diritto alla vita privata e familiare) sia l’art. 12 (diritto al matrimonio) nel caso di una transessuale alla quale era stato negato sia il diritto al pensionamento nell’età in cui era garantito alle donne, in quanto nata uomo, sia il diritto di sposarsi. In detta sentenza la Corte ha sottolineato che non ha senso difendere ad oltranza l’elemento cromosomico, sostenendo che non può riconoscersi l’avvenuto mutamento dei caratteri sessuali perché in ogni caso la persona conserverebbe il cromosoma maschile; questa interpretazione mette nell’ombra tutti gli altri elementi della sessualità umana, che possono invece essere modificati a beneficio del benessere psicologico delle persone transessuali. Inoltre, nella risoluzione del 29 aprile 2010 l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha richiesto agli Stati membri di introdurre normative apposite sul cambiamento di sesso anagrafico, evitando di NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento sottoporre le relative richieste alla condizione del trattamento medico o dell’operazione chirurgica. La necessità di un intervento chirurgico è stata talvolta giustificata sulla base del rilievo che, in mancanza di un intervento chirurgico demolitore che privi il soggetto della capacità di procreare, il processo di adeguamento dei caratteri esteriori a quello dell’altro genere potrebbe essere reversibile. Tuttavia, tale argomentazione non è convincente, poiché in tal modo viene effettuato un bilanciamento tra due interessi erroneamente posti sullo stesso piano: da un lato, l’interesse collettivo a una corrispondenza tra il corpo e il sesso anagrafico e, dall’altro lato, il diritto alla identità personale, così bilanciando, in assenza di una rigorosa indicazione legislativa, un diritto fondamentale della persona con un interesse collettivo privo di copertura costituzionale. D’altronde, se è vero che l’identità di genere sotto il profilo relazionale può essere considerata un aspetto costitutivo dell’identità personale, la sua esplicazione risulterebbe ingiustificatamente compressa ove la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali divenisse presupposto indefettibile della rettificazione degli atti anagrafici, specie quando la modificazione chirurgica possa risolversi in un danno alla salute fisica o psicologica del soggetto, costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 32 Cost. Non vi sono, infatti, interessi superiori da tutelare, non potendosi considerare tali né la certezza delle relazioni giuridiche, che comunque sarebbe salvaguardata dalle risultanze anagrafiche, né la necessaria diversità sessuale delle relazioni famigliari, dal momento che la diversità di sesso non è più considerata dalla Carta di Nizza né dalla Corte europea dei diritti umani un presupposto naturalistico del negozio matrimoniale, come riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale nella recente sentenza 18.06.2014 n. 170. Riconosciuta la possibilità di accogliere la domanda di rettificazione di sesso anche in assenza di un intervento chirurgico demolitivo dei caratteri sessuali primari, va osservato che nel caso in esame il D.D. si è sottoposto a terapia ormonale femminilizzante dal 09.04.2014, e ciò, come riferito dal Dirigente medico psichiatra del D.S.M. di Messina Sud nella nota NGCC 2015 - Parte prima Personalità (diritti della) datata 25.10.2014, ha già consentito il raggiungimento di un assetto dei caratteri secondari e dei valori ormonali compatibili con un aspetto ed un quadro ormonale femminile, come peraltro riscontrato dal Giudice Istruttore in sede di audizione, sicché si può considerare realizzato quell’adeguamento dell’aspetto fisico necessario per ritenere sussistente una modificazione dei caratteri sessuali. Inoltre il D.D. appare aver raggiunto un sufficiente equilibrio psicofisico ed una soddisfacente accettazione della propria condizione mantenendo con continuità la motivazione a raggiungere e mantenere un aspetto femminile, sicché anche sotto il profilo psicologico sussistono tutti gli elementi per ritenere che sia stata raggiunta la necessaria modificazione dei caratteri sessuali. Infine, va osservato che, come sottolineato nella menzionata nota del 25.10.2014, il trattamento chirurgico appare in atto non solo non necessario ma addirittura sconsigliabile in quanto potrebbe compromettere il mantenimento del suddetto equilibrio. Occorre, pertanto, ordinare all’ufficiale dello stato civile la chiesta rettificazione dell’attribuzione di sesso nel relativo registro dello Stato Civile; inoltre, conformemente alla richiesta avanzata dalla ricorrente, va rettificato anche il prenome da “D.” in “S.A.”. Tenuto conto della natura della causa, le spese processuali vanno compensate. (Omisssis) [Bonanzinga Presidente ed Estensore. – D.D. (avv. Tommasini)] Nota di commento: «Favorire l’emersione dell’identità sessuale per tutelare la dignità umana nella sua unicità» I. Il caso In data 28.4.2014, un uomo chiede, con atto di citazione notificato al p.m., la rettificazione del sesso, da maschile a femminile, nei registri di stato civile, avendo da tempo preso coscienza della propria diversità. L’attore, tuttavia, non aveva compiuto alcun intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali, ma solamente una terapia ormonale femminilizzante, poiché un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali sarebbe stato (a parer del Di547 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento rigente medico psichiatra) non solo «non necessario» ma «addirittura sconsigliabile» per il raggiungimento e per il mantenimento dell’equilibrio sessuoaffettivo del paziente. Secondo la disposizione normativa di cui alla l. 14.4.1982, n. 164, il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso è riconosciuto a seguito «di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali» (art. 1): questo requisito è stato interpretato dalla giurisprudenza maggioritaria come necessità dell’intervento chirurgico al fine di ottenere una rettificazione anche anagrafica. Il Tribunale di Messina, con la sentenza in commento, rileva che dalla lettera della legge non si ricava immediatamente quali debbano essere i caratteri sessuali da modificare, «potendosi ritenere sufficiente anche una modifica dei caratteri sessuali secondari (...), per la quale è normalmente sufficiente effettuare delle cure ormonali, e non anche una modifica dei caratteri sessuali primari (ossia gli organi genitali e riproduttivi), che richiede, invece, una operazione chirurgica particolarmente invasiva». Dunque, sulla base di questo ragionamento che demanda al giudice la valutazione sulla necessità o meno del ricorso all’intervento chirurgico, il Tribunale di Messina ha concesso con sentenza la rettificazione di sesso all’interessato che aveva modificato i caratteri sessuali secondari e non anche quelli primari. II. La questione La sentenza in commento muove dall’art. 1 l. 14.4.1982, n. 164, poiché, seguendo un’interpretazione restrittiva, l’intervento medico-chirurgico è necessario per ottenere la rettificazione anagrafica del sesso richiesto; viceversa, una diversa interpretazione demanda alla discrezionalità del giudice la necessità o meno dell’intervento chirurgico demolitorio-ricostruttivo. In particolare, la giurisprudenza mostra di ritenere l’intervento non più «condicio sine qua non» ai fini della rettificazione anagrafica del sesso, specialmente laddove l’interessato esprima una volontà contraria alla sottoposizione a trattamenti clinici talmente invasivi, oltre che molto pericolosi per la sua salute. In questa posizione si colloca la sentenza del Tribunale di Messina, la quale, innanzitutto, considera la diversa realtà storica del legislatore del 1982, rispetto a quello odierno; difatti, oggi, il fenomeno del transessualismo assume connotati diversi, anche perché, attraverso l’ausilio delle terapie ormonali e della chirurgia estetica, «la fissazione della propria identità di genere spesso prescinde temporaneamente o definitivamente dalla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari». La questione è stata rimessa dal Trib. Trento, ord. 20.8.2014, infra, sez. III, alla Corte costituzio548 Personalità (diritti della) nale, dato il contraddittorio panorama giurisprudenziale che attenta alla certezza del diritto in un delicato settore, poiché discrimina la condizione del transessuale a seconda del luogo di residenza. A parer dei giudici messinesi, il legislatore, trascurando di specificare in modo esaustivo le peculiarità della situazione del transessuale, ha rimesso al giudice la valutazione sulla necessità o meno dell’operazione chirurgica considerando il caso concreto, senza ledere la dignità umana, da non soffocare o imbrigliare in cliché preconfezionati, a salvaguardia di un astratto ordine pubblico. Ciò mostra il superamento del momento strutturale, a favore della funzione dello status che il soggetto desidera che la collettività gli riconosca, nella stessa maniera in cui lui stesso avverte di essere: in altri termini, lo status si pone «al servizio di valori collocati al vertice della scala gerarchica: persona e libertà» (Mazzù, Riflessioni sullo status, 53, infra, sez. IV). Il dato fondamentale non è più il sesso biologico o anagrafico, ma il genere, che si può definire quale «variabile socio-culturale», vale a dire «qualità della persona in base alla quale della stessa si può dire che è maschile o femminile»: il genere può discostarsi dal sesso biologico e cambiare col tempo in varie declinazioni e direzioni (Trib. Trento, ord. 20.8.2014, infra, sez. III). Dunque, imporre un determinato trattamento medico, anche rischioso per la salute umana, costituisce una limitazione al riconoscimento dell’identità di genere che sia la Costituzione, all’art. 2, che la Conv. eur. dir. uomo, all’art. 8, riconoscono e tutelano. Ciò significa che ogni persona ha il diritto di scegliere la propria identità sessuale, a prescindere dal dato biologico di appartenenza, senza subordinare l’esercizio di tale diritto a dolorosi e pericolosi interventi chirurgici non voluti. La «necessità» dell’intervento chirurgico dovrebbe essere valutata tenendo conto unicamente della volontà della persona, mentre il presupposto delle «intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali» dovrebbe essere soddisfatto a seguito di trattamento ormonale, peraltro non esente da rischi per la salute e, pertanto, difficilmente conciliabile, se obbligatorio, con i principi costituzionali che tutelano la persona (Patti, 46, infra, sez. IV). Il concetto di «dignità umana», non è predeterminabile a priori, non è statico, ma svolge un ruolo di bussola dinamica nella galassia antropologica dei rapporti umani, specialmente quando una persona «debole» desidera fa emergere la propria identità, senza alcun compromesso, senza doverla schematizzare in una formula tipica, prevista ed «accettata» dall’ordinamento, che non rispecchia la propria identità sessuale; senza subordinare l’esercizio di un diritto a invasivi e pericolosi trattamenti sanitari che contrastano con l’art. 32 Cost., finendo per consuNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento mare un atto di violenza sul corpo della persona che si trova costretta a subirli. In tal senso, la decisione del Tribunale di Messina focalizza il ragionamento sul rispetto della dignità dell’individuo di vivere i propri valori «nella quotidianità con la massima libertà», esprimendo il concetto di dignità umana (inteso in una dimensione dinamica e non immutabile) «il livello di sensibilità espresso dalla società ed il rispetto dovuto alla persona secondo le esigenze ed i valori avvertiti in un determinato tempo». Non occorre obbligare la persona a ricercare «lidi sicuri per l’approdo dell’esistenza, utilizzando lo steccato invisibile ma insuperabile delle «appartenenze», per resistere alle invasioni dei diversi» (Mazzù, L’identità, 36, infra, sez. IV). Il diritto all’identità personale, rientrando tra i diritti inviolabili dell’uomo, ex art. 2 Cost., costituisce una «formula riassuntiva di tutte le manifestazioni e qualità dell’individuo, che ne specificano la personalità, rendendola un unicum» (Mazzù, Profili civilistici, 165, infra, sez. IV). A presidio di valori assoluti come la «dignità», la «identità», la «solidarietà» si giustifica un’evoluzione incompleta dei caratteri sessuali per realizzare «un significativo avvicinamento dell’identità del richiedente a quella tipica del nuovo sesso», senza dover, per ciò stesso, obbligare l’interessato a subire una modificazione chirurgica che potrebbe, altresì, risolversi in un danno alla sua salute fisica o psicologica, o potrebbe privare il soggetto della capacità di procreare. La diversità di sesso non è più considerata dalla Carta di Nizza né dalla Conv. eur. dir. uomo un presupposto naturalistico del negozio matrimoniale, come confermato nella recente sentenza della Corte cost., 18.6.2014, n. 170 (infra, sez. III). Senza trascurare che il cambiamento di sesso, anche se meramente anagrafico, influisce su diversi piani applicativi della realtà umana, che variano a seconda del nome (femminile o maschile) che rappresenta la persona in quel determinato momento: si pensi alla successione testamentaria, al sistema pensionistico, alla trascrizione immobiliare. Questa riflessione mostra come il legislatore si trovi a dover regolare interessi nuovi, relazioni personali o familiari che si emancipano dalle regole positive facendo emergere formule di status volte all’accesso, in una dimensione dove la «funzione» mette in ombra la struttura dei modelli tradizionali, nel primato della terza dimensione teleologica o funzionale. In questo cammino lo Stato non può costringere una persona a subire un trattamento sanitario per avere un diritto che la l. n. 184/1982, già riconosce alla persona che decide di modificare il proprio genere. Proprio per questo non deve essere espropriata della propria dignità per un’imposizione NGCC 2015 - Parte prima Personalità (diritti della) statale, che allo stato dell’arte realizza una discriminazione inaccettabile e vietata in tutti i gradi di legalità, tra cui, al vertice, l’art. 14 Conv. eur. dir. uomo. In questa direzione si muove la sentenza del Tribunale di Messina, in un cammino volto al pieno riconoscimento della natura di diritto soggettivo dell’identità di genere, la quale deve essere rispettata in ogni individuo, costituendo il minimo comune denominatore capace di spezzare la catena culturale della diversità. In quest’itinerario di sviluppo culturale, la sentenza dei giudici messinesi è stata seguita da una importante pronuncia della Corte eur. dir. uomo, 10.3.2015, Affaire YY c. Turquie, infra, sez. III, che riconosce il diritto alla modifica dei dati anagrafici del transessuale, indipendentemente dalla sottomissione della persona ad un intervento chirurgico, in quanto una persona non può essere sottoposta a subire una sterilizzazione forzata. In questo contesto, è lecito pensare che la decisione della Corte costituzionale si muoverà in questo senso. III. I precedenti La problematica è stata affrontata dalla giurisprudenza in diverse occasioni, considerato che «i diritti della personalità (...) non possono comprimere l’esigenza fondamentale della persona umana alla propria identità sessuale, che è un aspetto ed un fattore di svolgimento della personalità» (Corte cost., 24.5.1985, n. 161, in Giur. cost., 1985, I, 1173). Con la sentenza 11.7.2002, ric. 28957/95, Goodwin c. Regno Unito, in www.personaedirittiumani.com, la Corte di Strasburgo tutela il diritto all’identità personale dei transessuali con riferimento ai profili della loro vita di relazione. Parte della giurisprudenza di merito è contraria ad una rettificazione di attribuzione di sesso senza previo intervento chirurgico. Tra le pronunce, Trib. Roma, 18.7.2014, in DeJure, Trib. Brescia, 15.10.2004, in Fam. e dir., 2005, 527, e Trib. Vercelli, 12.12.2014, in DeJure, che si pone in netto contrasto con la pronuncia del Tribunale di Messina, negando ad una persona transessuale, che non si era sottoposta all’intervento medico-chirurgico, la rettificazione anagrafica, considerata la «indefettibilità dell’intervento chirurgico». Alla stessa conclusione era giunto il tribunale romano ritenendo «l’avvenuta modificazione della struttura anatomica del soggetto con eliminazione quanto meno degli organi riproduttivi» «presupposto applicativo» per la rettificazione sessuale. La motivazione del Tribunale di Vercelli pone l’accento sul ridotto potere del giudice, il quale non può forzare la legge che subordina la concessione della rettificazione di attribuzione di sesso al superamento di un intervento chirurgico demoli549 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento torio-ricostruttivo. Difatti, secondo l’interpretazione dei giudici vercellesi, ciò si deduce «de jure condito» ed in mancanza di una rimeditazione legislativa della questione volta ad uniformare la normativa interna a quella degli Stati europei, alla luce della presumibile intenzione del legislatore, che, se avesse voluto fare propria la distinzione concettuale medicoanatomica tra caratteri sessuali primari e secondari, avrebbe potuto farlo espressamente, oltretutto chiarendo la modificazione di quali e di quanti caratteri sessuali secondari, e con quale grado di profondità, sarebbe stata sufficiente ad ottenere la rettificazione. Il Trib. Trento, ord. 20.8.2014, in www.gazzetta ufficiale.it, ha sottoposto al vaglio della Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1o, l. 14.4.1982, n. 164, nella parte in cui subordina la rettificazione di attribuzione di sesso alla intervenuta modificazione dei caratteri sessuali della persona istante, con riferimento ai parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 32 e 117, comma 1o, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 Conv. eur. dir. uomo. L’ampiezza della formulazione normativa, infatti, ha portato parte della giurisprudenza di merito ad autorizzare una rettificazione anagrafica, pur in assenza d’intervento demolitorio-ricostruttivo dei caratteri propri del nuovo sesso (Trib. Roma, 18.10.1997, in Dir. fam. e pers., 1998, 1033; Trib. Roma, 11.3.2011, in questa Rivista, 2012, I, 243; Trib. Rovereto, 3.5.2013, in questa Rivista, 2013, I, 1116; Trib. Siena, 12.6.2013, in www.intersexioni. it), essendo sufficiente una terapia ormonale. Secondo altra giurisprudenza di merito, invece, è sufficiente la perdita della capacità procreativa propria del sesso originario: Trib. Pavia, 26.2.2006, in Foro it., 2006, I, 1596. Superando il binarismo di genere, la Corte suprema indiana, con la decisione del 15.4.2014, in www.ilsecoloxix.it, garantisce alle persone che non si riconoscono né nel genere maschile né nel genere femminile il riconoscimento legale come «terzo genere», poiché «ogni essere umano ha il diritto di scegliere di che genere sessuale è». Corte cost. 18.6.2014, n. 170, in DeJure, tutela il rapporto di coppia del transessuale. Tra le sentenze della Corte di Strasburgo, volte a fornire protezione al transessuale, ai sensi dell’art. 8 Conv. eur. dir. uomo, v. Corte eur. dir. uomo, 10.3.2015, Affaire YY c. Turquie, in www.hudoc. echr.coe.int. 550 Personalità (diritti della) IV. La dottrina Per una disamina della l. 14.4.1982, n. 164, al tempo dell’emanazione, si rinvia: al Commento di Patti-Will, in Nuove leggi civ. comm., 1983, 35 ss.; a Bessone-Ferrando, voce «Persona fisica», in Enc. dir., XXXIII, Giuffrè, 1983, 193 ss.; Stanzione, Transessualismo e sensibilità del giurista. Una rilettura attuale della l. n. 164/1982, in Riv. pers. e fam., 2009, 713 ss. In tema di rettificazione di attribuzione di sesso: D’Addino Serravalle-Perlingieri-Stanzione, Problemi giuridici del transessualismo, Esi, 1981; Tommasini, L’identità del soggetto tra apparenza e realtà: aspetti di una ulteriore ipotesi di tutela della persona, in Scritti in memoria di Lorenzo Campagna, Giuffrè, 1981; Dogliotti, Identità personale, mutamento del sesso e principi costituzionali, in Giur. it., 1981, 27 ss.; Mazzù, Profili civilistici della legislazione dell’emergenza, in Id., La soggettività contrattata, Giuffrè, 2005, 165; Veronesi, Cambiamento di sesso tra (previa) autorizzazione e giudizio di rettifica, in Fam. e dir., 2005, 528 ss.; Patti, Rettificazione di sesso e intervento chirurgico, in Fam. pers. e succ., 2007, 25 ss.; Mazzù, L’identità come stella polare nella traversata del deserto dal non essere all’essere, in L’Arco di Giano, 2007, fasc. 53, 36; Venturelli, Volontarietà e terapeuticità nel mutamento dell’identità sessuale, in Rass. dir. civ., 2008, 732 ss.; Palazzani, Identità di genere come problema biogiuridico, in Iustitia, 2011, 157 ss.; Aa.Vv., Identità sessuale e identità di genere, Atti del convegno nazionale dell’U.G.C.I., Palermo, 9-11.12.2010, a cura di D’Agostino, in Quaderni di Iustitia, fasc. 6, Giuffrè, 2012; Trimarchi, L’attribuzione di una nuova identità sessuale in mancanza di intervento chirurgico, in Fam. e dir., 2012, 184 ss.; Lorenzetti, Diritti in transito, La condizione giuridica delle persone transessuali, FrancoAngeli, 2013; Patti, Mutamento di sesso e «costringimento al bisturi»: il Tribunale di Roma e il contesto europeo, in questa Rivista, 2015, II, 39 ss. Sulla mutazione genetica dello «status» emendato da pregiudizi ideologici e storici, riconducibili alla sua originaria funzione selettiva, e costruito in una funzione nuova di natura promozionale, conforme allo spirito ed alle esigenze del tempo, Mazzù, Riflessioni sullo status tra passato e futuro, in Id., Il diritto civile all’alba del terzo millennio, Famiglia – Successioni – Contratto – Patrimoni separati, I, Giappichelli, 2011, 53. Aurora Vesto NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 TRIB. GENOVA, ord. 5.11.2014 Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza civile di primo grado - Principio generale della provvisoria esecutività ex art. 282 cod. proc. civ. - Eccezioni giurisprudenziali relative alle sentenze costitutive e dichiarative - Interpretazione restrittiva (cod. proc. civ., art. 282; cod. civ., artt. 2907, 2908, 2909, 2932) (a) Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza costitutiva - Accertamento costitutivo dell’effetto risolutorio contrattuale - Capo accessorio di condanna alla restituzione della caparra - Rapporto di mera dipendenza dall’effetto costitutivo - Provvisoria esecutività - Sussistenza (cod. proc. civ., artt. 91, 282) (b) (a) Il principio generale di cui all’art. 282 cod. proc. civ., secondo cui «la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti», impone un’interpretazione restrittiva delle eventuali eccezioni, quale è quella – di origine giurisprudenziale – relativa alle sentenze costitutive e dichiarative. (b) Il nesso tra la condanna alla restituzione della caparra e l’accertamento costitutivo della risoluzione contrattuale si presenta come di mera dipendenza e non, invece, di sinallagmaticità, con la conseguenza che il capo condannatorio accessorio alla pronuncia costitutiva deve ritenersi immediatamente esecutivo. dal testo: Il fatto. I motivi. (Omissis) ritenuto: (Omissis) – che nel merito l’opponente fonda il proprio assunto sull’assenza di esecutività del capo della sentenza non definitiva (costituente il titolo esecutivo indicato in precetto) con cui lo stesso opponente veniva condannato alla restituzione delNGCC 2015 - Parte prima Sentenza, ordinanza e decreto la caparra, in conseguenza della risoluzione contrattuale dichiarata in quella sede; – che l’assunto non ha pregio; – che è nota la statuizione della S.C. a Sezioni unite (n. 4059 del 2010) secondo cui – in un caso di sentenza emessa ex art. 2932 c.c. – “l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per cui è da escludere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si verificherebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare – di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà”; – che malgrado il citato arresto sia applicabile – per espressa precisazione della Corte – ai soli casi di sentenza ex art. 2932 cc e non già a tutte le sentenze costitutive (Omissis), si ritiene che la stessa possa essere d’ausilio alla presente decisione; – che infatti la S.C. – al fine di evitare la paventata alterazione del sinallagma – ha statuito che “la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto volta a volta a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto accessivo condannatorio da anticipare e l’effetto costitutivo producibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece sono a tale effetto legate da un vero e proprio nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta ‘corrispettiva’ del nuovo rapporto oggetto della domanda costitutiva”; – che in questa sede occorre quindi verificare se la condanna alla restituzione della caparra (e di cui al precetto qui opposto) si presenti in mero rapporto di dipendenza dalla dichiarazione di risoluzione contrattuale ovvero in rapporto di stretta sinallagmaticità con la medesima; che deve concludersi in senso favorevole alla prima opzione, con conseguente riconoscimento della provvisoria esecutività della pronuncia di condanna di cui al precetto; che infatti a tal riguardo va osservato che la successiva giurisprudenza della S.C. ha fatto piena applicazio551 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento ne del citato arresto delle SS. UU., statuendo che “L’anticipazione in via provvisoria, ai fini esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni condannatorie contenute in sentenze costitutive, (...) è invece consentita quando la statuizione condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito alla restituzione delle somme di denaro ricevute da un istituto di credito a seguito di atti solutori dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge fall.)” (Cassazione civile sez. I 29 luglio 2011 n. 16737, in Giust. civ. Mass. 2011, 9, 1229); – che la motivazione di detto arresto è perspicua: “il nesso tra la statuizione condannatoria e l’accertamento costitutivo si presenta come di mera dipendenza: la condanna alla restituzione delle somme ricevute con gli atti solutori dichiarati inefficaci – non diversamente, ad esempio, da quella alla restituzione del bene locato conseguente alla risoluzione del contratto di locazione – dipende dall’accertamento circa la sussistenza, o non, del titolo in base al quale tali somme sono state acquisite, ma non è in un rapporto di stretta sinallagmaticità tra i due capi, quale quello sopra descritto. Ne deriva di necessità la conclusione che la anticipazione degli effetti esecutivi di tale capo condannatorio – cioè l’adeguamento della realtà materiale al decisum – non è nella specie incompatibile con la produzione dell’effetto costitutivo al momento successivo del passaggio in giudicato”; – che pare evidente la piena sovrapponibilità tra l’ipotesi di condanna alla restituzione di somme per effetto dell’accoglimento della domanda revocatoria ex art. 67 LF (caso di cui alla citata Cass. 2011 n. 16737) e l’odierna fattispecie di condanna alla restituzione di caparra per effetto della risoluzione contrattuale; – che quindi – utilizzando le espressioni linguistiche delle SS. UU. – la condanna alla restituzione della caparra è sì statuizione condannatoria dipendente dall’effetto costitutivo della pronuncia di risoluzione, ma non configura un vero e proprio nesso sinallagmatico con quest’ultima; – che in particolare il rapporto tra condanna alla restituzione di caparra e la pronuncia di risoluzione è di natura meramente logica e pro552 Sentenza, ordinanza e decreto cessuale (nel senso che la restituzione della caparra trova la causa nella dichiarata risoluzione del contratto) ma non configura di per sé il sinallagma contrattuale del contratto di vendita, come diversamente si registra tra trasferimento di proprietà e pagamento del prezzo; – che in tal senso è orientato anche il Tribunale di Como in controversia analoga alla presente causa (ord. 22.5.2013, in Giur. it., 2014, 330, est. Nardecchia); – che l’assenza di fumus boni iuris rende superflua ogni valutazione sul periculum in mora; che quindi non sussistono i gravi motivi per la sospensione dell’esecutività del titolo esecutivo; – che da ultimo va osservato che l’inequivoco enunciato del principio generale dell’art. 282 c.p.c. (“La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”) impone un’interpretazione restrittiva delle eventuali eccezioni, quale è quella – di origine giurisprudenziale – relativa alle sentenze costitutive e dichiarative; (Omissis); P.Q.M. 1 - respinge l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo di cui al precetto qui opposto e per l’effetto revoca la sospensione di cui al decreto; 2 - rimette le parti per il merito all’udienza di cui all’atto introduttivo. (Omissis) [Bianchi G. Un.] Nota di commento: «La provvisoria esecutività delle pronunce costitutive di mero accertamento: un obiettivo o un mito da sfatare?» [,] I. Il caso La vicenda oggetto di queste considerazioni trae origine da un procedimento di opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ., nel contesto del quale l’opponente chiedeva la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo con cui era stato condannato alla restituzione della caparra, sul presupposto che la sentenza azionata, avendo ad oggetto la risoluzione del contratto, ha natura costitutiva e non è pertanto provvisoriamente esecutiva. [,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento Nel caso in esame il Giudice, ritenendo che il rapporto sussistente tra la condanna alla restituzione della caparra e la pronuncia di risoluzione del contratto non sia di natura sinallagmatica bensì meramente logica e processuale, ha rigettato la domanda di sospensione dell’efficacia esecutiva, riconoscendo l’anticipazione in via provvisoria dell’effetto discendente da una statuizione condannatoria – quale quella alla restituzione della caparra versata in forza di un valido contratto – contenuto in una sentenza costitutiva. La questione sottoposta all’esame del Tribunale di Genova ripropone l’annoso tema, dibattuto in dottrina e giurisprudenza ancor prima della riforma del 1990, relativo all’ambito di applicazione oggettivo dell’art. 282 cod. proc. civ. Gli interrogativi che questo tema pone sono, da un lato, se l’esecutività provvisoria riguarda solo le sentenze di condanna e, dall’altro lato, se i capi condannatori accessori ad una sentenza costitutiva o ad una sentenza dichiarativa possano ritenersi esecutivi prima del passaggio in giudicato della sentenza cui accedono. II. Le questioni 1. L’esecuzione provvisoria in relazione alle diverse tipologie di sentenze. Nella versione originaria del codice di rito del 1942, la sentenza di primo grado non aveva efficacia esecutiva sin tanto che non fosse passata in giudicato; era tuttavia prevista la facoltà per il giudice, su istanza di parte, di munire la sentenza della «clausola» di provvisoria esecuzione, eventualmente subordinata a cauzione, qualora la domanda fosse fondata su atto pubblico, scrittura privata riconosciuta o sentenza passata in giudicato, oppure sussistesse un pericolo nel ritardo o, ancora, nel caso di sentenze di condanna al pagamento di provvisionali o a prestazioni alimentari. L’art. 282 cod. proc. civ., come modificato dalla l. 26.11.1990, n. 353 prevede che «la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti». Il nodo interpretativo da dipanare concerne il «limite oggettivo» della provvisoria esecutività, ossia se la stessa vada riferita alle sole sentenze di condanna o a tutti i tipi di pronunce giudiziali. Sotto questo profilo, infatti, il testo dell’art. 282 cod. proc. civ. riformato appare lacunoso, riferendosi in generale alla sentenza di primo grado. Con riferimento alle sentenze di mero accertamento, il dibattito in merito alla provvisoria esecutività appare meno pregnante, alla luce del fatto che, da un lato, tali pronunce si limitano a creare certezza e la certezza, per essere tale, presuppone che la sentenza abbia acquisito quel grado di stabilità tipico del giudicato (Chiovenda, Istituzioni, 204 s., inNGCC 2015 - Parte prima Sentenza, ordinanza e decreto fra, sez. IV, che esclude la provvisoria esecutorietà in quanto la sentenza di mero accertamento «non tende per sé all’esecuzione, né d’altra parte la certezza può essere provvisoria») e, dall’altro lato, non richiedono un’attività estrinseca di attuazione o esecuzione o, comunque, di adeguamento della realtà al decisum. Diversamente il tema in questione pone maggiori profili di criticità con riferimento alle sentenze costitutive. Da una parte vi è chi, aderendo alla tesi tradizionale, ritiene debba limitarsi la provvisoria esecutività alle sole sentenze di condanna sulla base delle seguenti motivazioni: (i) solo le sentenze di condanna possono costituire titoli esecutivi, in virtù delle necessaria correlazione tra esecuzione forzata e tali tipi di sentenze (Mandrioli, Sulla correlazione, 134 s., infra, sez. IV); ciò sarebbe altresì confermato dall’art. 283 cod. proc. civ. che, nel disciplinare la sospensione dell’esecuzione provvisoria in appello, si riferisce espressamente alla possibilità di sospendere l’efficacia esecutiva, tipica delle sole pronunce di condanna; (ii) le altre norme codicistiche che disciplinano la provvisoria esecutorietà, quali gli artt. 431 e 447 bis cod. proc. civ., si riferiscono univocamente alle sentenze di condanna (Attardi, 117; Monteleone, 367, entrambi infra, sez. IV); (iii) l’art. 64, lett. d), l. 31.5.1995, n. 218 stabilisce che la sentenza italiana non ancora passata in giudicato non può dirsi espressiva di alcuna efficacia di accertamento. Dall’altra parte vi è chi ritiene che il nuovo testo dell’art. 282 cod. proc. civ., scevro da ogni espresso riferimento al tipo di sentenza, sarebbe applicabile anche alle sentenze diverse da quelle di condanna e sostiene tale tesi in quanto: (i) l’art. 2908 cod. civ. non subordina il prodursi gli effetti costitutivi, modificativi o estintivi al passaggio in giudicato della sentenza (Carpi, La provvisoria esecutorietà, 89, infra, sez. IV; Tavormina, infra, sez. IV); (ii) l’art. 2909 cod. civ., che ricollega l’efficacia della sentenza di accertamento al suo passaggio in giudicato formale, non esclude che possa verificarsi un tipo di efficacia diversa da quella che «fa stato» (Impagnatiello, Sentenze costitutive, 751 s., infra, sez. IV); (iii) il diritto positivo riconosce, in alcuni casi, la provvisoria esecutività degli effetti costitutivi della sentenza indipendentemente dal passaggio in giudicato della stessa, come nel caso della sentenza di interdizione o inabilitazione di cui all’art. 421 cod. civ. (Impagnatiello, La provvisoria esecuzione, 47 s., infra, sez. IV); (iv) le norme che espressamente fanno riferimento alle sentenze di condanna (quali gli artt. 431 e 447 bis cod. proc. civ.) hanno in realtà carattere derogatorio e speciale rispetto all’art. 282 del codice di rito (Comoglio-Ferri-Taruffo, 634, infra, sez. IV); (v) il ri553 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento conoscimento della provvisoria esecutività delle sentenze costitutive sarebbe conforme alle garanzie costituzionali di effettività di tutela e di ragionevole durata del processo (Carpi, voce «Esecutorietà», 2; Impagnatiello, Sentenze costitutive, 781, entrambi infra, sez. IV); (vi) nei lavori preparatori alla modica dell’art. 282 cod. proc. civ. l’emendamento volto a puntualizzare il riferimento alle sole sentenze di condanna venne respinto. Cercare di trovare una soluzione al tema dei limiti oggettivi della provvisoria esecutorietà sulla base dell’astratta natura del provvedimento non ci sembra una strada percorribile in quanto, sulla base di una mera definizione teorica e dogmatica, si consentirebbe l’anticipazione degli effetti (rispetto al giudicato formale) delle sentenze di condanna e non anche di quelle sentenze che, seppur definite «non di condanna», contengono in sé capi condannatori. Aderendo a questa impostazione, si verrebbe a creare un’incertezza pratica derivante dalla (talvolta dubbia) qualificazione di un’azione di cognizione come di mero accertamento, costitutiva o di condanna, come nel caso delle impugnative negoziali (sulla dubbia qualificazione di tali azioni v. per tutti Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Giuffrè, 1998; Id., Il «sistema» delle impugnative negoziali dopo le Sezioni Unite, nota a Cass., sez. un., 12.12.2014, n. 26242 e Cass., sez. un., 12.12.2014, n. 26243, in Giur. it., 2014, 1, 70 s.). In assenza di un chiaro dettato occorre dunque essere prudenti e valutare caso per caso la fattispecie sottoposta all’interprete. Tuttavia è innegabile che la «crisi del giudicato», bene di massimo valore ma acquisibile – talvolta – ad alto prezzo, non solo dal punto di vista economico, ma anche in termini di durata del processo, impone un ripensamento anche della disciplina della provvisoria esecutorietà delle sentenze costitutive e dichiarative. È indubbio infatti che l’istituto della provvisoria esecutività ha un valore di natura pragmatica quale mezzo per garantire una maggiore rapidità nella tutela dei diritti; alla luce di ciò sono certamente condivisibili le tesi che propugnano una concezione «ampia» di provvisoria esecutività che escluda dal suo ambito di applicazione unicamente le statuizioni (di accertamento o costitutive) che non necessitano di un’attuazione materiale ricomprende, invece, tutte le sentenze, indipendentemente dalla loro natura e dal relativo contenuto, destinate a regolare vicende patrimoniali da cui conseguono effetti sul piano della realtà fattuale sempre reversibili. 2. La condanna accessoria a statuizione costitutiva o dichiarativa. Un problema diverso è quello relativo alla provvisoria esecutività dei 554 Sentenza, ordinanza e decreto capi condannatori accessori ad una sentenza. Sulla questione non sussiste un orientamento univoco in dottrina ed in giurisprudenza anche se una soluzione, seppur parziale, è stata raggiunta con la sentenza delle sez. un. del 2010 (Cass., sez. un., 22.2.2010, n. 4059, infra, sez. III) citata anche dal provvedimento del Tribunale di Genova, in cui la Supr. Corte ha affermato che non è provvisoriamente esecutivo il capo decisorio relativo al trasferimento dell’immobile contenuto nella sentenza resa ai sensi dell’art. 2932 cod. civ., producendosi l’effetto traslativo della proprietà del bene solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza costitutiva. La Corte ha dunque negato l’efficacia esecutiva immediata ai capi condannatori legati alla pronuncia principale da un nesso sinallagmatico, in quanto gli effetti costitutivi, modificativi ed estintivi di rapporti giuridici determinati dalla decisione si producono solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza e dunque anche i capi condannatori legati alla decisione principale da un nesso di sinallagmaticità devono ritenersi privi di efficacia immediata. A ben vedere, tuttavia, il problema della provvisoria esecutività dei capi condannatori consequenziali a pronunce costitutive è tutt’altro che risolto in quanto, per espressa affermazione della giurisprudenza di legittimità, i principi fatti propri dalle sez. un. nella sentenza del 2010 non si applicano in generale ad ogni tipo di sentenza costitutiva ma solo alla sentenza ex art. 2932 cod. civ. Diversa è poi la questione relativa alla condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali. In linea con quanto disposto dall’art. 669 septies cod. proc. civ. per il rito cautelare uniforme, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno infatti riconosciuto la provvisoria esecutorietà della condanna alle spese di lite. III. I precedenti 1. L’esecuzione provvisoria in relazione alle diverse tipologie di sentenze. La giurisprudenza prevalente ha escluso dall’ambito applicativo dell’art. 282 cod. proc. civ. le sentenze diverse da quelle di condanna (cfr., ex multis, Cass., 15.11.2013, n. 25743, in Mass. Giust. civ., 2013; Cass., 26.3.2009, n. 7369, in Giusto proc. civ., 2009, 875, con nota di Impagnatiello; Cass., 21.2.2008, n. 4522, in Giust. civ., 2008, 6, I, 1416; Cass., 5.7.2006, n. 15294, in Dir. e giust., 2006, 27 s.; Cass., 10.11.2004, n. 21367, in questa Rivista, 2005, I, 729, con nota di Volpino; in Corr. giur., 2005, I, 2057, con nota di Petrillo; Cass., 10.3.1999, n. 2522, in Mass. Giust. civ., 1999; Cass., 24.3.1998, n. 3090, in Il civilista, 2011, 6, 64, con nota di Penuti, con riferimento ad un’azione di trasferimento del NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento passaggio di una servitù ad altro luogo ex art. 1068 cod. civ. Nella giurisprudenza di merito cfr. Trib. Salerno, 26.9.2002, n. 2663, in Giur. merito, 2003, 1680 s., con nota di Corrado; Trib. Napoli, 19.6.2002, ivi, 2004, 77; Trib. Napoli, 23.4.2002, in Giur. napoletana, 2002, 297; App. Roma, 9.4.2002, in Giur. romana, 2002, 292; Trib. Padova, 30.9.2000, in Riv. esecuzione forzata, 2002, 282 s.; Trib. Como, 2.1.1999, in Giur. it., 1997, 1, II, 8 s., con nota di Murettino; App. Napoli, 21.1.1999, in Giust. civ., 1999, I, 3433; App. Venezia, 28.6.1996, in Giur. it., 1997, 1, II, 8 s.; App. Milano, 22.12.1995, ivi, 1996, 1, II, 482, con nota di Consolo; Trib. Cagliari, 28.2.1995, in Riv. giur. sarda, 1996, 405, con nota di Cao; Trib. Firenze, 22.7,1998, in Toscana lav. e giur., 1999, 1). Ritengono che la sentenza di cui all’art. 2932 cod. civ. produca gli effetti reali del contratto non concluso solo dal momento del suo passaggio in giudicato: Cass., sez. un., 22.2.2010, n. 4059, in Riv. dir. proc., 2011, 171 s., con nota critica di Marelli; in Riv. esecuzione forzata, 2010, 1-2, 267, con nota di Iuorio; in Giusto proc. civ., 2010, 515, con nota di Impagnatiello; Cass., 6.4.2009, n. 8250, in Contratti, 2009, 827; Cass., 16.1.2006, n. 690, in Mass. Giust. civ., 2006; Cass., 3.8.2005, n. 26233, in Dir. e giust., 2006, 11, 56; Cass., 6.2.1999, n. 1037, in Fallimento, 2000, 142 s. La giurisprudenza di merito è più incline a riconoscere l’immediata efficacia della sentenza costitutiva (Trib. Milano, 27.1.2009, in Pluris, con riferimento all’azione revocatoria fallimentare; Trib. Catania, 11.7.2003, in www.judicium.it, con nota di Santangeli, in materia di divisione e condanna a corrispondere conguagli e rilascio dei beni; Trib. Cassino, 6.5.2002, in Foro it., 2004, I, 1913, che ha ritenuto immediatamente esecutivo il capo della sentenza con cui uno dei condividenti era stato condannato al rilascio del fondo; App. Bari, 19.6.2003 e App. Bari, 16.5.2003, entrambe ibidem, I, 1913, aventi ad oggetto la risoluzione e rescissione di contratti e conseguenti condanne alle spese; Trib. Monza, 13.5.2002, in Giur. merito, 2003, 50; Trib. Monza, 17.8.2001, in Giur. milanese, 2001, 10, 381). A favore della provvisoria esecutività di tutti i tipi di sentenza, quindi anche quelle di mero accertamento, cfr. Trib. Milano, 25.10.2010, in Pluris, che ha riconosciuto l’immediata efficacia della sentenza di mero accertamento sulla base del fatto che il principio espresso dalle sez. un. sarebbe limitato alla fattispecie dell’azione per l’adempimento del contratto preliminare di compravendita poiché «in un contesto di interpretazione costituzionalmente orientata (...) la negazione di qualsiasi efficacia “provvisoria” per le pronunce di accertamento e/o costitutive si risolva in una deteriore diminuzione di tutela per la NGCC 2015 - Parte prima Sentenza, ordinanza e decreto parte vittoriosa in primo grado»; Pret. Milano, 26.3.1997, in Lavoro nella giur., 1997, 686; Pret. Napoli, 22.12.1995, in Riv. crit. dir. lav., 1996, 847, con nota di Manna; Pret. Bologna, 4.5.1995, in Gius, 1995, 2267; App. Firenze, 19.11.1995, in Toscana giur., 1996, 335, con nota di Sbaraglio. 2. La condanna accessoria a statuizione costitutiva o dichiarativa. Un tentativo di apertura verso la provvisoria esecutività dei capi condannatori accessori ad una sentenza costitutiva è stato realizzato dalla Supr. Corte nel 2007 (Cass., 3.9.2007, n. 18512, in questa Rivista, 2008, I, 643 s., con nota adesiva di Zaffaroni; in Riv. dir. proc., 2008, 1095, con nota parzialmente critica di Marelli; in Corr. giur., 2008, 353 s., con nota critica di Guizzi; in Giur. it., 2008, 947, con nota adesiva di Conte), in cui è stato affermato che, in caso di sentenza ex art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna consequenziali sono da ritenere immediatamente esecutive (cfr. anche Cass., 26.1.2005, n. 1619, in Corr. giur., 2005, 1229, in materia di costituzione di una servitù coattiva; Trib. Como, 22.5.2013, in Giur. it., 2014, 2, 330, con nota critica di Trinchi, che ha ritenuto immediatamente esecutivo il capo di condanna del venditore alla restituzione degli acconti ricevuti in seguito ad una sentenza di risoluzione contrattuale non ancora passata in giudicato; Trib. Milano, 13.9.2003, in Giur. it., 2003, 2257; Trib. Catania, 10.7.2003, in Giur. merito, 2003, 2367 s., relativa al pagamento di un conguaglio disposto con la sentenza di scioglimento della comunione ereditaria; App. Bari, 19.6.2003 e 16.5.2003, citt., relative al rilascio del fondo dipendente da risoluzione del contratto preliminare di compravendita dello stesso ed alla restituzione del bene e del prezzo oggetto della compravendita rescissa; Trib. Cassino, 6.5.2002, in Giur. romana, 2003, 27). Altra parte della giurisprudenza, invece, nega l’esecutorietà provvisoria al capo consequenziale (Cass., 6.4.2009, n. 8250, cit.; Cass., 21.2.2008, n. 4522, cit.; Cass., 16.1.2006, n. 690, cit.; Cass., 2.12.2005, n. 26233, cit.; Cass., 10.3.1999, n. 2522, cit.; Cass., 24.5.1993, n. 5837, in Giust. civ., 1994, I, 3248 s.). Con riferimento al capo di condanna al pagamento delle spese di lite, l’orientamento prevalente è quello dell’immediata esecutività (Cass., sez. un., 22.2.2010, n. 4059, cit.; Cass., 20.4.2010, n. 9363, in Resp. civ. e prev., 2010, 1389, anche qualora il capo di condanna alle spese acceda a pronunce di accertamento o costitutive; Cass., 25.1.2010, n. 1283, in Mass. Giust. civ., 2010; Cass., 31.3.2007, n. 8059, in Mass. Giur. it., 2007, con riferimento ad un capo di condanna contenuto nella sentenza di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo; Cass., 3.8.2005, n. 16262, in Giur. it., 2006, 85 s.; Cass., 10.11.2004, 555 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento n. 21367, cit.; Trib. Bergamo, 20.10.2003, in Giur. merito, 2004, 61; Trib. Treviso, 26.3.2003, in Giur. it., 2003, 1381 s.; Trib. Napoli, 4.3.2003, in Giur. merito, 2003, 1654 s. Sul tema cfr. anche Corte cost., 16.7.2004, n. 232, in Riv. dir. proc., 2005, con nota di De Vita; in Giur. it., 2005, 319, secondo cui il capo sulle spese non ha natura accessoria ed ha il suo «titolo» esclusivamente nel contenuto della decisione sul merito della controversia, in applicazione del principio della soccombenza ex art. 91 cod. proc. civ. Si noti comunque che, in un’isolata pronuncia (Cass., 12.7.2000, n. 9236, in Foro it., 2001, I, 159, con nota critica di Scarselli; in Corr. giur., 2000, 12, 1599, con nota critica di Consolo), la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la condanna al pagamento delle spese contenuta nella sentenza di prime cure può costituire titolo esecutivo solo nel caso in cui risulti accessoria ad una sentenza di condanna dichiarata provvisoriamente esecutiva, ma non anche quando sia conseguente ad una sentenza di accertamento negativo del diritto oggetto della domanda. IV. La dottrina 1. L’esecuzione provvisoria in relazione alle diverse tipologie di sentenze. La dottrina prevalente è incline a riconoscere che l’anticipazione dell’efficacia della sentenza di primo grado possa riferirsi alle sole sentenze di condanna. Cfr. per questa tesi, senza pretesa di completezza, Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Jovene, 1956, 274; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Cedam, 1991, 117; Balena, Elementi di diritto processuale civile, Cacucci, 2006, 329; Id., La riforma del processo di cognizione, Jovene, 1994, 329 s.; Calamandrei, La condanna, in Studio sul processo civile, III, Cedam, 1934, 188; Chiovenda, Sulla provvisoria esecuzione delle sentenze e sulle inibitorie, in Saggi di diritto processuale civile, II, 1931, 323 s., il quale tuttavia ritiene che, in casi di urgenza, sia possibile ordinare l’esecuzione immediata anche di una sentenza costitutiva o dei relativi capi di condanna dipendenti; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Jovene, rist. 1960, 219; Chiarloni, Provvedimenti urgenti per il processo civile, a cura di TarziaCipriani, Cedam, 1992, 158-159; Comoglio, Le riforme della giustizia civile, Giappichelli, 1993, 371; Id., L’esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado, in La riforma della giustizia civile, a cura di Taruffo, Giappichelli, 2000, 339; Consolo, nel Codice di procedura civile, diretto da Consolo, Ipsoa, 2013, sub art. 282, 2816; Id., in Consolo-LuisoSassani, Commentario alla riforma del processo civile, Giuffrè, 1996, 263; Id., Una non condivisibile conseguenza (la non esecutorietà del capo sulle spese), di 556 Sentenza, ordinanza e decreto una premessa fondata (la non esecutorietà delle statuizioni di accertamento), in Giur. it., 2000, 1600; Coniglio, Riflessioni in tema di esecuzione provvisoria delle sentenze, in Scritti Carnelutti, II, Cedam, 1950, 271; Costa, Contributo allo studio dell’esecuzione provvisoria della sentenza civile, Studi Sassaresi, XVII, 1939, 244-253; De Stefano, voce «Esecuzione provvisoria della sentenza», in Enc. del dir., XV, Giuffrè, 1966, 513; Lancellotti, voce «Esecuzione provvisoria», nel Noviss. Digesto it., VI, Utet, 788, 792; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Giuffrè, 1981, 244; Mandrioli, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, 1343 s.; Monteleone, voce «Esecuzione provvisoria», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., agg. 2000, Utet, 366; Montesano, Condanna civile e tutela esecutiva, Jovene, 1965, 19; Id., voce «Esecuzione provvisoria» nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., VII, Utet, 1991, 645 s.; Robles, L’esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado e i suoi limiti, in Riv. dir. proc., 2001, II, 319; Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, 4a ed., Giuffrè, 2009, 315 s. (si segnala che nella prima edizione dei Lineamenti, l’a. aderì alla tesi secondo cui la provvisoria esecutività ineriva anche alle sentenze costitutive); Vaccarella, Il processo civile dopo la riforma, Giappichelli, 1992, 281; Zaffaroni, La provvisoria esecutorietà dei capi condannatori delle sentenze costitutive di primo grado, in questa Rivista, 2008, I, 649 s. Secondo altra parte della dottrina, invece, la provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado si estende anche alla pronunce costitutive. Così Carpi, voce «Esecutorietà (dir. proc. civ.)», in Enc. giur. Treccani, XV, Ed. Enc. it., 1995, 1 s., sulla base dell’interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 282 cod. proc. civ. e 2908 cod. civ.; Id., La provvisoria esecutorietà della sentenza, Giuffrè, 1972, 59, 106, nel senso dell’esclusione dell’esecutorietà solo nel caso di sentenze di accertamento o costitutive che non necessitino di un’attività estrinseca di attuazione; Comoglio-Ferri-Taruffo, Lezioni sul processo civile, Cedam, 2006, 642 s.; Denti, Intorno ai concetti generali del processo di esecuzione, in Riv. dir. proc., 1955, 117; Fabiani, La sentenza costitutiva in materia revocatoria e il problema della sua esecutorietà, in Foro it., 2001, I, 1363 s.; certamente con riferimento all’azione costitutiva non necessaria; Ferri, Effetti costitutivi e dichiarativi della sentenza condizionati da eventi successivi alla sua pronuncia, in Riv. dir. proc., 2007, 1392 s., spec. 1400, che condiziona il prodursi degli effetti traslativi della sentenza ex art. 2932 cod. civ. al pagamento del prezzo; Impagnatiello, Sentenze costitutive, condanne accessorie e provvisoria esecutorietà, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 3, 751 s.; Id., La provvisoria esecutoNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento rietà delle sentenze costitutive, ivi, 1992, 47 s.; Marelli, Un passo indietro nella direzione della tutela giurisdizionale effettiva: la condanna accessoria ad una pronuncia costitutiva non è provvisoriamente esecutiva, in Riv. dir. proc., 2011, 180 s.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Giuffrè, 1960, 348; Tarzia, Lineamenti del nuovo processo civile di cognizione, Giuffrè, 1991, 187; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, 1996, 200 s; Verde, Profili del processo civile, II, Jovene, 2000, 240 s., secondo cui la sentenza di primo grado pronunciata ex art. 2932 cod. civ. può essere immediatamente trascritta e «l’attore vittorioso possa disporre dei diritti per quanto ancora sub iudice». Secondo alcuni la provvisoria esecutorietà può accedere a sentenze di condanna generica (Satta, voce «Condanna generica», in Enc. del dir., VIII, Giuffrè, 1961, 720), alla condanna in futuro (Carpi, voce «Esecutorietà», cit., 5) e alla condanna implicita (Cass., 26.1.2005, n. 1619, cit.). Vi è poi chi (Proto Pisani, La tutela giurisdizionale dei diritti, Jovene, 2003) ha sostenuto che l’azione di cui all’art. 2932 cod. civ. non sarebbe una vera propria azione costitutiva, non essendo in essa ravvisabile un esercizio del diritto potestativo a necessario esercizio giudiziale, ma semplice pretesa all’adempimento di un facere, con la conseguenza che la sentenza di accoglimento avrebbe natura di condanna, risolvendosi così la questione dell’esecutività. 2. La condanna accessoria a statuizione costitutiva o dichiarativa. A favore della tesi secondo cui i capi di condanna accessori alla sentenza costitutiva o a quella di mero accertamento sarebbero immediatamente esecutivi cfr. Balena, Elementi di diritto processuale civile, cit., 331; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Cedam, 1985, 291; Id., in Consolo-Luiso-Sassani, op. cit., 263; Comoglio, Le riforme del processo civile, 2a ed., Il Mulino, 2000, 442; Id., L’esecuzione provvisoria delle sentenze di primo grado, in Le riforme della giustizia civile. Commento alla L. 353 del 1990 e alla L. 374 del 1991, a cura di Taruffo, Giappichelli, 1993, 370; Ferri, La sentenza ex art. 2932 c.c., in Riv. dir. proc., 1995, 59, 78; Luiso, Diritto processuale civile, II, 3a ed., 2000, 197; MontesanoArieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 2, 2001, Cedam, 1606; Scarselli, La provvisoria esecuzione della condanna alle spese del giudizio (ovvero, la parte che ha ragione non recupera le spese fino al passaggio in giudicato della sentenza?), in Foro it., 2001, I, 161 s.; Siracusano, nel Codice di procedura civile commentato, II, a cura di Vaccarella e Verde, Giappichelli, 1997, sub art. 282, 519; Tavormina, Titolo esecutivo giudiziale e stragiudiziale. L’efficacia del titolo esecutivo e l’ammissibilità della sua soNGCC 2015 - Parte prima Sentenza, ordinanza e decreto spensione, in www.judicium.it; Verde, op. cit., II, Jovene, 2000, 240 ss. Secondo la dottrina minoritaria, invece, l’esecutività non può essere ammessa né con riguardo alla statuizione costitutiva principale né con riguardo alle condanne dipendenti. Cfr. D’Adamo, nel Commentario del codice di procedura civile, a cura di Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Utet, 2012, sub art. 282, 251; Guizzi, Inadempimento a preliminare di compravendita ed effetti della sentenza di accoglimento della domanda ex art. 2932 c.c. non ancora coperta da giudicato: un equilibrio difficile, in Corr. giur., 2008, 353 s.; Monteleone, op. cit., 367; Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, 4a ed., 2009, 316. Ha proposto l’applicazione alla fattispecie de qua dell’art. 614 bis cod. proc. civ. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, III, Giappichelli, 2010, 70; Id., Una buona «novella» al cod. proc. civ.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, 740 s., al fine di superare gli ostacoli determinati dall’impossibilità di dare esecuzione ai capi di condanna conseguenti alla sentenza di cui all’art. 2932 cod. civ.; in tema cfr. anche Ventura, La misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c. e l’esecuzione dell’obbligo di contrarre, in Giur. it., 2014, 3; Consolo, nel Commentario al codice di procedura civile, a cura di Consolo, 2010, sub art. 614 bis, 2532 s. Secondo tale tesi sarebbe ipotizzabile un concorso di domande in via cumulata (e non alternativa), ossia, accanto alla domanda ex art. 2932 cod. civ., anche una domanda di condanna all’obbligo infungibile di stipulare il contratto definitivo, assistista dalla condanna al pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo di inadempimento, al fine di indurre il contraente-convenuto soccombente alla conclusione del definitivo. Contra: Carratta, Le novità in materia di misure coercitive per le obbligazioni di fare infungibile o di non fare, in Rass. forense, 2009, 721 s.; Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella l. 69/2009, in Riv. dir. proc., 2009, 1548, nt. 6, sulla base del fatto che l’astreinte sarebbe applicabile solo al provvedimento di condanna; Saletti, nel Commentario alla riforma del codice di procedura civile, a cura di Saletti e Sassani, 2009, sub art. 614 bis cod. proc. civ., 203; Balena, La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della l. 18 giugno 2009 n. 69), in www.judicium.it, in ragione del fatto che l’obbligo di concludere il contratto non ha carattere infungibile. Con specifico riferimento alla condanna al pagamento delle spese del giudizio, la dottrina quasi unanime ne ha riconosciuto la provvisoria esecutività, indipendentemente dalla natura e dal segno della de557 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 Separazione dei coniugi cisione principale cui si accompagna. Così Scarselli, La provvisoria esecuzione, cit., 161; Petrillo, Da un’apprezzabile premessa (l’esecutività di tutti i capi condannatorii) un benvenuto ripensamento sulla esecutività della condanna alle spese, in Corr. giur., 2005, 1235 s., escludendo, tuttavia, che il fondamento di tale principio sia rinvenibile nell’art. 282 cod. proc. civ. Una parte della dottrina, peraltro, ha ravvisato in questa fattispecie un capo condannatorio autonomo in quanto la condanna alle spese, più che un capo ac- cessorio alla sentenza di merito, ne costituisce un corollario, avendo il suo «titolo» esclusivamente nel contenuto della decisione, in applicazione del principio della soccombenza ex art. 91 cod. proc. civ. Cfr. Mandrioli, Diritto processuale civile, II, 4a ed., 2011, 326, nt. 43; Consolo, Una condivisibile conseguenza, cit., 1599; Cordopatri, voce «Spese giudiziali», in Enc. del dir., XLIII, Giuffrè, 1990, 334. c CORTE EUR. DIR. UOMO, 20.1.2015, ric. 107/2010 de Bussoleno, et ce dernier y emménagea avec sa famille. Les requérants se rendaient régulièrement chez leur fils pour voir leur petite-fille et pendant l’été M.C. passait beaucoup de temps chez les grands-parents, où elle avait sa propre chambre et ses jouets. Le 20 mai 2002, Mme M.G.T. communiqua à M. D.N. sa volonté d’engager une procédure judiciaire en séparation de corps. En juin 2002, la directrice de l’école maternelle fréquentée par M.C., soupçonnant des attouchements sexuels sur l’enfant de la part de son père, porta plainte contre D.N. Une procédure pénale fut ouverte contre ce dernier, accusé du délit de violence sexuelle à l’encontre de M.C et C. Le 16 juin 2006, le tribunal de Turin acquitta D.N. pour absence de faits délictueux («perché il fatto non sussiste»). Entre-temps, le 1er août 2002, M.G.T. avait demandé au tribunal pour enfants de Turin (ciaprès, «le tribunal») de retirer l’autorité parentale à D.N. et de l’empêcher de voir sa fille. Depuis cette date, les requérants n’ont plus vu M.C. Le 9 octobre 2002, le tribunal chargea les services sociaux et les psychologues de suivre M.C., confia la garde de l’enfant aux grandsparents maternels, autorisa la mère à voir librement M.C. et autorisa le père à la voir selon les modalités fixées par les services sociaux. Le 9 décembre 2002, les requérants demandèrent à être consultés par le tribunal, à être autorisés à voir M.C., et déclarèrent être disposés à avoir la garde de l’enfant. Le 3 février 2003, le parquet exprima un avis favorable à ce que les requérants puissent être entendus afin d’exercer leur droit de visite. Il ressort du dossier qu’à partir du 4 février 2003, des contacts réguliers entre Separazione dei coniugi - Filiazione Affidamento - Diritto di visita degli ascendenti - Art. 8 Conv. eur. dir. uomo - Ambito di applicazione (Cost., art. 29; Conv. eur. dir. uomo, art. 8; cod. civ., artt. 155, 317 bis, 333, 336) In caso di separazione personale dei genitori, l’effettivo esercizio del diritto di visita ai figli minori deve essere riconosciuto anche agli ascendenti, rientrando pure le relazioni tra nonni e nipoti nell’ambito di protezione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ne discende l’obbligo degli Stati di adottare nel minor tempo possibile le misure necessarie a riunire i parenti ed i minori. dal testo: Il fatto. Les requérants sont les grands-parents paternels de la mineure M.C., née le 7 août 1997 du mariage entre leur fils, D.N., et M.G.T. Le fils des requérants et M.G.T. se marièrent le 6 juillet 1996. Ils habitèrent ensemble avec leur fille, ainsi qu’avec C., fils de M.G.T. issu d’un premier mariage, dans un appartement appartenant aux requérants et situé à proximité de leur domicile. En mars 1998, les requérants achetèrent un appartement plus grand pour leur fils, sis à quelques kilomètres 558 Francesca Bossi NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 les requérants et les services sociaux eurent lieu afin de préparer une reprise des contacts avec l’enfant. Les requérants rencontraient régulièrement l’assistante sociale, par l’intermédiaire de laquelle ils pouvaient avoir des nouvelles de leur petite-fille et faire parvenir des lettres et des cadeaux à l’enfant. Le 1er mars 2003 et le 22 avril 2004, les requérants saisirent le tribunal pour solliciter une décision concernant l’autorisation de rencontres avec M.C. Au cours de l’audience du 21 octobre 2004, le tribunal chargea des psychologues de suivre les requérants et M.C. et de réglementer la reprise des contacts entre eux. Le 1er mars 2005, les requérants s’adressèrent à nouveau au tribunal et alléguèrent que le parcours de soutien psychologique pour préparer les rencontres n’avait pas encore été mis en place par les services sociaux et les psychologues. Ils demandèrent au tribunal de solliciter la mise en place du parcours, conformément à ce qui avait été établi au cours de l’audience du 21 octobre 2004. Le 1er juillet 2005 et le 20 décembre 2005, le parquet donna un avis favorable à ce que le tribunal accueille la demande des requérants de rencontrer M.C. Le 12 décembre 2005, la psychologue chargée par le tribunal de suivre les requérants déposa son rapport, dont il ressortait que les requérants étaient bien disposés à collaborer avec les services sociaux et à suivre un projet de rapprochement avec leur petite-fille. La psychologue autorisa un échange de lettres entre les requérants et M.C. afin de préparer cette dernière aux rencontres avec ses grands-parents. Il ressort du dossier que des échanges réguliers de lettres entre les requérants et M.C., surveillés par les services sociaux, eurent lieu dès le mois d’août 2003, et continuèrent au moins jusqu’à février 2007. Le décembre 2005, l’assistante sociale informa le tribunal qu’un projet de rapprochement entre les requérants et M.C. avait été mis en place. Par une décision déposée au greffe le 16 février 2006, le tribunal autorisa les requérants à rencontrer M.C. tous les quinze jours en présence des assistants sociaux et chargea les services sociaux et la psychologue de poursuivre le suivi de M.C., en leur demandant de déposer un rapport avant le 15 juin 2006. Il ressort du dossier que les rencontres autorisées par le tribunal n’ont jamais eu lieu. Le 1er juin 2006, la psychologue deNGCC 2015 - Parte prima Separazione dei coniugi manda au tribunal de suspendre toute possibilité de rencontre entre les requérants et l’enfant. Selon la psychologue, M.C. manifestait un sentiment de peur et d’angoisse vis-à-vis de son père, elle associait les grands-parents à son père et n’était par conséquent pas prête à les rencontrer. La psychologue souligna que l’enfant avait expressément refusé de rencontrer ses grandsparents et estima que ces derniers, bien que disposés à collaborer avec les services sociaux, montraient des difficultés à avoir une position autonome par rapport à leur fils et à comprendre le malaise de M.C. vis-à-vis d’une rencontre avec eux. Le 14 juin 2006, les services sociaux sollicitèrent du tribunal la suspension des rencontres. Ils alléguèrent que les rencontres avec les grands-parents n’étaient pas conformes à l’intérêt de M.C. et étaient susceptibles de lui causer des souffrances majeures, car les grandsparents n’arrivaient pas à avoir une position autonome et indépendante de celle de leur fils. Par une lettre du 13 février 2007, les requérants dénoncèrent au tribunal les omissions graves des services sociaux, qui en dépit de la décision du tribunal n’avaient jamais organisé les rencontres autorisées. Ils sollicitèrent à nouveau l’organisation de rencontres avec M.C., conformément à la décision du tribunal du 16 février 2006. Il ressort du dossier que les rencontres entre les requérants et M.C. n’eurent jamais lieu. Par une décision, déposée au greffe le 20 juin 2007, le tribunal rendit un non-lieu sur la demande de déchéance de l’autorité parentale du père de M.C., eu égard à son acquittement, et ordonna la suspension des rencontres entre les requérants et M.C., en se fondant sur le rapport des services sociaux. Les requérants interjetèrent appel de cette décision. Ils firent valoir que la décision du tribunal de suspendre les rencontres, fondée sur le prétendu malaise de M.C. vis-à-vis de ses grands-parents à cause du lien de ceux-ci avec son père, ne prenait pas en compte le fait que D.N. avait été acquitté. Par une décision déposée au greffe le 19 avril 2008, la cour d’appel de Turin jugea que le fait que D.N. avait été acquitté n’était pas un élément suffisant pour exclure que le malaise de l’enfant trouvât sa cause dans les attouchements sexuels subis. S’appuyant sur les rapports des services sociaux et des psychologues dénonçant le refus de la mineure de rencontrer ses grands-parents 559 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 et la difficulté pour ces derniers de comprendre le refus de l’enfant, la cour d’appel confirma l’interdiction pour les requérants de rencontrer l’enfant. Les requérants se pourvurent en cassation. Par une décision déposée au greffe le 17 juin 2009, la Cour de cassation débouta les requérants de leur pourvoi. I motivi. Sous l’angle de l’article 8 de la Convention, les requérants se plaignent de la violation de leur droit au respect de la vie familiale en raison de la durée excessive de la procédure aux fins de l’autorisation des rencontres avec l’enfant et en raison du fait que les services sociaux n’ont pas mis en oeuvre la décision du tribunal autorisant les rencontres. Sous l’angle de l’article 6 de la Convention, les requérants se plaignent du manque d’équité de la procédure et en particulier de la décision du tribunal pour enfants de suspendre les rencontres. Maîtresse de la qualification juridique des faits de la cause, la Cour estime approprié d’examiner les griefs soulevés par les requérants uniquement sous l’angle de l’article 8, lequel exige que le processus décisionnel débouchant sur des mesures d’ingérence soit équitable et respecte, comme il se doit, les intérêts protégés par cette disposition (Söderman c. Suède [GC], no 5786/08, § 57, CEDH 2013, Aksu c. Turquie [GC], nos 4149/04 et 41029/ 04, § 43, CEDH 2012; Moretti et Benedetti c. Italie, no 16318/07, § 27, 27 avril 2010). (Omissis) Le Gouvernement conteste cette thèse. (Omissis) Comme la Cour l’a rappelé à maintes reprises, si l’article 8 a essentiellement pour objet de prémunir l’individu contre les ingérences arbitraires des pouvoirs publics, il ne se contente pas de commander à l’État de s’abstenir de pareilles ingérences: à cet engagement plutôt négatif peuvent s’ajouter des obligations positives inhérentes à un respect effectif de la vie privée ou familiale. Elles peuvent impliquer l’adoption de mesures visant au respect de la vie familiale jusque dans les relations des individus entre eux, dont la mise en place d’un arsenal juridique adéquat et suffisant pour garantir les droits légitimes des intéressés ainsi que le respect des décisions judiciaires, ou des mesures spécifiques appropriées (voir, mutatis mutan560 Separazione dei coniugi dis, Zawadka c. Pologne, no 48542/99, § 53, 23 juin 2005). Cet arsenal doit permettre à l’État d’adopter des mesures propres à réunir le parent et son enfant, y compris en cas de conflit opposant les deux parents (voir, mutatis mutandis, Ignaccolo-Zenide, précité, § 108, Sylvester c. Autriche, nos 36812/97 et 40104/98, § 68, 24 avril 2003, Zavřel c. République tchéque, no 14044/05, § 47, 18 janvier 2007, et Mihailova c. Bulgarie, no 35978/02, § 80, 12 janvier 2006). Il en va de même lorsqu’il s’agit, comme en l’espèce, des relations entre l’enfant et ses grands-parents (Nistor c. Roumanie, no 14565/05, § 71 2 novembre 2010; Bronda c. Italie, 9 juin 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998-IV). Elle rappelle aussi que les obligations positives ne se limitent pas à veiller à ce que l’enfant puisse rejoindre son parent ou avoir un contact avec lui, mais qu’elles englobent également l’ensemble des mesures préparatoires permettant de parvenir à ce résultat (voir, mutatis mutandis, Kosmopoulou c. Grèce, n o 60457/00, § 45, 5 février 2004, Amanalachioai c. Roumanie, no 4023/04, § 95, 26 mai 2009, Ignaccolo-Zenide, précité, §§ 105 et 112, et Sylvester, précité, § 70). Pour être adéquates, les mesures visant à réunir le parent et son enfant doivent être mises en place rapidement, car l’écoulement du temps peut avoir des conséquences irrémédiables pour les relations entre l’enfant et celui des parents qui ne vit pas avec lui (Lombardo, § 81, précité; Nicolò Santilli c. Italie, no 51930/10, § 65 17 décembre 2013). La Cour rappelle que le fait que les efforts des autorités ont été vains ne mène pas automatiquement à la conclusion que l’État a manqué aux obligations positives qui découlent pour lui de l’article 8 de la Convention (voir Lombardo, § 84, précité; Nicolò Santilli, § 67, précité). En effet, l’obligation pour les autorités nationales de prendre des mesures afin de réunir l’enfant et le parent avec lequel il ne vit pas n’est pas absolue, et la compréhension et la coopération de l’ensemble des personnes concernées constituent toujours un facteur important. Si les autorités nationales doivent s’efforcer de faciliter pareille collaboration, une obligation pour elles de recourir à la coercition en la matière ne saurait être que limitée: il leur faut tenir compte des intérêts et des droits et libertés de ces mêmes personnes, et, notamment, NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 des intérêts supérieurs de l’enfant et des droits que lui confère l’article 8 de la Convention (Voleský c. République tchéque, no 63267/00, § 118, 29 juin 2004). Comme la jurisprudence de la Cour le reconnaît de manière constante, la plus grande prudence s’impose lorsqu’il s’agit de recourir à la coercition en ce domaine délicat (Reigado Ramos c. Portugal, n o 73229/01, § 53, 22 novembre 2005) et l’article 8 de la Convention ne saurait autoriser un parent à faire prendre des mesures préjudiciables à la santé et au développement de l’enfant (Elsholz c. Allemagne [GC], no 25735/94, §§ 49-50, CEDH 2000-VIII). Le point décisif consiste donc à savoir si les autorités nationales ont pris, pour faciliter les visites, toutes les mesures nécessaires que l’on pouvait raisonnablement exiger d’elles (Nuutinen c. Finlande, no 32842/96, § 128, CEDH 2000-VIII). La Cour note en premier lieu qu’il n’est pas contesté en l’espèce que le lien entre les requérants et M.C. relève de la vie familiale au sens de l’article 8 de la Convention (voir Nistor, § 93, et Bronda, §50 précités). 51. La Cour observe ensuite qu’il ressort clairement des documents en sa possession que la procédure interne concernant le droit de visite des requérants a débuté en 2002 devant le tribunal pour enfants de Turin (RGNR n o 1469/02). Partant, la Cour ne partage pas la thèse du Gouvernement selon laquelle la procédure interne devant le tribunal n’aurait commencé qu’en 2004 (voir paragraphe 42 ci-dessus). Se penchant sur la présente affaire, la Cour estime que devant les circonstances qui lui sont soumises sa tâche consiste à examiner si les autorités nationales ont pris toutes les mesures que l’on pouvait raisonnablement exiger d’elles pour maintenir les liens entre les requérants et leur petite-fille et si elles ont ainsi respecté les obligations positives découlant de l’article 8 de la Convention. La Cour remarque que les requérants n’ont plus vu leur petite-fille depuis 2002 et qu’à ce jour tout contact avec l’enfant leur est interdit. À ce propos elle rappelle que, selon les principes élaborés en la matière, des mesures aboutissant à briser les liens entre un enfant et sa famille ne peuvent être appliquées que dans des circonstances exceptionnelles (voir Zhou c. Italie, no 33773/11, § 46, 21 janvier 2014; Clemeno et autres c. Italie, n 19537/03, § NGCC 2015 - Parte prima Separazione dei coniugi 60, 21 octobre 2008). La Cour estime que ces principes s’appliquent également au cas d’espèce. À ce propos, elle rappelle avoir déjà jugé que les liens entre les grands-parents et les petits-fils relèvent de liens familiaux au sens de l’article 8 de la Convention (voir Kruškić c. Croatia (déc.), n o 10140/13, 25 November 2014; Nistor c. Roumanie, n 14565/05, § 71, 2 novembre 2010; Bronda c. Italie, 9 juin 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998-IV). La Cour note qu’en l’espèce l’impossibilité pour les requérants de voir leur petite-fille a été la conséquence, dans un premier temps, du manque de diligence des autorités compétentes et, dans un deuxième temps, de la décision de suspendre les rencontres. Les requérants n’ont pu ni obtenir la mise en oeuvre, dans un délai raisonnable, d’un parcours de rapprochement avec leur petite-fille, ni faire respecter leur droit de visite, tel qu’il avait été reconnu par la décision du tribunal du 16 février 2006. 55. La Cour observe que ce n’est qu’en décembre 2005, soit trois ans après la demande des requérants aux fins de rencontrer leur petite-fille, que le tribunal des enfants de Turin est parvenu à une décision concernant l’autorisation des rencontres. Elle souligne aussi qu’entre 2005 et 2007 les services sociaux n’ont pas donné exécution à la décision du tribunal autorisant les rencontres et qu’aucune mesure visant à mettre en oeuvre le droit de visite des requérants n’a été prise en l’espèce. La Cour rappelle sa jurisprudence selon laquelle les obligations positives découlant de l’article 8 de la Convention imposent à l’État d’adopter des mesures propres à réunir les parents et l’enfant, sachant par ailleurs que le caractère adéquat d’une mesure se juge aussi à la rapidité de sa mise en oeuvre (Nicolò Santilli, § 71, Lombardo, § 89, précités; Piazzi c. Italie, no 36168/ 09, § 78, 2 novembre 2010). La Cour observe que la décision de suspendre les rencontres entre les requérants et l’enfant fut fondée exclusivement sur les rapports des psychologues selon lesquels l’enfant associait ses grands-parents à son père et aux souffrances subies en raison des prétendus attouchements sexuels. La Cour relève que l’interdiction des rencontres s’inscrit dans les démarches que les autorités sont en droit d’entreprendre dans les affaires de sévices sexuels et rappelle que l’État a l’obligation de 561 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 protéger les enfants de toute ingérence dans des aspects essentiels de leur vie privée (Covezzi et Morselli c. Italie, no 52763/99, § 103, 9 mai 2003; Stubbings et autres c. Royaume-Uni, 22 octobre 1996, § 64, Recueil 1996-IV). Toutefois, la Cour constate en l’occurrence que la procédure pénale à l’encontre du père était pendante quand les juridictions internes ont autorisé les rencontres et que c’est après l’acquittement du père en 2006 (voir paragraphe 10 ci-dessus) que les mêmes juridictions ont décidé d’interdire toute possibilité de rencontre. La raison principale qui justifia la rupture presque totale des rapports entre les requérants et l’enfant était le fait que l’enfant associait ses grands-parents à son père et aux prétendus attouchements sexuels subis. Bien que la Cour soit consciente du fait qu’une grande prudence s’impose dans des situations de ce type et que des mesures visant à protéger l’enfant peuvent impliquer une limitation des contacts avec les membres de la famille, elle estime que les autorités compétentes n’ont pas déployé les efforts nécessaires pour sauvegarder le lien familiale et n’ont pas réagi avec la diligence requise (Clemeno et autres, précité, §§ 59-61). La Cour remarque à cet égard que trois ans se sont écoulés avant que le tribunal de Turin ne se prononce sur la demande des requérants de rencontrer leur petite-fille (voir paragraphe 55 ci-dessus) et que la décision du tribunal accordant aux requérants le droit de visite n’a jamais été exécutée (voir paragraphe 54 ci-dessus). La Cour rappelle qu’il ne lui revient pas de substituer son appréciation à celle des autorités nationales compétentes quant aux mesures qui auraient dû être prises, car ces autorités sont en principe mieux placées pour procéder à une telle évaluation, en particulier parce qu’elles sont en contact direct avec le contexte de l’affaire et les parties impliquées (Reigado Ramos, précité, § 53). Pour autant, elle ne peut en l’espèce passer outre le fait que les requérants n’ont pu voir leur petite-fille depuis douze ans environ, qu’à plusieurs reprises ils ont sollicité la mise en place d’un parcours de rapprochement avec l’enfant, qu’ils ont suivi les prescriptions des services sociaux et des psychologues, et qu’en dépit de tout cela aucune mesure susceptible de permettre le rétablissement du lien familial entre eux et l’enfant n’a été prise en l’espèce. 562 Separazione dei coniugi La rupture totale de tout rapport a eu des conséquences très graves pour les relations entre les requérants et l’enfant et il n’a pas été suffisamment envisagé en l’espèce de maintenir une forme de contact entre les requérants et leur petite-fille. Eu égard à ce qui précède et nonobstant la marge d’appréciation de l’État défendeur en la matière, la Cour considère que les autorités nationales n’ont pas déployé les efforts adéquats et suffisants pour préserver le lien familial entre les requérants et leur petitefille et qu’elles ont méconnu le droit des intéressés au respect de leur vie familiale garanti par l’article 8 de la Convention. Partant la Cour conclut à la violation de cette disposition. (Omissis) Les requérants réclament la réparation d’un préjudice moral du fait de l’impossibilité pour eux de nouer une relation avec leur petite-fille et de l’angoisse éprouvée. Ils demandent la somme de 30 000 euros (EUR). Le Gouvernement s’oppose à cette demande. En tenant compte des circonstances de l’espèce et du constat selon lequel les requérants se sont heurtés à l’impossibilité d’avoir des rapports avec leur petite-fille, la Cour considère que les intéressés ont subi un préjudice moral qui ne saurait être réparé par le seul constat de violation de l’article 8 de la Convention. Elle estime toutefois que la somme réclamée à ce titre est excessive. Eu égard à l’ensemble des éléments dont elle dispose et statuant en équité, comme le veut l’article 41 de la Convention, elle alloue aux intéressés la somme de 16 000 EUR. Les requérants demandent également 11 325,60 EUR pour les frais et dépens engagés devant les juridictions internes et devant la Cour. Le Gouvernement s’oppose à cette demande. Selon la jurisprudence de la Cour, un requérant ne peut obtenir le remboursement de ses frais et dépens que dans la mesure où se trouvent établis leur réalité, leur nécessité et le caractère raisonnable de leur taux. En l’espèce et compte tenu des documents en sa possession et de sa jurisprudence, la Cour estime raisonnable d’allouer aux requérants la somme de 5 000 EUR. C. La Cour juge approprié de calquer le taux des intérêts moratoires sur le taux d’intérêt de la facilité de prêt marginal de la Banque cenNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento Separazione dei coniugi trale européenne majoré de trois points de pourcentage. piena ed il conseguente provvedimento del Tribunale minorile favorevole al ricongiungimento, i servizi sociali temporeggiarono: dapprima negarono l’indicazione di un percorso idoneo ad incontrare la nipote; successivamente formularono parere negativo: in ottemperanza a tale indicazione, i giudici torinesi modificarono la propria decisione e la Corte di Cassazione, diversi anni dopo, rigettò il ricorso dei nonni per vizi procedurali. Nel 2010, allora, essi si rivolsero alla Corte europea dei diritti dell’uomo assumendo che l’eccessiva durata della procedura volta a stabilire le modalità di visita alla bambina avesse violato il disposto dell’art. 8 Conv. eur. dir. uomo, che tutela il rispetto alla vita privata familiare e stigmatizza l’intervento dello Stato laddove limiti arbitrariamente l’esercizio di tale diritto. Con la sentenza che si commenta la Corte di Strasburgo affronta la problematica relativa ai legami familiari, soffermando l’attenzione non già sul rapporto sussistente tra genitori e figli, bensì sull’esistenza del diritto dei nonni ad una relazione affettiva con i nipoti; essa indaga, inoltre, l’attività delle autorità statali allo scopo di accertare che siano state poste in essere tutte le misure necessarie a garantire il diritto di visita. Per comprendere i termini della questione occorre verificare se all’epoca dei fatti fosse ravvisabile un autonomo diritto degli ascendenti, valutando poi il reale apporto della pronuncia strasburghese: il contesto italiano è, infatti, mutato per effetto della Riforma della filiazione (l. n. 219/2012, e successivo d. legis. n. 154/2013). PAR CES MOTIFS, LA COUR, À L’UNANIMITÉ, 1. Déclare la requête recevable; 2. Dit qu’il y a eu violation de l’article 8 de la Convention; 3. Dit: a) que l’État défendeur doit verser aux requérants, dans les trois mois à compter du jour où l’arrêt sera devenu définitif en vertu de l’article 44 § 2 de la Convention, les sommes suivantes): i) 16 000 EUR (seize mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt, pour dommage moral; ii) 5 000 EUR (cinq mille euros), plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt par les requérants, pour frais et dépens; b) qu’à compter de l’expiration de ce délai et jusqu’au versement, ces montants seront à majorer d’un intérêt simple à un taux égal à celui de la facilité de prêt marginal de la Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de pourcentage. 4. Rejette la demande de satisfaction équitable pour le surplus. Fait en français, puis communiqué par écrit le 20 janvier 2015, en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement. [Isil Karakas Presidente – F.M. E M.P.N. (avv. Massano) – Italia (Agente Spatafora)] Nota di commento: «Il lungo percorso per l’affermazione del diritto di visita dei nonni» [,] I. Il caso La vicenda trae origine dal decreto del Tribunale per i minorenni di Torino che dispose la sospensione dei rapporti tra i nonni paterni e la nipotina in conseguenza dell’apertura di un procedimento penale a carico del figlio, divorziato, accusato di violenza sessuale ai danni della minore: la decisione muoveva dalla considerazione secondo cui il trauma subito dalla bambina l’avesse portata a rifiutare incontri con il padre e, di riflesso, con gli ascendenti, non riuscendo a scindere la loro figura da quella del genitore. Nonostante la successiva assoluzione con formula [,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte prima II. Le questioni 1. Il diritto dei nonni. La riflessione sulle relazioni tra nonni e nipoti si è sviluppata nel corso degli anni in ragione dei mutamenti sociali e del ruolo da essi assunto nell’educazione dei minori (Sacco, 212, infra, sez. IV; Attias-Donfut, 15 s., infra, sez. IV): il legislatore è, così, intervenuto stabilendo dapprima la necessità di garantire ai fanciulli la conservazione delle relazioni familiari e la possibilità di crescere all’interno della propria famiglia (l. n. 184/ 1983); in seguito riconoscendo un vero e proprio diritto a conservare «rapporti significativi» con gli ascendenti, indipendentemente dalla crisi coniugale dei genitori (art. 155, comma 1o, cod. civ., come modificato dall’art. 1, comma 8o, l. n. 54/2006): sino al 2012 tale diritto non è mai stato confuso con quello – corrispondente – dei nonni ad intrattenere rapporti con i nipoti (Basini, 370, infra, sez. IV), cosicché anteriormente alla Riforma della filiazione difettava un vero e proprio «diritto di visita» degli ascendenti. L’impianto normativo, peraltro, attribuiva loro 563 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento Separazione dei coniugi un ruolo nelle relazioni familiari tutt’altro che marginale (Sacco, 212 s.): a titolo esemplificativo, risultavano sanciti il dovere di contribuire al sostentamento dei nipoti laddove i genitori fossero privi dei mezzi necessari (art. 148 cod. civ.: Cass., 23.3.1995, n. 3402; Trib. Milano, 30.6.2000, entrambi infra, sez. III; Trabucchi, Famiglia e diritto nell’orizzonte degli anni ’80, 253, infra, sez. IV; Cattaneo, 452, infra, sez. IV); la facoltà di ricorrere al tribunale minorile per l’adozione di misure atte a tutelarli (art. 336 cod. civ.); veniva scelto preferibilmente tra i nonni l’eventuale tutore (art. 348 cod. civ.); ad essi erano riservate specifiche disposizioni in ambito successorio ed in tema di disconoscimento della paternità, cosicché la dottrina aveva ripetutamente valorizzato il loro desiderio di far visita ai nipoti, riconoscendo in esso un valore primario da proteggere, del tutto analogo a quello dei genitori: occorreva solo individuarne l’effettiva qualificazione giuridica (C.M. Bianca, Commento all’art. 1 commi 1o, 2o, 4o della L. 28.3.2001, n. 149; M. Bianca, 163; Cavallaro, 141; Sacco, 216 s.; Ruscello, 58; Salito, 451; Putti, 899, tutti infra, sez. IV). Sul punto, però, si contrapponevano due orientamenti: muovendo dall’assenza di uno specifico riferimento normativo, il primo ravvisava in quelle istanze un mero «interesse legittimo», da salvaguardare solo se coincidente con quello del minore (per tutti, Bigliazzi Geri, 544; Trabucchi, Patria potestà e interventi del giudice, 227; Baviera, 629, tutti infra, sez. IV); il secondo, invece, riconosceva l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo perfetto, il cui fondamento era ricondotto al disposto dell’art. 74 cod. civ. (De Cupis, 16; Dagnino, 1499, entrambi infra, sez. IV; Putti, 897 s.; Manera, 572, infra, sez. III): il limite risiedeva, anche in questo caso, nell’interesse del nipote ad intrattenere rapporti con i parenti, cosicché questo costituiva, «per un verso, presupposto per la tutela degli avi, per altro limite alla loro stessa pretesa» (Cavallaro, 140 s.; P. Stanzione, 758, infra, sez. IV). La giurisprudenza ha rigettato la configurabilità di un autonomo diritto degli ascendenti, peraltro preoccupandosi di riservare sempre maggiore attenzione alla crescita del minore (Quadri, 276, infra, sez. IV) ed alla tutela dei vincoli di parentela (Putti, 912 s.): a fronte di una posizione più restrittiva, volta a riconoscere solo un interesse morale ed affettivo, cui non corrispondeva il diritto di intervenire nei giudizi ove era in gioco l’interesse del minore (Cass., 17.10.1957, n. 39014; App. Milano, 21.6.1965; Trib. Perugia, 12.6.1979; Trib. Roma, 7.2.1988; Trib. Bari, 10.1.1991; Cass., 17.1.1996; Cass., 27.10.2011, n. 28902; Cass., 11.8.2011, n. 17191, tutte infra, III), si trova pure un orientamento che, sebbene non di senso oppo- sto, fu comunque capace di sostenere e regolamentare le relazioni con i parenti: relazioni cui non è stato conferito carattere «residuale», ma che anzi sono state definite «vincoli che affondano le loro radici nella tradizione familiare, la quale trova il suo riconoscimento anche nella costituzione (art. 29, Cost.)» (Cass., 25.9.1998, n. 9606, infra, sez. III). Pur continuando a negare la legittimazione dei parenti a far valere le proprie posizioni, l’accento è stato vieppiù posto sul «precipuo interesse del minore» a conservare rapporti significativi – soprattutto – con i nonni, ponendo in capo al giudice il compito di tutelare il diritto ad una crescita serena ed equilibrata. Il titolare dell’interesse giuridicamente protetto è rimasto, quindi, il minore e solo affrontando la problematica dal suo esclusivo punto di vista è aumentata la considerazione per la posizione degli ascendenti (Cass., 5.3.2014, n. 5097; Cass., 16.10.2009, n. 22081, entrambe infra, sez. III; Jemolo, 224; M. Bianca, 170 ss.; P. Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona umana; Id., Interesse del minore e statuto dei suoi diritti, 352; Alpa, 247; Dogliotti-Figone-Mazza-Galanti, 255; Sesta, 255, tutti infra, sez. IV). La sentenza in commento, invero, non qualifica in termini di diritto autonomo od interesse legittimo l’aspirazione dei nonni: essa si limita a ricondurre sotto la tutela dell’art. 8 Conv. eur. dir. uomo il desiderio dei parenti e dei minori di avere relazioni affettive, specie laddove siano coinvolti gli ascendenti (conformemente a quanto già sancito nella sentenza Corte eur. dir. uomo, 9.6.1998, Bronda c. Italia). In proposito, la Corte ricorda brevemente che il diniego può essere giustificato esclusivamente in presenza di «circostanze eccezionali», ossia di situazioni di evidente indegnità dei familiari, o nelle quali l’interesse del minore ad una crescita sana risulti fortemente compromesso (in questo senso già Corte eur. dir. uomo, 21.1.2014, Zhou c. Italia). Fatte salve queste ipotesi, occorre garantire ai fanciulli la conduzione di una vita il più possibile normale, con i genitori ed i parenti. Trova, dunque, conferma l’orientamento europeo che, facendo propria una nozione di famiglia più ampia rispetto a quella tradizionale, ha esteso la tutela di cui all’art. 8 Conv. eur. dir. uomo anche ai legami fondati semplicemente su rapporti biologici (Queirolo-Schiano-Di Pepe, 283, infra, sez. IV), così contrastando «le più gravi forme di violazione dei diritti della persona» perpetrati fra le mura domestiche (Cubeddu, 89, infra, sez. IV). Dalla norma discende, altresì, una «obbligazione positiva», ossia il dovere dello Stato di adottare rapidamente tutte le misure necessarie al ricongiungimento, posto che il trascorrere del tempo può determinare conseguenze anche irrimediabili nei rapporti 564 NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento Separazione dei coniugi endofamiliari (Corte eur. dir. uomo, 9.6.1998, Ignaccolo – Zeneide c. Romania; nonché Corte eur. dir. uomo, 24.4.2003, Sylvester c. Austriche; Corte eur. dir. uomo, 2.11.2010, Piazzi c. Italia; Corte eur. dir. uomo, 17.12.2013, Santilli c. Italia, tutte infra, sez. III). sarcitoria di cui all’art. 2043 cod. civ. laddove l’esercizio del diritto di visita sia ingiustamente ostacolato (Basini, 370 s.). Altra parte della dottrina ha, invece, accolto con più favore la novella legislativa, innanzitutto valorizzando il tanto auspicato riconoscimento in capo agli avi del diritto a mantenere rapporti con i nipoti, ora ritenuto perfetto ed autonomo ancorché strettamente collegato a quello dei minori, cosicché, in ultima istanza, esso non può essere qualificato come assoluto ed incondizionato (Arceri, 812, infra, sez. III); anche la tutela offerta dal comma 2o dell’art. 317 bis cod. civ. è stata guardata positivamente, poiché consente al giudice un più ampio margine di intervento rispetto a quanto prima previsto dal solo art. 336 cod. civ.; oggi, inoltre, non è più necessario che i provvedimenti a favore del ripristino delle frequentazioni siano connessi a situazioni di crisi coniugale, sebbene sia acquisito che le maggiori difficoltà sorgano quando i rapporti tra i genitori sono incrinati (Danovi, 544 s.) ulteriori considerazioni positive sono da ascriversi alla collocazione del nuovo diritto all’interno del codice: esso è stato, infatti, introdotto all’interno del Capo I del Titolo IX, a seguito delle norme in tema di responsabilità genitoriale dedicate, in particolare, all’educazione ed alla crescita del minore. Risulterebbe, insomma, chiara la scelta del legislatore di riconoscere al rapporto coi nonni valenza fondamentale, prevedendone un limite solo laddove sia in contrasto con il preminente interesse del minore (da ultimo la recentissima Cass., 19.1.2015, n. 725, infra, sez. III, la quale ha rigettato il ricorso della nonna materna con motivazione appoggiata all’assunto che i giudici di merito avessero attentamente valutato gli effetti di un ricongiungimento con la bambina, ritenendolo per quest’ultima altamente negativo). Rimane, invece, l’impossibilità per i nonni di far valere i propri diritti non solo attraverso un procedimento di limitazione della responsabilità (art. 333 cod. civ.), ma pure intervenendo nei giudizi di affidamento dei minori in sede di separazione, divorzio e nelle controversie tra genitori non uniti in matrimonio, come da tempo alcuni auspicavano, in ottemperanza a quanto sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità che in essi riservava pure al minore un posto di mero «spettatore» (Cass., 11.8.2011, n. 17191, cit.; Cass., 27.12.2011, n. 28902; Cass., 16.10.2009, n. 22081, tutte infra, sez. III; Dogliotti, 292 s.; Tommaseo, 632, infra, sez. IV; Arceri, 811 s.). Non è stato, peraltro, escluso un futuro orientamento di segno opposto: il nuovo diritto dei nonni dovrebbe, infatti, essere strettamente connesso a quelli «che costituiscono parte del thema decidendum del processo di separazione e divorzio», diversamente da quanto sostenuto dalla Cassazione si- 2. Le novità legislative. Ad esito di un lungo percorso, il legislatore nel 2012 ha finalmente sancito in modo esplicito il diritto dei nonni a mantenere rapporti significativi con i nipoti (art. 317 bis, comma 1o, cod. civ., come modificato dal d. legis. n. 154/2013), potendo ricorrere al giudice laddove siano ostacolati dai genitori o da terzi (comma 2o): si tratta di una sorta di completamento ed estensione di quanto già indicato a favore dei minori dall’art. 155 cod. civ., modificato dalla riforma del 2006 (Danovi, 535; Basini, 367 s.; Id., Violazione del c.d. «diritto di visita» dei nonni e risarcimento del danno, dopo l’entrata in vigore della L. 219/2012, 7 s.; Arceri, 810 s.; Tommaseo, 526; M.G. Stanzione; Ferrando, La riforma della filiazione; Id., L’affidamento dei figli, 263; Id., Diritto di famiglia; Dogliotti, 290; Id., La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali, 529, tutti infra, sez. IV). I nuovi provvedimenti non sono stati, tuttavia, accolti da unanime favore. La delega racchiusa nella l. n. 219/2012, infatti, demandava al Governo il compito di prevedere soltanto «la legittimazione degli ascendenti a far valere rapporti significativi con i nipoti minori» [art. 2, lett. p), l. n. 219/2012]: tale espressione è stata da alcuni intesa come volta ad introdurre non già un nuovo diritto (di cui, forse, era erroneamente ritenuta pacifica l’esistenza), ma solo norme aventi ad oggetto le relative modalità di attuazione, cosicché si è osservato che l’intervento del legislatore delegato avrebbe (forse) dovuto essere più limitato (Basini, 368 s.); è stata, altresì, posta in dubbio la legittimità costituzionale del novellato art. 38, comma 1o, disp. att. cod. civ., che attribuisce al Tribunale Minorile la competenza a conoscere dei ricorsi proposti dagli ascendenti, sull’assunto che la delega al Governo non ricomprendesse il potere di indicare l’autorità preposta (Trib. min. Bologna, ord. 5.5.2014, infra, sez. III); altra criticità è stata ravvisata nella legittimazione ad agire in giudizio prevista all’art. 317 bis, comma 2o, cod. civ.: essa, infatti, non sembrerebbe contemplata nell’interesse dei nonni, bensì (nuovamente) dei nipoti; a ciò si aggiunga la considerazione secondo cui agli ascendenti era già permesso di ricorrere al giudice ai sensi degli artt. 333 e 336 cod. civ. per l’adozione dei provvedimenti più idonei per il minore: da qui le perplessità circa l’effettiva portata – pratica – della Riforma, da ultimo identificata nella possibilità di ricorrere alla tutela riNGCC 2015 - Parte prima 565 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento Separazione dei coniugi no ad oggi a margine dei provvedimenti con cui ha negato agli ascendenti la legittimazione ad intervenire (Danovi, 547 s.). Poiché la vicenda all’esame della Corte eur. dir. uomo è sorta prima della entrata in vigore della Riforma della filiazione, la sentenza non tiene conto delle novità introdotte dal nostro legislatore. Sembra, tuttavia, che il riconoscimento del diritto degli ascendenti contenuto all’art. 317 bis cod. civ. possa incontrare il favore della giurisprudenza europea, sia perché attribuisce anche ai nonni il diritto ad avere relazioni familiari con i nipoti, sia perché – in ultima istanza – pone l’interesse dei minori al di sopra di tutto, auspicando che siano adottate tutte le misure necessarie a garantirne il reale benessere. Circa il dovere dello Stato di adottare tutte le misure necessarie a garantire i rapporti tra i minori ed i parenti: Corte eur. dir. uomo, 9.6.1998, Ignaccolo – Zeneide c. Romania; ancora, Corte eur. dir. uomo, 24.4.2003, Sylvester c. Austriche; Corte eur. dir. uomo, 2.11.2010, Piazzi c. Italia; Corte eur. dir. uomo, 17.12.2013, Santilli c. Italia. Tutte in www.hudoc.echr.coe.int. III. I precedenti 1. Il diritto dei nonni. Circa l’obbligo – di natura sussidiaria – degli ascendenti a contribuire al mantenimento dei nipoti, si vedano: Cass., 23.3.1995, n. 3402, in Giust. civ., 1995, 1441; Trib. Milano, 30.6.2000, in Fam. e dir., 2000, 534. Hanno negato l’esistenza di un diritto di visita dei nonni, riconoscendo in capo ad essi solo un «interesse» protetto attraverso il ricorso agli artt. 330 e 333 cod. civ. laddove coincidente con l’interesse del fanciullo: Cass., 17.10.1957, n. 3904, in Rep. Foro it., 1957, voce «Patria potestà», n. 7, pronunciatasi a margine di una vicenda in cui il genitore aveva impedito ingiustificatamente le relazioni tra ascendenti e nipoti; App. Milano, 21.6.1965, in Giust. civ., 1965, 2121, a parere della quale il giudice deve conciliare la potestà dei genitori con le esigenze degli altri parenti, specie gli avi; nello stesso senso anche Trib. Perugia, 12.6.1979, in Giur. merito, 1980, 6; Trib. Roma 7.2.1987, in Dir. fam. e pers., 1987, 739; Trib. Bari, 10.1.1991, in Giur. merito, 1992, 572, con nota di Manera, Ancora sul c.d. «diritto di visita» dei nonni; Cass., 17.1.1996, in Fam. e dir., 1996, 227, con nota di Venchiarutti, Diritto di visita del genitore non affidatario e dei nonni; Cass., 27.10.2011, n. 28902, ivi, 2012, 348 ss., con nota di Vullo, Inammissibile l’intervento degli ascendenti nei giudizi di separazione e di divorzio e Cass., 11.8.2011, n. 17191, in Giust. civ., 2012, 2669, con nota di Chiaravallotti, le quali hanno precisato che gli ascendenti non hanno il diritto di intervenire nei giudizi ove è in gioco l’interesse del minore. Un orientamento più attento all’interesse dei fanciulli è espresso da Cass., 5.3.2014, n. 5097, in Foro it., 2014, I, 1067, con nota di Casaburi; Cass., 16.10.2009, n. 22081, in Giust. civ., 2010, 2817, con nota di Ingenito; Cass., 25.9.1998, n. 9606, in Fam. e dir., 1999, 17, con nota di De Marzo, Diritto di visita e interesse del minore. 566 2. Le novità legislative. Si erano pronunciate sul possibile intervento nei nonni nel procedimento di separazione o divorzio pendente tra i genitori Cass., 11.8.2011, n. 17191 e Cass., 27.12.2011, n. 28902, entrambe citt., le quali avevano affermato l’illegittimità della domanda, osservando che «posto che le sole parti del giudizio di separazione giudiziale sono i coniugi, non sono legittimati ad intervenirvi, né in via principale, né in via litisconsortile, né adesiva, gli ascendenti, pur se a tutela dell’interesse dei minori, quanto al loro affidamento e al regime degli incontri con gli stessi ascendenti». Cass., 16.10.2009, n. 22081, cit., aveva precisato che la domanda dei nonni non mostra nessuna connessione per funzione ed oggetto con la domanda proposta in via principale. Trib. Bologna, 5.5.2014, in Dir. fam. e pers., 2014, 1033, con nota di Arceri, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1o, disp. att. IV. La dottrina 1. Il diritto dei nonni. È indiscussa la rilevanza giuridica del rapporto con gli avi e la letteratura in tema è sterminata: per tutti, si rinvia a C.M. Bianca, Commento all’art. 1 commi 1o, 2o, 4o della L. 28.3.2001, n. 149, Modifiche alla Legge 4.5.1983, n. 184, recante disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, in Nuove leggi civ. comm., 2002, 909 s., il quale auspicava l’abbandono di una visione «intimistica dei sentimenti» ed il riconoscimento di un vero e proprio «diritto» dei nipoti all’amore dei nonni. L’espressione, coniata dall’a., è stata successivamente ripresa da Id., La famiglia, Estratto per i corsi universitari della quarta edizione del Diritto civile, II, Giuffrè, 2005, 325, nonché da M. Bianca, Il diritto del minore all’«amore» dei nonni, in Riv. dir. priv., 2006, 155 s.; l’importanza del rapporto con i nonni è stata, altresì, evidenziata da Sacco, Considerazioni generali. Per un concetto più vasto di rapporto familiare, in Aa.Vv., La riforma del diritto di famiglia. Atti del II Convegno svolto presso la Fondazione Cini l’11-12.3.1972, Cedam, 1972, 212, il quale ha osservato che il ruolo degli ascendenti è accresciuto a seguito dell’adozione di un modello di famiglia mononucleare e dell’aumento del lavoro femminile, auspicando che all’obbligo di rispetto imposto al figlio sia abbinato «un dovere di venerazione, impoNGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento Separazione dei coniugi sto al nipote»; Cavallaro, Il c.d. diritto di visita dei nonni: rilevanza e qualificazione degli interessi in gioco, in Il diritto privato nel prisma dell’interesse legittimo, a cura di Breccia-Bruscaglia-Busnelli, Giappichelli, 2001, 139 s.; Putti, Il diritto di visita degli avi: un sistema di relazioni affettive che cambia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, 897 s.; Ruscello, La potestà dei genitori. Rapporti personali, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 1996, 58 s.; Salito, L’affidamento condiviso dei figli nella crisi della famiglia, in Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, diretto da Autorino Stanzione, Giappichelli, 2011, 451 s.; P. Stanzione, «Minorità» e tutela della persona umana, in Dir. e fam., 2000, 758 s.; Jemolo, La famiglia e il diritto, in Pagine sparse di diritto e storiografia, Giuffrè, 1957, 224 s.; Attias-Donfut, Il secolo dei nonni, la rivalutazione di un ruolo, Armando, 2005, 15 s. In tema di obblighi derivanti dagli artt. 147 e 148 cod. civ., si vedano Trabucchi, Famiglia e diritto nell’orizzonte degli anni ’80, in Riv. dir. civ., 1986, 253; Cattaneo, Il contributo dei nonni al mantenimento dei nipoti, in Fam. e dir., 1995, 452 s. Circa la qualificazione della richiesta dei nonni ad avere rapporti con i nipoti nei termini di «interesse legittimo», si rinvia a Bigliazzi Geri, voce «Interesse legittimo (diritto privato)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ, IX, Utet, 1993, 544 s., a parere della quale esso si rinviene qualora la realizzazione di un interesse è assoggettata alla scelta di un terzo, cui è attribuito un potere discrezionale; Trabucchi, Patria potestà e interventi del giudice, in Riv. dir. civ., 1961, 223 s., secondo cui «nessuno (...) può intervenire come portatore di propri giudizi o interessi nell’ambito dell’altrui famiglia regolarmente costituita»; a favore, invece, della sussistenza di un diritto soggettivo autonomo: De Cupis, Ancora in tema di limiti alla patria potestà, in Foro it., 1963, I, 1494; Dagnino, Potestà parentale e diritto di visita, in Dir. e fam., 1975, 1499. In tema si rinvia altresì a Basini, Ascendenti, diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni e risarcimento del danno. Il, così detto, «diritto di visita» degli avi dopo il D. Lgs. N. 154/2013, in Resp. civ. e prev., 2014, 367. Gli autori che hanno analizzato l’evoluzione giurisprudenziale in materia sono innumerevoli. Tra i molti si ricordano: Quadri, Il diritto di famiglia: evoluzione storica e prospettive di riforma, in Dir. e giur., 2003, 276; M. Bianca, op. cit.; Putti, op. cit. In tema di maggiore interesse del minore si rinvia, tra gli altri, a: P. Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, CamerinoNapoli, 1975; Id., Interesse del minore e statuto dei suoi diritti, in Fam. e dir., 1994, 352 s.; Alpa, I principi generali, nel Trattato Iudica-Zatti, Giuffrè, 1993, a parere del quale essa rappresenta una delle clausole generali più frequentemente richiamate in tema di diritto di famiglia; M. Bianca, op. cit., 170; Putti, op. cit., 918; Dogliotti-Figone-Mazza Galanti, Codice dei minori, Utet, 1999, 255 s.; Sesta, Il controllo giudiziario sulla potestà, nel Trattato Bessone, IV, Il diritto di famiglia, Utet, 1999. L’analisi della giurisprudenza della Corte eur. dir. uomo è stata effettuata, tra gli altri, da Queirolo-L. Schiano Di Pepe, Lezioni di diritto dell’Unione europea e relazioni familiari, Giappichelli, 2010, 283; Cubeddu, Il diritto europeo della famiglia, nel Trattato dir. fam., diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino e Ruscello, Giuffrè, 2011, 89 s. NGCC 2015 - Parte prima 2. Le novità legislative. Sulla delega al governo contenuta nella l. n. 219/2012, si rinvia a Danovi, Il d.lgs. 154/2013 e l’attuazione della delega sul versante processuale: l’ascolto del minore e il diritto dei nonni alla relazione affettiva, in Fam. e dir., 2014, 535 s.; Basini, op. cit., 367 s.; Id., Violazione del c.d. «diritto di visita» dei nonni e risarcimento del danno, dopo l’entrata in vigore della L. 219/2012, in Resp. civ. e prev., 2013, 7 s.; Arceri, Il diritto dei nonni a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni al vaglio della Corte Costituzionale, in Fam. e dir., 2014, 810 s., nota all’ordinanza del Trib. min. Bologna, 5.5.2014; Tommaseo, Profili processuali della riforma della filiazione, in Fam. e dir., 2014, 526; M.G. Stanzione, Il diritto alla genitorialità ed alle relazioni familiari, in Comparazione e diritto civile, 2013, consultabile al link www.comparazione dirittocivile.it; Ferrando, L’affidamento dei figli, nel Trattato Alpa-Patti, a cura di Ferrando e Lenti, Cedam, 2012, 263 s.; Id., Diritto di famiglia, Zanichelli, 2013; Id., La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali, in Fam. e dir., 2013, 525 s.; Dogliotti, Nuova filiazione: la delega al governo, ivi, 2014, 290. Le criticità sono state evidenziate da Basini, op. cit., 368; negano agli ascendenti la possibilità di intervenire nei procedimenti di separazione e divorzio Tommaseo, Verso il decreto legislativo sulla filiazione: sulle norme in materia processuale proposte dalla Commissione ministeriale, in Fam. e dir., 2013, 632; nello stesso senso anche Danovi, op. cit., 547, il quale tuttavia ha auspicato l’intervento del legislatore. Arceri, op. cit., 810 s., ha osservato che la normativa italiana, anche a seguito della Riforma del 2012, sembra riservare al minore ancora un posto da spettatore nei procedimenti pendenti tra i genitori. Infine, ha ipotizzato che in futuro possa essere riconosciuta la legittimazione per i nonni di intervenire nei procedimenti di separazione e divorzio dei figli, Danovi, op. cit., 547. Giulia Spelta 567 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 c CASS. CIV., II sez., ord. 22.1.2015, n. 1184 Rimette gli atti al Primo Presidente Società - Società tra professionisti Esercizio di attività professionale «protetta» e «non protetta» - Prescrizione presuntiva - Applicabilità Questione di massima di particolare importanza - Rimessione degli atti al primo Presidente (cod. civ., art. 2956, n. 2; d. legis. 2.2.2001, n. 96, art. 16; l. 4.8.2006, n. 248, art. 2; l. 12.11.2011, n. 183, art. 10) Deve vagliarsi la necessità che le sezioni unite si pronuncino sul se e come la possibilità di esercizio di attività professionali, protette e non protette, in forma societaria si riverberi sulla nozione stessa di professionista, di cui all’art. 2956, n. 2, cod. civ., sicché possa applicarsi a quelle forme di esercizio il principio, già enunciato dalla Supr. Corte, secondo il quale la prescrizione presuntiva triennale prevista dall’art. 2956, n. 2, cod. civ. può applicarsi soltanto ai crediti nascenti dall’esercizio di una professione intellettuale di antica o di recente tradizione e non al credito nascente da mero contratto d’opera. dal testo: Il fatto. Con ricorso al Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Città di Castello, la A s.n.c. esponeva che aveva provveduto alla tenuta della contabilità della B di E.R. per il periodo compreso tra il 1993 e il 31.12.1994; che il saldo del corrispettivo, pari a lire 5.310.735, era rimasto insoluto. Chiedeva ingiungersi ad E.R. il pagamento della complessiva somma di lire 5.390.735 – di cui lire 80.000 per spese per estratti autentici – oltre accessori. Pronunciata con decreto in data 14.12.2000 l’ingiunzione, E.R. con atto di citazione notificato il 27.1.2001 proponeva opposizione. Deduceva, “sostenendo l’avvenuta estinzione dell’obbligazione per intervenuto pagamento, (...) la prescrizione presuntiva del credito ex art. 2956 n. 2 c.c.” (così ricorso pag. 1). 568 Società Chiedeva pertanto la revoca del decreto opposto. Costituitasi, la ricorrente instava per il rigetto dell’avversa domanda. Adduceva “l’infondatezza della dedotta prescrizione per non essere, a suo dire, l’istituto richiamato applicabile al caso concreto in virtù della qualità di società della creditrice” (così ricorso pag. 2); soggiungeva che la sua prestazione non aveva “carattere di prestazione professionale ma quello tipico del contratto d’opera di cui all’art. 2222 c.c.” (così ricorso pag. 2). Con sentenza n. 138/2003 il Tribunale di Perugia accoglieva l’opposizione, dichiarava e dava atto dell’intervenuta prescrizione dell’azionata pretesa, revocava l’ingiunzione e condannava la ricorrente-opposta a rimborsare a controparte le spese di lite. Interponeva appello l’A s.n.c. Resisteva E.R. Con sentenza n. 411/2008 la corte d’appello di Perugia accoglieva l’esperita impugnazione, rigettava, in totale riforma della gravata sentenza, l’opposizione al decreto ingiuntivo proposta in prime cure e condannava E.R. a rimborsare a controparte le spese di ambedue i gradi di giudizio. (Omissis) Avverso tale sentenza E.R. ha proposto ricorso a questa Corte di legittimità; ne ha chiesto la cassazione sulla scorta di unico motivo. La “B” di G.P.&C (già A s.n.c. di P e G) ha depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi l’avversario ricorso con il favore delle spese del grado si legittimità. (Omissis) Con l’unico motivo il ricorrente deduce in relazione all’art. 360, 1o co., n. 3), c.p.c. la violazione dell’art. 2956, n. 2), c.c. Premette che nel caso di specie è necessario stabilire unicamente se la disposizione di cui all’art. 2956, n. 2), c.c. “sia o meno applicabile (...) anche a quei professionisti costituiti in forma societaria e/o di associazione professionale” (così ricorso pag. 5) e soggiunge che la medesima disposizione “non pone alcuna restrizione nell’interpretazione del termine professionista né, ovviamente, ne specifica il significato” (così ricorso pag. 6). Adduce che “non v’è dubbio che (...) l’attività dell’E.DA.CO. si fondi sul lavoro intellettuale dei soci e che questo sia elemento essenziale e prevalente rispetto all’organizzazione NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 dei fattori produttivi” (così ricorso pag. 6); che “è consequenziale, dunque, che la prestazione intellettuale resa al cliente è imputabile al professionista e non all’organizzazione, in virtù della personalità del servizio reso dal socio stesso nell’ambito dell’incarico ricevuto dalla società” (così ricorso pag. 6); che “nel caso concreto (...) l’attività dell’E.DA.CO. (o rectius dei suoi soci) è un’attività intellettuale che è sicuramente prevalente rispetto a quella dell’elaborazione elettronica poiché nel suo espletamento vengono manifestate cognizioni specialistiche personali e professionali, attività in cui l’elaborazione rappresenta solo lo strumento materiale per l’ottenimento di maggiore velocità nell’esecuzione della prestazione stessa” (così ricorso pagg. 6-7); che del resto “i professionisti – soci sono iscritti in appositi albi professionali, iscrizione conseguente ad abilitazione” (così ricorso pag. 7); che “in conclusione, (...) il soggetto destinatario dell’art. 2956 n. 2 c.c. possa essere il professionista, nell’accezione più ampia del termine” (così ricorso pag. 8). La quaestio iuris che la vicenda contenziosa de qua agitur involge, si prospetta alla stregua di una questione di massima di particolare importanza. Il che suggerisce l’appello al Primo Presidente, perché valuti, ai sensi dell’art. 374, 2 co., c.p.c., se disporre che questa Corte di legittimità pronunci al riguardo a sezioni unite. (Omissis) I motivi. Si premette che la medesima società personale controricorrente riconosce espressamente di aver “prestato alla ditta R.C.E. di R.E. (...) i servizi di tenuta della contabilità fiscale, amministrativa e contabile” (così controricorso, pag. 2). Siffatta attività risulta da ascrivere alle previsioni degli artt. 1 e 2 del dec. lgs. 28.6.2005, n. 139, intitolato “costituzione dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a norma dell’art. 2 della legge 24.2.2005, n. 24”. Più esattamente, ai sensi dell’art. 1 del d. lgs. n. 139/2005 agli iscritti nella sezione “B” – esperti contabili – dell’albo è riconosciuta competenza tecnica per l’espletamento, tra le altre, dell’attività di tenuta e redazione dei libri contabili, fiscali e del lavoro nonché dell’attiviNGCC 2015 - Parte prima Società tà di controllo della documentazione contabile. Più esattamente, ai sensi dell’art. 2 del medesimo decreto legislativo, ai fini dell’esercizio delle professioni di cui all’art. 1, è necessario che il dottore commercialista, il ragioniere commercialista e l’esperto contabile siano iscritti nell’albo. Nei termini esposti, dunque, non interferisce nel caso di specie l’insegnamento di questa Corte (citato dal controricorrente a pag. 15 del controricorso) n. 15530 dell’11.6.2008 (alla cui stregua nelle materie commerciali, economiche, finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori commercialisti, ai ragionieri e ai periti commercialisti, non rientrando fra le attività che possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o provvisti di specifica abilitazione). Si rileva, per altro verso, che la locuzione “attività economica”, di cui all’art. 2247 c.c., è nozione più ampia di “attività d’impresa”, ovvero dell’attività, qualificata in forma soggettiva, di cui all’art. 2082 c.c. In tal guisa l’esercizio di un’attività professionale intellettuale, in quanto attività economica, ancorché ex art. 2238, 1 co., c.c. attività non d’impresa, ben può in linea di principio esser assunta ad oggetto di un organismo collettivo, segnatamente societario, ben può, cioè, in linea di principio, essere esercitata in forma collettiva, societaria. L’insegnamento giurisprudenziale nondimeno ha in forma sostanzialmente unanime (beninteso con la significativa eccezione delle società diengineering: cfr. Cass. 29.11.2007, n. 24922, Cass. 1.10,1999, n. 10872; Cass. 21.3.1989, n. 1405) disconosciuto l’ammissibilità di siffatta tipologia di società “senza impresa”. (Omissis) Lo scenario normativo, tuttavia, a decorrere dall’inizio dello scorso decennio è significativamente mutato. Va segnalato, in primo luogo, che l’art. 16, 1o co., del d. lgs. n. 96 del 2.2.2001 ha consentito espressamente l’esercizio in forma comune dell’attività professionale di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio seppur in via esclusiva mercé il tipo di società tra professionisti denominata società tra avvocati (il 2o co. 569 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 dell’art. 16 cit. dispone che la società tra avvocati è regolata dalle norme di cui al titolo II dello stesso d. lgs. e, ove non diversamente disposto, dalle norme che regolano la società in nome collettivo; statuisce, inoltre, che, ai fini dell’iscrizione nel registro delle imprese, è istituita una sezione speciale relativa alle società tra professionisti; il 3o co. del medesimo art. 16, a sua volta, puntualizza che la società tra avvocati non è soggetta a fallimento). Va segnalato, in secondo luogo, che l’art. 2, 1o co., lett. c), della legge n. 248 del 4.8.2006, recante conversione in legge del decreto legge n. 223 del 4.7.2006, ha abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte, tra l’altro, di società di persone (la previsione della lett. c) soggiunge che le anzidette società di persone devono assumere in via esclusiva ad oggetto sociale la prestazione di attività libero-professionale, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità). Va segnalato, in terzo luogo, che l’art. 10 della legge n. 183 del 12.11.2011, al 3o co., ha ammesso espressamente “la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V codice civile” (l’art. 10 della legge n. 183/2011 è stato modificato dall’art. 9 bis – rubricato “società tra professionisti” – della legge 24.3.2012, n. 27, che ha convertito con modificazioni il dec. leg. 24.1.2012, n. 1). Più esattamente, in virtù dell’art. 10 cit. è ben possibile l’esercizio in forma societaria di una qualsivoglia attività professionale “protetta” mercé utilizzazione del tipo della società semplice, della società in nome collettivo, della società in accomandita semplice, della società per azioni, della società in accomandita per azioni, della società a responsabilità limitata e della società cooperativa (l’art. 10 cit. prosegue precisando, tra l’altro, al 4o co., lett. b), che possono far parte della società anche soggetti non professionisti per mere finalità di investimento, al 5o co., che la denominazione sociale 570 Società deve contenere l’indicazione di società tra professionisti, al 6o co., che la partecipazione ad una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti, all’8o co., che la società tra professionisti può essere costituita anche per l’esercizio di più attività professionali e, quindi, per attività interdisciplinari, al 9o co., che restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della medesima legge n. 183/2011). Va segnalata, in quarto luogo, la legge 14.1.2013, n. 4, intitolata “disposizioni in materia di professioni non organizzate”, il cui art. 1 puntualizza, al 1o co., che la stessa legge è volta alla disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi, al 2o co., che per “professione non organizzata in ordini o collegi” si intende l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitata abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con esclusione delle attività riservate per legge a soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art. 2229 c.c., delle professioni sanitarie e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di pubblico esercizio disciplinati da specifiche normative, al 5o co., che la professione è esercitata in forma individuale, in forma associata, societaria, cooperativa o nella forma del lavoro dipendente. Non è fuor di luogo segnalare, da ultimo, l’art. 28, 1o co., della “riformata” legge fallimentare, alla cui stregua possono essere chiamati a svolgere le funzioni di curatore “società tra professionisti”. Va rimarcato, sotto altro profilo, che R.E. giammai ha inteso dubitare della validità dell’atto genetico dell’obbligazione de qua agitur ed, ulteriormente, che l’eccezione di prescrizione presuntiva di certo non è incompatibile con l’assunto secondo cui il debito sia stato estinto per avvenuto pagamento (cfr. Cass. sez. lav. 17.8.1977, n. 3774). Al cospetto dunque del quadro normativo dapprima tracciato si reputa opportuno che si vagli la necessità che le sezioni unite riflettano sul se e sui margini in cui la nuova figura di professionista – siccome destinata a connotarsi anche in forma societaria sia per le professioni NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento “protette” sia per le professioni “non protette” – si riverberi sulla nozione di professionista di cui all’art. 2956, n. 2), c.c., sicché possa dilatarsi anche a siffatte nuove tipologie di professionista, qualora esercenti attività “protette”, l’insegnamento di questa Corte n. 3886 del 29.6.1985 (alla cui stregua nella categoria dei professionisti, i cui diritti per il compenso dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlative, sono assoggettati a prescrizione presuntiva triennale dall’art. 2956, n. 2, c.c., sono compresi soltanto coloro che esercitano una professione intellettuale di antica o di recente tradizione, nei cui confronti è ravvisabile il presupposto della prassi del pagamento senza dilazione per l’agevole determinabilità del credito ai sensi dell’art. 2233 c.c., sicché detta prescrizione non è applicabile al credito per il compenso nascente da un mero contratto d’opera) ovvero se, addirittura, si possano trascendere i limiti dell’insegnamento n. 3886/1985, sì da estendere la prescrizione presuntiva triennale di cui all’art. 2956, n. 2), c.c. anche ai crediti di qualsivoglia soggetto, pur costituito in forma societaria, esercente attività professionale “non protetta”. (Omissis) [Bursese Presidente – Abete Estensore. – E.DA. CO. s.n.c. – R.E.] Società La società ricorrente, resistendo alla domanda di revoca del decreto ingiuntivo, sosteneva invece per parte sua la non applicabilità al caso della norma in questione, in ragione sia della natura societaria della creditrice sia del carattere non professionale della prestazione resa, da ricondurre invece al contenuto tipico del contratto d’opera. L’opposizione del debitore veniva prima accolta dal Tribunale e poi rigettata dalla Corte d’Appello, la quale ultima, nel riformare la sentenza del giudice di prime cure, argomentava sull’applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod. civ. ai crediti dei soli professionisti e non a quelli nascenti da prestazioni intellettuali da chiunque rese, e in particolare a quelle rese da una società commerciale quale doveva ritenersi la s.n.c. opposta. La II sezione della Corte di Cassazione, davanti alla quale è stato incardinato il ricorso proposto dall’opponente, dispone con l’ordinanza interlocutoria in commento la trasmissione degli atti al Primo Presidente, perché venga valutata l’opportunità di sottoporre alle sezioni unite una riflessione sugli effetti che le modifiche normative intervenute nelle more del giudizio in materia di esercizio di attività professionale in forma societaria hanno prodotto sulla nozione stessa di professionista. Ciò al fine di stabilire se e in quali termini il disposto dell’articolo 2956, n. 2, possa applicarsi alle nuove forme collettive di esercizio delle attività «protette» e anche di quelle «non protette». II. Le questioni Nota di commento: «Esercizio in forma societaria di attività professionale e prescrizione presuntiva» [,] I. Il caso Una società in nome collettivo, allegando di aver tenuto per un periodo tra il 1993 e la fine del 1994 la contabilità di una ditta individuale e di non aver ricevuto dal cliente il saldo del relativo corrispettivo, chiedeva ed otteneva un decreto ingiuntivo per la somma rimasta insoluta. Il cliente proponeva opposizione, sostenendo l’avvenuto pagamento della somma ingiunta ed invocando la prescrizione presuntiva del credito ai sensi dell’art. 2956, n. 2, cod. civ. che, com’è noto, riguarda il diritto dei professionisti al pagamento del compenso per l’opera prestata e del rimborso delle spese correlate. [,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte prima 1. L’esercizio di attività professionale in forma societaria. La questione di maggior interesse proposta dall’ordinanza attiene alla adottabilità dello strumento societario nell’esercizio delle professioni intellettuali. Dopo aver ribadito la natura economica dell’attività professionale e quindi la sua astratta idoneità a costituire oggetto di esercizio in forma societaria, il Collegio, infatti, ripercorre la problematica della società tra professionisti (S.T.P.). La ricostruzione prende le mosse dalla tradizionale posizione giurisprudenziale che, in maniera pressoché unanime e costante, aveva ritenuto la nullità di società costituite per l’esercizio di professioni intellettuali quanto meno con riguardo alle c.d. professioni «protette» e cioè a quelle per il cui esercizio fosse necessaria l’iscrizione in appositi albi o elenchi. Schematizzando e riassumendo sommariamente una materia che ha dato luogo ad un lungo e complesso dibattito, i motivi di quell’indirizzo giurisprudenziale, per altro non condiviso da parte della dot571 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento trina, sono riconducibili a due fondamentali questioni: da una parte, l’esplicito divieto, contenuto nell’art. 2 l. n. 1815/1939, di costituzione, esercizio e direzione di «(...) società, istituti, uffici, agenzie od enti (...)» che avessero come scopo quello di fornire anche gratuitamente ai propri associati o ai terzi prestazioni di consulenza o assistenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa contabile o tributaria; dall’altra il carattere di personalità della prestazione del professionista previsto dall’art. 2232 cod. civ. (Cass., 12.3.1987, n. 2555, infra, sez. III). Quanto al primo aspetto sono noti i dubbi che hanno travagliato la dottrina circa la portata della l. n. 1815/1939, sia per quanto riguarda le forme associative colpite dal divieto (quali società e, più in genere, quali forme associative dovevano ritenersi vietate?), sia per quanto riguarda l’ambito oggettivo (a quali attività si estendeva il divieto?). Del resto anche l’abrogazione del ricordato art. 2 l. n. 1815/1939, avvenuta ad opera dell’art. 24 l. n. 266/1997, aveva lasciato sussistere i dubbi sulla liceità dell’esercizio in forma societaria delle attività intellettuali, anche a causa della mancata emanazione del decreto ministeriale previsto dalla norma abrogativa (sulla cui legittimità, per altro, non mancavano perplessità, legate alla violazione della gerarchia delle fonti normative). Quanto al secondo aspetto, va ricordata la diffusa convinzione che lo schema societario fosse inconciliabile con la disciplina del contratto d’opera intellettuale, che presuppone la identità tra chi riceve l’incarico e chi esegue la prestazione, identità esclusa dalla natura «sociale» dell’assunzione della obbligazione. Ricordata questa posizione consolidata della propria giurisprudenza, il S.C., nell’ordinanza in commento, dà però atto della successiva modificazione del quadro normativo di riferimento, menzionando taluni interventi del legislatore che in vario modo hanno inciso sulla possibilità di esercizio societario delle professioni intellettuali. Nel provvedimento si fa quindi riferimento: i) al d. legis. n. 96/2001 che prevede le società tra avvocati, alle quali viene consentito espressamente l’esercizio della attività di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio. Si tratta, com’è noto, di una particolare categoria di società strutturate su base personale e caratterizzate dalla presenza di soli soci abilitati all’esercizio della professione di avvocato (art. 21, comma 1o), ai quali è riservata l’amministrazione della società (art. 23, comma 1o) e dalla esclusività dell’oggetto sociale, consistente, per l’appunto, nell’esercizio in comune della professione dei soci (art. 17, comma 2o); ii) all’art. 2, comma 1o, lett. c), l. n. 248/2006 (recante la conversione del c.d. decreto Bersani) che 572 Società prevede l’abrogazione del «divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità»; iii) all’art. 10 l. n. 183/2011, come modificato dall’art. 9 bis l. n. 27/2012, che consente la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali «protette» utilizzando i tipi regolati dai titoli V e VI del libro V del cod. civ., e cioè sia società di persone che di capitali che cooperative. La legge è stata accolta come il definitivo superamento dei limiti posti dalla legislazione precedente, e quindi come la affermazione della piena legalità dell’uso dello strumento societario, anche se non pochi sono i dubbi circa la organicità del sistema che risulta da quest’ultimo intervento; iv) alla l. n. 4/2013 che reca disposizioni in materia di professioni non organizzate in ordini o collegi. Si tratta, secondo la definizione contenuta nell’art. 1, comma 2o, della legge, di attività economiche anche organizzate volte alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitate «abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale o comunque con il concorso di questo (...)». Per tali attività la legge prevede la possibilità di costituire associazioni professionali aventi funzione di valorizzare le competenze degli associati e garantire il rispetto di regole deontologiche, promuovendo la formazione permanente degli iscritti e vigilando sulla relativa condotta professionale. Ai fini del tema della ordinanza, rileva la previsione del comma 5o dell’art. 1 che prevede che le attività di cui alla legge possano essere esercitate tanto in forma individuale quanto in forma «associata, societaria, cooperativa (...)». Si tratta in realtà di circostanza sulla quale non sono mai esistiti particolari dubbi, trattandosi piuttosto di valutare, in caso di esercizio collettivo, l’assunzione da parte degli enti a tal fine costituiti della natura di imprenditore; v) infine al novellato art. 28, comma 1o, l. fall., che prevede la possibilità che le funzioni di curatore possano essere affidate ad una «società di professionisti». Per vero il quadro dei dati normativi relativi all’esercizio societario delle professioni intellettuali potrebbe essere completato con il riferimento ad altre discipline di settore, nelle quali il legislatore ha regolamentato società (siano esse o meno definite S.T.P.) che svolgono attività professionali, Così l’art. 90, comma 2o, d. legis. n. 163/2006 (codice degli appalti), nel quale si definiscono società di professionisti quelle costituite esclusivamente tra NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai vigenti ordinamenti professionali, che eseguono studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzioni dei lavori, valutazioni di congruità tecnicoeconomica o studi di impatto ambientale, purché costituite nella forma di società di persone di cui ai capi II, III e IV del titolo V del libro quinto del codice civile, ovvero nella forma di società cooperativa di cui al capo I del titolo VI del libro quinto del codice civile. Per tali società si prevede la possibilità di espletare prestazioni relative alla progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale dei lavori pubblici. Così anche la disciplina delle società di revisione legale, regolate dall’art. 2 d. legis. n. 39/2010. In realtà per tali società il legislatore non indica mai esplicitamente la natura di S.T.P., ma esse sono autorizzate all’esercizio della attività di revisore (per la quale sono richiesti requisiti di abilitazione professionale e di onorabilità) quale che sia il tipo sociale adottato e anche con la presenza di soci non professionisti, a condizione che questi ultimi siano in minoranza sia nell’assemblea che nell’organo di gestione della società. Così ancora la l. n. 247/2012, recante la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che all’art. 5 conteneva una delega al governo per la disciplina della professione in forma societaria, delega i cui criteri direttivi prevedevano, tra l’altro, l’adottabilità di qualsiasi tipo societario, comprese le società di capitali e quelle cooperative, ma confermavano il divieto di partecipazione di soci non professionisti. Per altro il Governo non ha dato esecuzione alla delega, sicché, scaduto il relativo termine, si sono creati ulteriori dubbi circa la applicabilità all’esercizio della professione forense della l. n. 183/2011. Così, infine, il decreto ministeriale contenente il regolamento di attuazione del già citato art. 10 l. n. 183/2011 (d.m. 8.2.2013, n. 34), il quale, in vero, non ha aggiunto molto al quadro legislativo precedente relativo alle società di avvocati. Siffatta molteplicità di interventi normativi, non sempre coordinati, ed anzi spesso del tutto incoerenti, ha come conseguenza che la società tra professionisti finisce per risultare fattispecie di difficile identificazione, a causa della profonda diversità dei tratti identificativi ricavabili dalle diverse previsioni del legislatore. Il quadro legislativo attualmente vigente è caratterizzato, infatti, da profonde differenze di disciplina attinenti tra l’altro: a) alla possibilità di utilizzo dei diversi tipi societari, limitato in taluni casi (ad esempio il d. legis. n. 96/2001 o il d. legis. n. 163/2006) NGCC 2015 - Parte prima Società alle società di impronta personalistica o cooperativa (col trasparente intento di assicurare con ciò la «personalità» della prestazione), ed esteso in altri casi (l. n. 183/2011) a qualsiasi tipo di società, anche capitalistico; b) alla possibilità di partecipazione alla società di soci non professionisti, talora esplicitamente esclusa (ad esempio dall’art. 21 d. legis. n. 96/ 2001) talaltra consentita, anche se solo per prestazioni tecniche o per finalità di investimento (art. 10, comma 4o, l. n. 183/2011) e a condizione che i soci professionisti mantengano la prevalenza nelle deliberazioni o decisioni dei soci. Previsione, quest’ultima, che non sembra però garantire necessariamente che il governo della società permanga nelle mani dei soci professionisti; c) alla esclusività della attività professionale, esplicitamente prevista dall’art. 17, comma 2o, d. legis. n. 96/2001 in materia di società tra avvocati, e dall’art. 2, comma 1o, lett. c), l. n. 248/2006 abrogativa del divieto di fornitura di servizi professionali interdisciplinari, ma non dalla l. n. 183/2011, per la quale appare difficile affermare tale principio anche in via di interpretazione. Ma più che i problemi di identificazione della fattispecie, ciò che appare rilevante ai fini del quesito posto dalla ordinanza in commento è la difficoltà che la nozione di S.T.P. possa essere ridotta a quella di «società senza impresa» alla quale sembra voler fare riferimento il S.C. Come ha rilevato la più recente dottrina, infatti, quella di Società tra professionisti è definizione che, sulla base della l. n. 183/2011, si attaglia sia a società che offrano il risultato dell’attività professionale svolta in comune dai soci, sia a società nelle quali operano soggetti che, indipendentemente dalla loro qualifica professionale e dalla loro posizione sociale, di fatto organizzino l’attività dei soci professionisti e persino a società il cui oggetto sociale preveda l’esercizio di vere e proprie attività imprenditoriali, insieme con quelle professionali. In questi ultimi casi, infatti, la natura professionale (di tutta o parte) dell’attività svolta e dei servizi offerti non escluderebbe l’attribuibilità alla S.T.P. della qualifica di imprenditore. Il che sembrerebbe escludere che a tali società possano applicarsi norme codicistiche che, come l’art. 2956, comma 2o, abbiano come presupposto soggettivo la qualità di professionista che per definizione è incompatibile con quella di imprenditore. 2. Condizioni di applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod. civ. Quanto alla prescrizione presuntiva per i crediti dei professionisti intellettuali, va ricordato che si tratta di istituto che, secondo il costante indirizzo della giurisprudenza di legittimità, trova origine e ragione in rapporti che si svolgono senza formalità e dove il pagamento suole avvenire senza dilazione, 573 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento come per l’appunto in caso di prestazioni professionali, a prescindere dalla emissione della relativa fattura, che assume rilievo a soli fini fiscali (da ultimo Cass., 4.7.2012, n. 11145, infra, sez. III). L’ordinanza rimarca, altresì che sussistono, nel caso di specie, tutte le altre condizioni che consentono l’applicazione della prescrizione presuntiva, non avendo il cliente contestato l’esistenza e la validità dell’obbligazione, limitandosi a dedurre soltanto l’intervenuta estinzione della stessa per avvenuto pagamento. Com’è noto, infatti, ai sensi dell’art. 2959 cod. civ., l’eccezione di prescrizione presuntiva non può essere utilmente sollevata dal debitore che abbia ammesso in giudizio che il credito non sia stato estinto, circostanza che, secondo il risalente e costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi ricorrente anche quando il debitore neghi implicitamente l’esistenza, in tutto o in parte, del credito oggetto della domanda, ovvero quando egli eccepisca che il credito non è mai insorto (cfr. ex plurimis Cass., 14.6.1999, n. 5910; da ultimo Cass., 2.12.2013, n. 26986). Conseguentemente il problema si riduce, nella argomentazione della Corte, alla valutazione della equiparabilità delle società legittimate, alla luce della nuova disciplina all’esercizio di attività professionali «protette», agli esercenti di una professione intellettuale «di antica o di recente tradizione», nei confronti dei quali può essere ravvisato il presupposto soggettivo per l’applicazione della prescrizione ex art. 2956, n. 2, ovvero alla ulteriore valutazione della possibilità di estendere tale prescrizione a qualunque soggetto esercente una attività professionale, anche «non protetta», ancorché costituito in forma societaria. Tuttavia la fattispecie concreta che ha determinato l’intervento del S.C., così come ricostruibile dall’ordinanza, desta qualche perplessità. Sotto questo profilo appare non irrilevante il fatto che il professionista sia esente dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili, mentre le società in forma commerciale (e quindi anche le S.T.P.) sono certamente tenute a quell’obbligo, dal quale può derivare un agevole mezzo di prova dei pagamenti effettuati dai clienti con conseguente venir meno della ratio dell’art. 2956 n. 2 cod. civ. Dalle premesse in fatto dell’ordinanza stessa si apprende, infatti, che l’attività professionale svolta dalla società resistente risale ad un periodo compreso tra il 1993 e il 31.12.1994, epoca in cui era ancora vigente la citata disciplina della l. n. 1815/1939. Sempre dall’ordinanza, poi, si apprende essere pacifico che la prestazione dalla quale era sorto il credito era consistita nei «servizi di tenuta della contabilità fiscale, amministrativa e contabile». Tale attività rientrava quindi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 e 2 del d. legis. 28.6.2005, n. 139 (Costitu574 Società zione dell’ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, a norma dell’art. 2 della legge 24.2.2005, n. 24), tra le attività riservate ai dottori commercialisti, ragionieri commercialisti ed esperti contabili iscritti all’albo. Sulla scorta di tali premesse, se intendiamo correttamente, risulterebbe quindi che la società in questione avrebbe concluso con il cliente un contratto per l’esercizio di attività professionali protette. Ora, applicando il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, al quale la stessa Supr. Corte fa riferimento, si deve ritenere che, nel vigore dell’art. 2 l. n. 1815/1939, i contratti di prestazione di opera relativi ad attività professionali «protette», conclusi con studi associati tanto nella forma di società di capitali (Cass., 18.4.2007, n. 9237, infra, sez. III) quanto in quella di società di persone (Cass., 24.10.2008, n. 25735, infra, sez. III), fossero affetti da nullità. Sembrerebbe, quindi, potersi pervenire per questa via, anche in mancanza di una esplicita eccezione di parte (stante la rilevabilità d’ufficio della nullità), alla conclusione della inesistenza del credito azionato con il decreto ingiuntivo. Conclusione questa che renderebbe del tutto irrilevante, nel caso concreto, il profilo della applicabilità della invocata prescrizione presuntiva. Ciò senza contare che la prescrizione in questione si riferisce ad un credito sorto nel periodo 19941995, e quindi prima di tutte le modifiche legislative ricordate dalla ordinanza in materia di S.T.P. III. I precedenti 1. L’esercizio di attività professionale in forma societaria. Sul divieto assoluto di costituzione di società fra esercenti di professioni protette, per contrasto sia col precetto dell’esecuzione personale della prestazione sia col disposto degli artt. 1 e 2 l. n. 1815/1939 si veda Cass., 12.3.1987, n. 2555, in Foro it., 1988, I, 554 con nota di Mantineo, e in Giust. civ., 1987, I, 2296, con nota di Marinelli. Sulla nullità del contratto d’opera professionale stipulato, sotto la vigenza dell’art. 2 l. n. 1815/1939, con uno studio associato organizzato in forma di società di persone, Cass., 24.10.2008, n. 25735, in Giur. it., 2009, 1934. Per l’analoga conclusione, in caso di società di capitali avente ad oggetto l’espletamento di professioni intellettuali protette, in applicazione di un principio risalente e consolidato v. Cass., 18.4.2007, n. 9236, in Mass. Giur. it., 2007; conf. Cass., 18.4.2007, n. 9237, in Foro it., 2007, I, 2400, con nota di Ubertazzi e in Notariato, 2007, 378. 2. Condizioni di applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod. civ. Sulla ratio della prescrizione presuntiva, e sulla conseguente inapplicabilità alla ipotesi di rapporto NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento professionale concluso per iscritto, si veda da ultimo Cass., 4.7.2012, n. 11145, in Mass. Giust. civ., 2012. Per la conferma della rilevanza della (mancata) contestazione del credito ai fini della ammissibilità della eccezione di prescrizione presuntiva, Cass., ord. 14.6.2012, n. 9763, in DeJure, che dichiara la manifesta infondatezza del motivo fondato su tale mancata contestazione, costituendo essa «il presupposto per l’applicazione dell’istituto»; da ultimo Cass., 2.12.2013, n. 26986, in CED Cassazione, 2013, nella quale, per altro, si nega la applicabilità dell’art. 2956 cod. civ. all’attività di ricerca ed editoriale svolta su incarico di terzi da un team di ricercatori, non riconducibile all’esercizio di una «professione intellettuale di antica o di recente tradizione». Sul tema centrale dell’ordinanza, relativo alla applicabilità della prescrizione presuntiva ai crediti derivati dall’esercizio di attività professionali in forma societaria o comunque associato non risultano precedenti in termini. La giurisprudenza di legittimità si è, invece, pronunciata più volte sulla applicabilità del privilegio previsto dall’art. 2751 bis cod. civ. agli studi associati: si veda Cass., 8.9.2012, n. 18455, in questa Rivista, 2012, I, 341 ss., con nota di Giuliano, La scure della Cassazione sul riconoscimento del privilegio al credito delle associazioni professionali. In quella decisione il S.C. esclude l’ammissione al fallimento con privilegio del credito vantato da una associazione professionale, in quanto la proposizione della domanda da parte di quest’ultima lascia presumere l’esclusione della personalità del rapporto d’opera professionale. Sul punto si veda anche Cass., 5.3.2015, n. 4485, Guida al dir., 2015, fasc. 14, 68, ove, nell’affermare l’ammissione in via privilegiata del credito di un avvocato, la Corte afferma che «ciò che occorre accertare ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 2, non è se il professionista richiedente abbia o meno organizzato la propria attività in forma associativa, ma se il cliente abbia conferito l’incarico dal quale deriva il credito a lui personalmente ovvero all’entità collettiva». Nel primo caso, infatti, il privilegio dovrebbe essere riconosciuto, indipendentemente dal fatto che lo studio sia o meno associato; nel secondo, invece, il privilegio non potrebbe essere concesso in quanto il credito sarebbe relativo ad un «corrispettivo riferibile al lavoro del professionista solo quale voce del costo complessivo di un’attività che è essenzialmente imprenditoriale». IV. La dottrina 1. L’esercizio di attività professionale in forma societaria. Per un’ampia e sistematica disamina delle problematiche legate all’esercizio in comune ed in particolare in forma societaria di una NGCC 2015 - Parte prima Società professione intellettuale si veda Ibba, Professioni intellettuali e società, in Aa.Vv., Le professioni intellettuali, Utet, 1987, 385 ss. Nel vigore della l. n. 1815/ 1939 ritenevano preclusa la utilizzabilità di qualsiasi tipo di società Cottino, Diritto commerciale. Le società e le altre associazioni economiche, Cedam, 1994, 67 ss., Campobasso, Diritto delle società, Utet, 1999, 20; erano, invece, di contrario avviso Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, nel Trattato Rescigno, 16, Utet, 1985, 18 ss., Di Sabato, Manuale delle società, Utet, 1995, 14 ss., Schiano Di Pepe, Le società di professionisti. Impresa professionale e società fra professionisti, Giuffrè, 1977; Ibba, La società tra professionisti dopo l’abrogazione dell’art. 2, l. 1815/1939, in Riv. notar., 1997, II, 1360; Pavone La Rosa, Società tra professionisti e artisti, in Riv. soc., 1998, 93. Per la disamina dei diversi profili dell’esercizio in forma associata della professione legale, si vedano Ibba-Stella Richter-Marasà-Scognamiglio-Ficari, in Aa.Vv., Le società di avvocati (Commento al d.lgs.2 febbraio 2001, n. 96), Giappichelli, 2002. In particolare sulla natura professionale dell’attività svolta da queste società, e sulla riferibilità alla società dei contratti d’opera professionale e dei relativi crediti si veda Ibba, La società fra avvocati: profili generali, in Riv. dir. civ., 2002, II, 355 ss., Montalenti, La società tra avvocati, in Società, 2001, 1169 ss. Per la natura professionale delle società di revisione legale si esprimeva Bussoletti, Le società di revisione, Giuffrè, 1985 e, più di recente, Pavone La Rosa, op. cit., 97 ss. Sulla utilizzabilità di tutti i tipi e gli schemi societari, ivi comprese le società unipersonali o le forme di s.r.l. semplificata, per la S.T.P. regolata dalla l. 183/2011 si veda Marasà, Le società tra professionisti, in Riv. soc., 2014, 429 ss.; Ibba, Le società tra professionisti: ancora una falsa partenza, in Riv. notar., 2012, I, 1 ss.; Cian, La nuova società tra professionisti. Primi interrogativi e prime riflessioni, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 3 ss.; Id., Gli assetti proprietari nelle società tra professionisti, ibidem, 343 ss.; Cagnasso, Soggetti ed oggetto della società tra professionisti, in Il Nuovo Diritto delle Società, 2012, n. 3, 9 ss. Sul tema del vincolo di esclusività che circoscriva l’oggetto sociale delle S.T.P. al solo esercizio di attività professionale v. Marasà, op. ult. cit., 446 ss.; Rossi-Codazzi, La società tra professionisti: l’oggetto sociale, in Società, 2012, 5 ss. 2. Condizioni di applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod. civ. Sui presupposti della prescrizione presuntiva, v. Bianca, Diritto civile, 7, Le garanzie reali. La prescrizione, Giuffrè, 2012. Pacifica risulta anche in 575 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento dottrina la possibilità che l’ammissione di mancata estinzione della obbligazione, prevista dall’art. 2959 cod. civ. come causa di inammissibilità della eccezione di prescrizione presuntiva, derivi implicitamente dal tenore delle eccezioni svolte dal debitore, essendo sufficiente per la validità di tale ammissione la volontarietà tipica dell’atto giuridico: Ferrucci, voce «Prescrizione», nel Noviss. Digesto it., XIII, Utet, 1966, 653. Sugli aspetti della applicabilità del- 576 Società la prescrizione presuntiva da ultimo Costantini, voce «Prescrizioni presuntive», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., VI agg., Utet, 2011, 680 ss.; Genovese, Prescrizioni presuntive e crediti professionali nell’elaborazione della giurisprudenza, in Giust. civ., 2010, II, 39 ss. Carmine Macrì NGCC 2015 - Parte prima Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti LA TUTELA CIVILE DEGLI ANZIANI ALLA LUCE DELL’ART. 25 DELLA CARTA DI NIZZA [,] di Edoardo Bacciardi Sommario: 1. Premessa: la «terza età» nell’età dei diritti. – 2. La condizione giuridica degli anziani nel dibattito dottrinale. – 3. L’art. 25 della Carta di Nizza. – 4. La tutela degli anziani in ambito patrimoniale... – 5. Segue: e nella sfera dei rapporti personali. – 6. Le esigenze abitative ed assistenziali nell’età senile. – 7. L’anziano e il risarcimento del danno. – 8. Conclusioni. 1. Premessa: la «terza età» nell’età dei diritti. L’esame delle condizioni di vita degli anziani solleva interrogativi di ordine sociale, economico ed etico destinati ad influenzare le scelte di politica del diritto incidenti sulla fascia (sempre più ampia) della popolazione riconducibile sotto l’etichetta della «terza età». Si tratta, per la verità, di una categoria eterogenea e suscettibile di ulteriori sottoclassificazioni – tradotte, sul piano terminologico, in locuzioni quali «giovani» e «grandi anziani» ( 1 ), «grandi vecchi» ( 2 ), «quarta» ( 3 ) e «quinta» ( 4 ) età – rivelatesi necessarie per esprimere la specificità della condizione senile come «fase sempre più lunga e di conseguenza articolata del ciclo di vita» ( 5 ). [,] Contributo pubblicato in base a referee. ( 1 ) Cfr., rispettivamente, Mirabile, Vita attiva?: i «giovani anziani» fra insicurezza e partecipazione: dieci anni di ricerche Ires, Ediesse, 2009 e Tognetti Bordogna, I grandi anziani tra definizione sociale e salute, Franco Angeli, 2007. ( 2 ) Senin-Bartorelli-Salvioli, I grandi vecchi. Cura, assistenza e qualità della vita, Edizioni Carocci, 2013. ( 3 ) Sansone, La quarta età: inchiesta sul secolo dai capelli bianchi, Editori Riuniti, 2000. ( 4 ) Lazzari-Merler, La sociologia della solidarietà, Franco Angeli, 2003, 161. ( 5 ) Tognetti Bordogna, I grandi anziani tra definizione sociale e salute, cit., 143. NGCC 2015 - Parte seconda Con riguardo alla composizione anagrafica del nostro paese, gli studi più recenti mostrano una tendenza che condurrà, poco prima del 2030, al «sorpasso numerico della popolazione ultraottantenne (i bisnonni) su quella con meno di dieci anni (i pronipoti)» ( 6 ), con rilevanti effetti sui settori assistenziali e previdenziali ( 7 ). Nell’odierna congiuntura di recessione economica, peraltro, l’aumento delle aspettative di vita contribuisce ad aggravare i disagi e l’isolamento di una significativa componente della cittadinanza, acuendo così il rischio – alla luce del contestuale declino della natalità – di un vero e proprio conflitto tra classi anagrafiche nella ripartizione delle risorse afferenti ai sistemi di sicurezza sociale e del welfare ( 8 ). A fronte delle suddette evidenze demografiche e macroeconomiche, l’evoluzione che ha posto a fondamento di ogni aggregazione politica la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo ha lasciato ai margini, e per molti aspetti irrisolta, la c.d. questione anziana. Ed è proprio l’autore di una delle opere che meglio hanno sintetizzato il processo storico di affermazione dei diritti fondamentali dell’individuo ( 9 ) ad aver denunciato la gravità del «problema sociale» connes( 6 ) Blangiardo, L’inverno demografico, in Famiglia Cristiana, 2012, 1, 87. ( 7 ) Si rinvia, sul punto, alle riflessioni di Monacelli, La protezione sociale degli anziani in Italia tra previdenza e assistenza: un’analisi retrospettiva in una prospettiva di riforma, in Politica economica, 2007, 289 ss. ( 8 ) Bertocchi, L’equità generazionale: la nascita di un dibattito, in Piancastelli-Donati (a cura di), L’equità fra le generazioni. Un dibattito internazionale, Franco Angeli, 2003, 137. ( 9 ) Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990. 293 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti so al duplice aumento del «numero dei vecchi» e degli «anni che si vivono da vecchi» ( 10 ), confutando così la tradizionale concezione – tramandatasi da Cicerone a Mantegazza – che esalta la senescenza quale momento sereno, virtuoso e, per alcuni aspetti, addirittura migliore della giovinezza ( 11 ). Dall’angolo visuale del diritto civile, la complessità sociale e giuridica della condizione anziana rende necessario valutare, anche alla luce delle indicazioni offerte dall’art. 25 della Carta di Nizza, se risulti o meno enucleabile uno status connesso alla terza età. Dopo aver sciolto detta alternativa ermeneutica, l’attenzione verrà concentrata sui rimedi codificati dal legislatore – e/o elaborati da giurisprudenza e dottrina – al fine di tutelare l’anziano nelle sue decisioni affettive, esistenziali ed economiche. Dovendo circoscrivere l’indagine ai rapporti privatistici, saranno passate in rassegna le forme di protezione degli individui in età avanzata nella sfera patrimoniale, personale e nel settore della responsabilità extracontrattuale, con alcune specifiche riflessioni sui temi della casa e delle cure degli anziani, soprattutto in ragione della concorrenza fra strumenti pubblicistici e privatistici finalizzati al soddisfacimento delle esigenze abitative ed assistenziali proprie della senescenza. Soltanto alla luce di tale panoramica, si potrà cercare di dare risposta ai quesiti afferenti al perché di una tutela civilistica dell’anziano, nonché – e soprattutto – al come detta tutela debba essere in concreto articolata e resa operante. ( 10 ) Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, 1996, 24. ( 11 ) Ad avviso del Bobbio queste opere – ascrivibili ad un «vero e proprio genere letterario» – devono essere considerate «apologetiche» e «stucchevoli», al pari della moderna retorica della vecchiaia diffusa «soprattutto attraverso i messaggi televisivi, con una forma larvata e peraltro efficacissima di captatio benevolentiae verso eventuali nuovi consumatori. In questi messaggi non il vecchio, ma l’anziano, termine neutrale, appare ben portante, sorridente, felice di essere al mondo, perché può finalmente godere di un tonico particolarmente corroborante o di una vacanza particolarmente attraente»; cfr. Bobbio, op. cit., 24 s. 294 2. La condizione giuridica degli anziani nel dibattito dottrinale. La questione della configurabilità, nel nostro ordinamento, di una categoria giuridica degli anziani – e la conseguente attribuzione del relativo status alle persone fisiche ivi riconducibili – ha suscitato un acceso dibattito dottrinale. Il tradizionale «agnosticismo dei codici per i problemi della vita materiale» ( 12 ), in particolare, rende arduo stabilire se, ed in quale misura, il progressivo decadimento delle forze fisiche e mentali che accompagna l’invecchiamento legittimi l’edificazione di uno statuto giuridico speciale e derogatorio rispetto al diritto comune. Ed infatti, in un contesto normativo che declina l’età in un’accezione esclusivamente anagrafica – affidandole il compito di discernere i soggetti legittimati a partecipare al traffico giuridico da quelli che ne restano pretermessi ( 13 ) – le conseguenze biologiche del trascorrere degli anni restano inevitabilmente sullo sfondo, così come la loro incidenza sulle abitudini di vita dei consociati. Sulla base di un primo orientamento, il silenzio del legislatore non osta alla riconducibilità della senescenza nell’alveo di quelle condizioni di fatto che legittimano l’attribuzione di c.d. «diritti di categoria», concepiti in ragione della circostanza che le situazioni in cui gli individui si trovano ad operare «non solo uguali per tutti, di modo che gli interessi, i bisogni, e perciò i diritti, delle persone variano in base al concreto determinarsi di ciascuno nella realtà economica e sociale». Secondo tale impostazione, i diritti degli anziani si troverebbero nella fase «del movimento di opinione, della elaborazio- ( 12 ) Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1982, 1118, ove si evidenzia come le codificazioni ottocentesche, nonché «le loro propaggini» del 1900, non si preoccupino «del nostro corpo e dei bisogni della vita materiale se non allo scopo di attivare, secondo un certo ordine, le solidarietà familiari in soccorso dei soggetti incapaci di provvedere a stessi». Tale disinteresse – a parere dell’a. – affonda le sue radici «nell’antropologia dei codici liberali», ove l’età opera solo come «criterio di capacità negoziale ai fini della circolazione dei beni» (1119). ( 13 ) Cfr. Mengoni, op. loc. citt. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani ne ideologica e culturale cui non corrisponde ancora il riconoscimento da parte dell’ordinamento» ( 14 ). Sull’opposto versante interpretativo, la scelta di non definire lo status di persona in età senile viene ritenuta «del tutto condivisibile», in quanto l’introduzione di una normativa «particolare e specifica “per gli anziani” finirebbe probabilmente per creare nuove barriere di emarginazione» ( 15 ). La costruzione di uno statuto giuridico della terza età – è stato altresì osservato – assumerebbe connotati ingiustificatamente discriminatori, nella misura in cui le «preclusioni, decadenze e divieti in base a determinate età» opererebbero «a prescindere dalle reali condizioni psico-fisiche della persona» ( 16 ). In questa prospettiva, la «inesistenza di una categoria protetta di persone anziane» ( 17 ) diviene un corollario del principio per cui la senescenza, in quanto «espressione di un aspetto fisiologico della vita umana» ( 18 ), non può determinare – in assenza di ulteriori e diverse circostanze di natura medica, economica o sociale – un’alterazio( 14 ) Bessone-Ferrando, voce «Persona fisica (diritto privato)», in Enc. del dir., XXXIII, Giuffrè, 1983, 214. Nella medesima prospettiva cfr. Saetta, La condizione degli anziani alla luce dei principi costituzionali, in Riv. dir. lav., 1978, 162 ss., il quale riscontra «l’esistenza di un insieme di soggetti, valutabili in circa un decimo della popolazione, che pur non potendo essere considerati vecchi, nella accezione tradizionale, presentano tuttavia esigenze esistenziali comuni, nonché concrete situazioni di bisogno non necessariamente materiali, alle quali non è stata offerta da parte della società civile una soddisfacente risposta» (163). ( 15 ) Dogliotti, I diritti degli anziani, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1987, 714. In tal senso v. anche P. Perlingieri, Diritti della persona anziana, diritto civile e stato sociale, in Stanzione (a cura di), Anziani e tutele giuridiche, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991, 96-99. ( 16 ) C.M. Bianca, Senectus ipsa morbus?, in Aa.Vv., Studi in onore di Pietro Rescigno, II, Giuffrè, 1998, 98. ( 17 ) Stanzione, voce «Anziani (assistenza agli)», in Enc. del dir., Aggiornamento III, Giuffrè, 1999 118; Id., Le età dell’uomo e la tutela della persona: gli anziani, in Riv. dir. civ., 1989, I, 447 ss. ( 18 ) Stanzione, voce «Anziani (assistenza agli)», cit., 119. NGCC 2015 - Parte seconda ne della soggettività e/o capacità facente capo alla persona fisica ( 19 ). Secondo un ulteriore approccio ermeneutico, l’impossibilità di ricavare dal diritto la nozione di anziano – stante la «ghettizzazione» e gli «ingiustificati privilegi» ( 20 ) alternativamente discendenti dalla titolarità di un tale status – non esime l’interprete dall’enucleare un concetto di senilità «che nasce e si definisce nel sociale» ma – al contempo – assurge alla sfera del giuridicamente rilevante «in virtù degli artt. 2 e 3 Cost., alla luce dei quali (...) è funzione primaria dell’ordinamento la tutela dell’uomo durante l’intero arco della sua vita» ( 21 ). La nozione – nonché, implicitamente, la condizione – di anziano divengono così un criterio «sociale ma giuridificato» ( 22 ) e, in quanto tale, idoneo a indirizzare la valutazione giudiziale in questioni delicate come la liquidazione del danno non patrimoniale, la «puntualizzazione» del contenuto dell’obbligo di correttezza ex art. 1337 cod. civ. o, ancora, la determinazione del termine di proroga per il rilascio dell’immobile locato ad uso abitativo. La proposta di ricondurre il concetto sociale di anziano entro il bagaglio di strumenti che concorrono alla formazione del convincimento del giudice si rivela idonea a coniugare le due opposte tesi sulla (ir)rilevanza giuridica della condizione senile, in quanto consente, da un lato, di modellare il contenuto della decisione sul tipo (e grado) di incidenza che l’età abbia concretamente assunto nella controversia devoluta all’Autorità Giudiziaria, lasciando – da ( 19 ) Sul punto, è stato evidenziato: «non è questione (...) di elaborare uno statuto degli anziani; si tratta piuttosto di individuare adeguate soluzioni per la protezione di soggetti non in quanto in età avanzata, ma perché in una situazione di particolare debolezza. Non una tutela dell’anziano in sé, dunque, ma una tutela dell’anziano effettivamente disabile»; cfr. Lisella, Rilevanza della «condizione di anziano» nell’ordinamento giuridico, in Stanzione (a cura di), Anziani e tutele giuridiche, cit., 74. ( 20 ) D’Arrigo-Parrinello, L’anziano nel sistema e nell’interpretazione giuridica, in Tommasini (a cura di), Soggetti e ordinamento giuridico. Segmenti del corso di diritto civile, Giappichelli, 2000, 124. ( 21 ) Eid., op. cit., 128. ( 22 ) Eid., op. cit., 129. 295 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti un altro lato – inalterata la conclusione per cui la senescenza non può dare luogo, di per sé, ad alcuno status normativamente rilevante. 3. L’art. 25 della Carta di Nizza. L’impossibilità di forgiare una categoria giuridica della terza età su basi esclusivamente demografiche trova conferma sia nel tessuto costituzionale – ove la persona anziana riceve tutela soltanto sul piano assistenziale e socio-sanitario ( 23 ) – sia nella formulazione dell’art. 25 della Carta di Nizza, in forza del quale «l’Unione riconosce e rispetta il diritto degli anziani di condurre una vita dignitosa e indipendente e di partecipare alla vita sociale e culturale». Dalla collocazione della norma nel capo afferente alla «uguaglianza», in particolare, si evince la volontà delle istituzioni comunitarie di escludere la legittimità di trattamenti giuridici differenziati in ragione del mero dato anagrafico ( 24 ). Nel quadro di valori accolto dai redattori della Carta di Nizza – e divenuto giuridicamente vincolante a seguito del Trattato di Lisbona – l’invecchiamento biologico non legittima, pertanto, l’attribuzione di uno statuto giuridico speciale, potendo semmai costituire – laddove accompagnato da ulteriori e specifiche situazioni di debolezza – un ostacolo che impedisce il pieno sviluppo della persona umana e/o la sua effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale ( 25 ). Il soggetto anzia( 23 ) Cfr., ex plurimis, Lisella, op. cit., 72 s., il quale valorizza, oltre all’art. 38, comma 2o, Cost., il disposto dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2 l. 23.12.1978, n. 833, ove si menziona, tra gli obiettivi del Servizio Sanitario Nazionale, «la tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione». ( 24 ) È lo stesso art. 21 della Carta a stigmatizzare ogni disparità di trattamento fondata sulla «età», stante l’inclusione di tale variabile nei divieti di discriminazione posti dal precetto di fonte sovranazionale. ( 25 ) Sulle ricadute «civilistiche» dell’art. 25 della Carta scrive, recentemente, Falletti, voce «Carta di Nizza (Carta europea dei diritti fondamentali)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Utet, 2009, 26: «sotto il profilo privatistico, questa disposizione assume importanza qualora letta 296 no – è stato all’uopo osservato – «non diviene (...) titolare di diritti speciali, ma solamente beneficia di una particolare tutela, conseguenza di una possibile compressione della propria sfera di autodeterminazione, di modo che diviene compito primario del legislatore rimuovere ogni ostacolo al pieno svolgimento della sua vita in società» ( 26 ). La stessa Corte di cassazione, nel qualificare l’art. 25 come «norma precettiva e non solo programmatica e orientativa per i giudici nazionali», ha valorizzato l’ubicazione topografica e concettuale della disposizione «sotto il valore della uguaglianza», così da rendere «i diritti degli anziani (...) fondamentali ed inviolabili» ( 27 ). Per quanto attiene al coordinamento sistematico tra gli artt. 21 e 25 della Carta, le due norme sembrano rispettivamente riconducibili entro la declinazione formale e sostanziale dell’uguaglianza. Mentre, infatti, il principio di non discriminazione sancisce il divieto di trattamenti differenziati in ragione dell’età, la disposizione dedicata agli anziani, in quanto volta ad assicurare «una garanzia non solo formale, ma anche sostanziale dell’uguaglianza» ( 28 ), prescrive al legislatore di assicurare a tutti soggetti in età avanzata una vita indipendente e dignitosa, nonché di favorirne l’inserimento nel contesto sociale e culturale. Entro questo orizzonte interpretativo, i valori di dignità, indipendenza e partecipazione richiamano l’attenzione di tutti gli operatori del diritto su una condizione anagrafica che, ove accompagnata in combinato disposto con le disposizioni della Carta in tutela del principio di autodeterminazione e di integrità fisica, considerate la particolare fragilità, sensibilità e spesso incapacità dell’anziano di manifestare la propria volontà liberamente da impedimenti psichici ovvero fisici conseguenti alla senescenza». ( 26 ) Viglione, L’Europa del sociale e le nuove sfide normative: la situazione europea sull’affido dell’anziano e dell’adulto in difficoltà, in Vincenzoni (a cura di), Anziani da slegare. Invecchiare a casa propria. Le garanzie dell’affido e della domiciliarità, Maggioli Editore, 2011, 33. ( 27 ) Cass., 7.2.2011, n. 2945, in www.dejuregiuffre.it. ( 28 ) Polacchini, Il principio di eguaglianza, in Mezzetti (a cura di), Diritti e doveri, Giappichelli, 2013, 264. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani da ulteriori circostanze – quali la malattia, l’indigenza o, semplicemente, la solitudine – rischia di compromettere l’effettivo godimento dei diritti inviolabili della persona nell’ultima fase della sua esistenza. Con riguardo alla dignità, la volontà delle istituzioni europee di ribadire tale principio – cui è dedicato l’intero capo I della Carta – nell’ambito della tutela degli anziani esprime il ripudio di ogni concezione che faccia discendere dalla senilità – e/o dai problemi psico-fisici ad essa connessi – una capitis deminutio che si identifica, negli orientamenti più estremi, con la negazione della stessa soggettività giuridica. Il riferimento è alla corrente di pensiero sviluppatasi nella bioetica nord-americana ( 29 ) e imperniata sulla distinzione tra persone in senso stretto – costituite dagli agenti morali dotati di autocoscienza e libertà del volere – e persone in senso sociale, sprovviste dei predetti connotati e dunque frutto di una mera «creazione di comunità particolari» ( 30 ). Alcuni degli esempi menzionati dal principale fautore di tale approccio teorico – quali la demenza senile ed il morbo di Alzheimer – evidenziano uno stretto legame tra la condizione anziana e la (possibile) perdita della qualità di persona in senso stretto ( 31 ). Contro la suddetta impostazione – ritenuta espressione di un «riduzionismo biologico (...) scioccante» ( 32 ) – è stato obiettato che «si è persona in virtù della natura razionale e, non necessariamente, in virtù del possesso e dell’esercizio di certe proprietà e funzioni o della possibilità effettiva di compiere determinate ( 29 ) Engelhardt Jr., Manuale di bioetica, trad. it. di Stefano Rini, Il Saggiatore, 1999, 155 ss. ( 30 ) Id., op. cit., 173. In tale seconda categoria rientrerebbero, oltre ai bambini ed ai soggetti gravemente ritardati e/o menomati, gli «individui che non sono più persone, ma che lo sono state in passato e restano ancora capaci di qualche interazione minimale». ( 31 ) Id., op. cit., 169. ( 32 ) Bauzon, Bioetica e persona, in Girolami (a cura di), L’educazione alla bioetica in Europa, SEEd Edizioni Scientifiche, 2008, 41, la quale ravvisa in tale impostazione «uno scivolamento dell’essenza verso l’esistenza, o, per meglio dire, dell’oblio della densità ontologica della persona biogiuridica». NGCC 2015 - Parte seconda azioni» ( 33 ); conseguentemente, i «moribondi, anziani dementi, handicappati, comatosi, nonostante la compromissione delle condizioni fisico-psichiche, manifestano ancora la permanenza di quelle caratteristiche empirico-biologiche che le rendono riconoscibili come persone in atto» ( 34 ). Orbene, il testo dell’art. 25 della Carta dei diritti fondamentali recepisce le critiche mosse all’idea engelhardtiana di persona (anziana), proclamando la dignità di ogni individuo a prescindere dal grado di decadimento fisico e/o intellettuale che eventualmente lo affligga in ragione dell’età anagrafica. Il valore della dignità costituisce, a sua volta, la base concettuale su cui si innestano gli altri diritti richiamati dalla norma, ossia l’indipendenza – intesa quale conservazione di un minimo livello di autosufficienza economica e sociale – e la partecipazione, giacché «un’esistenza dignitosa costituisce il presupposto di una partecipazione – non marginale ma – paritaria alla vita sociale e alla sua dimensione culturale» ( 35 ). Per quanto attiene, in particolare, all’inserimento sociale dei soggetti in età avanzata, è stata rimarcata l’esigenza di «creare un’opinione diffusa a favore degli anziani, così che questi possano partecipare in modo paritario alla costruzione delle nostre comunità di vita, aiutati nelle loro debolezze, ma anche messi in grado di contribuire allo sviluppo condiviso» ( 36 ). Soltanto la valorizzazione della capacità di partecipazione dell’anziano – nonché delle sue possibilità di re-inserimento a seguito un even- ( 33 ) Zeppegno, Bioetica. Ragione e fede, Effatà Editrice, 2007, 112. «Tale procedimento logico – prosegue l’a. – cancella le ipotizzate suddivisioni engelhardtiane tra persona in senso stretto (...) e persona in senso sociale (...). Si è persona dal momento in cui si forma la sostanza. Si perdono le caratteristiche personali solo quando la stessa sostanza si dissolve». ( 34 ) Id., op. cit., 112-113. ( 35 ) Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, in Aa.Vv., Studi in onore di Nicolò Lipari, I, Giuffrè, 2008, 1619. ( 36 ) Trabucchi, Introduzione a Cristini-Porro-Cesa Bianchi (a cura di), Le capacità di recupero dell’anziano, Franco Angeli, 2011, 13 ss. 297 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti tuale periodo di difficoltà – può favorire l’aumento degli individui che «anche da vecchi esercitano la capacità di fare, per contribuire sul piano economico, organizzativo ed affettivo alla vita comune, oltre che alla loro personale soddisfazione» ( 37 ). Le scelte di politica del diritto condensate nell’art. 25 della Carta di Nizza hanno trovato diffusione e sviluppo durante l’anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni (2012), istituito con la decisione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 settembre 2011. L’obiettivo di fare dell’Europa una «società per tutte le età» (art. 1), in particolare, è stato perseguito attraverso una serie di campagne informative e promozionali, conferenze, manifestazioni, scambi di informazioni ed altre iniziative dedicate ai temi della dignità della condizione anziana e della solidarietà tra generazioni. In definitiva, all’agnosticismo codicistico denunciato da Luigi Mengoni si contrappone, nella dimensione europea, una «inattesa» apertura «verso la realtà della condizione umana», tesa a conferire dignità giuridica a figure – quali minori, portatori di handicap e, appunto, anziani – «a lungo appannate dal prevalere di un’idea astratta di soggetto giuridico, per ciò indifferente alla realtà delle condizioni materiali» ( 38 ). 4. La tutela degli anziani in ambito patrimoniale... Nella sfera dei rapporti patrimoniali, la tutela delle persone in età avanzata si muove lungo due linee direttrici, rispettivamente afferenti alla gestione dei cespiti a queste facenti capo ed alla (corretta) formazione del consenso nelle attività giuridiche suscettibili, anche se compiute in via episodica, di arrecare pregiudizio all’anziano. Con riguardo al primo profilo, sotto l’impero del codice del 1865 la dottrina aveva collocato la «grande vecchiaia» ( 39 ) tra le fattispecie in cui l’infermità del soggetto non risulta così ( 37 ) Id., op. loc. citt. ( 38 ) Così Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, 2006, 25. ( 39 ) Cattaneo-Borda, Il codice civile italiano annotato, I, Camilla e Bertolero, 1873, 776. 298 grave da giustificare la pronuncia di interdizione, dovendosi disporre l’inabilitazione dell’anziano, quale forma di tutela contro il «pericolo che [questi] abusi nelle obbligazioni, contratti ed atti del suo stato» ( 40 ). La rigidità dell’alternativa interdizione/inabilitazione – recepita dal legislatore del 1942 – ha suscitato accese critiche, connesse sia alla mortificazione sociale inevitabilmente sottesa ai due istituti incapacitanti, sia alla «beffa, ancor più amara» per cui tali misure vengono spesso strumentalizzate per la tutela di «interessi patrimoniali di terzi e in particolare di coloro che aspirano a godere l’eredità dell’anziano» ( 41 ). Il presunto parallelismo tra età (avanzata) e incapacità (legale di agire) è stato definitivamente superato con l’entrata in vigore della legge sull’amministratore di sostegno, ritenuta un utile «supporto» per le difficoltà materiali ed i problemi psico-fisici propri della terza età ( 42 ); se, infatti, per un verso deve respingersi la massima condensata nell’espressione senectus ipsa est morbum – con la conclusione che «l’età da sola (...) non giustifica l’intervento di sostegno» ( 43 ) – per un altro verso è indubbio che il decadimento fisico e cognitivo connesso all’invecchiamento possa, verosimilmente e statisticamente, rendere necessario un ausilio per l’anziano che si trovi, anche solo temporaneamente, in stato di difficoltà. Una rassegna delle pronunce emesse a seguito della l. 9.1.2004, n. 6 mostra un utilizzo «disinvolto» della nuova misura, talvolta impiega( 40 ) Cattaneo-Borga, op. loc. citt. ( 41 ) Bianca, op. cit., 96. ( 42 ) Ciocia, Amministrazione di sostegno: un supporto per gli anziani, in Giur. it., 2005, 1626 ss. ( 43 ) Bonilini, Persone in età avanzata, e amministrazione di sostegno, in Fam., pers. e succ., 2005, 7 ss. Anche la giurisprudenza di merito ha evidenziato che «l’amministrazione di sostegno non può essere applicata a coloro che, pur essendo affetti da menomazione fisica o da altre limitazioni a causa dell’età, mantengano integre le loro funzioni cognitive e siano, pertanto, in grado di organizzare la propria quotidianità conferendo in piena autonomia a persone di loro fiducia la gestione dei propri interessi»; cfr. Trib. Roma, 26.5.2008, in Cendon-Rossi (a cura di), L’amministrazione di sostegno. Motivi ispiratori e applicazioni pratiche, Utet, 2009, 475 s. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani ta per far fronte a situazioni di difficoltà fisica trascurabili, con il conseguente disagio dello stesso beneficiario ( 44 ). Non sono mancate, inoltre, decisioni in cui l’istituto è stato utilizzato per assecondare scelte esistenziali e religiose – quali il rifiuto di trasfusioni di sangue da parte di un testimone di Geova ( 45 ) – ovvero per sostenere le ragioni dell’anziano in situazioni di conflitto con terzi ( 46 ). A distanza di oltre un decennio dalla novella del 2004, l’impatto della legge sull’amministrazione di sostegno può ritenersi complessivamente positivo. Oltre ad aver agevolato la conservazione e gestione del patrimonio di molti anziani (in difficoltà), infatti, il nuovo istituto ha consentito – in ragione della sua elasticità – di dare rilievo ad una serie situazioni e rapporti che, soprattutto nell’età senile, si rivelano essenziali per la cura della persona. Si segnala, a titolo esemplificativo, una decisione del 2011 che ha assecondato la volontà della beneficiaria – affetta da gravi patologie e ricoverata presso una casa di assistenza e cura – di trascorrere una parte del proprio tempo con il cane di sua proprietà, «attesa la necessità di garantire il rispetto del (...) rapporto [con l’animale] anche sotto il profilo riguardante la dignità della persona» ( 47 ). Venendo al secondo aspetto connesso alla tutela del patrimonio dell’anziano – ed afferente, come anticipato, alle attività negoziali da questi compiute in via episodica – una siffatta protezione può rendersi necessaria, in via complementare, non solo là dove venga adottata la misura dell’amministrazione di sostegno (stante la piena capacità del beneficiario per gli atti non contemplati nel decreto di nomina) ma an- ( 44 ) Il rilievo è di Bonilini, op. cit., 9, in relazione a Trib. Modena, 10.10.2005. ( 45 ) Trib. Modena, 16.9.2008, in Dir. fam. e pers., 2009, 261. ( 46 ) Trib. Varese, 18.6.2010, ivi, 2011, 1254, il quale ha nominato un amministratore di sostegno per tutelare un condomino che, sebbene «nel pieno possesso delle facoltà mentali e dotato anche di grande pazienza ed equilibrio», non riusciva ad ottenere dai propri vicini la collaborazione per eliminare gli impedimenti architettonici presenti nell’immobile. ( 47 ) Trib. Varese, 7.12.2011, in questa Rivista, 2012, I, 377 ss., con nota di Cendon-Rossi. NGCC 2015 - Parte seconda che nell’ipotesi in cui il Giudice, contestualmente alla pronuncia di interdizione e/o inabilitazione, stabilisca – in ossequio alla lettera del novellato art. 417 cod. civ. – che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, ovvero che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore. Il problema del consenso dell’anziano in ambito negoziale muove dalla constatazione che «la posizione di debolezza sociale e psicologica associata all’età [può] sfociare in vizi del consenso prestato a stipule contrattuali, per azioni circonventorie da parte dei partners negoziali o anche per una non corretta comprensione delle conseguenze dell’impegno assunto» ( 48 ). Nelle norme dedicate alla invalidità del contratto, come noto, il dato anagrafico viene in rilievo soltanto nell’art. 1435 cod. civ., il cui riferimento all’età nella valutazione dell’impatto della violenza morale è considerato «uno dei pochi casi in cui il nostro codice prevede una norma a tutela degli anziani» ( 49 ), in quanto – si afferma – «una violenza che non dovrebbe preoccupare un soggetto di media età, potrebbe suscitare più ampio timore nell’anziano» ( 50 ). Parte della dottrina ha contestato la fondatezza di tale assunto, evidenziando che la menzione dell’età e del sesso non sottende affatto la regola di esperienza per cui «gli anziani e le donne sono più impressionabili dei giovani e degli uomini» ( 51 ). La ratio della disposizione dovrebbe piuttosto ascriversi alla volontà legislativa di «relativizzare» i criteri tramite cui valutare il requisito della gravità della minaccia, «fermo restando che un pensionato potrebbe avere meno da temere di un impiegato di servi( 48 ) Ianni, Il consenso dell’anziano in ambito negoziale, in Giur. merito, 2011, 2965 ss. ( 49 ) Giannotte, La violenza, in Fasano (a cura di), I vizi del consenso, Giappichelli, 2013, 131. ( 50 ) Dogliotti, op. cit., 712. ( 51 ) E. Minervini, Esiste la categoria giuridica degli anziani?, in Giur. it., 1989, 319, ad avviso del quale, ove la norma venisse interpretata in tal senso, essa risulterebbe, «con ogni probabilità, costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 3, 1o comma, della Costituzione». 299 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti zio, un anziano professionista meno di un giovane alle prime armi, e così via» ( 52 ). La tesi secondo cui la condizione anziana non amplifica, di per sé, la percezione soggettiva di ogni violenza si rivela preferibile, in quanto consente al giudice di ponderare, assieme all’età, tutte le variabili indicate dall’art. 1435 cod. civ., calando tale valutazione sinergica nella vicenda sottoposta alla sua cognizione e tenendo conto sia del tipo di male minacciato, sia dei mezzi concretamente prospettati per la sua realizzazione. Altra norma potenzialmente invocabile dall’anziano che voglia rendere inefficace l’attività giuridica compiuta è l’art. 428 cod. civ., dettato in materia di incapacità naturale e ritenuto applicabile a fronte del risconto di disturbi quali la «demenza senile o altre malattie legate all’insorgere dell’età» ( 53 ). In senso contrario, peraltro, è stato autorevolmente osservato che restano esclusi dallo spettro applicativo dell’art. 428 cod. civ. «gli stati di indebolimento delle facoltà sensoriali o di giudizio dovuti all’età» ( 54 ), non potendo essi costituire indice sintomatico dell’incapacità di intendere e di volere. Posta dunque l’assenza di una disposizione di carattere generale che tuteli, de iure condito, l’agire negoziale delle persone in età avanzata, parte della dottrina ha ipotizzato – quale alternativa all’applicazione generalizzata dell’amministrazione di sostegno – l’introduzione di una «presunzione di “debolezza del volere”» di coloro che abbiano «superato il settantacinquesimo anno di età» ( 55 ). Il tentativo di presidiare l’attività contrattuale dei cc.dd. grandi vecchi dietro lo schermo di ( 52 ) E. Minervini, op. loc. citt. ( 53 ) Ianni, Il consenso dell’anziano in ambito negoziale, cit. ( 54 ) Mengoni, op. cit., 1134. ( 55 ) S. Patti, Senilità e autonomia negoziale della persona, in Fam., pers. e succ., 2009, 263. A prescindere dalla soluzione che si intenda privilegiare – osserva l’autore – «appare evidente la necessità di una specifica normativa di tutela per le persone molto anziane che a causa della loro “debolezza” possono porre in essere negozi svantaggiosi, soprattutto se messi di fronte a complesse fattispecie contrattuali delle quali in genere non sono ormai in grado di valutare tutti gli effetti e i rischi» (263). 300 una presunzione di debolezza cela, tuttavia, il rischio di scoraggiare gli operatori economici dall’intraprendere trattative e/o concludere affari con i soggetti «protetti», stante la possibile, successiva, impugnazione del negozio in ragione di un’inferiorità cognitiva di cui il contraente (non anziano) si troverebbe onerato di dimostrare l’assenza. In tale prospettiva, la codificazione di una presunzione di «sfiducia» nelle capacità intellettive dei soggetti in età avanzata potrebbe comportare, quale costo macroeconomico e sociale della tutela apprestata, l’estromissione dai traffici giuridici di una considerevole fascia della popolazione. Onde evitare una ghettizzazione negoziale degli anziani (e la conseguente violazione dell’art. 25 dalla Carta di Nizza) – occorre valorizzare i numerosi rimedi introdotti dal legislatore a tutela del contraente debole – vista la tendenziale sussistenza, in capo all’anziano, dei requisiti di consumatore – rimettendo all’apprezzamento ed alla sensibilità del giudice la valutazione circa l’incidenza concretamente assunta dall’età avanzata nelle fattispecie in cui essa venga addotta quale motivo di impugnazione del contratto. 5. Segue: e nella sfera dei rapporti personali. Volgendo lo sguardo dalla dimensione patrimoniale a quella affettiva, vengono in considerazione sia l’istituto matrimoniale – statisticamente sempre più frequente nella fase della senescenza – sia i rapporti dell’anziano con i propri parenti e, segnatamente, con figli e nipoti. Per quanto attiene al matrimonio, gli «aspetti del tutto peculiari» legati all’età avanzata ed ai «connessi processi degenerativi» renderebbero, secondo una parte della dottrina, «il più delle volte» applicabili le fattispecie di invalidità previste dagli artt. 85, 119 e 120 cod. civ. ( 56 ). La trasposizione delle questioni afferenti alla formazione del consenso contrattuale dell’anziano sul terreno del diritto di famiglia, ( 56 ) Scalera, L’annullamento del matrimonio contratto dall’anziano, in Giur. merito, 2011, 2982; Barbieri-Luzzago, L’affettività dell’anziano nell’ipotesi di circonvenzione di incapace: considerazioni tecnico-valutative, in Riv. it. med. leg., 2006, 557. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani tuttavia, deve fare i conti con la qualificazione dell’unione coniugale in termini di atto personalissimo e dotato di copertura costituzionale ai sensi degli artt. 2 e 29 Cost. Ed è proprio facendo leva sull’estraneità del matrimonio alla sfera dei rapporti patrimoniali che la giurisprudenza ha ritenuto che malattie quali la sindrome di Down ( 57 ) – ovvero altri disturbi che legittimano la nomina di un amministratore di sostegno ( 58 ) – non possano inficiare la validità dell’atto. Deve dunque escludersi, a fortiori, che il decadimento fisico e/o psicologico connesso all’invecchiamento autorizzi un controllo «rafforzato» sulla genuinità del consenso matrimoniale prestato in età avanzata, né tanto meno dia luogo ad una presunzione di incapacità naturale del nubendo. La particolare attenzione riservata alla genuinità del consenso dell’anziano in ambito matrimoniale cela, in realtà, il timore che le nozze costituiscano l’esito di un raggiro perpetrato nei suoi confronti per finalità estranee all’affectio maritalis e connesse, tendenzialmente, ad interessi economici della sposa (o dello sposo) più giovane. Il crescente numero di matrimoni fra anziani e badanti ha amplificato la risonanza sociale della predetta questione, ingenerando un vero e proprio allarme – intriso, talvolta, di sfumature penalistiche ( 59 ) – fondato sulla preoccupazione che un numero crescente di persone in età avanzata, «oppressi dalla solitudine» e «spesso poco o punto autosufficienti, siano circonvenibili dalle badanti (in specie se giovani e avvenenti)» ( 60 ). Lo stereotipo dell’anziano sprovveduto e raggirato da una ragazza interessata a condurre una vita agiata, ad ottenere la cittadinanza italiana e/o ad assicurarsi una quota di eredità del marito ( 61 ), tuttavia, non può giustificare un ( 57 ) Trib. Varese, 6.10.2009, in Giur. merito, 2010, 1004 s., con nota di D’Angelo. ( 58 ) Trib. Varese, 9.7.2012, in Dir. fam. e pers., 2013, 161. ( 59 ) Cfr., sul punto, l’articolo comparso sul Corriere della Sera del 26.4.2008 dal titolo «Il pm blocca nozze tra anziano e badante. Ma in Italia c’è un vero boom». ( 60 ) Cipolla, L’anziano vittima dei reati patrimoniali, in Giur. merito, 2011, 3019 ss. ( 61 ) A testimonianza del fatto che la questione è NGCC 2015 - Parte seconda sindacato sulle scelte affettive di soggetti che, ove non sottoposti alla misura dell’interdizione giudiziale, conservano piena ed intatta la propria libertà matrimoniale. Del resto, i matrimoni di convenienza – reciproca ovvero unilaterale – vengono quotidianamente celebrati anche fra coetanei, senza che ciò legittimi l’introduzione di un vaglio in ordine all’effettiva composizione di quel mix di sentimenti e interessi che conduce gli sposi all’altare. Per quanto concerne i rapporti personali dell’anziano con i figli, il dovere di rispetto verso i genitori, sancito dall’art. 315 cod. civ., resta privo di un referente costituzionale e (soprattutto) di conseguenze atte a sanzionarne la violazione. Parte della dottrina ha rintracciato, in tale prospettiva, uno «spunto più consistente» ( 62 ) nella legge sugli ordini di protezione in tema di abusi familiari, ritenuta idonea a conferire rilievo al «pregiudizio morale che può essere arrecato con varie condotte che non integrino necessariamente fattispecie criminose anche da un figlio adulto e convivente nei confronti di un genitore anziano» ( 63 ). Oltre a non assolvere ai propri doveri morali e giuridici nei confronti dei genitori, il figlio maggiorenne potrebbe «abusare» del diritto al mantenimento previsto in suo favore sino al raggiungimento dell’autosufficienza economica. Ed infatti, come noto, il dovere di mantenimento cessa soltanto nel momento in cui i figli acquisiscono una formazione culturale e scolastica che li garantisca un’adeguata capacità lavorativa, potendo estinguersi anticipatamente soltanto laddove essi «versino in colpa per non essersi messi in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante l’esercizio di un’idonea attività lavorativa» ( 64 ). Al fine di agevolare la prova dell’indipendenza economica del figlio, la giurisprudenza ha ricotutt’altro che nuova cfr. le riflessioni di Venditti, Del matrimonio quale atto giuridico dannoso nel delitto di circonvenzione di persone incapaci, in Giust. pen., 1956, 773, relative al matrimonio fra un’apolide cecoslovacca e un ultranovantenne. ( 62 ) Longo, I diritti dei genitori anziani nei confronti dei figli, in Fam. e dir., 2003, 519. ( 63 ) Id., op. loc. citt. ( 64 ) Cass., 14.4.2010, n. 8954, in Dir. e giust., 2010. 301 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti nosciuto in capo ai genitori il diritto di accesso alla documentazione comprovante la situazione reddituale dell’avente diritto al mantenimento, ritenendo l’interesse ad ottenere la revoca dell’assegno prevalente rispetto alla privacy del figlio ( 65 ). Volgendo lo sguardo al rapporto dell’anziano coi nipoti, prima della riforma sull’affidamento condiviso tale legame affettivo veniva ritenuto giuridicamente tutelabile – in difetto di una specifica indicazione legislativa – attraverso il richiamo alla «solida morale» ( 66 ) e/o ai «principi etici» ( 67 ) cui deve ispirarsi l’esercizio della potestà genitoriale, ovvero mediante un’interpretazione evolutiva dell’art. 333 cod. civ. ( 68 ), inteso quale momento di «risoluzione delle controversie tra i vari membri del nucleo familiare» ( 69 ). A seguito dell’entrata in vigore della l. 8.2.2006, n. 54, l’art. 155, comma 1o, cod. civ. sancisce il diritto del minore a conservare – anche in caso di separazione personale fra i coniugi – rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun genitore. La riforma della filiazione del 2013 ha inoltre attribuito agli ascendenti il «diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni» (art. 317 bis cod. civ.). Con l’introduzione di tale norma – è stato osservato – il legislatore «ha per la prima volta preso in considerazione in via diretta la prospettiva e il punto di vista degli ascendenti, elevando la relativa posizione soggettiva a vero e proprio diritto [che] prescinde completamente dalla posizione dei genitori e dalla ( 65 ) T.A.R. Bari Puglia, 7.7.2003, n. 2782, in Foro amm. TAR, 2003, 2375: «al diritto all’ostensione può contrapporsi il diritto alla privacy del figlio maggiorenne in riferimento alla sua situazione reddituale, ma nel bilanciamento delle confliggenti posizioni va data prevalenza a quella del genitore che, provando una sufficiente situazione reddituale del figlio, può vedersi dichiarata l’insussistenza del suo obbligo al mantenimento». ( 66 ) Cass., 17.10.1957, n. 3904, in Rep. Foro it., 1957. ( 67 ) App. Napoli, 21.6.1965, ivi, 1965. ( 68 ) Cass., 24.2.1981, n. 1115, in Foro it., 1982, I, 1144. ( 69 ) Così Giardina, I rapporti tra genitori e figli alla luce del nuovo diritto di famiglia, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1977, 1384. 302 loro relazione, e può quindi potenzialmente emergere indipendentemente dai comportamenti di questi, dal loro stato di unione ovvero separazione, e mediante richieste dirette (a seconda della fattispecie) nei confronti di uno di essi, ovvero di entrambi» ( 70 ). 6. Le esigenze abitative ed assistenziali nell’età senile. L’individuazione e la tutela del luogo di residenza degli anziani – nonché la predisposizione di misure che ivi possano consentire la prestazione delle cure eventualmente necessarie – costituiscono questioni che scandiscono, in modo spesso drammatico, gli ultimi anni di vita di un’ampia fascia della popolazione. La soddisfazione delle esigenze abitative ed assistenziali della fase senile costituisce, del resto, un presupposto indefettibile per la realizzazione dei valori proclamati dall’art. 25 della Carta di Nizza. In tale prospettiva, le questioni della casa e della cura delle persone in età avanzata divengono terreno di elezione di quella sinergia fra stato e mercato – inteso, in questa sede, come reticolo di iniziative imprenditoriali e/o non lucrative che gravitano intorno alla realtà degli anziani – su cui le istituzioni comunitarie hanno gettato «le basi di una “nuova” costituzione economica, capace di rispondere ad evoluzioni economiche e sociali non più inquadrabili in una idealtipica dicotomia pubblico/privato» ( 71 ). Con riguardo alla protezione della sfera abitativa dell’anziano, il primo referente normativo che codifica detta esigenza è costituito dall’art. 540 cod. civ., in forza del quale – come noto – «al coniuge, anche quando concorra con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni». Sebbene la tutela accordata dal legislatore resti circoscritta al coniuge superstite – e dunque ad un soggetto coniugato e solo statisticamente in età senile – ( 70 ) V. Danovi, Il d.lgs. n. 154/2013 e l’attuazione della delega sul versante processuale: l’ascolto del minore e il diritto dei nonni alla relazione affettiva, in Fam. e dir., 2014, 544. ( 71 ) Gallo, I servizi di interesse economico generale, Giuffrè, 2011, 9. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani un’autorevole dottrina ha ricondotto la ratio della norma entro la «tutela della salute degli anziani» ( 72 ), giacché i diritti ivi contemplati assicurano al beneficiario, «al di là del semplice interesse a disporre di un alloggio, la conservazione del rapporto affettivo con l’ambiente in cui è vissuto in comunione di vita col coniuge scomparso» ( 73 ). Tale interpretazione è stata recentemente avallata dalle sezioni unite della Cassazione, le quali – pur senza evocare esplicitamente la tutela del soggetto in età avanzata – hanno assegnato all’art. 540 cod. civ. un significato non solo patrimoniale, ma anche «etico e sentimentale, sul presupposto che la ricerca di un nuovo alloggio per il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita della persona» ( 74 ). Oltre alla norma sul trattamento successorio del coniuge, la conservazione dell’habitat dell’anziano viene tutelata mediante il c.d. prestito vitalizio ipotecario, introdotto con il d.l. 30.9.2005, n. 203, e volto ad agevolare l’accesso al credito dei soggetti che abbiano compiuto i 65 anni di età, postergando l’obbligo di rimborso della somma erogata – e garantita dall’immobile di residenza – dopo la morte del beneficiario ( 75 ). ( 72 ) Mengoni, op. cit., 1129, ad avviso del quale il concetto di salute deve essere inteso in senso ampio e «non semplicemente (...) negativo, come assenza di malattia» (1128). ( 73 ) Mengoni, op. loc. citt. ( 74 ) Cass., sez. un., 27.2.2013, n. 4847, in Riv. notar., 2013, 425, con nota di Tedesco. ( 75 ) «Nella primissima fase di utilizzazione dell’istituto – è stato osservato – la prassi sembra orientata ad accompagnare il contratto di finanziamento con il conferimento, da parte dei mutuatari e a favore dell’ente mutuante, di un mandato, segnatamente in rem propriam, a vendere l’immobile cauzionale, dopo la morte di essi mutuatari, per il caso di inadempimento da parte dei di loro eredi obbligati al rimborso»; cfr. Caccavale, Contratto e successioni, nel Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, Giuffrè, 2006, 526. In merito alle problematiche ed alle insidie connesse all’accesso al credito da parte dei soggetti in età avanzata, si rinvia alle riflessioni di Agabitini, Ordine pubblico di protezione e mercato del credito. L’evoluzione del credito al consumo, in Riv. crit. dir. NGCC 2015 - Parte seconda Nell’ipotesi in cui il soggetto in età avanzata si trovi sprovvisto, definitivamente o in via temporanea, di un alloggio ove risiedere, si apre la complessa tematica – al contempo giuridica e sociale – afferente alle case di riposo e, più in generale, alle strutture di accoglienza per gli anziani. Al fine di scongiurare la «angosciante decisione (...) di ritirarsi in collettività» ( 76 ), si sono sviluppate numerose iniziative che, ispirandosi ai valori della domiciliarità e della familiarità, promuovono l’introduzione di misure di «affidamento» degli anziani, quale alternativa alla loro istituzionalizzazione nelle strutture di riposo. In uno dei progetti di legge all’uopo elaborati, si prevede che «la persona adulta in difficoltà, temporaneamente o permanentemente priva di un ambiente familiare idoneo (...) può essere affidata ad una famiglia, ad un gruppo parafamiliare o ad una persona in grado di aiutarla a vivere nel modo più autonomo e integrale possibile. L’affido si basa sull’autodeterminazione dell’anziano e sulla reciproca fiducia con l’affidatario» ( 77 ). Al tema della casa si intreccia, inevitabilmente, quello dell’assistenza delle persone in età senile. Non solo, infatti, la residenza coincide – almeno tendenzialmente – con il luogo in cui vengono prestate le cure di cui l’anziano quotidianamente necessita, ma l’abitazione diviene sempre più spesso un mezzo per conseguire le risorse economiche necessarie a sostenere le spese di assistenza. Il trasferimento della proprietà di un immobile verso la corresponsione periodica di una somma di denaro, in particolare, costituisce il priv., 2010, 619, la quale evidenzia che «le varie forme di credito al consumo, operano generalmente una discriminazione nei confronti delle persone anziane» mediante l’inserimento di limiti massimi di età per l’erogazione dei prestiti. ( 76 ) Cfr. Oriard, La casa per gli anziani. Problemi tecnici ed umani (trad. it. di Velia Ottavi Armando), a cura di Vetere, Armando Editore, 1982, 13 e 22. Ad avviso dell’autore, in particolare, «la collettività di cui la Casa di riposo è costituita, è di fatto un microcosmo la cui misura deve essere su scala umana, vale a dire che ciascuno deve essere capace di percepire ogni individuo che lo compone, di conoscerlo e di conoscerne il ruolo» (117). ( 77 ) V. d.d.l. Senato 23.3.2013, n. 311. 303 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti baricentro causale della rendita vitalizia (artt. 1872 ss. cod. civ.). Il ricorso a tale fattispecie contrattuale consente agli individui cc.dd. house-rich and cash-poor di convertire il valore della casa in una prestazione di denaro «da utilizzare, ove necessario e secondo i tempi e i modi che l’anziano ritenga opportuni, per garantirsi l’assistenza presso il proprio domicilio o presso una struttura residenziale» ( 78 ). Il nesso sinallagmatico fra casa e cure diviene, invece, «senza filtri» nel modello atipico del vitalizio assistenziale, imperniato sul paradigma del do ut facias e caratterizzato dall’assunzione, in capo al cessionario dell’immobile o del capitale, dell’obbligo di assistenza nei confronti del cedente. Alla luce della natura della prestazione del vitaliziante – ed alla conseguente centralità dell’intuitus personae – la dottrina e la giurisprudenza escludono l’applicabilità del divieto di risoluzione per inadempimento sancito dall’art. 1878 cod. civ., in quanto – diversamente dalla rendita vitalizia, ove l’esito vittorioso dell’azione potrebbe costituire «rimedio peggiore del male» ( 79 ) – l’inadempimento del cessionario rispetto agli obblighi di assistenza pattuiti legittimano il creditore della prestazione infungibile a risolvere il contratto e recuperare il cespite conferito. Altro settore del diritto contrattuale intimamente connesso al tema dell’assistenza agli anziani è quello assicurativo, ove sono riscontrabili appositi schemi negoziali – riconducibili nell’alveo delle cc.dd. Long Term Care Insurances – che «garantiscono ai sottoscrittori una tutela per il momento in cui, anche a seguito del ( 78 ) Sul tema v. Long, La contrattualizzazione dell’assistenza vitalizia agli anziani: dalla rendita vitalizia al contratto di mantenimento, in questa Rivista, 2010, II, 603. ( 79 ) Cfr. Rota, Il contratto di rendita mediante il conferimento di bene immobile, in Imm. e propr., 2009, 11, ove si evidenzia che, «se scopo del creditore è quello di assicurarsi (...) un reddito di un certo ammontare per tutta la durata della vita contemplata», con la caducazione degli effetti del contratto «verrebbe meno il reddito periodico con in più l’onere del reimpiego del cespite conferito e successivamente recuperato». In giurisprudenza, cfr. Cass., 1o.4.2004, n. 6395, in Mass. Giur. it., 2004. 304 semplice invecchiamento, la loro autosufficienza potrebbe venire meno» ( 80 ). L’esercizio dell’autonomia privata in tale peculiare ramo del mercato assicurativo – volto a tutelare i futuri anziani dai rischi della senescenza – non può, ovviamente, pregiudicare i diritti fondamentali (tra cui, a titolo esemplificativo, la privacy genetica) coinvolti nella determinazione del premio e delle altre condizioni contrattuali. 7. L’anziano e il risarcimento del danno. Nel settore dell’illecito extracontrattuale, l’età anagrafica del danneggiante e del danneggiato può incidere sull’operatività delle regole che governano il risarcimento, sia in ordine all’an della responsabilità, sia con riguardo alla determinazione e liquidazione del pregiudizio risarcibile. Per quanto attiene alla posizione del danneggiante, l’età avanzata esclude – laddove concreti uno stato di incapacità di intendere e di volere – l’imputabilità dell’autore della condotta antigiuridica. La condizione anziana non può tuttavia dare luogo ad una presunzione di incapacità naturale, in quanto – è stato osservato – «persino il ricorrere di un’eventuale patologia degenerativa (quale la demenza senile) (...) non sempre sottrae completamente la capacità al soggetto» ( 81 ). Laddove, per converso, venga riscontrata un’effettiva e comprovata situazione di incapacità, potranno trovare applicazione gli artt. 2046 e 2047 cod. civ., soprattutto nell’ipotesi in cui l’autore dell’illecito sia ospite di una struttura residenziale idonea ad assumere la qualifica di «sorvegliante». Si segnala, sul punto, un’interessante pronuncia della Cassazione del 2007, avente ad oggetto il ristoro del danno verificatosi all’interno di una casa di riposo nella quale, durante il pranzo, un ospite aveva percosso violentemente un’altra pensionante. Confermando l’esito dei primi due gradi di giudizio, la Supre( 80 ) Gremigni Francini, Tutela degli anziani ed assicurazioni per l’assistenza di lungo periodo alla luce dei diritti fondamentali, in Comandé, Diritto privato europeo e diritti fondamentali, Giappichelli, 2004, 213 ss. ( 81 ) Così Bonomo, Infermità di mente e responsabilità civile, Giuffrè, 2012, 72. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani ma Corte ha ritenuto che il positivo riscontro del difetto di imputabilità del danneggiante – discendente, nel caso di specie, da una patologia accertata in sede medico legale – non determina l’automatica responsabilità del sorvegliante ove risultino assenti, in capo a quest’ultimo, comportamenti omissivi specifici e rimproverabili ( 82 ). La decisione del giudice di legittimità è stata oggetto di numerose censure, principalmente afferenti alla mancata valutazione di parametri quali l’idoneità della struttura di riposo, le competenze del personale ivi impiegato e l’effettuazione di terapie per fronteggiare la patologia riscontrata ( 83 ). Sebbene le motivazioni poste a sostegno dell’esonero del sorvegliante suscitino, in effetti, alcune perplessità – soprattutto per l’omessa considerazione dei profili inerenti all’organizzazione della struttura di riposo ed alla concreta evitabilità del danno – non può essere condivisa la denuncia di una disparità di trattamento fra case di riposo e strutture scolastiche, rispetto alle quali sarebbe riscontrabile, in giurisprudenza, una maggiore severità nella valutazione degli estremi della prova liberatoria di «non aver potuto impedire il fatto» ( 84 ). In realtà, il parallelismo tra la sorveglianza di bambini e anziani non sembra potersi spingere fino alla standardizzazione delle relative misure di controllo. La maggiore sensibilità degli individui in età avanzata rispetto a divieti e restrizioni – nonché la convivenza, presso le case di cura, tra soggetti in condizioni cliniche eterogenee – costituiscono solo alcune delle variabili che suggeriscono di differenziare i criteri di valutazione della responsabilità della struttura in ragione alla qualifica soggettiva dei «sorvegliati». Volgendo lo sguardo alla sfera giuridica del danneggiato – e concentrando l’attenzione sui profili connessi al danno non patrimoniale – l’età del soggetto leso incide, in primo luogo, sulla quantificazione del danno biologico. Posto, infatti, che il principio di dignità della persona impone il riconoscimento di una posta ( 82 ) Cass., 19.10.2007, n. 21972, in questa Rivista, I, 506 ss., con nota di Venchiarutti, Invecchiando non si torna bambini? Ipotesi di responsabilità civile di una casa di riposo. ( 83 ) Venchiarutti, op. cit., 509. ( 84 ) Id., op. cit., 510. NGCC 2015 - Parte seconda economica ineliminabile a chiunque abbia subito una lesione della propria integrità fisica e/o psichica ( 85 ), il c.d. sistema tabellare orienta la monetizzazione di tale componente del danno sulla base di un valore-punto crescente rispetto al grado di menomazione, corretto da un coefficiente di riduzione legato all’età e al sesso del danneggiato. La regola operativa per cui all’innalzamento dell’età corrisponde una riduzione della posta risarcibile – in ossequio alla massima di esperienza per cui l’invecchiamento assottiglia, progressivamente, il periodo di presumibile sopravvivenza e, dunque, di percezione delle conseguenze del danno ( 86 ) – è stata da alcuni ritenuta fonte di una «ingiustificata sperequazione» a discapito dell’anziano, il quale dovrebbe essere considerato «come persona e non come un’entità astratta composta di calcoli» ( 87 ). Quanto alla correlazione tra entità del ristoro e aspettative di vita del soggetto leso, viene replicato che «proprio perché il vecchio ha meno anni avanti a sé – ognuno di questi assume per lui un significato diverso e forse maggiore di quanto non ne abbia per il giovane» ( 88 ). Un ulteriore profilo di critica al sistema tabellare si fonda sulla constatazione che nei soggetti in età avanzata «una lesione di modesta entità ha, generalmente, ripercussioni, non solo fisiche, ma anche psichiche, di maggiore entità», le quali «aggravano ulteriormente le sue condizioni di vita ben oltre la modica percentuale invalidante riconosciuta e liquidata in misura irrisoria rispetto alla medesima lesione in soggetto giovane» ( 89 ). ( 85 ) Busnelli, Il danno biologico. Dal «diritto vivente» al «diritto vigente», Giappichelli, 2001, 390: «il principio della dignità della persona umana esige che una posta ineliminabile del danno non economico venga risarcita a tutti gli esseri umani che abbiano subito una menomazione della loro integrità fisica e/o psichica: individui già nati o soltanto concepiti, bambini o anziani; capaci o incapaci di intendere e di volere; ricchi o poveri». ( 86 ) Negro, Quantum debeatur. La liquidazione del danno biologico, Giuffrè, 2003, 290. ( 87 ) D’Arrigo-Parrinello, op. cit., 89. ( 88 ) Eid., op. cit., 90. ( 89 ) Così Chindemi, Il danno alla persona in sog305 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti Al fine di coniugare le esigenze di uniformità e personalizzazione sottese alla quantificazione del danno alla salute, si rende necessario confrontare – ed eventualmente correggere – l’esito risultante dall’impiego delle variabili tabellari con la situazione clinica generale dell’anziano, tenendo conto delle sue capacità di recupero e dei tempi necessari per il ripristino (totale o parziale) delle funzionalità compromesse in conseguenza dell’illecito ( 90 ). Con riguardo alle altre componenti del danno non patrimoniale – nell’accezione unitaria coniata dalle sezioni unite del 2008 – la giurisprudenza di merito ha individuato nell’età anagrafica un possibile criterio di liquidazione del pregiudizio esistenziale provocato dalla illegittima interruzione dell’utenza telefonica ( 91 ). Il disservizio subito da un soggetto anziano – e dunque, tendenzialmente, poco incline all’utilizzo di telefoni cellulari – può in effetti giustificare il ricorso alla figura del danno getto anziano, in Resp. civ. e prev., 2009, II, 325, il quale prosegue osservando che «stante la riduzione dei valori monetari tabellari per le persone anziane, anche l’aumento massimo tabellare del 20%, previsto dal codice delle assicurazioni per tale tipologia di lesioni, appare, spesso, insufficiente a ristorare l’effettivo danno subito dalla vittima, soprattutto ove dovesse essere ritenuto comprensivo del danno morale, in base alle sentenze delle SS.UU. del novembre 2008». ( 90 ) L’adozione del metodo casistico è suggerita da Bonifacio-Neri, La valutazione del danno da menomazione alla persona nell’anziano, in P. Stanzione (a cura di), Anziani e tutele giuridiche, cit., 157 ss., ad avviso dei quali «gli esiti traumatici nel soggetto anziano si prospettano sempre di difficile apprezzamento e vanno analizzati caso per caso, tenendo conto di tutti gli aspetti del negativo risentimento delle lesioni, del loro trattamento e dei loro esiti, sulla complessiva personalità di quel determinato soggetto, in relazione al suo stato anteriore» (p. 163). ( 91 ) Trib. Montepulciano, 20.2.2009, n. 74, in www.personaedanno.it, ove si tiene conto, nella liquidazione del danno, «dell’età del danneggiato (circa anni 90) e, dunque, dell’aggravamento dei pregiudizi subiti». Nella medesima prospettiva cfr. Trib. Benevento, 12.3.2010, ivi, il quale ha risarcito equitativamente il danno «anche (...) esistenziale» per il «patema d’animo subito dalla persona anziana». 306 esistenziale, inteso quale componente descrittiva del danno idonea a conferire rilievo alle «condizioni oggettive in cui si trovava il danneggiato, da cui desumere l’entità della ricaduta negativa sulla sua esistenza» ( 92 ). Meno condivisibile si rivela il tentativo di rendere risarcibili, attraverso la valorizzazione della condizione senile, una serie di danni che – in quanto non connessi alla lesione di un diritto inviolabile – resterebbero altrimenti esclusi dal novero dei pregiudizi (potenzialmente) oggetto di ristoro. Le fattispecie invocate afferiscono, a titolo esemplificativo, all’anziano che «trova un senso alla propria vita solo allorquando può andare a trovare i propri nipoti che abitano a qualche isolato di distanza» ( 93 ); alla «anziana signora, sola al mondo, che affida il suo amato cagnolino al gestore di una pensione per animali in occasione di un breve viaggio» ( 94 ) o, ancora, all’«utente anzia( 92 ) Cfr. Navarretta, Il contenuto del danno non patrimoniale e il problema della liquidazione, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale, Giuffrè, 2010, 83. ( 93 ) Negro, Il nuovo danno biologico, Giuffrè, 2011, 152, ad avviso del quale «l’essere costretto a stare in casa, il non poter uscire, il non poter socializzare, non sono aspetti dinamici “standard” della lesione fisica, ma costituiscono un pregiudizio diverso che non può essere misurato solo in base al dato fisico applicando un aumento, in percentuale, rispetto alle somme risultanti dalle tabelle. In circostanze del genere il danno – prevalentemente esistenziale – deve essere provato, autonomamente valutato e, di conseguenza, equitativamente liquidato». ( 94 ) Amato, Nozione unitaria di danno non patrimoniale e autonomia negoziale, in Aa.Vv., Il danno non patrimoniale, Giuffrè, 2009, 35, L’a. evidenzia che, laddove la persona anziana specifichi alla controparte l’importanza della relazione affettiva con l’animale – e dunque pattuisca un trattamento diversificato delle condizioni di accudimento del cane, per un cifra complessiva superiore alle regolari tariffe giornaliere – il successivo e negligente inadempimento del debitore, a cui consegua la morte dell’amato animale, legittima il risarcimento dell’interesse non patrimoniale «entrato a far parte del contratto e rimasto inadempiuto insieme alla prestazione principale». Alla suddetta tesi si può obiettare che, nel caso invocato, la risarcibilità del danno morale e/o esistenNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Tutela degli anziani no, sempre regolare nei pagamenti, e che si veda costretto a reclamare per non dover pagare interessi di mora su addebiti mai notificati» ( 95 ). Il riferimento alle suddette immagini – intrise, peraltro, di accentuate venature paternalistiche – cela un’indebita traslazione della rilevanza dell’età anagrafica dalla dimensione del quantum liquidabile a quella dell’an del risarcimento. Sennonché, la condizione anziana non può essere invocata al fine di «convertire» i pregiudizi bagatellari in danni risarcibili, giacché una tale operazione ermeneutica eluderebbe quel vaglio di ingiustizia costituzionalmente qualificata a cui le sezioni unite hanno affidato il compito di selezionare gli interessi non patrimoniali «meritevoli» di tutela sul versante extracontrattuale. 8. Conclusioni. Le riflessioni svolte in merito all’incidenza dell’età avanzata in alcuni dei principali settori del diritto privato – quali il contratto, le relazioni familiari e la responsabilità civile – hanno evidenziato come la condizione anziana non possa essere elevata a categoria giuridica, né tanto meno dare luogo a presunzioni di incapacità legale di agire e/o di intendere e di volere. L’impossibilità di predicare l’esistenza di uno statuto giuridico speciale connesso alla senilità discende, oltre che dal rispetto del principio di uguaglianza, dalla vaziale non discende dalla circostanza che l’anziana è «sola al mondo» – e dunque, oltre che in età avanzata, priva di affetti diversi da quello che la lega all’animale di proprietà – bensì da un’interpretazione secondo buona fede del contratto, la quale – è stato osservato – «copre il “non detto” che è stato taciuto dalle parti, ma oggettivamente “autoevidente”»; cfr. Navarretta-Poletti, Il danno non patrimoniale e la responsabilità contrattuale, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale, cit., 64. Nel caso di specie, in particolare, la pattuizione di un corrispettivo maggiore rispetto a quello standard rende palese la pregnanza dell’interesse (non patrimoniale) alla conservazione del rapporto con l’animale, a prescindere dall’età anagrafica del danneggiato e/o dalla sua vita di relazione. ( 95 ) Perciballi, Mancata o tardiva attivazione del telefono, in Cendon (a cura di), La prova e il quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale, I, Utet, 2008, 1278. NGCC 2015 - Parte seconda riabilità del concetto sociale di anziano, risultante da una serie di parametri genetici ed ambientali che possono allargare o restringere – spesso in modo significativo – la forbice tra età biologica e anagrafica del soggetto di volta in volta considerato. In ossequio al principio di non discriminazione, pertanto, la tutela civilistica dell’anziano costituisce – laddove questo versi in oggettive e comprovate situazioni di difficoltà economica o sociale – un corollario dell’uguaglianza sostanziale presidiata dall’art. 3, comma 2o, Cost. e, con riguardo alle persone in età senile, dall’art. 25 Carta dir. UE. Così risolto il problema relativo al perché della tutela degli anziani, occorre soffermarsi sulla seconda – e più complessa – questione accennata in apertura, afferente al come debbano essere concepite e sviluppate le forme di protezione dell’individuo nella fase della senescenza. Dalla breve rassegna svolta emergono, in filigrana, due orientamenti (culturali prima ancora che giuridici) dalla cui alternativa è destinata a prendere corpo l’identità giuridica degli anziani nei rapporti economici, nelle scelte affettive e, più in generale, nelle situazioni che rilevano per il diritto privato. Sulla base di una prima tesi, l’anziano è un soggetto debole, solo e – in quanto tale – esposto a condizionamenti esterni idonei a fargli assumere decisioni non pienamente consapevoli; il legislatore dovrebbe prendere atto di tale circostanza e sancire una presunzione di incapacità di agire del soggetto in età particolarmente avanzata, ponendolo così al riparo dalle conseguenze negative del proprio decadimento fisico e cognitivo. A tale impostazione viene replicato che la codificazione della regola biologica per cui età e capacità costituiscono grandezze inversamente proporzionali consegnerebbe agli operatori del diritto un’immagine fuorviante dell’anziano quale persona fragile ( 96 ) e non autosuffi- ( 96 ) Sull’associazione tra invecchiamento e «fragilità» – intesa come «sindrome clinica caratterizzata da connotati multipli» quali «perdita di peso e/o “debolezza”, facile stancabilità, ridotta performance motoria, disturbi di equilibrio e di andatura» – dai dati epidemiologici emerge una «notevole variabilità 307 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti ciente, con il rischio di vedere sacrificate, sull’altare del paternalismo, proprio quei valori di partecipazione, indipendenza e dignità su cui la Carta di Nizza ha posto le basi della concezione europea di senescenza. Ed è proprio facendo leva sui principi affermatisi a livello sovranazionale che occorre promuovere una nuova cultura della terza età, non limitata al soddisfacimento delle esigenze di protezione degli anziani, ma tesa a valorizzarne il ruolo ed incoraggiarne la partecipazione nelle famiglie e nella società civile. La nozione di «invecchiamento attivo» – vera e propria idea-guida dell’anno europeo 2012 – sintetizza le predette istanze di politica del diritto, consentendo ai soggetti in età senile di contribuire in prima persona allo sviluppo economico e sociale delle comunità di cui sono parte. Nell’ambito della sfida demografica a cui l’Europa è chiamata, il diritto privato assume un duplice ed essenziale ruolo. In primo luogo, l’impiego di alcuni strumenti civilistici – quali il vitalizio alimentare e le cc.dd. Long Term Care Insurances – consente, soprattutto ove ispirato ai principi di solidarietà e buona fede, di integrare e supportare il welfare statale, assicurando un supporto economico e assistenziale agli anziani in difficoltà. In secondo luogo, la diffusione della cultura dell’invecchiamento attivo postula il superamento dell’archetipo del vecchio ingenuo e sprovveduto, in favore di una nuova immagine di anziano, inteso come soggetto in grado di stipulare contratti, sposarsi, causare e/o riceve- fra le persone», a testimonianza del fatto che «si può invecchiare senza necessariamente diventare fragili, e quando lo si dovesse diventare la disabilità non è, di per sé, un destino obbligato»; cfr. Campedelli, Invecchiamento tra capacità e disuguaglianze. Spunti di riflessione, in Questione giustizia, 2011, 122. 308 re danni, facendosi carico delle conseguenze – positive e negative – delle attività compiute. In questa prospettiva, il diritto privato non deve elidere bensì incoraggiare la capacità delle persone in età avanzata, rientrando nella sfera di competenza di altri settori dell’ordinamento – e, segnatamente, del diritto penale – la repressione delle condotte che possano integrare, in danno degli anziani, reati quali la truffa e la circonvenzione di incapace. Sul piano delle scelte di politica del diritto, l’obiettivo delle istituzioni comunitarie di «superare gli stereotipi legati all’età» (art. 2, comma 2o, lett. d) Decisione n. 940/2011/UE) deve trovare concreta attuazione nella realtà giuridica e sociale, stemperando così l’antitesi fra l’ottimismo ciceroniano – che eleva la vecchiaia a «posizione (...) migliore di quella dell’adolescente» ( 97 ) – ed il pessimismo malinconico di Bobbio, per il quale la senescenza costituisce una «lunga e spesso sospirata, attesa della morte» ( 98 ). Ed infatti, prescindendo da tali opposte (e parimenti manicheistiche) concezioni, l’ordinamento giuridico non è chiamato a partorire nuovi diritti della terza età – destinati, peraltro, a finire sotto la scure dell’incostituzionalità – bensì ad assicurare, nell’auspicata interazione tra intervento pubblico e iniziative private, il godimento dei diritti nella terza età, facendo emergere ed alimentando quell’istinto al «coinvolgimento vitale» ( 99 ) che resta, troppo spesso, nascosto sotto le rughe degli anziani. ( 97 ) Cicerone, Saper invecchiare (De senectute), a cura di Sevry, Armando Editore, 2002, 62. ( 98 ) Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, cit., 24. ( 99 ) Cfr. E.H. Erikson-J.M. Erikson-H. Kivnick, Coinvolgimenti vitali nella terza età, trad. it. di Chiari, Armando Editore, 1997. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. «DEGIURISDIZIONALIZZAZIONE» E CONTROVERSIE AGRARIE di Michele Tamponi Sommario: 1. Il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito con modificazioni in l. 10.11.2014, n. 162. – 2. Trasferibilità alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria. – 3. Ricorribilità alla negoziazione assistita. – 4. Credito nascente da rapporto agrario e negoziazione assistita. – 5. Rilievi conclusivi. 1. Il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito con modificazioni in l. 10.11.2014, n. 162. Nell’opera Il teatro comico di Carlo Goldoni comparve, nell’anno del Signore 1750, l’avverbio precipitevolissimevolmente, fin d’allora riguardato (ma forse a torto) come la più lunga parola della lingua italiana. Emulo del grande veneziano, il legislatore nazionale si è recentemente cimentato nell’escogitazione di un neologismo che segue a ruota quel termine (venticinque lettere contro ventisei; dieci sillabe contro undici), e che è destinato a richiamare e riassumere le nuove disposizioni dettate per deflazionare il contenzioso civile. Con un orribile e quasi impronunciabile vocabolo si è inteso infatti compendiare gli strumenti di nuovo conio – contemplati nel d.l. 12.9.2014, n. 132, recante Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile, e convertito con modificazioni in l. 10.11.2014, n. 162 – volti a favorire la composizione delle controversie in limine litis ovvero anche a processo già in atto. L’obiettivo viene perseguito con varie misure, così sintetizzabili: a) trasferibilità alla sede arbitrale – ad istanza congiunta delle parti – di procedimenti giudiziari pendenti in primo e secondo grado (art. 1); b) possibilità per le parti di convenire la risoluzione della controversia in via amichevole Scritto destinato agli Studi in onore di Alberto Germanò. NGCC 2015 - Parte seconda attraverso negoziazione assistita da uno o più legali (art. 2); c) necessità di esperire la procedura di negoziazione assistita prima dell’avvio di controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti ovvero diretta alla proposizione di domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti l’importo di cinquantamila euro (art. 3); d) possibilità di soluzioni consensuali, tramite negoziazione assistita, in materia di separazione personale tra coniugi, cessazione degli effetti civili o scioglimento del matrimonio, modifica delle condizioni di separazione o divorzio (art. 6); e) interruzione della prescrizione e impedimento della decadenza dal momento della comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero dal momento della sottoscrizione della convenzione stessa (art. 8); f) possibilità di separazione e divorzio dinanzi al sindaco quale ufficiale dello stato civile (art. 12). Tralasciando, in quanto non attinenti alla «degiurisdizionalizzazione», le numerose altre innovazioni introdotte dal provvedimento in parola con finalità semplificativa dei procedimenti giudiziari (passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione: art. 14; riduzione del periodo feriale di sospensione dei termini processuali: art. 16; rideterminazione del saggio degli interessi legali dal momento di proposizione della domanda giudiziale e di avvio del procedimento arbitrale: art. 17; nuove regole per il processo esecutivo: artt. 18-19; ecc.), ci si deve chiedere se la specialità del processo agrario possa tollerare l’applicazione delle regole deflattive del contenzioso contenute nel provvedimento in esame, ed a tal fine occorre prendere in considerazione le previsioni testé riassunte sotto le lettere a), b), e c). Preliminarmente, ed in funzione delle rispo- 309 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti ste da dare all’interrogativo affacciato, deve ricordarsi che le regole dettate per i giudizi in materia di contratti agrari presentano plurime peculiarità, prime fra tutte l’assoggettamento al rito del lavoro disciplinato dagli artt. 409 ss. cod. proc. civ. e la cognizione delle liti da parte di un organo giudicante specializzato composto da tre giudici togati e da due membri laici esperti della materia. A questi due rilevantissimi scostamenti dalla disciplina dell’ordinario processo civile si affiancano ulteriori particolarità, vuoi stra- e pre- giudiziali, vuoi interne al processo: tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi all’Ispettorato provinciale dell’agricoltura (o al diversamente denominato ufficio regionale competente) ex art. 11, d. legis. 1o.9.2011, n. 150; contestazione dell’inadempimento con illustrazione delle motivate richieste del concedente prima dell’avvio di un giudizio di risoluzione per grave inadempimento del concessionario (art. 5, comma 3o, l. 3.5.1982, n. 203); termine di grazia a favore dell’affittuario moroso e rivalutazione dei canoni scaduti dall’avvio del giudizio per morosità (art. 46, comma 6o, l. n. 203/1982); ineseguibilità della sentenza di rilascio in caso di grave e irreparabile danno per il concessionario (art. 46, comma 7o), ecc. 2. Trasferibilità alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria. Come si è accennato, l’art. 1, d.l. n. 132/2014, contempla la possibilità di trasferimento alla sede arbitrale delle cause civili pendenti in sede di merito subordinandola ad alcune condizioni negative: non deve trattarsi di controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili, né vertenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale, né già assunte in decisione. In sede di conversione, la trasferibilità è stata estesa alle cause di lavoro aventi ad oggetto diritti che abbiano nel contratto collettivo la propria fonte esclusiva, e sempre che questo preveda e disciplini la soluzione arbitrale. Sgombrando subito il campo da ogni possibile equivoco, giova anzitutto precisare che non sarebbe consentito riguardare le controversie sui contratti agrari come «vertenti in materia di lavoro» sol perché assoggettate al relativo rito: è ben vero che per gli ora abrogati 310 artt. 47, l. n. 203/1982 e 9, l. 14.2.1990, n. 29 (i cui contenuti sono stati trasfusi nell’art. 11, d. legis. 1o.9.2011, n. 150) in tutte le controversie in materia di contratti agrari si osservano le disposizioni di cui agli artt. 409 ss. cod. proc. civ., ma è anche di tutta evidenza che questo rinvio non consente alcuna assimilazione sotto il profilo sostanziale ( 1 ). Basterebbe osservare, del resto, che il richiamato d. legis. n. 150/ 2011, nel disporre la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ha assoggettato al rito del lavoro una vasta pluralità di controversie (eloquentemente qualificate non già «di lavoro», bensì «regolate dal rito del lavoro») che nulla hanno a che vedere con tale ambito: opposizione ad ordinanza-ingiunzione, opposizione al verbale che accerta una violazione al codice della strada, controversie in materia di protezione dei dati personali, ecc. È però anche da considerare, al contempo, che le controversie in materia di contratti agrari sono espressamente ricomprese nell’art. 409 cod. proc. civ., sotto la rubrica «Controversie individuali di lavoro», accanto a quelle relative ai rapporti di lavoro privato e pubblico e ai rapporti di agenzia. Fin dall’ormai lontana introduzione di quel rito, risalente al 1973, il legislatore ha dunque assimilato le vertenze in tema di contratti agrari a quelle di lavoro, con il palese intento di riconoscere a mezzadri, coloni, compartecipanti e affittuari di fondo rustico la stessa tutela accordata al lavoratore subordinato o parasubordinato, così valorizzandone la (presunta) posizione di inferiorità rispetto alla parte concedente ( 2 ). ( 1 ) In tema, per tutti, Luiso, Il rito delle controversie agrarie e l’art. 409, n. 2, c.p.c., in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 499 ss.; Germanò, Controversie in materia agraria, nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., IV, Utet, 1989, 300 ss.; Nappi, Tutela giurisdizionale e contratti agrari, Giuffrè, 1994, specie 324 ss.; Id., Il processo agrario davanti alle sezioni specializzate agrarie: la disciplina processuale, in Aa.Vv., Trattato di diritto agrario, diretto da Costato-Germanò e Rook Basile, I, Utet, 2011, 844 ss. ( 2 ) Riserve su questa scelta già in Garbagnati, Il nuovo processo del lavoro e le controversie agrarie, in Riv. dir. proc., 1974, 570 ss. Sull’applicazione del rito del lavoro alle controversie agrarie, e sui problemi di coordinamento con la preesistente disciplina contenuNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie agrarie Questa circostanza potrebbe indurre a concludere che le controversie sui contratti agrari, quantunque non collocabili nel novero delle controversie «vertenti in materia di lavoro» in ragione della mera comunanza del rito, lo divengano tuttavia alla luce della scelta legislativa di assimilare le varie categorie di concessionari di fondi rustici ai lavoratori dipendenti ( 3 ). In realtà, neppure siffatta conclusione si rivela appagante, come emerge chiaramente dalla considerazione che l’iniziale ratio legislativa della «equiparazione» di mezzadri, coloni compartecipanti e affittuari al lavoratore subordinato o parasubordinato è comunque superata dalla l. n. 203/1982, che con l’ora abrogato art. 47 estese il rito in questione anche alle controversie in materia di contratti agrari stipulati da soggetti non coltivatori diretti. Tale scelta legislativa, poi consolidata sia dall’art. 9, l. n. 29/1990 sia dal d. legis. n. 150/2011, consente di osservare che l’accostamento attiene in ogni caso esclusivamente al rito e non determina alcuna equiparazione di diversa natura. Resta quindi confermato che le controversie agrarie non possono tout court essere riguardate quali «cause di lavoro». Tutto ciò premesso, ci si deve porre il ben più delicato problema dell’assoggettabilità a procedimento arbitrale, stante la competenza funzionale e inderogabile delle sezioni specializzate di cui alla l. 2.3.1963, n. 320. La questione sfocia, dunque, nell’interrogativo sull’idoneità dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, a derogare non solo al rito del lavoro, ma anche alla competenza funzionale delle dette sezioni. ta nella l. 2.3.1963, n. 320, per tutti Germanò, Il processo agrario, in Aa.Vv., Manuale di diritto agrario italiano, a cura di Irti, Utet, 1978, 627 ss., spec. 656-663. Sul ruolo del lavoro nei contratti agrari, ex multis, Graziani, Accordi in deroga e natura dei contratti agrari, in Aa.Vv., Autonomia privata assistita e autonomia collettiva nei contratti agrari. Art. 45 legge 3 maggio 1982, n. 203. Atti del Convegno di Firenze 22-24 novembre 1990, Giuffrè, 1992, 39 ss. ( 3 ) Corte cost., 27.7.1972, n. 155, in Foro it., 1972, I, 2345, in Giust. civ., 1972, III, 271, in Giur. it., 1972, I, 1841, ha riconosciuto all’affittuario coltivatore diretto la «situazione privilegiata che gli artt. 36 e segg. Cost. assicurano alla posizione dei lavoratori». NGCC 2015 - Parte seconda Sul primo aspetto non si rinvengono ostacoli insormontabili, sia perché è stato lo stesso legislatore, in sede di conversione, ad ammettere il trasferimento alla sede arbitrale anche per le cause di lavoro, quantunque con precisi limiti ( 4 ); sia perché, in ogni caso, la transizione alla fase arbitrale avrebbe luogo quando ormai i passaggi essenziali propri del rito del lavoro sono stati espletati (proposizione del ricorso e produzioni documentali; costituzione del convenuto con svolgimento di tutte le sue difese, indicazione specifica dei mezzi di prova e deposito documenti, eventuale formulazione della domanda riconvenzionale). Remore di maggior peso si frappongono invece alla possibilità che un arbitro o un collegio arbitrale si surroghi alla sezione specializzata agraria, contrassegnata dalla presenza, a latere dei giudici di carriera, di due esperti in materia agraria nominati dalla Corte d’Appello. Il tenore dell’art. 11, comma 2o, del già menzionato d. legis. 1o.9.2011, n. 150 («Sono competenti le sezioni specializzate agrarie di cui alla legge 2 marzo 1963, n. 320»), pur non precludendo in termini diretti ed espliciti il ricorso all’arbitrato, indurrebbe a dubitare che la facoltà di derogare alla disciplina in materia di contratti agrari, riconosciuta ai privati dall’art. 45, l. n. 203/1982, possa spingersi anche all’ambito processuale e quindi alla compromettibilità in arbitri delle relative controversie. Già si è avuto modo di prospettare al riguardo, sia pure in chiave soltanto ipotetica, la sussistenza di tale possibilità sino al 1990 e il suo venir meno con l’entrata in vigore della richiamata l. n. 29/1990, posto che la deroga assentita dall’art. 45, l. n. 203/1982, poteva essere riguardata come concernente le sole norme in tema di contratti agrari a quel momento vigenti, e non anche le disposizioni di legge di futura emanazione in materia ( 5 ). In altre parole, se fino all’avvento della l. n. ( 4 ) Sugli intensi limiti al trasferimento alla sede arbitrale dei procedimenti in materia di lavoro, per tutti Sordi, Il decreto-legge n. 132 del 2014 e le controversie in materia di lavoro, in giustiziacivile.com, 12.3.2015. ( 5 ) In argomento ci permettiamo di rinviare al nostro L’arbitrato in agricoltura, in Riv. dir. agr., 1999, I, 488. 311 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti 29/1990 ben poteva ipotizzarsi che in sede di accordi in deroga ex art. 45, l. n. 203/1982, concedente e concessionario pattuissero la compromettibilità in arbitri delle loro controversie future ed eventuali ( 6 ), posto che ciò poteva effettivamente aver luogo attraverso una deroga all’art. 47, l. n. 203/1982 ( 7 ), più problematica potrebbe risultare una deroga pattizia dopo l’entrata in vigore della l. n. 29/1990 (cui ha ora fatto seguito, quanto a rito e competenza, il già menzionato art. 11, commi 1o e 2o, d. legis. 1o.9.2011, n. 150), atteso che nessuna norma accorda ai contraenti il potere di discostarsi, sia pure con l’assistenza delle organizzazioni di categoria, dalle prescrizioni inderogabili – quali certamente sono quelle sul rito e soprattutto quelle sulla competenza funzionale delle sezioni specializzate agrarie – contenute in provvedimenti diversi dalla l. n. 203/ 1982 e successivi ad essa. Non riteniamo, tuttavia, di poter fornire in proposito un’indicazione conclusiva, posto che la genericità dell’enunciato di cui all’art. 45, l. n. 203/1982 («deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari») lascerebbe spazio – sempre, s’intende, con l’assistenza delle organizzazioni di categoria – anche alla derogabilità di disposizioni entrate in vigore in momenti successivi. A ( 6 ) La dottrina ha pacificamente riconosciuto che la derogabilità ai sensi dell’art. 45, l. n. 203/1982, si rivolga anche alle norme processuali, e non solo a quelle sostanziali: per tutti Olivieri, Norme processuali e patti in deroga, in Aa.Vv., Diritto agrario e processo: problemi attuali, Atti del Convegno nazionale, Cremona, 12-13 novembre 1993, Cremona, 1994, 69. Nello stesso senso, Cass., 6.11.1991, n. 1181, in Foro it., 1992, I, 2765, con nota di Bellantuono, Il grimaldello, il mercato, l’affitto dei fondi rustici. In argomento altresì Cecchella, L’arbitrato, in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale civile, diretta da Proto Pisani, Utet, 1991, 6 ss.; Id., L’arbitrato nel diritto agrario, in Riv. dir. agr., 1991, I, 12 ss.; Cialli, L’ammissibilità della clausola compromissoria in materia di contratti agrari (nota a App. Roma, 2.4.1990), in Giur. agr. it., 1991, 35. ( 7 ) Giova richiamare il tenore dell’art. 58, comma 1o, l. n. 203/1982: «Tutte le norme previste nella presente legge sono inderogabili. Le convenzioni in contrasto con esse sono nulle di pieno diritto e la loro nullità può essere rilevata anche d’ufficio, salvo il disposto degli artt. 45 e 51». 312 ben vedere, il problema si risolve nell’interrogativo sulla portata della deroga, e finisce per evocare distinzioni formulate da gran tempo a proposito del rinvio di una disposizione ad altra regola o complesso di regole: talvolta il rinvio è statico (o che dir si voglia materiale, recettizio o fisso), ed altre volte esso è invece riguardato come dinamico (o formale, non recettizio, o mobile). Nella prima ipotesi, il richiamo si intende effettuato a una determinata disposizione (o, il che è lo stesso, a una determinata normativa) nel testo vigente al momento dell’entrata in vigore della norma rinviante, con la conseguenza che le modificazioni successivamente apportate alla regola richiamata non assumono rilevanza ( 8 ). Nel secondo caso, invece, il richiamo è esposto alle sue vicende modificative ed estintive. Orbene, applicando – mutatis mutandis – la medesima distinzione alla previsione di derogabilità contenuta all’art. 45, l. n. 203/1982, la questione si risolve nel dubbio se le «norme vigenti in materia di contratti agrari» suscettibili di deroga siano soltanto quelle in essere nel momento in cui la legge in parola è entrata in vigore, o se la derogabilità sia estensibile ad ogni disposizione in materia di contratti agrari tempo per tempo vigente, e quindi anche ove introdotta successivamente. Fin qui si è discorso di deroga meramente pattizia. La trasferibilità dalla sede giurisdizionale a quella arbitrale contemplata dall’art. 1, d.l. n. 132/2014, per contro, non si fonda puramente e semplicemente su un accordo delle ( 8 ) Per tutti Pagano, Introduzione alla legistica. L’arte di preparare le leggi, 3a ed., Giuffrè, 2004, 156. Il tema della staticità o dinamicità del rinvio è stato affrontato soprattutto dagli internazionalisti: per tutti Monaco, voce «Rinvio nel diritto internazionale privato», in Enc. giur. Treccani, XXVII, Ed. Enc. it., 1991; Ballarino, voce «Rinvio (diritto internazionale privato)», in Enc. del dir., XL, Giuffrè, 1989, 1005 ss. Ma non mancano i contributi di costituzionalisti e civilisti: Barile, Costituzione e rinvio mobile a diritto straniero, diritto canonico, diritto comunitario, diritto internazionale. Alcune considerazioni in tema, Cedam, 1987; Grassetti, voce «Rinvio (teoria del)», Diritto internazionale privato, nel Noviss. dig. it., XV, Utet, 1978, 1177 ss. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie agrarie parti, e poggia su basi ben diverse: da un lato l’espressa attribuzione legislativa della facoltà di richiedere il trasferimento («le parti, con istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale»), e dall’altro il controllo del giudice della controversia, il quale «rilevata la sussistenza delle condizioni (...) dispone la trasmissione del fascicolo al presidente del Consiglio dell’ordine». Non si pone più, dunque, un problema di derogabilità o meno, da parte dei privati, alle regole processuali: chiedendo il trasferimento della controversia in sede arbitrale esse non fanno che invocare, alla luce di una facoltà loro espressamente attribuita dalla legge, l’applicazione di un’altra regola processuale, ed anzi di una nuova regola cui il legislatore guarda con particolare favore, proprio nella logica deflattiva che ne costituisce la ratio. Tale favor emerge con forza ancor maggiore, se si considera che in sede di conversione in legge dell’originario decreto legge il trasferimento della controversia alla sede arbitrale è stato contemplato, sia pure entro precisi limiti, anche per le cause di lavoro: segno inequivocabile di un’apertura che sarebbe illogico disconoscere per le sole controversie agrarie, tanto più che indici univoci nello stesso senso sono emersi già dalla legislazione degli anni precedenti. Basterebbe ricordare al riguardo: a) che l’art. 806 cod. proc. civ., nel testo scaturito dal d. legis. 2.2.2006, n. 40, ammette la possibilità che le controversie «di cui all’art. 409» (e, quindi, anche le controversie agrarie) siano decise da arbitri, sia pure subordinatamente a previsione di legge o dei contratti o accordi collettivi; b) che ex art. 412 ter cod. proc. civ., introdotto dall’art. 31, comma 6o, l. 4.11.2010, n. 183, «nelle materie di cui all’art. 409» (e, quindi, anche in materia di contratti agrari) la conciliazione e l’arbitrato possono aver luogo presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative; c) che rimedi arbitrali sono contemplati in materia agraria (pur se non strettamente contrattuale): l’art. 11, comma 4o, lett. b), d. legis. 27.5.2005, n. 102, prevede l’arbitrabilità delle controversie in tema di accordi-quadro e di contratti agro-industriali; l’art. 2, l. 29.12.1993, n. 580 attribuisce alle Camere di commercio il potere NGCC 2015 - Parte seconda di promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie tra imprese (e, quindi, anche tra imprese agricole) e tra imprese e consumatori o utenti; l’art. 5 bis, comma 7o, d. legis. 18.5.2001, n. 228 sancisce l’accesso all’arbitrato per la soluzione delle controversie sul valore da assegnare al compendio unico e per quelle relative ai diritti agli aiuti comunitari e nazionali concernenti lo stesso compendio; l’art. 16, d. legis. 29.3.2004, n. 99 accorda agli imprenditori agricoli il ricorso alla camera arbitrale per l’esazione dei crediti vantati verso l’AGEA. Sembra dunque di potersi concludere per l’applicabilità dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, anche alle controversie agrarie. Conseguentemente dovrà essere riconosciuta alle parti la facoltà di chiedere congiuntamente alla sezione specializzata il trasferimento della controversia alla sede arbitrale. Non pare di ostacolo a questa possibilità la circostanza che solo la detta sezione fruisce della particolare competenza apportata dai due componenti tecnici: starà alle parti stesse nel loro diretto interesse, ovvero al presidente del consiglio dell’ordine, individuare un arbitro o un collegio arbitrale munito di adeguate competenze. Né, del resto, può escludersi che il Ministro della Giustizia, nell’adottare il decreto regolamentare previsto dal comma 5o dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, stabilisca specifici criteri in ordine alle competenze professionali dell’arbitro, come il comma 5o bis espressamente prevede con diretto riferimento «alla materia oggetto della controversia», fermo però in ogni caso il principio che il ruolo arbitrale potrà essere svolto esclusivamente da avvocati nominati congiuntamente dalle parti ovvero dal presidente del consiglio dell’ordine del circondario in cui ha sede l’ufficio giudiziario competente per la causa. Risolto affermativamente l’interrogativo circa la trasferibilità del processo agrario alla sede arbitrale, non vi è dubbio che dovranno trovare applicazione anche in tale procedimento le peculiari regole che contrassegnano il processo agrario: termine di grazia a favore dell’affittuario moroso, rivalutazione dei canoni scaduti dall’avvio del giudizio per morosità, ineseguibilità della sentenza di rilascio impugnata in sede di legittimità in caso di grave e irreparabile danno per il concessionario, ecc. Tutto ciò, nel 313 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti quadro di un iter improntato a ritualità, come si desume dalla previsione, contenuta all’art. 1, comma 7o, del provvedimento in esame, che il lodo «ha gli stessi effetti della sentenza». 3. Ricorribilità alla negoziazione assistita. Risolto affermativamente il quesito circa la trasferibilità del processo agrario alla sede arbitrale ed ammessa quindi l’applicabilità ad esso dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, deve darsi risposta positiva anche all’interrogativo sull’utilizzabilità, a fini compositivi di un’insorgenda controversia agraria, della convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati a tenore degli artt. 3-5 del provvedimento in esame. Essa – recita l’art. 2 – «è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati iscritti all’albo». Si tratta, dunque, di un tentativo compositivo che non confligge in alcun modo con le rigide regole del processo agrario, ponendosi a monte della controversia giudiziale e precedendone ogni e qualsiasi passo anche preliminare e preparatorio. Non avrebbe neppure ragione di porsi, dunque, il dubbio se questa convenzione risulti o meno compatibile con le regole del processo agrario, ove solo si tenga presente che il favor verso soluzioni extragiudiziarie costituisce ormai il leit motiv della più recente legislazione sia in riferimento alle controversie affidate alle regole del processo ordinario, sia nella materia propriamente laburistica, sia in ambito agrario: in via generale, basterebbe richiamare il d. legis. 4.3.2010, n. 28, sulla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, e con riguardo alla materia del lavoro i nuovi artt. 410-412 quater cod. proc. civ. relativi al tentativo di composizione nonché alla risoluzione delle controversie attraverso l’investitura arbitrale in capo alle commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro ovvero attraverso i collegi di conciliazione e arbitrato. Ma deve anche ribadirsi che l’art. 806 cod. proc. civ., nel testo scaturito dal d. legis. 2.2.2006, n. 40, consente la soluzione arbitrale delle controversie di cui all’art. 409 cod. proc. civ. (e, quindi, anche di quelle in materia agraria), sia pure subordinatamente ad apposita previsione di legge o di contratto. 314 In riferimento, infine, all’ambito contrattuale agrario, possono essere richiamati – oltre che i già menzionati artt. 412 ter e 806 cod. proc. civ. – gli artt. 23, l. 11.2.1971, n. 1 e 45, l. n. 203/1982, che prevedono la composizione delle controversie agrarie attraverso soluzioni transattive raggiunte con l’assistenza delle organizzazioni di categoria, l’art. 17, l. n. 203/ 1982, che demanda all’Ispettorato provinciale per l’agricoltura la determinazione dell’indennità per i miglioramenti, l’art. 11, commi 3o-7o, d. legis. n. 150/2011, che contempla il tentativo stragiudiziale di conciliazione presso l’ispettorato provinciale dell’agricoltura competente per territorio ( 9 ). Si è al cospetto, dunque, di un ampio spettro di previsioni legislative rivolte a comprimere il contenzioso giudiziale, ed in tale chiave di lettura non si ravvisano ragioni di principio per escludere la stipulabilità di convenzioni di negoziazione volte all’amichevole composizione delle controversie in materia di contratti agrari. In particolare, non pare di ostacolo la previsione di cui al comma 2o dell’art. 2, secondo il quale la controversia non deve vertere «in materia di lavoro»: introdotto dalla legge di conversione, questo limite ha solo la finalità di impedire l’elusione del tentativo di conciliazione affidato alle commissioni di conciliazione istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro. Si tratta, dunque, di una regola concernente la ( 9 ) Si prescinde qui dagli ulteriori procedimenti arbitrali previsti in materia agraria, ma in ambiti diversi da quello contrattuale per la concessione del fondo rustico, quali l’arbitrato per la soluzione delle controversie in materia di contratti quadro e di contratti agroindustriali [art. 11, comma 4o, lett. b), d. legis. 27.5.2005, n. 2] e quello per la soluzione di controversie di cui è parte l’AGEA – Agenzia per le erogazioni in agricoltura (d.m. pol. agr. alim. e for. 20.12.2006, recante Disciplina della Camera nazionale arbitrale in agricoltura). In tema Raccosta, Ripristinata la camera arbitrale in agricoltura, in Agricoltura, 2007, 81 ss.; Giudice, L’arbitrato in agricoltura: istituzione della Camera arbitrale. Brevi riflessioni, in Dir. agr., 2006, 95; Poggiani, La procedura arbitrale applicata al settore agricolo, in Agricoltura, 2003, 379; Bonfiglio-Ferrelli, Arbitrato e conciliazione in agricoltura. Guida alla camera nazionale arbitrale ed allo sportello di conciliazione istituti presso Agea, Giuffrè, 2003. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Controversie agrarie materia laburistica in senso proprio, come è reso evidente sia dalla circostanza che le commissioni in parola sono formate, oltre che da un magistrato a riposo, dal direttore dell’Ufficio provinciale del lavoro nonché da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, sia dal fatto che il decreto legge, prima della conversione, sottraeva l’accordo al regime di impugnativa previsto dall’art. 2113 cod. civ., cioè da una disposizione di stretta matrice laburistica. Nulla quaestio, dunque, allorché le parti prevengano una controversia ricorrendo a una convenzione di negoziazione assistita da uno o più legali. Si deve soltanto aggiungere che la cooperazione «in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia» non può in alcun caso sfociare in un accordo – abbia o meno natura transattiva – derogatorio delle previsioni di cui alla l. n. 203/1982 sui contratti agrari. Stabilisce infatti l’art. 5, comma 2o, d.l. n. 132/2014 che gli avvocati chiamati ad assistere le parti in caso di composizione della controversia «certificano (...) la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico». Ciò significa che il legislatore non ha attribuito alla negoziazione in parola il ruolo che è invece riconosciuto agli accordi in deroga ex art. 45, l. n. 203/1982, e trova quindi applicazione in tutto il suo rigore il già ricordato art. 58, secondo il quale «Tutte le norme previste nella presente legge sono inderogabili. Le convenzioni in contrasto con esse sono nulle di pieno diritto (...) salvo il disposto degli artt. 45 e 51». Per paradossale che possa apparire, dunque, l’assistenza di «uno o più avvocati», non è idonea a consentire quella derogabilità a norme imperative che è invece rimessa, ex art. 45, l. n. 203/1982, al controllo delle organizzazioni di categoria, e che ha costituito per decenni un’utilissima valvola di sfogo delle rigidità proprie della normativa contrattuale agraria. Sul piano pratico, questo limite costituirà probabilmente un forte ostacolo all’utile ricorso alla convenzione di negoziazione: l’accordo compositivo della controversia raggiunto con l’assistenza dei legali potrà contenere valide regole derogative alla disciplina legale solo se a sua volta sottoposto all’assistenza delle organizzazioni professionali agricole maggiormente NGCC 2015 - Parte seconda rappresentative, come prescrive l’art. 45, l. n. 203/1982. È fin troppo facile prevedere che la macchinosità di siffatta «assistenza al quadrato» sia destinata a svolgere un’intensa funzione dissuasiva. 4. Credito nascente da rapporto agrario e negoziazione assistita. Il d.l. n. 132/ 2014 dispone altresì, all’art. 3, che chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti l’importo di euro cinquantamila ha l’onere di invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita, costituente condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciò significa che in questo tipo di controversie (così come in quelle di risarcimento danno da circolazione di veicoli e natanti) la negoziazione assume un connotato di doverosità, a differenza di quella su base volontaria disciplinata nell’art. 2. Si è al cospetto di una regola operante anche in materia di contratti agrari? E dunque l’invito alla stipula di una convenzione per la negoziazione assistita dovrà essere rivolto – se la pretesa non supera il predetto importo – dal concedente all’affittuario moroso, dal concessionario al concedente per il pagamento dell’indennità per miglioramenti, addizioni e trasformazioni, ovvero per anticipata risoluzione incolpevole del contratto? Il tenore letterale del comma 5o dell’art. 3 non lascia adito a dubbio: se «restano ferme» le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, ciò sta a significare che la nuova condizione di procedibilità si affianca alle altre già in essere (nella specie: tentativo di conciliazione dinanzi all’Ispettorato provinciale per l’agricoltura), come è confermato non solo dal fatto che le esclusioni sono espressamente enumerate (procedimenti monitori e relative opposizioni, procedimenti di consulenza tecnica preventiva, opposizioni all’esecuzione forzata, procedimenti in camera di consiglio, azione civile nel processo penale), bensì anche dalla precisazione, apposta in sede di conversione nello stesso comma 5o dell’art. 3, per cui «Il termine di cui ai commi 1o e 2o, per materie soggette ad altri termini di procedibilità, decorre unitamente ai medesimi». Il 315 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti legislatore, con questa statuizione, ha voluto scongiurare l’appesantimento temporale che sarebbe derivato dalla sequenza di plurimi adempimenti costituenti ciascuno condizione di procedibilità, ed ha quindi inteso accordare in maniera inequivoca la facoltà di avviarli in contemporanea. Invito a stipulare la convenzione di negoziazione e attivazione del tentativo di conciliazione dinanzi all’Ispettorato provinciale dell’agricoltura (o ufficio regionale corrispondente) potranno pertanto procedere di pari passo, e non occorrerà subordinare l’avvio di uno dei due incombenti al preventivo esaurimento dell’altro. 5. Rilievi conclusivi. Possono trarsi a questo punto le fila dei rilievi svolti ai paragrafi precedenti, per concludere che le misure deflattive di cui al recente provvedimento sulla «degiurisdizionalizzazione» trovano applicazione anche alle controversie in materia di contratti agrari. Se la breve indagine che precede ha consentito di constatare l’assenza di reali ostacoli, occorre anche osservare che già l’ampiezza delle formule adoperate nel provvedimento commentato lasciava presagire questa conclusione («Nelle cause civili (...) che non hanno ad oggetto diritti indisponibili e che non vertono in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale»: art. 1; «La convenzione di negoziazione deve precisare (...) b) l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro»: art. 2; «(...) chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro»: art. 3). Non era consentito, tuttavia, adagiarsi sul solo tenore letterale, e si rendeva necessario il più approfondito vaglio compiuto in queste pagine, vaglio da cui è risultata confermata l’assenza di 316 reali ostacoli all’applicazione delle nuove disposizioni anche alle controversie in parola. Deve infine ribadirsi, con riferimento alla negoziazione assistita contemplata all’art. 2, d.l. esaminato, che l’assenza, in capo ai legali-negoziatori, di prerogative derogatorie analoghe a quelle riconosciute dall’art. 45, l. n. 203/1982, alle organizzazioni professionali viene a costituire un forte deterrente al ricorso alla loro opera. Non varrebbe osservare che l’autonomia privata assistita ex art. 45, l. n. 203/1982, recita un ruolo differente, in quanto destinata ad operare in sede di instaurazione di un rapporto agrario, laddove invece la negoziazione assistita da uno o più legali mira a definire la controversia insorta in ordine ad un rapporto agrario già in essere: non può dimenticarsi, infatti, che il legislatore del 1982 ha conferito all’assistenza delle organizzazioni professionali agricole l’attitudine a derogare validamente a disposizioni che l’art. 58 stessa legge definisce «inderogabili», e che tale importante possibilità opera anche in sede transattiva, ovverosia in funzione della composizione di una controversia. In altre parole, mentre l’assistenza delle organizzazioni di categoria in sede compositiva assicura ai paciscenti la possibilità di derogare validamente a disposizioni di legge in via generale proclamate inderogabili con espressa statuizione, nulla di simile è accordato agli avvocati-negoziatori, cioè a soggetti che – in ragione della specifica competenza e della istituzionale funzione di tutela dei soggetti che ne invocano l’opera – dovrebbero più di chiunque altro essere in grado di orientare l’autonomia privata dei loro assistiti. Può così amaramente concludersi che è negata ad essi quella prerogativa che da oltre un trentennio è stata accordata alle organizzazioni sindacali: un segno, e non l’unico, della declinante considerazione del professionista da parte del legislatore. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. LE ASIMMETRIE DELL’ART. 1662 COD. CIV. di Giovanni Iudica Sommario: 1. Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ. – 2. Il diritto potestativo del committente di controllo e verifica. – 3. Il diritto potestativo del committente di risolvere il contratto. – 4. Limiti al potere del committente. 1. Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ. Nella parte generale del contratto, l’inadempimento dei contratti sinallagmatici è regolato da un’unica disciplina che vale per entrambi i contraenti. Ciascuno di essi può avvalersi delle regole di cui agli artt. 1453 ss. I contraenti, in caso di patologia del rapporto, di vizio funzionale della causa, hanno a disposizione gli stessi strumenti: combattono ad armi pari. Viceversa nell’appalto è prevista una disciplina più articolata e comunque asimmetrica, in ragione del fatto peculiare che il contratto è di durata, a esecuzione prolungata, e che la natura dell’interesse alla realizzazione dell’opera o del servizio secondo le regole dell’arte e secondo i modi e i tempi concordati, di cui è portatore soprattutto il committente, pretende una considerazione particolare. È ragionevole ritenere che il legislatore del 1942, pur scrivendo norme riguardanti l’appalto privato, fosse consapevole che quella disciplina sarebbe stata considerata come base operante anche per regolare i rapporti tra le parti pure negli appalti pubblici, ed è lecito supporre che, consciamente o inconsciamente, avesse comunque l’idea di un committente (ente pubblico territoriale, ente pubblico economico, ecc.) portatore di un interesse in qualche modo dominante rispetto a quello di controparte ( 1 ). ( 1 ) Già nella Prefazione alla prima edizione del commentario breve Carullo-Iudica, Appalti pubblici e privati, Cedam, 2012, scrivevamo: «L’appalto, un po’ come il Dangling Man di Saul Bellow, alla perenne ricerca di se stesso, è in bilico tra la fondamentale vocazione privatistica del contratto e l’altrettanto fondamentale necessità che la disciplina del rapporto negoziale sia declinata in modo coerente con la natura pubblica del committente negli appalti pubblici». NGCC 2015 - Parte seconda Una prima asimmetria si nota tra la disciplina speciale di risoluzione riguardante il momento finale e conclusivo del rapporto e cioè l’ipotesi di opera finita (art. 1668 cod. civ.) ( 2 ) e quella che riguarda invece il caso in cui l’opera sia ancora in progress (art. 1662 cod. civ.). Ma anche in quest’ultima ipotesi, cioè nella fase dell’esecuzione del contratto, l’inadempimento è disciplinato, appunto, come si diceva, in maniera asimmetrica. Questa seconda asimmetria consiste nel fatto che durante l’attuazione del rapporto gli inadempimenti delle parti sono regolati da disci( 2 ) L’art. 1668 cod. civ., limita drasticamente il potere del committente di chiedere la risoluzione del contratto d’appalto per inadempimento dell’appaltatore. Presupposto dell’art. 1668 è, infatti, non già l’inadempimento di non scarsa importanza come previsto dal combinato disposto degli artt. 1453-1455, bensì un inadempimento tale per cui l’opera risulti «del tutto inadatta alla sua destinazione». Sia la dottrina che la giurisprudenza (si veda, in proposito, Rubino-Iudica, Appalto, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 2007, sub art. 1655, 429; Lapertosa, La garanzia per vizi nella vendita e nell’appalto, in Giust. civ., 1998, II, 53; Lipari, La garanzia per i vizi e le difformità dell’opera appaltata: risoluzione del contratto, mancanza di qualità e aliud pro alio, in Giust. civ., 1986, I, 2942; Lucchini Guastalla, Le risoluzioni di diritto per inadempimento dell’appaltatore, Giuffrè, 2002, 110) concordano nel ritenere che la valutazione di tale presupposto debba avvenire secondo criteri oggettivi, potendosi ricorrere a considerazioni soggettive solo qualora la possibilità di una particolare destinazione sia espressamente dedotta nel contratto. La ratio di questa norma si coglie mettendola in relazione con quella di cui all’art. 1662. E cioè la ragione della drastica riduzione (rispetto al diritto comune) del potere del committente di chiedere la risoluzione del contratto d’appalto in sede di verifica e collaudo finale, appare compensata dalla presenza di un potere quanto mai incisivo e invasivo del committente di controllare lo svolgimento dei lavori lungo tutto il percorso della loro esecuzione e di chiedere la risoluzione del contratto per inadempimenti dell’appaltatore in corso d’opera ai sensi dell’art. 1662. 317 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti pline diverse. Gli inadempimenti del committente sono assoggettati alle regole di parte generale del contratto, e precisamente agli artt. 1453 ss. cod. civ. ( 3 ), mentre quelli dell’appaltatore alla disciplina speciale predisposta dall’art. 1662 cod. civ. Se il committente non abbia versato all’appaltatore la rata del prezzo pattuito alla scadenza concordata, oppure non abbia consegnato tempestivamente i materiali necessari a compiere l’opera o il servizio, secondo espressa convenzione in deroga alla regola di cui all’art. 1658, l’appaltatore potrà agire secondo il diritto comune: potrà cioè chiedere, a norma dell’art. 1453, l’adempimento dell’obbligazione inadempiuta, ovvero, se ricorre il presupposto della gravità (la «non scarsa importanza», ex art. 1455) ( 4 ), la risoluzione giudiziale del contratto d’appalto insieme alla richiesta di risarcimento del danno, ovvero utilizzare lo strumento della diffida ad adempiere ex art. 1454, ovvero ancora l’eccezione d’inadempimento e così via. Viceversa, con riguardo all’inadempimento dell’appaltatore, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre una disciplina speciale e comunque diversa rispetto a quella operante nei riguardi di controparte. 2. Il diritto potestativo del committente di controllo e verifica. In proposito, innanzitutto, va ricordato che il comma 1o ( 3 ) Sulla disciplina della risoluzione del contratto in generale, di cui all’art. 1453 cod. civ., e specialmente sul presupposto dell’inadempimento, si veda, nell’ambito di una letteratura assai ampia, sia trattatistica che monografica, Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Giuffrè, 2010, 80 ss. ( 4 ) Il presupposto della gravità dell’inadempimento («la non scarsa importanza») ha suscitato ampio interesse in dottrina. Si veda, per tutti, Gallo, Trattato del contratto, Utet, 2010, III, 2113 ss.; Nanni, Risoluzione per inadempimento, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 2007, sub art. 1455, 8; Cubeddu, L’importanza dell’inadempimento, Giappichelli, 1995, passim; Collura, L’importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Giuffrè, 1992; Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, nel Trattato del contratto, diretto da Roppo, Giuffrè, 2006, 123 ss.; Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, nel Commentario Schlesinger, 2007, sub art. 1455; Roppo, Il contratto, nel Trattato Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, 2a ed., 875 ss. 318 dell’art. 1662 attribuisce al committente un penetrante potere di controllo dell’andamento dei lavori e di verifica che l’esecuzione proceda nel rispetto del contratto e secondo le regole dell’arte. Il committente ha facoltà di ispezionare, di visionare sia le attrezzature sia i materiali utilizzati dall’appaltatore nel processo di costruzione, sia il processo stesso e la costruzione che ne risulta e, soprattutto, quando, dove e come effettuare il suo controllo. Si tratta di un potere del committente che ha la natura tipica del diritto potestativo, nei confronti del quale l’appaltatore si trova in una condizione di sostanziale soggezione. È appena il caso di dire che si tratta di un potere, di una facoltà, non di un obbligo del committente verso l’appaltatore. Quest’ultimo non può pretendere che la controparte eserciti il suo potere, né tanto meno potrà imporre al committente i tempi e i modi per realizzare il controllo e la verifica. Tuttavia è normale che l’appaltatore, posto dinanzi alla necessità di compiere scelte importanti, possa chiedere al committente una preventiva approvazione e per contro può essere il committente stesso a chiedere all’imprenditore di sottoporre alla sua approvazione preventiva taluni input di particolare momento nel processo di costruzione. Lo scopo della norma in esame è di consentire al committente di intervenire in tempo, costringendo l’appaltatore a porre rimedio subito, durante l’esecuzione, a errori o a violazioni del capitolato o delle regole dell’arte, onde evitare che al momento del collaudo finale possano verificarsi sorprese, alle quali sarebbe magari impossibile o troppo costoso porvi rimedio. Si tratta di un potere il cui esercizio svolge una funzione preventiva di tutela della stazione appaltante contro il «semplice pericolo attuale di un inadempimento futuro» ( 5 ). Il diritto di controllo del committente appare in rapporto dialettico con il potere decisio( 5 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 304. In tema si veda, altresì, Marinelli, La verifica dell’opera e la garanzia per vizi e difetti, in Costanza (a cura di), L’appalto privato, Utet, 2000, 106 ss.; Musso, Commento all’art. 1662, in Carullo-Iudica, Appalti pubblici e privati, cit., 64 ss.; Perreca, Commento all’art. 1662, in Luminoso (a cura di), Codice dell’appalto privato, Giuffrè, 2010, 445 ss. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalto nale dell’appaltatore, posto che quest’ultimo ha pur sempre interesse a eseguire in piena autonomia il lavoro commissionato, essendo suoi i mezzi, i fattori della produzione, ed essendo suo il rischio d’impresa ( 6 ). Il diritto del committente al controllo e alla verifica in corso d’opera dovrà allora conciliarsi con le esigenze economiche e tecniche dell’imprenditore. Il committente non potrà esercitare il suo diritto in maniera vessatoria, abusando della sua posizione di supremazia, con la conseguenza di creare fastidi, turbative o disagi, non giustificati o non ragionevoli, nell’esecuzione dei lavori. Il potere di controllo e verifica, per quanto ampio ed esteso, per quanto cioè di natura potestativa, non potrà non essere esercitato secondo la regola della lealtà e della collaborazione verso la controparte, e cioè secondo la regola della buona fede e della correttezza. È insomma normale, ed è ciò che accade nella stragrande maggioranza dei casi, che tra committente e appaltatore s’instauri un rapporto di operosa e costruttiva collaborazione. E se il controllo dovesse produrre l’effetto oggettivo di determinare un ritardo nell’adempimento, il fatto non potrà essere ignorato o restare senza conseguenze e l’appaltatore avrà diritto a una corrispondente proroga del termine finale ( 7 ). I rapporti tra diritto potestativo di controllo del committente e potere dell’appaltatore di realizzare l’opera esercitando la sua autonomia imprenditoriale, nonché il loro ambito, la loro circonferenza e, insomma, i loro limiti, potranno anche essere opportunamente precisati in maniera analitica nel contratto. E così le parti, di comune accordo, potranno prevedere modalità più penetranti di verifica per maggior sicurezza della stazione appaltante man mano che l’opera o il servizio procede nella sua esecuzione, oppure viceversa potranno limitare, in misura più o meno ampia, il potere del committente a tutto vantaggio dell’autonomia del( 6 ) L’appaltatore è un imprenditore, la cui autonomia si esercita nell’organizzare i fattori della produzione in maniera da governare il rischio d’impresa, in vista di ottenere un profitto (Rubino-Iudica, Appalto, cit., 14 ss.). ( 7 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 309; Lucchini Guastalla, Le risoluzioni di diritto, cit., 167; Musso, Commento, cit., 68. NGCC 2015 - Parte seconda l’appaltatore. Il committente potrà anche validamente concordare di ridurre al minimo il suo potere d’ingerenza e di verifica dei lavori in corso, ritenendo di poter riporre la massima fiducia nell’onestà, nella bravura, nelle capacità tecniche e imprenditoriali dell’appaltatore e dei suoi collaboratori. Oppure perché il committente, in ipotesi, non ha forza contrattuale sufficiente per resistere o per opporsi alla pretesa dell’imprenditore di eseguire l’appalto senza le ingerenze, più o meno invasive, di controparte. Se da un lato l’appaltatore si trova in una situazione di soggezione nei confronti del diritto potestativo del committente, dall’altro lato il titolare di questo diritto potrà esercitarlo o meno secondo le sue convenienze. Pertanto non sembra, a rigore, potersi escludere di considerare valida pure una clausola con la quale il committente rinuncia, per un periodo più o meno lungo, durante i lavori, oppure addirittura sino al collaudo finale, di esercitare il suo potere di verifica ( 8 ). In tal caso il committente si assumerà per intero un rischio che avrebbe potuto evitare esercitando il controllo in corso d’opera: imputet sibi. È appena il caso di notare che la verifica ex art. 1662 va tenuta ben distinta dalla verifica finale e liberatoria effettuata al momento conclusivo del collaudo ai sensi dell’art. 1665. Il ( 8 ) Secondo Rubino-Iudica, Appalto, cit., 301, tuttavia, «Una eventuale clausola del contratto che escluda il diritto del committente di controllare e verificare i lavori in corso di esecuzione sarebbe nulla, perché contraria alla natura del rapporto». Nel senso del testo si era espressa, peraltro, una risalente giurisprudenza (App. Catania, 29.1.1955, in Mass. Giust. civ., 1955). Ora, a ben vedere, appare una petizione di principio invocare la «natura del rapporto», cioè il fatto che il contratto sia di durata, ad esecuzione prolungata, per sostenere la tesi della nullità del patto che limiti il potere del committente. Il fatto che il contratto abbia natura di durata non costituisce un ostacolo alla autonomia delle parti, alle quali non sembra potersi precludere la possibilità di disciplinare i loro rapporti come meglio credono pure durante la fase della esecuzione, senza che «la natura» di durata del contratto venga in alcun modo in questione o addirittura pregiudicata. Il diritto potestativo non è un diritto irrinunciabile e a maggior ragione dovrà ritenersi un diritto che potrà essere modellato dalle parti secondo le rispettive esigenze. 319 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti controllo in corso d’opera consente bensì al committente di verificare l’andamento dei lavori nella loro progressione, ma non gli preclude, in sede di collaudo finale, di far valere vizi o difformità anche riguardanti parti già verificate in corso dei lavori. E anche nel caso in cui il committente avesse rinunciato, per espresso accordo con l’imprenditore oppure per sua decisione unilaterale, a eseguire le verifiche ex art. 1662, ciò non significa rinuncia alla verifica finale e neppure significa accettazione aprioristica dell’opera senza riserve con conseguente liberazione dell’appaltatore da ogni responsabilità ( 9 ). L’imprenditore, avvalendosi degli strumenti del diritto comune, potrà sempre opporsi a violazioni, a ingerenze, a invasioni nella sua sfera giuridica di autonomia, qualora queste ultime fossero ingiustificate o intollerabili o irragionevoli, Nel caso estremo, l’appaltatore non potrà recedere dal contratto (essendo tale potere riservato solo al committente ex art. 1671), né potrà avvalersi del rimedio risolutorio previsto dall’art. 1662 (anch’esso riservato al solo committente), ma potrà chiedere la risoluzione del contratto ex art. 1453, per fatto e colpa della controparte, oltre al risarcimento del danno, per avere il committente superato, in maniera non trascurabile, i limiti del suo potere ( 10 ). 3. Il diritto potestativo del committente di risolvere il contratto. Il potere del committente di controllo e di verifica dei lavori in corso d’esecuzione è accompagnato dalla possibilità di avvalersi di una sanzione quanto mai energica ed estrema nei confronti dell’appaltatore inadempiente: la risoluzione del contratto d’appalto. Va detto, tuttavia, che nella stragrande maggioranza dei casi, direi nella normalità dei casi, il committente che accerta, nel corso della sua verifica, la presenza di un vizio o di un difetto o di una difformità dell’opera rispetto al capi( 9 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 302; Perreca, Commento all’art. 1662, 447; Musso, Commento, cit., 65. ( 10 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 315; Musolino, I poteri di verifica del committente durante l’esecuzione del contratto d’appalto, in Riv. giur. edil., 2002, I, 81. 320 tolato o alle regole dell’arte inviterà in maniera amichevole l’appaltatore a porre rimedio alla sua difettosa esecuzione e di solito l’appaltatore, in spirito di reciproca e leale collaborazione con la stazione appaltante, provvederà spontaneamente a risolvere l’incaglio. In questi casi nulla quaestio. Può tuttavia accadere che l’appaltatore non dia attuazione all’invito del committente, oppure che provveda sì a rimediare ai difetti di esecuzione, ma controvoglia, oppure di malavoglia, sollevando contestazioni e adducendo pretesti, e può pure accadere che non provveda affatto ad adeguarsi alle direttive del committente e magari che tali difficoltà si ripetano più volte o addirittura in continuazione. Ciò comporta una crisi dello spirito d’intesa e di collaborazione reciproca che dovrebbe regnare tra le parti, e magari anche una perdita di fiducia del committente nei confronti dell’impesa appaltatrice. In questi casi il committente ha a disposizione due possibilità. La prima è di recedere dal contratto, a norma dell’art. 1671. Si tratta di una strada drammatica e ultimativa e oltretutto piuttosto costosa per il recedente. In caso di recesso unilaterale del committente, infatti, questi dovrà tenere indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno ( 11 ). La seconda è di avvalersi della sanzione prevista dall’art. 1662, comma 2o. Si tratta di un rimedio che ha una struttura analoga a quella della diffida ad adempiere, ma diversi sono i presupposti e differente il modo con cui opera. L’art. 1454 sanziona la «parte inadempiente» e dunque è destinato a operare sul presupposto di un inadempimento in senso tecnico, ( 11 ) Sul potere del committente di recedere dal contratto, ex art. 1671, si veda Tessera, Commento all’art. 1671, in Carullo-Iudica, Appalti pubblici e privati, cit., 142 ss.; Giannattasio, Appalto, nel Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, 1967, 300 ss.; Rubino Sammartano, Appalti di opere e contratti di servizi, Cedam, 1996, 533; De Tilla, L’appalto privato, Giuffrè, 2007, 289 ss. È da notare che, trattandosi di un diritto potestativo del committente, non occorre un accertamento sulla «giusta causa» del recesso (Cass., 2.5.2011, n. 9645, in Mass. Giust. civ., 2011). NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalto di un’inesatta realizzazione della prestazione dovuta ( 12 ). Il comma 2o dell’art. 1662, invece, ha riguardo non già a un appaltatore che non ha realizzato esattamente la prestazione dovuta, l’opus o il servizio oggetto del negozio, bensì a un appaltatore che non procede, a parere del committente, secondo le norme contrattuali o secondo le regole dell’arte. L’opera è in itinere, i lavori sono ancora in progress: la prestazione è ancora in fase di esecuzione, di gestazione, di costruzione. Durante questa fase, che si protrae per un tempo più o meno lungo, non si può dire, a rigore, se alla scadenza contrattuale la prestazione giungerà a buon fine, alla sua completa e perfetta realizzazione, se l’opus sarà finita a regola d’arte, ovvero se, al momento del termine finale, l’obbligazione principale (quella dell’appaltatore) potrà dirsi, oppure no, tecnicamente «adempiuta». L’art. 1662 non sanziona l’inadempimento del contratto, ma l’atteggiamento dell’appaltatore che si rifiuta di eseguire, o comunque che non esegue, le direttive del committente e che non pone rimedio a quei difetti o a quelle deviazioni, rispetto alle regole del capitolato o dell’arte, che il committente ha riscontrato nelle sue verifiche e nei suoi controlli in corso d’opera. L’appaltatore che assume un atteggiamento ostile di questo genere entra in conflitto con il committente e questi, se ritiene di non riuscire a riportare l’imprenditore sui binari dai quali, a suo avviso, aveva deragliato o se perde la fiducia nella controparte, può usare le maniere forti: può assegnare all’imprenditore un «congruo termine» entro il quale questi dovrà adeguarsi alle sue direttive ( 13 ). Se il termine trascorrerà ( 12 ) Dellacasa, Le risoluzioni di diritto: la diffida ad adempiere, nel Trattato dei contratti, diretto da Roppo, Giuffrè, 2014, V, 2, 276 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità, Giuffrè, 1994, 305 ss.; Gallo, Trattato del contratto, cit., III, 2159 ss. ( 13 ) Non è previsto il termine minimo dei quindici giorni indicato dall’art. 1454 in tema di diffida ad adempiere. La congruità del termine che il committente assegna all’imprenditore dipende, dunque, caso per caso, dalla natura, dalle circostanze e dalle condizioni dell’opera in corso di esecuzione. Si veda, in proposito, Giannattasio, Appalto, cit., 168; Perreca, Commento, cit., 452. Si ritiene che il terNGCC 2015 - Parte seconda inutilmente, il committente potrà anche cercare con l’imprenditore un accomodamento, una nuova intesa, e se questo tentativo non dovesse riuscire, ovvero se il committente dovesse considerare il congruo termine concesso come l’ultima possibilità per l’appaltatore di rimediare alle sue mancanze, il committente potrà esercitare il suo diritto potestativo, la sua formidabile arma di autotutela privata, di provocare la risoluzione dell’intero contratto di appalto ( 14 ). E mentre nel caso di recesso il committente dovrà rendere indenne l’appaltatore dai danni patiti quale conseguenza del recesso, nel caso in esame, tutt’all’opposto, sarà l’appaltatore a dover risarcire il committente di tutti i danni da quest’ultimo subiti. Perché l’effetto della risoluzione possa verificarsi non basta che il committente abbia concesso all’appaltatore un congruo termine per rimediare ai riscontrati difetti di esecuzione. Occorre che l’appaltatore sia messo in grado di conoscere preventivamente le conseguenze di una sua eventuale inadempienza alle direttive del committente ( 15 ). È del tutto normale che in seguito alle verifiche e ai controlli il committente assegni all’appaltatore un congruo termine per correggere i suoi errori. Ma perché si produca il drammatico effetto della risoluzione è indispensabile che il committente avverta l’appaltatore della conseguenza grave che fatalmente si produrrà in caso di sua inadempienza: bisogna cioè che la dichiarazione di concessione del termine sia espressamente accompagnata dalla minaccia della risoluzione. Questo è detto espressamente nell’art. 1454, ma non nell’art. 1662. Tuttavia, se la esplicita minaccia è indispensabile nel caso d’inadempimento di non trascurabile importanza del contratto, a maggior ragione tale dichiarazione appare coessenziale al diritto potestativo, e indispensabile perché questo produca il suo effetto, nel caso di semplici inadempienze nella fase di esecuzione in corso d’opera dell’obbligazione mine assegnato dal committente ex art. 1662 sia di decadenza (Rubino-Iudica, Appalto, cit., 307). ( 14 ) Eid., op. cit., 305. ( 15 ) Il committente potrà pretendere la restituzione del prezzo o degli acconti già versati all’appaltatore, oltre i danni emergenti ed eventualmente pure il lucro cessante. 321 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti quando si è ancora lontani dalla possibilità di parlare di inadempimento vero e proprio del contratto ( 16 ). L’appaltatore potrà opporsi alla risoluzione rivolgendosi al giudice, adducendo il motivo della non congruità del termine assegnato, oppure dei vizi formali della diffida, o comunque la non idoneità della medesima di produrre l’effetto drammatico della risoluzione. Il giudice non potrà andare più in là del semplice accertamento dell’esistenza dei presupposti in fatto del diritto del committente e la sentenza avrà natura meramente dichiarativa ( 17 ). Più delicato è il problema se il giudice debba valutare, come nel caso dell’art. 1454, la «gravità» dell’irregolarità dell’esecuzione dell’appaltatore e, qualora tale gravità non sussista, accertare che la iniziativa del committente non ha prodotto l’effetto della risoluzione. In proposito, innanzitutto, occorre notare che non sembra possibile valutare la «gravità» dell’inadempimento del contratto (ex art. 1455), prima ancora che sia scaduto il termine finale e finché l’obbligazione sia ancora in fase di attuazione, in perfetta simmetria con la norma della diffida ad adempiere. Si tratta di due situazioni, in fatto, del tutto differenti: l’art. 1454 si occupa di un inadempimento, in senso tecnico, dell’obbligazione alla quale l’inadempiente era tenuto; viceversa l’art. 1662 non si occupa dell’inadempimento dell’appalto, bensì del fatto che l’imprenditore non rispetta o non segue in concreto le direttive del committente in fase di esecuzione. Sicché a me pare che non si possa trasferire tutto il bagaglio di letture e d’interpretazioni sulla gravità di cui agli artt. 1454 e 1455, alla disposizione in esame, come se gli artt. 1454 e 1662 fossero sovrapponibili senza residui, come se fossero la stessa cosa. Entrambi i commi dell’art. 1662 esprimono un manifesto favor verso il committente e verso il suo interesse a che l’opera sia realizzata secondo i suoi piani e la sua volontà, della quale l’appaltatore appare come un mero strumento, un mezzo per poterla attuare. ( 16 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 308. ( 17 ) Marinelli, La verifica dell’opera, cit., 113 ss.; Rubino-Iudica, Appalto, cit., 305. 322 4. Limiti al potere del committente. D’altra parte sembra ragionevole ritenere che anche il diritto potestativo del committente, per quanto incisivo e formidabile, non possa essere esercitato ad nutum, senza incontrare alcun limite. Anche l’appaltatore, invero, ha riposto, nel contratto che ha stipulato, un disegno economico, una speranza di convenienze e di utilità, un’iniziativa imprenditoriale, magari anche di grande impegno per i mezzi, il capitale e il lavoro coinvolti, e ha tutto l’interesse a portare a felice compimento la sua intrapresa ( 18 ). Sicché, ancora una volta, si tratta di conciliare, con prudenza ed equilibrio, l’interesse, pur prevalente, del committente con quello della sua controparte. Al riguardo non sembra persuasivo affermare che il criterio della buona fede sia adeguato per limitare l’esercizio del diritto potestativo del committente. La clausola generale di buona fede, infatti, ha contenuti troppo generici ed elastici per costituire un criterio in grado di fornire una sufficiente certezza circa il suo contenuto e il suo ambito ( 19 ). Anzi, la clausola generale di buona fede appare uno strumento che, per sua natura, offre una gamma di possibilità interpretative molto estesa, a fisarmonica, e troppo spesso, nelle decisioni di giudici poco accorti o poco sensibili nei riguardi della «certezza del diritto», si è rivelata uno strumento impiegato in modo non appropriato e a volte in maniera addirittura devastante ( 20 ). ( 18 ) Lucchini Guastalla, Le risoluzioni di diritto, cit., 167; Polidori, La responsabilità dell’appaltatore. I rapporti fra disciplina generale e norme speciali nell’appalto, Esi, 2004, 76 ss. ( 19 ) Sulla clausola di buona fede (oggettiva) la letteratura, come noto, è assai vasta. Per tutti si veda Villanacci, La buona fede oggettiva, Esi, 2013, passim. ( 20 ) Monateri, Ripensare il contratto: verso una visione antagonista del contratto, in Riv. dir. civ., 2003, I, 411 ss. In questo scritto l’a. contrappone efficacemente la figura del «contratto rugiadoso» (infarcito di buona fede, di renseignements, di cooperazione, di «giustizia contrattuale»), proprio della tradizione tedesca, a quella del contratto «rude» (autonomo, atipico, sfuggente alle qualificazioni, importanza estrema del testo) propria della cultura di common law e dominante nelle transazioni sul mercato globalizzato. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Appalto Eppure proprio il bene della «certezza del diritto» rappresenta uno degli elementi fondamentali sui quali le imprese misurano il rischio economico dell’operazione intrapresa e calcolano i costi e i benefici connessi al contratto che hanno stipulato. E va aggiunta una notazione da non trascurare in un’economia sempre più transnazionale e globalizzata: la clausola generale di buona fede, che tanta e spropositata fortuna ha avuto in Italia in questi ultimi decenni, è guardata con estrema diffidenza se non addirittura con manifesta sfiducia nei paesi nordici e in quelli, che abbracciano la maggior parte del pianeta, di common law. Le imprese che operano sul piano internazionale, specialmente nel settore dei grandi appalti, diffidano giustamente di una clausola il cui impiego potrebbe alterare in maniera rilevante il calcolo economico divisato nel contratto ( 21 ). Occorre allora individuare un criterio meno volatile e più preciso e comunque più coerente con la struttura specifica dell’appalto e con l’equilibrio asimmetrico in esso contemplato. Al riguardo si può dire che se il vizio è eliminabile e l’appaltatore lo elimina tempestivamente, entro il congruo termine a lui concesso dal committente, nulla quaestio: il rimedio tempestivo paralizzerà l’efficacia del diritto potestativo del committente. Se invece l’imprenditore non provvede a eliminare il difetto di esecuzione riscontrato dal committente, i casi sono due. Nel primo caso, se il difetto non è eliminabile, è ragionevole ritenere che esso sia causalmente preordinato, in maniera sinistra e ineluttabile, a un inadempimento grave e definitivo quando il termine finale sarà scaduto. Un esempio: se l’appaltatore incaricato di costruire un palazzo non ha inserito la colonna dell’ascensore, violando l’esplicita previsione contenuta nel contratto, non avrebbe senso l’eventuale pretesa dell’appaltatore di rinviare la soluzione del problema più in là, e di continuare la costruzione e arrivare al tetto. E allora non pare potersi dubitare che in questi casi il diritto potestativo esercitato dal committente produrrà in pieno il suo effetto risolutorio. Se invece il difetto è eliminabile (ad esempio: le maniglie degli infissi non sono corrispondenti al modello contemplato nel capitolato), e l’appaltatore si riserva di porvi rimedio più in là, quando avrà tempo e modo nell’ambito della sua autonomia imprenditoriale, sembra poco persuasivo ritenere che la disponibilità dell’impresa possa essere frustrata dalla pretesa del committente, che suonerebbe arrogante e forse pretestuosa, di un intervento dell’appaltatore illico et immediate pena la risoluzione dell’intero appalto. Sicché, in conclusione, sembra doversi ritenere che il criterio più persuasivo sia di riconoscere che il diritto potestativo del committente possa paralizzare l’efficacia dell’intero contratto solo quando l’appaltatore non possa o non voglia porre rimedio alle irregolarità eliminabili da lui compiute. E cioè quando il vizio (e non importa quanto grave in rapporto all’economia complessiva del contratto) non sia tecnicamente rimediabile, oppure quando l’appaltatore si rifiuta, senza ragione, di adeguarsi alle legittime direttive del committente. ( 21 ) De Nova, Il contratto alieno, 2a ed., Giappichelli, 2010; Iudica, L’influenza della globalizzazione sul diritto italiano dei contratti, in questa Rivista, 2014, II, 145. NGCC 2015 - Parte seconda 323 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. IL SINDACATO SUI TERMINI DELLO SCAMBIO NEI CONTRATTI DI CONSUMO: NUOVI SCENARI [,] di Matteo Dellacasa Sommario: 1. L’esclusione dell’equilibrio economico dello scambio dal sindacato giudiziale: struttura e funzione del limite. – 2. Il limite nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: controllo procedimentale (nel diritto comunitario) vs. controllo sostanziale (eventualmente, nel diritto interno). – 3. La portata del limite: le clausole esenti dal controllo giudiziale. – 4. La trasparenza «presa sul serio»: chiarezza della clausola e comprensibilità delle sue implicazioni economiche. – 5. Le conseguenze del difetto di chiarezza e comprensibilità. – 6. Come evitare un paradosso: l’integrazione legislativa della clausola essenziale ritenuta abusiva . 1. L’esclusione dell’equilibrio economico dello scambio dal sindacato giudiziale: struttura e funzione del limite. In base all’art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE, il giudizio relativo al carattere abusivo di una clausola non verte sull’oggetto principale del contratto, né sul rapporto tra il prezzo e i beni o i servizi forniti al consumatore, purché tali elementi siano definiti in modo chiaro e comprensibile. La disposizione è stata recepita senza significative variazioni dal legislatore italiano nel contesto del codice del consumo (art. 34, comma 2o). Il limite è subordinato alla sussistenza di due requisiti: l’attinenza della clausola all’oggetto principale del contratto o al rapporto tra prezzo e prestazione e la formulazione chiara e trasparente. In relazione ad entrambi, il dettato normativo è caratterizzato da una notevole indeterminatezza semantica: una conseguenza inevitabile del carattere compromissorio della direttiva, che persegue il tentativo di conciliare la protezione del consumatore con il rispetto della logica dell’economia di mercato. Diviene allora particolarmente importante identificare la funzione della disposizione: essa offre indicazioni rilevanti per [,] Contributo pubblicato in base a referee. 324 individuare le clausole immuni dal sindacato giudiziale ( 1 ). Come è noto, nella proposta elaborata dalla Commissione europea all’inizio degli anni ’90 non era previsto alcun limite al controllo giurisdizionale sulle clausole abusive; la norma oggi espressa dall’art. 4, comma 2o, (art. 34, comma 2o, cod. cons.) è stata invece introdotta per iniziativa del Consiglio, sulla base del suggerimento dei due autori tedeschi Brandner ed Ulmer. Commentando la proposta della Commissione, essi osservarono che la soggezione dei termini dello scambio al controllo giudiziale sarebbe stata incompatibile con i postulati dell’economia di mercato ( 2 ). In un sistema economico e giuridico basato sul mercato e sulla concorrenza tra operatori economici spetta alle parti, e non al giudice, definire il prezzo e l’oggetto principale del contratto. La definizione dei lineamenti dell’operazione economica è dunque riservata all’autonomia privata. Se non fosse così, la concorrenza su cui è basato il mercato comune europeo risulterebbe compromessa: il consumatore non cercherebbe di contrarre con l’imprenditore che formula l’offerta più vantaggiosa, in quanto rivolgendosi al giudice potrebbe ottenere in un secondo tempo l’eliminazione delle condizioni economiche sfavorevoli e la loro sostituzione con termini più vantaggiosi. Se allora deve essere escluso un sindacato sul merito dell’operazione economica, il consumatore può essere tutelato più efficacemente assi( 1 ) Cfr. M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption»: a Comparative Analysis in the Light of the «Market for Lemons» Rationale, 60 International and Comparative Law Quarterly, 933, 935 (2011). ( 2 ) H.E. Brandner-P. Ulmer, The Community Directive on Unfair Terms in Consumer Contracts: Some Critical Remarks on the Proposal Submitted by the EC Commission, 28 Common Market Law Review, 656 (1991). NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo curando la trasparenza delle condizioni contrattuali ( 3 ). Non è opportuno che il giudice valuti l’equilibrio economico del contratto; è invece auspicabile che egli verifichi la comprensibilità del termini contrattuali e l’adeguatezza delle informazioni fornite al consumatore nella fase che precede la conclusione dell’accordo ( 4 ). Nella riflessione dottrinale che segue all’entrata in vigore della dir. n. 93/2013 UE ed alla sua recezione da parte dei legislatori nazionali, il limite previsto dall’art. 4, comma 2o, viene giustificato in sintonia con l’opinione dei due autori tedeschi ( 5 ). Siccome il consumatore non presta attenzione alle clausole accessorie – che non definiscono la prestazione principale ( 3 ) Eid., The Community Directive, cit., 656. ( 4 ) Per ulteriori informazioni sulla genesi della direttiva, con particolare riferimento all’esenzione prevista dall’art. 4, comma 2o, cfr. H.W. MicklitzN. Reich, The Court and Sleeping Beauty: the Revival of the Unfair Contract Terms Directive, 51 Common Market Law Review, 771, 774 (2014); H.W. Micklitz, Unfair Terms in Consumer Contracts, in N. Reich-H.W. Micklitz-P. Rott-K. Tonner (eds.), European Consumer Law, Intersentia, 2014, 127-133; M.W. Hesselink, Unfair Prices in the Common European Sales Law, in S. Vogenauer-L. Gullifer (eds.), English and European Perspectives on Contract and Commercial Law: Essays in Honour of Hugh Beale, Hart, 2014, 231; M. Schillig, Directive 93/13 and the «price term exemption», cit., 937 s. ( 5 ) Cfr. H.W. Micklitz, Unfair Terms in Consumer Contracts, cit., 145; S. Weatherill, EU Consumer Law and Policy, 2nd ed., Edward Elgar, 2013, 153-156; M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 937-945; P. Nebbia, Unfair Contract Terms, in C. Twigg-Flesner (ed.), The Cambridge Companion to European Union Private Law, Cambridge University Press, 2010, 219. V. anche The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice to the Department for Business, Innovation and Skills, marzo 2013, 8-15; The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: a New Approach?, Issues Paper, luglio 2012, 23-26, 30-32 (entrambi i documenti sono reperibili su http:// lawcommission.justice.gov.uk/); Principles of the Existing EC Contract Law, Sellier, 2009, Article 6:303(2), Comment by T. Pfeiffer and M. Ebers, NGCC 2015 - Parte seconda del contratto e il prezzo dovuto, ma altri aspetti del rapporto – non effettua rispetto ad esse una scelta consapevole, sicché non è protetto dal meccanismo della libera concorrenza. In relazione alle clausole che non definiscono il nucleo dell’operazione economica, è dunque necessario tutelare il consumatore mediante un meccanismo esterno alla dinamica del mercato qual è il sindacato giudiziale volto ad accertare il carattere abusivo delle condizioni contrattuali. Il medesimo consumatore, invece, presta attenzione alle clausole che definiscono i beni e i servizi fornitigli dal professionista e il prezzo dovuto in relazione ad essi. Egli effettua la sua scelta considerando tali condizioni contrattuali, sicché in relazione ad esse è protetto dal meccanismo della libera concorrenza; siccome la scelta cade sugli operatori che offrono le condizioni economiche più vantaggiose, quelli che forniscono beni o servizi a condizioni meno favorevoli tendono ad essere esclusi dal mercato. Ora, se le clausole essenziali potessero essere sindacate dal giudice – ed eventualmente sostituite con condizioni economiche più favorevoli al consumatore – il meccanismo della libera concorrenza non funzionerebbe correttamente. Confidando nella rideterminazione giudiziale delle condizioni contrattuali, il consumatore non sarebbe indotto a individuare l’offerta più vantaggiosa; la selezione degli operatori efficienti e l’esclusione dal mercato di quelli inefficienti sarebbe assai più lenta e complessa, perché anziché essere realizzata in modo spontaneo e diretto dipenderebbe dal funzionamento di un congegno legale. D’altra parte, il controllo sulle clausole «accessorie» previsto dalla direttiva consente al consumatore di concentrare l’attenzione sulle condizioni economiche offerte dal professionista favorendo lo sviluppo di un mercato realmente concorrenziale ( 6 ). Il sindacato di vessatorietà, infatti, permette di escludere dal mercato gli operatori che offrono solo in apparen- 327; Draft Common Frame of Reference (d’ora in avanti, DCFR), II - 9:406, Comment, A (Sellier, 2009, 646). ( 6 ) Sul punto v., in particolare, H.W. Micklitz, Unfair Terms in Consumer Contracts, cit., 129. 325 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti za condizioni economiche concorrenziali, perché la convenienza del prezzo è dovuta al fatto che le altre clausole favoriscono i loro interessi pregiudicando quelli del consumatore. Sulla base di un noto studio di analisi economica del diritto ( 7 ) si fornisce, poi, una giustificazione basata sulla dinamica delle contrattazioni in una situazione di asimmetria informativa ( 8 ). Come l’acquirente di un’automobile usata non è generalmente consapevole delle sue reali condizioni, così il consumatore non è probabilmente a conoscenza dell’esatto contenuto delle condizioni generali di contratto: per risparmiare costi transattivi e minimizzare lo sforzo cognitivo relativo alla conclusione del contratto, egli considera solo alcune clausole, ed in particolare quelle che definiscono l’oggetto principale e il prezzo. Gli operatori economici, consapevoli di questo fatto, sono indotti ad offrire beni e servizi a prezzi vantaggiosi per il consumatore, redigendo correlativamente clausole a lui sfavorevoli in relazione agli aspetti del rapporto contrattuale che non sollecitano la sua attenzione. Per recuperare competitività rispetto ai concorrenti che operano in questo modo, anche altri imprenditori seguiranno il loro esempio: se non lo facessero perderebbero clienti, in quanto non potrebbero offrire condizioni economiche ugualmente favorevoli. Si instaura, così, una gara al ribasso che porta al progressivo deterioramento delle condizioni contrattuali a cui il consumatore non presta attenzione al momento della scelta dell’interlocutore che gli fornisce beni o servizi. Per effetto di tale meccanismo, può verificarsi la scomparsa di un mercato, o almeno di un suo settore rilevante: vengono infatti emarginati dal mercato gli imprenditori che offrono condizioni economiche meno favorevoli di altri, redigendo tuttavia clausole che regolano in modo più equilibrato ( 7 ) Cfr. G. Akerlof, The Market for Lemons: Quality Uncertainty and the Market Mechanism, 84 Quarterly Journal of Economics, 488 (1970). ( 8 ) Cfr. M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 940-945. Sulla stessa linea, v. H.B. Schäfer-P.C. Leyens, Judicial Control of Standard Terms and European Private Law, in P. Larouche-F. Chirico (eds.), Economic Analysis of the DCFR, Sellier, 2010, 104 s. 326 e vantaggioso per il consumatore altri aspetti del rapporto. Per evitare un simile fallimento del mercato è necessario un intervento esterno, qual è il sindacato sulle clausole che la generalità dei consumatori non prende in considerazione al momento della conclusione del contratto. In quest’ottica, invece, meritano di essere escluse dal controllo giudiziale le clausole che la generalità dei consumatori prende in considerazione quando si tratta di scegliere il professionista con cui conclude il contratto ( 9 ). Ebbene, siccome per risparmiare tempo e costi transattivi i consumatori tendono a considerare solo le clausole la cui applicazione si rende necessaria ai fini dell’esecuzione del contratto, solo tali clausole dovrebbero essere escluse dal sindacato di vessatorietà: come è evidente, esse si identificano con quelle che definiscono i beni o i servizi forniti dal professionista e il prezzo dovuto dal consumatore. Se tuttavia la clausola, pur sollecitando l’attenzione della generalità dei consumatori, non è stata redatta chiaramente, viene meno la ragione giustificativa della sua esenzione dal controllo giudiziale. Il consumatore non è stato posto in condizione di scegliere consapevolmente, sicché non è tutelato dal meccanismo della concorrenza tra operatori economici: di qui l’estensione del sindacato alle clausole che pur determinando l’oggetto principale del contratto e il prezzo non sono trasparenti. A fondamento del limite può essere indicata anche una ragione di carattere strettamente giuridico. Una volta affermata la nullità di una clausola che verte sull’oggetto principale o sul prezzo, il contratto non può essere attuato: la nullità si estende dunque all’intero contratto, a meno che la clausola non possa essere sostituita da una regola legale o giudiziale. È appena il caso di osservare, a questo proposito, che la nullità totale rischia di pregiudicare il consumatore, il quale non ha più titolo per fruire dei beni o dei servizi fornitigli e può vedersi obbligato a restituirli. Ora, escludendo le clausole essenziali (purché trasparenti) dal sindacato giudiziale il legislatore evita il verificarsi di una ( 9 ) Cfr. M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 960. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo situazione che metterebbe l’interprete di fronte a una scomoda alternativa: affermare la nullità dell’intero contratto, con la conseguenza paradossale di pregiudicare il consumatore, o provvedere ad integrare la lacuna mediante una norma legale o giudiziale. Nella seconda ipotesi, siccome difficilmente la legge determina l’oggetto principale del contratto o il prezzo, il giudice nazionale può vedersi costretto ad elaborare una nuova regola volta ad integrare la lacuna. Una conferma dell’attendibilità di tale ulteriore giustificazione si ricava dall’analisi del modo in cui l’art. 4, comma 2o, è stato recepito nell’ordinamento tedesco. A differenza di quanto è accaduto in molti altri stati, che hanno riprodotto pedissequamente il testo della direttiva, in Germania la limitazione è stata introdotta in modo originale. Possono essere sindacate dal giudice solo le clausole delle condizioni generali di contratto che derogano a disposizioni di legge o le integrano (§ 307, comma 3o, BGB); e siccome non esistono norme che definiscono l’oggetto principale del contratto o regolano il rapporto tra il prezzo e la prestazione, le corrispondenti clausole non possono essere sindacate dal giudice. Se, dunque, sono assoggettate a controllo giudiziale solo le clausole che – qualora ritenute abusive – verrebbero sostituite da norme di legge, l’inefficacia non può mai estendersi all’intero contratto. In primo luogo, la soluzione adottata dal legislatore tedesco risponde all’esigenza di offrire al giudice un valido parametro sulla base del quale valutare il carattere vessatorio delle clausole unilateralmente predisposte: quello offerto dal diritto dispositivo, derogato dalle condizioni generali di contratto adottate dal professionista. Secondariamente, si intende evitare che l’inefficacia di una clausola possa estendersi all’intero contratto. La lacuna che consegue all’inefficacia della clausola viene integrata da una norma dispositiva; se non può essere integrata, la clausola è esente dal controllo giudiziale. 2. Il limite nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: controllo procedimentale (nel diritto comunitario) vs. controllo sostanziale (eventualmente, NGCC 2015 - Parte seconda nel diritto interno). Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia è ricorrente l’affermazione in base alla quale la finalità della dir. n. 93/2013 UE è quella di proteggere il consumatore, quale soggetto che si trova in una condizione di inferiorità economica e informativa rispetto al professionista ( 10 ). In relazione alle clausole che definiscono l’oggetto principale del contratto e il prezzo, il consumatore viene tuttavia protetto in una prospettiva di carattere non sostanziale, ma procedimentale. La direttiva – e così il codice del consumo – prescrive che le clausole essenziali debbano essere chiare e comprensibili (artt. 4, comma 2o, e, rispettivamente, 34, comma 2o): se tale requisito viene osservato la volontà del consumatore si esprime correttamente, ed anche una clausola che per ipotesi preveda un prezzo molto superiore a quello di mercato non può essere sindacata dal giudice. Ad ulteriore giustificazione di tale conclusione, si afferma che il giudice non disporrebbe di parametri affidabili sulla base dei quali valutare l’equilibrio dello scambio ( 11 ). Tanto nella dottrina, quanto nelle istituzioni europee non sono mancate opinioni volte a superare il limite previsto dall’art. 4, comma 2o, e ad ammettere un controllo sull’equilibrio economico del contratto benché la clausola sia redatta in modo chiaro e comprensibile. Il giudice, in altri termini, non dovrebbe limitarsi ad accertare che sussistano le condizioni perché il consumatore concluda il contratto in modo ( 10 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa C-26/13, par. 39, in Contratti, 2014, 853, con nota di Pagliantini, L’equilibrio soggettivo dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia, Corte costituzionale ed ABF: il «mondo di ieri» o un trompe l’oeil concettuale?; Corte giust. UE, 16.1.2014, causa C-226/12, § 20; Corte giust. UE, 14.3.2013, causa C-415/11, § 44; Corte giust. UE, 14.6.2012, causa C-618/10, § 39; Corte giust. UE, 3.6.2010, causa C-484/08, § 27; Corte giust. UE, 6.10.2009, causa C-40/08, § 29; Corte giust. UE, 26.10.2006, causa C-168/05, § 25; Corte giust. UE, 27.6.2000, cause C-240/98 a C-244/98, § 25. ( 11 ) V., negli stessi termini, la Relazione dell’Avv. Gen. Wahl del 12.2.2014 nella causa C-26/13, cit. (§ 69); Principles of the Existing EC Contract Law, cit., Art. 6:303(2), Comment by T. Pfeiffer and M. Ebers, 327; Draft Common Frame of Reference, II 9:406, Comment, A. 327 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti consapevole e informato, ma sarebbe tenuto a verificare che il contenuto della clausola non comporti un eccessivo squilibrio del rapporto a vantaggio del professionista e a detrimento del consumatore. In quest’ottica va considerata la recente deliberazione del Parlamento Europeo favorevole all’eliminazione del limite dalla proposta di regolamento per un diritto comune europeo della vendita (CESL) ( 12 ). Nella medesima prospettiva va ricordata l’opinione di chi osserva che in presenza di uno squilibrio che interessa le clausole essenziali il consumatore viene maggiormente pregiudicato – e merita, dunque, di essere maggiormente tutelato – di quanto non sia in presenza di uno squilibrio che caratterizza le clausole accessorie. Lo squilibrio che riguarda le clausole relative al prezzo e all’oggetto principale del contratto potrebbe, inoltre, essere accertato più facilmente di quello attinente alle altre clausole del contratto: mentre in relazione alle seconde occorre verificare se esse non sono compensate da altre clausole favorevoli al consumatore, le prime possono essere valutate effettuando un confronto con i prezzi praticati sul mercato per analoghi beni e servizi ( 13 ). Sempre nella medesima prospettiva, occorre ricordare che molti stati hanno scelto di non recepire l’art. 4, comma 2o, della direttiva ( 14 ). Se in relazione a quelli dell’area mediterranea la scelta di non esplicitare il limite in sede legislativa può prestarsi ad interpretazioni diver- ( 12 ) Cfr. Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a un diritto comune europeo della vendita (COM(2011)0635 - C7-0329/2011 - 2011/0284(COD). Per un’analisi dettagliata, v. M.W. Hesselink, Unfair Prices in the Common European Sales Law, cit., 225-236. ( 13 ) Cfr. M.W. Hesselink, Unfair Prices, cit., 227-236; Id., Unfair Terms in Contracts Between Businesses, in R. Schulze and J. Stuyck (eds.), Towards a European Contract Law, Sellier, 2011, 133. ( 14 ) Si tratta di Austria, Danimarca, Grecia, Lettonia, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Spagna e Svezia. Cfr. M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, in Schulte-Nölke-C. Twigg-Flesner-M. Ebers (eds.), EC Consumer Law Compendium, Sellier, 2008, 232; DCFR, Article II - 9:406, Notes, 6. 328 se ( 15 ), con riferimento ai paesi dell’area scandinava essa esprime con ogni probabilità la volontà di avallare un controllo sostanziale sulle condizioni economiche dello scambio ( 16 ). In Europa, in definitiva, non mancano opinioni e proposte volte a superare il limite espresso dall’art. 4, comma 2o, e ad ammettere un sindacato sul contenuto delle clausole essenziali anche se redatte chiaramente. Non è questa, tuttavia, la posizione assunta dalla Corte di giustizia, che nel contesto di una recente pronuncia (Kasler) ha interpretato la direttiva in chiave procedimentale: se sono soddisfatte le condizioni necessarie perché il consumatore concluda il contratto in modo consapevole e informato, le clausole che determinano l’oggetto principale e il prezzo sono esenti dal controllo giudiziale ( 17 ). In quest’ot- ( 15 ) È questo il caso della Spagna: mentre secondo alcune opinioni la scelta di non recepire il limite previsto dall’art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE manifesta la scelta di ammettere il sindacato giudiziale sulle clausole essenziali – ancorché redatte in modo chiaro e comprensibile – altri ritengono che una regola analoga, sebbene non espressa in sede legislativa, sia ugualmente vigente, in quanto coerente con la tutela costituzionale dell’autonomia privata. Cfr. M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, cit., 232; DCFR, Article II - 9:406, Notes, 6. ( 16 ) Cfr. T. Wilhelmsson, Standard Forms Conditions, in A.S. Hartkamp-M.W. Hesselink-E.H. Hondius-C. Mak-C. Edgar du Perron (eds.), Towards a European Civil Code, Kluwer, 2011, 583584, testo e nt. 53. ( 17 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa C-26/13, cit. La controversia portata all’attenzione della Corte verte su un contratto di mutuo espresso in valuta straniera intercorrente tra una banca ungherese e una coppia di coniugi della medesima nazionalità. Il capitale erogato dalla banca, le rate in cui viene frazionato il rimborso e gli interessi corrispettivi vengono tutti corrisposti in valuta ungherese (fiorino); il loro importo, tuttavia, viene rapportato alla somma di denaro corrispondente espressa in franchi svizzeri in base al tasso di cambio applicabile nei diversi momenti in cui si articola il rapporto. L’ammontare del capitale che i mutuatari sono obbligati a restituire si determina in un importo di franchi svizzeri corrispondente alla somma in valuta nazionale ad essi trasferita sulla base del corso di acquisto della valuta straniera praticato dalla banca in un preciso momento: quello dell’erogazione del muNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo tica, la dir. n. 93/2013 UE si limita ad assicurare le condizioni necessarie perché il consumatuo. La misura delle rate in cui viene frazionato il rimborso dovuto dai mutuatari viene invece determinata sulla base del corso di vendita della valuta straniera praticato dalla banca il giorno immediatamente precedente quello della scadenza: esso si identifica con il tasso di cambio applicabile, nel corso del rapporto, nei giorni immediatamente precedenti quelli della scadenza delle rate di volta in volta dovute dai mutuatari. Come è evidente, l’attuazione del contratto risulta rischiosa per il mutuatario, in quanto la misura del capitale che egli è obbligato a restituire dipende dall’andamento del tasso di cambio: se il differenziale tra il tasso di cambio mediamente praticato nel corso del rapporto e il tasso di cambio applicato all’atto dell’erogazione del capitale premia la valuta straniera, che si apprezza rispetto a quella nazionale, l’attuazione del rapporto può divenire estremamente svantaggiosa per il mutuatario, e corrispondentemente vantaggiosa per la banca. Nel caso di specie, è probabile che tale eventualità si fosse effettivamente realizzata, in quanto la quotazione del franco svizzero rispetto al fiorino ungherese era notevolmente aumentata, nel corso del rapporto, rispetto a quella registrata quando la banca aveva erogato il capitale. I mutuatari, allora, chiedono che venga accertato il carattere abusivo della clausola ai termini della quale le rate, destinate ad essere pagate in valuta nazionale, sarebbero state determinate sulla base del corso di vendita della valuta straniera praticato dalla banca il giorno prima della scadenza. Essi sostengono che una volta riconosciuta l’invalidità di tale clausola il capitale da restituire sia da determinare nella misura della somma in valuta nazionale erogata dall’istituto di credito, sicché dovrebbero essere rimborsati alla banca tanti fiorini ungheresi quanti la stessa ha erogato a seguito della conclusione del contratto. Il mutuo espresso in valuta straniera, dunque, sarebbe da convertire in un mutuo (non solo erogato e restituito, ma) interamente determinato in valuta nazionale, con il probabile vantaggio di un più conveniente tasso di interesse. Accolta in primo e in secondo grado, la domanda viene portata all’attenzione della Suprema Corte ungherese (Kúria). Quest’ultima ritiene opportuno ricorrere all’interpretazione pregiudiziale della Corte di Giustizia. Tutte le questioni sollevate riguardano la clausola che determina l’oggetto delle singole rate in considerazione del corso di vendita della valuta straniera applicato dalla banca il giorno prima della scadenza. Le soluzioni adottate dalla Corte sono ilNGCC 2015 - Parte seconda tore concluda consapevolmente il contratto: come si è ritenuto in altra occasione (Caja de Ahorros), una volta assicurate tali condizioni un eventuale controllo del giudice sull’equilibrio economico della clausola può avvenire solo in base al diritto nazionale ( 18 ). D’altra parte, anche in relazione alle clausole che non definiscono il prezzo o l’oggetto principale del contratto la Corte di giustizia si astiene, allo stato attuale, dall’elaborare una nozione uniforme di «significativo squilibrio», rinviando la sua identificazione alla legislazione nazionale; si è infatti ritenuto che il giudice debba accertare la sussistenza di tale requisito sulla base di un confronto tra la clausola predisposta dal professionista e la disciplina interna. Si trattava, in un caso, di una clausola inserita in un contratto di mutuo che prevedeva a carico del mutuatario interessi di mora molto elevati e legittimava la banca ad esigere immediatamente la restituzione del capitale a seguito del mancato pagamento di alcune rate (Aziz) ( 19 ); nell’altro, di una clausola che poneva a carico dell’acquirente di un edificio di nuova costruzione l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili: imposta che in base alla legge nazionale avrebbe dovuto essere assolta dal costruttore-venditore (Constructora Principado) ( 20 ). Allo stato attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, dunque, la direttiva detta una disciplina autosufficiente quando si tratta di verificare, in un’ottica di carattere procedimentale, se il consumatore ha espresso correttamente la sua volontà. Quando invece si tratta di valutare il contenuto della clausola sottoscritta dal consumatore, per identificare una situazione di significativo squilibrio, il giudice deve fare riferimento alla legislazione nazionale, sebbene quest’ultima assuma una diversa valenza in dipendenza delle caratteristiche della clausola. lustrate, nel corso del saggio, in relazione ai diversi aspetti del sindacato sulle condizioni economiche dello scambio: v., infra, §§ 3-6. ( 18 ) Cfr. Corte giust. UE, 3.6.2010, causa C-484/08, cit., §§ 45-49. ( 19 ) Cfr. Corte giust. UE, 14.3.2013, causa C-415/11, cit., §§ 68-76. ( 20 ) Cfr. Corte giust. UE, 16.1.2014, causa C-226/12, cit., §§ 28-30. 329 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti Infatti, se la clausola verte sull’oggetto principale del contratto o sul prezzo la legge nazionale – in deroga all’art. 4, comma 2o, della direttiva – può legittimare il giudice ad effettuare un controllo sul suo contenuto, sebbene il testo sia stato redatto in modo chiaro e comprensibile: la conclusione è giustificata dall’art. 8 della medesima direttiva, che ammette l’elaborazione di discipline nazionali più favorevoli al consumatore (Caja de Ahorros) ( 21 ). Va ricordato, a questo proposito, che in base alla direttiva sui diritti dei consumatori e degli utenti il sindacato sulle clausole essenziali redatte in modo chiaro e comprensibile – previsto dalle legislazioni nazionali in deroga all’art. 4, comma 2o, – deve essere comunicato alla Commissione, che lo rende noto a tutti i paesi dell’Unione ( 22 ): il legislatore comunitario avalla, così, l’approdo della Corte di giustizia. Se invece la clausola non verte sul prezzo o sull’oggetto principale del contratto, la stessa direttiva ammette che sia assoggettata a controllo giudiziale sebbene sia stata redatta in modo trasparente. In base alla giurisprudenza della Corte di giustizia, peraltro, il giudice nazionale accerta la sussistenza del significativo squilibrio confrontando la clausola con la disciplina interna. In ogni caso, dunque, la legge nazionale applicabile alla controversia assume un ruolo molto rilevante quando il sindacato verte sul contenuto della clausola. In una precedente occasione, si è osservato che la funzione nomofilattica della Corte di giustizia non è omogenea, ma varia in dipendenza delle disposizioni che il giudice è chiamato a interpretare ( 23 ). Il ruolo della Corte appare molto significativo quando si tratta di identificare le fattispecie regolamentate dalla direttiva. Rispetto alle disposizioni che individuano l’ambito di applicazione della disciplina – quali sono, a titolo esemplificativo, quelle che definiscono i termini «professionista» e «consumatore» – l’inte- grazione si approssima all’unificazione, in quanto un testo normativo sostanzialmente uniforme viene applicato sulla base dei criteri formulati da un interprete egemone. Il sistema, invece, perde coesione quando si tratta di applicare le disposizioni che presuppongono stabilita l’applicabilità dell’atto normativo in cui sono inserite e contengono clausole generali: ne costituisce un esempio paradigmatico la definizione di clausola abusiva (art. 3, dir. n. 93/2013 UE). In relazione ad esse, il processo di integrazione si arresta allo stadio dell’armonizzazione. Da un lato, assumono notevole rilevanza le scelte effettuate dai legislatori nazionali tanto all’atto della recezione della direttiva, quanto in sede di elaborazione di altre disposizioni che il giudice può assumere a riferimento quando applica le norme di derivazione comunitaria. Dall’altro, la Corte di Lussemburgo è riluttante a promuovere l’interpretazione uniforme delle clausole generali contenute nella normativa comunitaria. Quando è stata formulata tale ipotesi, la Corte non aveva ancora avuto occasione di pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni che identificano le clausole abusive, ed in particolare sull’art. 3, dir. n. 93/2013 UE. Nel momento in cui si scrive, più di dieci anni dopo, si possono invece annoverare sul punto diverse pronunce, che testimoniano la tensione dei giudici nazionali verso l’elaborazione di una nozione uniforme. Risultano tuttavia confermate le resistenze al processo di integrazione, che precludono la formulazione di criteri idonei a governare il sindacato sul contenuto delle clausole contrattuali e inducono la Corte di giustizia ad indicare ai giudici nazionali la via del confronto con il diritto interno. Se tale orientamento verrà perseguito, la nozione di clausola vessatoria non sarà uniforme, ma risulterà variabile in dipendenza dei contenuti delle legislazioni nazionali e dei criteri interpretativi adottati in relazione ad esse. ( 21 ) V., supra, nt. 18. ( 22 ) Cfr. art. 8 bis, dir. n. 93/2013 UE, introdotto dall’art. 32, dir. 83/2011 UE. ( 23 ) V., volendo, Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato. Tra codice e nuove leggi civili, Giappichelli, 2004, 398-405, a cui si rinvia per ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. 3. La portata del limite: le clausole esenti dal controllo giudiziale. Escludendo dal controllo giudiziale l’oggetto principale del contratto e il prezzo – sempre sul presupposto della trasparenza delle relative clausole – l’art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE realizza un compromesso tra la tutela dei diritti 330 NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo del consumatore e il rispetto di valori fondanti dell’economia di mercato quali sono l’autonomia privata e la libera concorrenza. Il carattere compromissorio della disposizione contribuisce a spiegare l’indeterminatezza delle espressioni usate e i conseguenti dubbi interpretativi. Se certamente la clausola che definisce il prezzo della prestazione caratteristica è esente dal controllo giudiziale, è dubbio che possa essere sindacata una clausola che quantifica il corrispettivo di determinati servizi eseguiti, nel corso del rapporto, in dipendenza del verificarsi di circostanze contingenti. Non stupisce, allora, che sul punto specifico la giurisprudenza europea approdi a soluzioni diverse. Nel 2009, la Suprema Corte inglese ha interpretato estensivamente l’esenzione in relazione a una clausola che prevedeva a carico dei clienti di una banca l’obbligo di pagare determinate somme di denaro al verificarsi di uno scoperto non preventivamente autorizzato ( 24 ). In contrasto con l’opinione dei giudici di grado inferiore e con alcuni importanti precedenti giurisprudenziali ( 25 ), la Suprema Corte ha ritenuto «inerente al prezzo» ogni clausola che prevede a carico del consumatore l’obbligo di pagare una somma di denaro al verificarsi di determinate circostanze; sebbene tali circostanze siano contingenti – cioè, non si verifichino necessariamente nel corso del rapporto – la ( 24 ) Cfr. Office of Fair Trading v Abbey National plc [2008] EWHC 875 (Comm) (Andrew Smith J); [2009] EWCA Civ 116; [2009] 2 WLR 1286; [2009] UKSC 6; [2009] 3 WLR 1215. Per una valutazione critica, cfr. S. Whittaker, Unfair Contract Terms, Unfair Prices and Bank Charges, 74 Modern Law Review, 106 (2011); S. Weatherill, EU Consumer Law and Policy, cit., 155; C. Willet, General Clauses and the Competing Ethics of European Consumer Law in the UK, 71 Cambridge Law Journal, 412 (2012). V. anche The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice, cit., 9-10; Id., Unfair Terms in Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit., 3-6, 42-52. ( 25 ) Director General of Fair Trading v First National Bank [2001] UKHL 52, [2002] 1 AC 481; Office of Fair Trading v Foxton Ltd, [2009] EWHC 1681 (Ch), [2009] 3 EGLR 133; Bairstow Eves London Central Limited v Smith, Stacy Hill and Darlingtons [2004] ECHC 263 (QB). NGCC 2015 - Parte seconda clausola che addebita al consumatore la somma deve ritenersi ugualmente sottratta al controllo giudiziale. Diversamente orientata la giurisprudenza del BGH tedesco. Si è infatti ritenuto che non definiscano il prezzo né l’oggetto principale del contratto – e non siano, dunque, esenti dal controllo giudiziale – clausole contenute nei contratti di conto corrente bancario che addebitano al consumatore somme di denaro in dipendenza di circostanze che richiedono l’intervento della banca ( 26 ). In quest’ottica non determina il prezzo, ed è dunque assoggettata a controllo giudiziale, una clausola che addebita al cliente una somma di denaro in dipendenza di un’attività che non costituisce un servizio reso al cliente, in quanto la banca la svolge nel proprio interesse: è quanto accade quando l’istituto di credito rifiuta il pagamento di una somma di denaro a causa della mancata disponibilità di fondi sul conto del correntista ( 27 ). Si ritiene invece esente dal controllo giudiziale una clausola che addebita al consumatore una somma di denaro quale corrispettivo di un servizio prestato nell’interesse di quest’ultimo: è il caso della clausola che imputa al cliente un addebito supplementare per l’uso della carta di credito all’estero ( 28 ). A parziale giustificazione di tale divergenza, si osserva che mentre le banche tedesche esigono dal correntista un corrispettivo che remunera i servizi prestati, quelle inglesi forniscono il servizio gratuitamente, salvo addebitare ai clienti somme piuttosto elevate al verificarsi di particolari circostanze, quali, appunto, lo scoperto non autorizzato. Tali somme costituiscono dunque, dal punto di vista economico, le entrate della banca che finanziano la prestazione del servizio; il medesimo servizio fornito da un istituto di credito tedesco viene invece finanziato con il corrispettivo pagato dai clienti ( 29 ). ( 26 ) Per un’analisi dettagliata, si rinvia a M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 950-958. ( 27 ) BGH, 21.10.1997-XI ZR 5/97, [1998] Neue Juristische Wochenschrift, 309, 310. ( 28 ) BGH, 14.10.1997-XI ZR 167/96, [1998] Neue Juristische Wochenschrift, 383. ( 29 ) Cfr. The Law Commission and the Scot331 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti Per superare le divergenze determinate dalla vaghezza del testo normativo, è inevitabile considerare la ragione giustificativa del limite previsto dall’art. 4, comma 2o. Sono esenti dal controllo giudiziale le clausole alle quali il consumatore presta attenzione quando sceglie il professionista che gli fornisce beni e servizi. La rilevanza della clausola non deve essere considerata nella prospettiva del singolo consumatore, ma in un’ottica di carattere generale, sensibile alle dinamiche di mercato ( 30 ). La clausola non è esente dal sindacato se un professionista può inserirla nel regolamento contrattuale senza conseguenze, in quanto i suoi clienti non prestano attenzione ad essa: al verificarsi di queste condizioni, la clausola non è assoggettata a pressione competitiva, sicché il consumatore deve essere tutelato mediante un meccanismo esterno al mercato qual è il sindacato giudiziale. La clausola, invece, è esente dal controllo del giudice se il consumatore presta attenzione ad essa quando effettua la propria scelta. In questa ipotesi, il professionista non può adottare una clausola abusiva senza perdere clienti: il consumatore, dunque, è tutelato dal meccanismo della concorrenza. Sulla base di questo criterio, una clausola che obbliga il consumatore a pagare una somma di denaro non è esente dal controllo giudiziale quando la sua applicazione è contingente, in quanto è subordinata al verificarsi di determinate circostanze nel corso del rapporto. La grande maggioranza dei consumatori, infatti, opera la sua scelta considerando esclusivamente il prezzo dovuto a fronte del bene o del servizio atteso; non viene invece dedicata attenzione alle clausole che prevedono l’obbligo di pagare somme di denaro in dipendenza del verificarsi di circostanze contingenti. Tale presunzione – incentrata sul comportamento della generalità dei consumatori – può essere tuttavia superata se nella fase che precede la formazione dell’accordo e nello stesso testo contrattuale il professionista ha evidenziato tish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit., 85. ( 30 ) In questo senso v., incisivamente, M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 960. 332 la clausola, distaccandola dal resto delle condizioni generali di contratto e segnalandola all’attenzione del consumatore. Sollecitato dal professionista, che rende evidente la clausola, il consumatore presta attenzione ad essa nel momento in cui sceglie di concludere il contratto ed effettua un confronto con le condizioni adottate da altri operatori economici. La clausola che addebita al consumatore somme di denaro viene così assoggettata a pressione competitiva; essa è esente dal controllo giudiziale in quanto il consumatore è protetto dalla dinamica concorrenziale. In questa prospettiva – basata da un lato sull’elaborazione dottrinale, dall’altro su una proposta della Law Commission inglese e scozzese ( 31 ) – assumono rilevanza tanto le caratteristiche oggettive della clausola, quanto il modo in cui il professionista la evidenzia, segnalandola all’attenzione del consumatore. La Corte di giustizia si è recentemente pronunciata sul punto, sostenendo l’opportunità di intendere restrittivamente la portata dell’esenzione ( 32 ). La questione pregiudiziale concerne un contratto di mutuo espresso in valuta straniera: la Corte viene sollecitata a chiarire se la clausola che determina l’oggetto delle rate con riferimento al tasso di cambio registrato in prossimità della loro scadenza sia esente dal sindacato giudiziale o se, al contrario, possa essere valutata dal giudice ed eventualmente qualificata abusiva ( 33 ). L’analisi della questione è preceduta da alcune premesse ricorrenti nella giurisprudenza comunitaria. Si ricorda che non spetta alla Corte qualificare una determinata clausola come abusiva, in quanto solo il giudice nazionale può pervenire a tale conclusione alla luce della formulazione della clausola, del tenore del contratto e del contesto in cui esso è inseri( 31 ) V., rispettivamente, M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 958961 e The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice, cit., 18-45; Id., Unfair Terms in Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit., 93-97. ( 32 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa C-26/13, cit. ( 33 ) Per una sintesi della vicenda v., supra, nt. 17. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo to ( 34 ); se questo è vero, è compito del giudice europeo interpretare la direttiva indicando a quello nazionale i criteri che dovrà applicare nella qualificazione della clausola ( 35 ). Si afferma, inoltre, che la dir. n. 93/2013 UE è finalizzata a proteggere il consumatore quale soggetto che si trova in una situazione di inferiorità economica e informativa nei confronti del professionista; il sindacato giudiziale, dunque, è orientato a sostituire l’equilibrio formale fissato dal contratto con un equilibrio sostanziale, elaborato assumendo a riferimento la differenza di conoscenze e forza contrattuale che intercorre tra le parti ( 36 ). Sulla base di tali premesse, si ritiene che i limiti al controllo giudiziale previsti dall’art. 4, comma 2o, debbano essere interpretati restrittivamente, in quanto solo restringendo l’area delle clausole immuni è possibile assecondare la finalità di riequilibrare il rapporto contrattuale perseguita dalla direttiva. Le clausole che definiscono «l’oggetto principale del contratto» vengono dunque identificate con quelle che prevedono le prestazioni essenziali dei contratti intercorrenti tra un professionista e un consumatore. In osservanza del criterio di ripartizione delle competenze appena indicato, la Corte non opera la qualificazione nel caso di specie; spetta infatti al giudice nazionale valutare se la clausola che determina l’ammontare delle rate in relazione al corso di vendita della valuta straniera definisca una prestazione essenziale. Molto probabilmente, ci sembra, la risposta sarà positiva. Il rimborso del mutuo costituisce una prestazione essenziale del contratto, e la clausola impugnata ne determina la misura: per ricordare la nota distinzione di Hart ( 37 ), ( 34 ) Cfr. Corte giust. UE, 21.3.2013, causa C-92/11, §§ 42-48; Corte giust. UE, 26.4.2012, causa C-472/10, § 22. ( 35 ) Cfr. Corte giust. UE, 14.3.2013, causa C-415/11, cit., § 66; Corte giust. UE, 21.3.2013, causa C-92/11, cit., § 48; Corte giust. UE, 26.4.2012, causa C-472/10, § 22; Corte giust. UE, 9.11.2010, causa C-137/08, § 44. ( 36 ) V., supra, nt. 10. ( 37 ) Cfr. H.L.A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals, 71 Harvard Law Review, 593, 607 (1958). NGCC 2015 - Parte seconda tale clausola non si colloca nella zona di penombra, ma rientra nel nucleo di significato sicuro dell’espressione usata dal legislatore ( 38 ). 4. La trasparenza «presa sul serio»: chiarezza della clausola e comprensibilità delle sue implicazioni economiche. Anche quando una clausola definisce l’oggetto principale del contratto, il giudice può astenersi dal valutarne il carattere abusivo solo a condizione che essa sia stata formulata in modo chiaro e comprensibile (art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE; art. 34, comma 2o, cod. cons.). In una recente pronuncia (Kasler) ( 39 ), la Corte di giustizia ha ricondotto tale requisito all’obbligo di redazione chiara e comprensibile che i termini dell’art. 5 (art. 35 cod. cons.) si impone al professionista in relazione a tutte le clausole contrattuali redatte per iscritto. Anziché essere intesi in senso grammaticale e testuale, inoltre, gli attributi della chiarezza e comprensibilità vengono riferiti alle implicazioni economiche della clausola, nei suoi rapporti con gli altri termini contrattuali. Non è sufficiente che il significato della clausola sia ( 38 ) La stessa Corte di giustizia, invece, perviene ad una conclusione autosufficiente con riferimento alla seconda limitazione espressa dall’art. 4, comma 2o: afferma, infatti, che la clausola impugnata non determina il rapporto tra il prezzo e la prestazione caratteristica in quanto l’istituto di credito non aveva acquistato la valuta straniera per conto del cliente. Il riferimento ai corsi di acquisto e di vendita della valuta estera effettuato dal contratto aveva esclusivamente la funzione di determinare per relationem l’importo del capitale erogato e delle rate di rimborso; a tale riferimento non corrispondeva alcuna attività svolta dalla banca a beneficio del cliente sul mercato valutario. Le somme che il cliente era obbligato a restituire alla banca in aggiunta al capitale erogato, in altri termini, non remunerano alcun servizio, ma costituiscono la realizzazione del rischio da lui assunto con la conclusione del contratto. Sulla base di tale considerazione, si conclude senz’altro che la clausola impugnata non ha la funzione di determinare il rapporto tra il prezzo dovuto dal cliente e le prestazioni eseguite dalla banca, sicché sotto questo specifico profilo tale clausola non merita di essere esclusa dal sindacato giudiziale. ( 39 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa C-26/13, cit. 333 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti chiaro sotto il profilo grammaticale e sintattico; è invece necessario che il consumatore sia in grado di comprendere le conseguenze economiche che derivano dalla sottoscrizione della clausola, nelle sue relazioni con le altre condizioni contrattuali. Nel caso di specie – relativo a un mutuo espresso in valuta straniera – il giudice nazionale è tenuto a verificare se i mutuatari fossero in grado di comprendere che qualora nel corso del rapporto la valuta straniera si fosse apprezzata rispetto a quella nazionale il rimborso del capitale sarebbe divenuto più oneroso. L’accertamento deve essere effettuato alla luce di tutte le circostanze del caso concreto, ed in particolare delle informazioni comunicate al consumatore nella fase che precede la formazione del contratto. La comprensibilità e la chiarezza, dunque, sono riferibili non solo al testo della clausola, ma al complesso delle informazioni fornite al consumatore. Il contenuto di tali informazioni deve essere tale da consentirgli di comprendere le conseguenze economiche che derivano dalla sottoscrizione della clausola e di effettuare su questa base una scelta consapevole. Tale interpretazione è da condividere, in quanto coerente con la ragione che giustifica l’esclusione delle clausole «essenziali» dal sindacato giudiziale. Se l’esenzione è dovuta al fatto che il consumatore presta attenzione alla clausola – e su questa base effettua un confronto con le offerte disponibili sul mercato – non è sufficiente che il testo sia grammaticalmente chiaro; occorre che grazie alle informazioni che gli sono state comunicate il consumatore sia in grado di comprendere le conseguenze economiche della clausola ed effettuare, così, una scelta consapevole. La medesima nozione si riscontra, sia pure in modo meno evidente, in Invitel ( 40 ) e RWE Vertrieb ( 41 ). Le due sentenze hanno ad oggetto, rispettivamente, una clausola che attribuiva ad un operatore telefonico il diritto di variare i costi addebitati al consumatore per il recapito ( 40 ) Corte giust. UE, 26.4.2012, causa C-472/ 10, §§ 23-31. ( 41 ) Corte giust. UE, 21.3.2013, causa C-92/11, §§ 42-55. 334 della fattura ed una clausola che consentiva ad un’impresa somministrante gas naturale di modificare il prezzo del combustibile. Essendo certo che tali condizioni contrattuali, contemplate dalla lista grigia [lett. j) ed l)], potessero essere assoggettate a controllo giudiziale, si ritiene che la trasparenza e l’adeguatezza delle informazioni fornite al consumatore possano escluderne il carattere abusivo: a tale conclusione si perviene interpretando evolutivamente le lettere j) ed l) dell’allegato, che disciplinano le clausole per mezzo delle quali il professionista si riserva uno ius variandi. Occorre, allora, che il consumatore sia informato sulle ragioni che determinano la variazione dei costi a lui addebitati e del prezzo dei beni e dei servizi forniti, sulle modalità della variazione e sulla legittimazione a recedere che acquisisce in conseguenza di essa: ne risulta che egli deve essere posto in grado di prevedere la modificazione delle condizioni contrattuali che il professionista può effettuare grazie alla clausola. Anche in questo ambito, la trasparenza non si esaurisce nella chiarezza grammaticale e sintattica, essendo invece necessario che il consumatore sia in grado di comprendere effettivamente a quali conseguenze si espone concludendo il contratto. Una recente proposta della Law Commission inglese e scozzese si orienta nella medesima direzione. Anche in base ad essa, non è sufficiente che le clausole «essenziali» abbiano un significato chiaro: è invece necessario che il professionista le abbia segnalate all’attenzione del consumatore, in modo tale da consentirgli di effettuare una comparazione con le altre offerte disponibili sul mercato. Per essere esclusa dal controllo giudiziale, infatti, una clausola che definisce l’oggetto principale del contratto o il prezzo deve essere trasparente (transparent) ed evidente (prominent). In questo ambito, la trasparenza si identifica con la chiarezza tipografica, grammaticale e sintattica della clausola: essa costituisce, dunque, un requisito testuale, applicabile a tutte le condizioni generali di contratto. L’evidenza interessa invece solo le clausole essenziali, e giustifica la loro esenzione dal controllo giudiziale; una clausola è evidente se alla luce della sua collocazione nel documento contrattuale e delle informazioni complessivamente fornite dal professionista NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo un consumatore mediamente diligente presta attenzione ad essa nel momento in cui conclude il contratto ( 42 ). I componenti della Law Commission sono consapevoli del fatto che raramente i consumatori prestano attenzione al testo del contratto: spesso, è sufficiente includere una clausola nelle condizioni generali di contratto, senza segnalarla all’attenzione del consumatore, perché quest’ultimo non ne sia affatto consapevole. Perché l’esenzione dal controllo giudiziale sia giustificata occorre, allora, che nella fase precedente la formazione del contratto la clausola sia portata all’attenzione del consumatore in modo tale da differenziarla dagli altri termini contrattuali, che generalmente non vengono presi in considerazione. È dunque evidente una clausola di cui il consumatore è consapevole anche se non ha letto le condizioni generali di contratto ( 43 ). È da valutare, ora, se gli attributi della trasparenza ed evidenza individuati dalla Law Commission coincidano con i requisiti della chiarezza e comprensibilità in senso economico richiesti dalla Corte di giustizia per l’esenzione dal controllo giudiziale. Nella maggior parte dei casi, una clausola trasparente ed evidente è anche comprensibile nelle sue implicazioni economiche. Quando la clausola ha un significato chiaro ed è stata adeguatamente segnalata all’attenzione del consumatore, è altamente probabile che quest’ultimo abbia compreso quali conseguenze la sua accettazione comporta. Non si può escludere, tuttavia, che sebbene la clausola sia trasparente ed evidente il consumatore non sia in grado di comprenderne correttamente le conseguenze economiche. Così, nella fattispecie considerata dalla Corte di giustizia è possibile che la clausola che determinava le rate del mutuo in relazione al corso di vendita della valuta straniera fosse stata redatta in modo chiaro e segnalata all’attenzione dei mutuatari. Ciononostante, è ipotizzabile che i mutuatari non siano stati in condizio( 42 ) Cfr. The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice, cit., 37-45; Id., Unfair Terms in Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit., 90-96. ( 43 ) Cfr. Id., op. ult. cit., 95. NGCC 2015 - Parte seconda ne di comprenderne le implicazioni economiche, non essendo stato esplicitato che qualora la valuta straniera si fosse apprezzata rispetto a quella nazionale il rimborso del capitale sarebbe divenuto più oneroso. Perché la clausola impugnata sia comprensibile in senso economico occorre, dunque, che le conseguenze della variazione del tasso di interesse siano state chiaramente illustrate. Per concludere sul punto, il criterio della chiarezza e comprensibilità in senso economico adottato dalla Corte di giustizia in Kasler appare ancor più selettivo del criterio della trasparenza ed evidenza proposto dalla Law Commission. Perché una clausola sia comprensibile in senso economico è a nostro avviso necessario, ma non sufficiente che sia evidente. Certamente, la clausola relativa all’oggetto principale e al prezzo deve essere segnalata all’attenzione del consumatore, per evitare che egli la confonda con le altre condizioni generali di contratto. È tuttavia necessario che le sue conseguenze economiche siano state chiaramente illustrate, in modo tale da rendere il consumatore realmente consapevole dell’impatto della clausola sui suoi interessi patrimoniali. L’approdo a cui perviene la Corte di giustizia è pienamente condivisibile, oltre che coerente con le premesse più volte esplicitate dalla sua stessa giurisprudenza. La finalità della dir. n. 93/2013 UE è quella di tutelare il consumatore quale soggetto dotato di forza contrattuale e conoscenze inferiori rispetto a quelle del professionista. Perché una clausola «essenziale» sia esente dal controllo giudiziale, è allora necessario che l’informazione fornita al consumatore sia in grado di neutralizzare, per quanto possibile, l’asimmetria informativa che caratterizza il suo rapporto con il professionista. 5. Le conseguenze del difetto di chiarezza e comprensibilità. Secondo una diffusa opinione, uno dei maggiori difetti della dir. n. 93/2013 UE è quello di non esplicitare le conseguenze che derivano dalla violazione dell’obbligo di redigere le clausole in modo chiaro e comprensibile ( 44 ). ( 44 ) Cfr. P. Nebbia, Unfair Contract Terms, in C. Twigg-Flesner (ed.), The Cambridge Companion 335 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti Adottando una regola rinvenibile in diverse legislazioni nazionali, tra cui quella italiana (art. 1370 cod. civ.), l’art. 5, dir. n. 93/2013 UE, prevede che se una clausola non è chiara e comprensibile deve essere interpretata in senso contrario agli interessi del predisponente (interpretatio contra proferentem) ( 45 ). La disposizione è applicabile quando una clausola è ambigua, nel senso che possono esserle attribuiti due significati diversi di cui uno favorevole al professionista, l’altro vantaggioso per il consumatore: prevale, allora, il significato più favorevole al consumatore, in base al quale la clausola non può essere ritenuta abusiva. Il controllo giudiziale sulle clausole abusive presuppone, infatti, che le stesse siano state interpretate ( 46 ): il giudice non considera il testo della clausola, ma il significato che le viene attribuito anche alla luce della regola che prescrive l’interpretazione sfavorevole al predisponente. Talvolta, tuttavia, alla clausola che difetta di chiarezza e comprensibilità non è possibile attribuire un significato univoco e favorevole al consumatore. Questo accade quando il testo, anziché essere ambiguo, è vago, sicché non è possibile attribuire ad esso un significato sicuro. Questo accade, ancora, quando il testo è chiaro dal punto di vista grammaticale e sintattico, ma non comprensibile nelle sue implicazioni economiche, e l’unico significato plausibile è favorevole al professionista. Occorre allora valutare se il difetto di trasparenza della clausola sia sufficiente perché essa sia qualificata abusiva o se, invece, si limiti ad escludere che la stessa sia esente dal controllo giudiziale: in questa seconda ipotesi, il giudice potrebbe ritenere la clausola abusiva solo se determina un significativo squilibrio che avvantaggia il professionista e penalizza il consumatore. to European Union Private Law, Cambridge University Press, 2010, 226; M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, cit., 201-203; DCFR, Article II-9:402, Notes, 5; Di Giovanni, La regola di trasparenza, nel Trattato Rescigno-Gabrielli, I, I contratti dei consumatori, Utet, 2005, 309. ( 45 ) V., negli stessi termini, art. 35, comma 2o, cod. cons. ( 46 ) Cfr. Principles of the Existing EC Contract Law, cit., Article 6:203, Comment by T. Pfeiffer and M. Ebers, cit., 315. 336 La prima opzione viene adottata dal DCFR e dal BGB: entrambi prevedono che la violazione dell’obbligo di trasparenza imputabile al professionista è sufficiente perché la clausola venga ritenuta abusiva (art. 9:402, comma 2o, DCFR; § 307, comma 1o, BGB ( 47 )). La soluzione è condivisibile. Se il testo non è chiaro e comprensibile per il consumatore, egli non ha acconsentito alla conclusione del contratto sulla base di una reale consapevolezza, e questo appare sufficiente a giustificare l’inefficacia della clausola. Ritenendo diversamente, inoltre, il giudice dovrebbe valutare se la clausola che difetta di chiarezza e comprensibilità determina un significativo squilibrio nel rapporto tra professionista e consumatore: operazione molto difficile non solo perché la clausola non è trasparente, ma anche perché il giudice dovrebbe ricostruire a posteriori il contesto economico in cui il contratto è stato concluso. Purtroppo, in Kasler, la Corte di giustizia non ha offerto indicazioni utili a risolvere la questione, in quanto non ha assunto il punto di vista del giudice nazionale chiamato a valutare la clausola, ma – adottando una prospettiva strettamente esegetica – si è limitata a indicare come l’art. 4, comma 2o, deve essere interpretato ( 48 ). In motivazione, si legge che se una clausola non è chiara e comprensibile può essere valutata dal giudice nazionale: sembra che spetti a quest’ultimo decidere se il difetto di chiarezza e comprensibilità è sufficiente per ritenere che la clausola sia abusiva o se, invece, occorre accertare la sussistenza di un significativo squilibrio. Il self restraint della Corte di giustizia conferma che in questa fase la normativa comunitaria, come ricostruita dal suo interprete «egemone», si limita ad assicurare le condizioni necessarie perché la volontà del consumatore sia consapevolmente espressa: egli viene dunque tutelato in una prospettiva di carattere prevalentemente procedimentale. L’individuazione delle fattispecie in presenza delle quali sussiste un significativo squilibrio viene invece affidata ( 47 ) Cfr. M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, cit., 210 s. ( 48 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa C-26/13, cit. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Contratti di consumo al giudice nazionale e all’applicazione del diritto interno. 6. Come evitare un paradosso: l’integrazione legislativa della clausola essenziale ritenuta abusiva. Recentemente, la Corte di giustizia ha considerato per la prima volta le conseguenze che derivano dall’inefficacia di una clausola essenziale, ritenuta abusiva. In due precedenti occasioni (Banco Español ( 49 ) ed Asbeek Brusse ( 50 )), la Corte ha escluso che una clausola abusiva possa essere sostituita da una regola elaborata dal giudice. La conclusione è stata giustificata in primo luogo sulla base di un argomento letterale: l’art. 6, comma 1o, dir. n. 93/2013 UE si limita a prevedere che l’inefficacia della clausola abusiva non si estenda all’intero contratto – sempre che senza la clausola esso possa sussistere – senza accordare al giudice il potere di integrare la lacuna. Si osserva, poi, che la sostituzione della clausola abusiva con una regola di creazione giudiziale rischia di pregiudicare l’efficacia deterrente della direttiva nei confronti dei professionisti scorretti. Questi ultimi non sarebbero indotti a rettificare le condizioni generali di contratto in quanto confidano nel fatto che nelle rare ipotesi in cui viene impugnata la clausola è destinata ad essere sostituita con una regola probabilmente meno favorevole, ma pur sempre coerente con i propri interessi. Le due sentenze non chiariscono se la lacuna che consegue all’accertamento del carattere abusivo della clausola possa essere colmata mediante l’applicazione di una regola legislativa: sul punto, si riscontrano tra i commentatori opinioni diverse ( 51 ). A nostro avviso, la Corte di giusti- ( 49 ) Cfr. Corte giust. UE, 14.6.2012, causa C-618/10, cit., §§ 58-73. ( 50 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.5.2013, causa C-488/11, §§ 54-60. ( 51 ) Nel contesto italiano, per esempio, D’Adda ritiene che entrambe le sentenze escludano l’integrazione della clausola vessatoria con una norma dispositiva di fonte legislativa [cfr. D’Adda, Il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola abusiva essenziale applicando una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, in www.dirittocivilecontemporaneo.com]. D’Amico, invece, afferma che le due pronunce non escludono la sostituzione NGCC 2015 - Parte seconda zia non ha inteso precludere la sostituzione della clausola abusiva con una norma legale: tanto Banco Español, quanto Asbeek Brusse escludono espressamente solo l’integrazione del contratto con una regola di creazione giudiziale coerente con l’operazione economica, dunque sensibile agli interessi del professionista. In entrambi i casi, la clausola considerata abusiva non definiva il prezzo né l’oggetto principale del contratto, che, dunque, avrebbe potuto essere attuato anche senza di essa. In questa ipotesi, la mancata sostituzione della clausola è effettivamente giustificata dall’esigenza di preservare l’efficacia deterrente della direttiva: sebbene il contratto possa risultare alterato, la soluzione ha un impatto positivo sul mercato dei consumi, in quanto induce i professionisti scorretti a rimuovere la clausola dalle condizioni generali di contratto. Uno studio approfondito condotto da un autore statunitense supporta tale conclusione ( 52 ). Quando una clausola abusiva viene intenzionalmente adottata, l’esigenza di indurre il predisponente a rimuoverla dalle condizioni generali di contratto prevale su altre considerazioni, che potrebbero indurre a preferire opzioni diverse. È allora giustificato adottare la soluzione più favorevole al consumatore, qual è, nel caso di specie, l’inefficacia della clausola senza la contestuale sostituzione con una norma di creazione giudiziale. In Kasler, invece, è possibile che – in applicazione dei criteri indicati dalla Corte di giustizia – il giudice nazionale ritenga abusiva una clausola che determina l’oggetto principale del contratto intercorrente tra i mutuatari e la banca: in assenza di essa, il contratto non potrebbe essere attuato. Come si è anticipato, tuttavia, l’inefficacia totale del contratto rischia di produrre un effetto paradossale: anziché tutelare il consumatore, pregiudica i suoi interessi, in quanto elimina il titolo sulla base del quale egli fruisce dei beni e dei servizi fornitigli dal prodella clausola vessatoria con una norma legislativa [cfr. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto mediante diritto dispositivo, in D’Amico-Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del contratto, Giappichelli, 2013, 243]. ( 52 ) Cfr. O. Ben-Shahar, Fixing Unfair Contracts, 73 Stanford Law Review, 869, 901-904 (2011). 337 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Saggi e Aggiornamenti fessionista. Rispetto alla situazione considerata da Banco Español ed Asbeek Brusse, la prospettiva risulta ribaltata: in questa ipotesi, l’inefficacia totale del contratto che conseguirebbe alla mancata sostituzione della clausola essenziale riduce la capacità di pressione della direttiva nei confronti del professionista. Sapendo che l’inefficacia totale del contratto pregiudica gli interessi del consumatore, il professionista non è indotto a rimuovere la clausola abusiva dalle condizioni generali di contratto. È improbabile che il consumatore impugni la clausola, e anche se lo facesse le conseguenze non sarebbero eccessivamente penalizzanti: il professionista, infatti, potrebbe esigere immediatamente la restituzione dei beni e dei servizi che costituiscono l’oggetto principale del contratto. Sulla base di queste considerazioni, la Corte ritiene che la clausola che determina le rate del mutuo sulla base del corso di vendita della valuta straniera possa essere sostituita dalla regola legislativa in base alla quale il mutuatario è obbligato a restituire il medesimo capitale che gli è stato erogato ( 53 ). Grazie alla sostituzione della clausola invalida con la norma nazionale, il mutuo in valuta straniera si converte in un mutuo in valuta nazionale: il capitale di cui l’istituto di credito può esigere la restituzione è il medesimo che ha erogato contestualmente alla conclusione del contratto. La sostituzione della clausola che definisce l’oggetto principale del contratto con la norma nazionale altera la fisionomia dell’operazione economica, in quanto i mutuatari non sono più esposti ai rischi inerenti alla variazione del tasso di cambio. Se l’art. 4, comma 2o, risponde all’esigenza di rispettare la logica dell’economia di mercato, l’integrazione legale delle clausole essenziali ammessa da Kasler la sacrifica apertamente. Nel delicato meccanismo di pesi e contrappesi che caratterizza la dir. n. 93/2013 UE, tanto è necessario per evitare un effetto paradossale: al massimo livello di tutela, corrispondente all’inefficacia totale del contratto, conseguirebbe un esito pregiudizievole per il consumatore. ( 53 ) La motivazione della sentenza non identifica espressamente la norma nazionale idonea a sostituire la clausola abusiva. Nelle premesse, tuttavia, si fa riferimento all’art. 523, comma 1o, del codice civile ungherese, ai termini del quale «in un contratto di mutuo il mutuante è obbligato a trasferire al debitore una determinata somma di denaro, mentre il debitore assume l’obbligo di restituire la somma ricevuta». La disposizione trova riscontro nell’art. 1813 del codice civile italiano. 338 NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza DANNO NON PATRIMONIALE E PERSONA GIURIDICA PRIVATA [,] di Sofia Nobile de Santis Sommario: 1. Introduzione. – 2. Danno non patrimoniale e persona giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. – 3. La vexata quaestio del danno non patrimoniale subito da società commerciali. – 4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio. – 5. Le pronunce delle sezioni unite del 2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale. – 6. Segue: danno non patrimoniale da reato. – 7. Segue: danno non patrimoniale in ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattamento dei dati personali. – 8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. – 9. Segue: danno non patrimoniale per lesione di un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. – 10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica . 1. Introduzione. Ormai da tempo si è assistito al superamento dell’assunto per cui alla persona giuridica non sarebbe risarcibile il danno non patrimoniale, come sostenuto dalla giurisprudenza più risalente, che negava agli enti collettivi il diritto di agire per il risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ., considerata l’incapacità della persona giuridica di provare «sentimenti e sensazioni» (Trib. Roma, 17.12.1976, in Giur. it., 1978, II, 26 ss., con nota di De Matteo; conforme Trib. Milano, 18.9.1989, in Dir. inf., 1990, 144 ss.). All’affermazione del principio per cui il danno non patrimoniale è riferibile anche a soggetti privi di fisicità (espressione di tale revirement sono le note Cass., 10.7.1991, n. 7642, in Giust. civ., 1991, I, 1955 ss. e in Resp. civ. e prev., 1992, 89 ss., con nota di Guiotto; Cass., 5.12.1992, n. 12951, in Foro it., 1994, I, 561 ss., con nota di Salerno) è seguita una co[,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte seconda piosa casistica giurisprudenziale, alimentata da provvedimenti legislativi rilevanti anche per le persone giuridiche, che hanno espressamente riconosciuto la risarcibilità di tale tipologia di danno. Da qui l’opportunità di indagare quali siano stati i risultati di tale evoluzione giurisprudenziale, con particolare riguardo alle fattispecie nelle quali il danno non patrimoniale viene ritenuto configurabile in capo alla persona giuridica privata, non mancando di soffermarsi sull’influenza che, in tale contesto, hanno avuto i principi fatti propri dalle sentenze a sezioni unite del 2008 (Cass., sez. un., 11.11.2008, nn. 26972-26975, in Mass. Giust. civ., 2009). 2. Danno non patrimoniale e persona giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. L’attuale orientamento, che pacificamente riconosce agli enti collettivi il diritto di agire per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, è l’esito di una duplice propulsione innovatrice. Da un lato la giurisprudenza, seguendo le tesi sostenute della pressoché unanime dottrina, ha esteso agli enti collettivi alcuni dei diritti della personalità tradizionalmente riconosciuti alle persone fisiche, tenendo in considerazione le peculiarità e l’essenza delle persone giuridiche; dall’altro, ruolo cruciale ha rivestito l’interpretazione evolutiva, costituzionalmente orientata, dell’art. 2059 cod. civ. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, si riscontrano pronunce in cui si afferma la titolarità, in capo alla persona giuridica: (i) del diritto al nome, la cui disciplina positiva viene ricavata dagli artt. 6-7 cod. civ. (Cass., 26.2.1981, n. 1185, in Giust. civ., 1981, 339 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza I, 1329 ss.; in Giur. it., 1981, I, 1025 ss.; Cass., 12.7.1991, n. 7780, in Foro it., I, 3346 ss., con nota di Caso; Trib. Roma, 24.1.1994, in Dir. inf., 1994, 725 ss.; Trib. Napoli, 6.6.1995, in Foro it., 1996, I, 2199 ss., con nota di Montaruli); (ii) del diritto all’identità personale (Cass., 22.6.1985, n. 3769, in questa Rivista, 1985, I, 647 ss., con nota di Zeno Zencovich, in Foro it., 1985, I, 2211 ss. e in Dir. inf., 1985, 965 ss., con nota di Figone; Trib. Milano, 9.11.1992, in Riv. dir. ind., 1993, II, 45 ss., con nota di Guglielmetti; in Giur. it., 1993, I, 2, 747 ss.; Trib. Roma, 28.2.2001, in Dir. inf., 2001, 464 ss., con nota di Pino); (iii) dei diritti all’onore e alla reputazione (Trib. Roma, 10.6.1986, in questa Rivista, 1987, 45 ss., con nota di Zeno Zencovich; in Resp. civ. e prev., 1986, 673 ss., con nota di Bonilini; Cass., 5.12.1992, n. 12951, cit.; Cass., 3.3.2000, n. 2367, in Danno e resp., 2000, 490 ss., con nota di Carbone). Tale affermazione ha tratto fondamento da una lettura costituzionalmente orientata dei diritti della personalità, alla stregua dell’art. 2 Cost., che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»; conseguentemente si è sostenuto che «gli enti pubblici e privati, dotati o meno di personalità giuridica (...) sono legittimati ad agire per ottenerne tutela in via risarcitoria» (così, testualmente, Trib. Roma, 28.2.2001, cit.; sul ruolo dell’art. 2 Cost. nel riconoscimento dei diritti della personalità che non trovano espressa tutela in disposizioni legislative, v. Corte Cost., 3.2.1994, n. 13, in Foro it., 1994, I, 1668 ss.; Cass., 7.2.1996, n. 978, in Foro it., 1996, I, 1253 ss. e in Giust. civ., 1996, I, 1317 ss.). Pacifico era che la violazione dei suddetti diritti della personalità, ascrivibili agli enti collettivi, potesse produrre un danno patrimoniale risarcibile ex art. 2043 cod. civ., ma non, invece, che potesse legittimare il ristoro di un pregiudizio di natura non patrimoniale, in presenza del limite di cui all’art. 2059 cod. civ., la cui lettera restringe l’alveo del danno non patrimoniale risarcibile ai casi previsti dalla legge. Sicché, l’interpretazione tradizionale riteneva che tale danno potesse essere risarcito quasi esclusivamente nell’ipotesi in cui l’illecito civile 340 integrasse gli estremi di un reato, per effetto della previsione di cui all’art. 185, comma 2o, cod. pen. In tale contesto, il danno ex art. 2059 cod. civ. veniva identificato unicamente nel danno morale soggettivo (c.d. pretium doloris), ossia nel patema d’animo sofferto dalla vittima dell’illecito in termini di sofferenza psichica. Nella materia de qua, ostacolo principale al riconoscimento dell’esistenza di un danno morale era rappresentato dalla difficoltà di imputare, ad una entità giuridica spiritualmente insensibile, patimenti e sofferenze. Si ricorreva allora ad una fictio, in virtù della quale il danno non patrimoniale da reato veniva riconosciuto in ragione dei turbamenti di carattere psicologico sofferti dalle persone preposte alla gestione dell’ente (v. App. L’Aquila, 3.10.1970, in Giur. it., 1972, II, 177 ss.). Con due importanti pronunce, risalenti ai primi anni Novanta, la Supr. Corte liquidava il danno non patrimoniale «da reato» ponendosi in una nuova prospettiva, ossia superando l’equazione tra danno morale soggettivo e danno non patrimoniale e affermando che «ove anche gli enti personificati siano titolari di diritti non patrimoniali – come quelli alla tutela dell’onore, della reputazione, dell’identità personale – poss[o]no allora anch’essi subire un pregiudizio non patrimoniale» (Cass., 10.7.1991, n. 7642, cit., relativa al cosiddetto Affare Lockheed. La sentenza resa nel giudizio di primo grado, Trib. Roma, 10.6.1986, cit., è pubblicata in questa Rivista, con nota di Zeno Zencovich, cit.). Sulla base di argomentazioni analoghe, l’anno successivo veniva riconosciuto, ad uno Stato straniero considerato vittima del delitto di diffamazione, il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., non coincidente con il danno morale soggettivo (la c.d. pecunia doloris), ma in considerazione di «effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato» (Cass., 5.12.1992, n. 12951, cit.). In tali fattispecie, però, soggetti lesi erano entità statali, in presenza di un’offesa penalmente rilevante: solo in un secondo momento veniva affermata la risarcibilità, a persone giuridiche private, del danno non patrimoniale, per violazione di un diritto della personalità ascrivibile all’ente ed a prescindere dall’esistenza di un reato. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale Tale consacrazione avveniva in Cass., 2.8.2002, n. 11573, in Giust. civ., 2002, I, 3063 ss., resa in una fattispecie di irragionevole durata del processo, in cui veniva riconosciuta la configurabilità di un danno non patrimoniale alla persona giuridica, a condizione che risultasse pregiudicato uno dei diritti della personalità ascrivibili all’ente, individuati nei «diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione» (si veda, amplius, infra, §§ 4 e 8). 3. La vexata quaestio del danno non patrimoniale subito da società commerciali. Tra le persone giuridiche private, discorso a sé stante deve essere intrapreso per le società commerciali: questione particolarmente controversa è, infatti, quella relativa alla possibilità di riconoscere, ad enti con scopo di lucro, il risarcimento del danno non patrimoniale. La prevalente dottrina esclude che le società commerciali possano subire un danno di natura non patrimoniale per lesione di un diritto della personalità. Si afferma infatti che per esse viene in rilievo esclusivamente «lo svolgimento di attività economiche, e beni della personalità come il nome, l’identità personale e la reputazione assumono anch’essi una diretta rilevanza economica» (così Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti della)», 440, infra, Nota bibl.). In quest’ottica, non sarebbe concepibile una tutela non patrimoniale (ex art. 2059 cod. civ.) di diritti volti al conseguimento di una funzione di profitto. Nell’attuale panorama giurisprudenziale, le sentenze che riconoscono a società commerciali il danno non patrimoniale per lesione del «diritto all’immagine» (in accezione lata e non riconducibile all’art. 10 cod. civ., infra, § 9) sono tutt’altro che rare. In particolare, si segnalano pronunce nelle quali, accertata la lesione del «diritto all’immagine» e alla reputazione dell’ente, i giudici riconoscono unicamente un danno di natura non patrimoniale (inter alia, Cass., 30.5.2005, n. 6732, in Corr. giur., 2005, 1707 ss., con nota di De Marzo; Trib. Bari, 29.5.2004; Trib. Milano, 16.10.2008; Trib. Bari, 5.1.2011, reperibili nella banca dati Leggi d’Italia – Corti di merito, e rese perlopiù in casi di illegittima seNGCC 2015 - Parte seconda gnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia e di pubblicazione di protesti illegittimi). Tale giurisprudenza tende ad apprestare tutela alle società quando queste non offrano prova di avere subito una perdita economica derivante dalla lesione del proprio «diritto all’immagine», provvedendo a riconoscere il risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ., ritenuto invece in re ipsa. Si tratta di un orientamento che non nasconde l’influenza di Corte Cost., 14.7.1986, n. 184, che aveva affermato la risarcibilità del danno non patrimoniale (biologico) per effetto della mera violazione del diritto alla salute, senza far seguire l’accertamento delle relative conseguenze dannose (nel solco di tale orientamento, in tema di danno alla reputazione personale, si pongono Cass., 3.4.2001, n. 4881, in Giur. it., 2001, 1657 ss.; Cass., 10.5.2001, n. 6507, in Giust. civ., 2001, I, 2644 ss.). Nell’attuale contesto, alle enunciazioni di principio («il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica è risarcibile come danno-conseguenza» – Trib. Bari, 5.1.2011, cit.) non si accompagna un’effettiva indagine dei riflessi pregiudizievoli per l’ente, e ciò a testimonianza delle difficoltà che sorgono, in tale ambito, nell’offrire la prova delle conseguenze non patrimoniali del fatto lesivo. Vengono poi in rilievo pronunce nelle quali la lesione del diritto all’immagine della società commerciale conduce, contestualmente, al risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale (si segnalano, inter alia, Cass., 4.6.2007, n. 12929, in questa Rivista, 2008, I, 1 ss., con nota di Oliari; in Studium Iuris, 2007, 1144 ss., con nota di De Giorgi; in La resp. civ., 2008, 117 ss., con nota di Iurilli; in Giur. it., 2008, 876 ss., con nota di Angiuli; in Danno e resp., 2007, 1236 ss., con nota di Foffa; Trib. Torino, 20.2.2012, in questa Rivista, 2012, I, 648 ss., con nota di Ar. Fusaro; in Corr. giur., 2012, 798 ss., con nota di Amendolagine; in Danno e resp., 2012, 635 ss., con nota di Mauceri; Cass., 9.7.2014, n. 15609, in Rep. Foro it., 2014, voce «Banca, credito e risparmio», n. 93). Tale orientamento è stato inaugurato da Cass., n. 12929/2007, cit., avente ad oggetto un caso di illegittima segnalazione di una posi341 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza zione di sofferenza alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. È in tale occasione che viene affermata, anche con riguardo alla persona giuridica, la distinzione tra danno alla reputazione commerciale, come danno di natura economica, e danno alla reputazione personale, intesa quest’ultima nel senso di «reputazione goduta come persona giuridica appartenente ad una determinata tipologia consentita dall’ordinamento nell’ambito del consesso sociale in genere». In sostanza, si riconosce la possibilità che il medesimo atto lesivo determini, a danno dell’ente con scopo di lucro, sia un’offesa alla reputazione «personale» (avente natura non patrimoniale, rientrante nella sfera di inviolabilità dell’art. 2 Cost. e risarcibile ex art. 2059 cod. civ.) sia un’offesa alla reputazione «commerciale» (riferibile al disposto dell’art. 41 Cost. e risarcibile ex art. 2043 cod. civ.). La risarcibilità del danno non patrimoniale a società commerciali viene a fortiori riconosciuta quando queste siano vittime di reato (tra le altre, di recente, Trib. Roma, 14.5.2013, in banca dati Leggi d’Italia – Corti di merito) e negli altri casi in cui il legislatore espressamente la preveda (infra, §§ 7-8). 4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio. Se è ormai pacifica la legittimazione dell’ente collettivo ad agire per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, questione dibattuta è invece se tale risarcimento sia relativo a un pregiudizio all’ente collettivo in sé e per sé considerato, oppure a un pregiudizio subito dai suoi componenti. Profilo non esclusivamente teorico in quanto, a seconda della soluzione adottata, differenti sono le conseguenze in termini di onere probatorio gravante sull’ente danneggiato. Il tema è inscindibilmente legato a quello dell’ascrizione di diritti ad un soggetto collettivo e, più in generale, del riconoscimento, alla persona giuridica, di una soggettività autonoma rispetto a quella delle persone fisiche che la compongono. Come è noto, in dottrina si ritrovano diverse opzioni ricostruttive del concetto di persona giuridica: le teorie «organiche o realiste» adottano una concezione antropomorfica dell’ente collettivo, che viene inteso come soggetto titolare, al pari della persona fisica, di diritti. Se342 condo le teorie «finzionistiche», invece, nella realtà non esisterebbero soggetti di diritto diversi dall’uomo; di conseguenza, i diritti riconosciuti alla persona giuridica non sarebbero altro che diritti riferiti ai componenti di essa. Dopo la codificazione, autorevole dottrina (per tutti, Galgano, Delle persone giuridiche, infra, Nota bibl.) ha rielaborato tali opzioni interpretative, adottando una «soluzione intermedia» che riconosce alla persona giuridica piena capacità giuridica, ma che ricollega i diritti dell’ente agli individui che lo compongono o che agiscono per esso. Si è affermato, ad esempio, che la lesione del diritto alla reputazione di un ente collettivo consisterebbe in un’offesa ai suoi componenti non uti singuli, ma uti universi, cioè nella qualità di membri dell’ente ed in virtù delle norme speciali che regolano il funzionamento interno e l’esterna rappresentanza del gruppo (così Galgano, 73). Le dottrine che ricollegano i diritti degli enti ai propri componenti sono state impiegate al fine di imputare, alla persona giuridica, stati emotivi propri delle persone fisiche che lo compongono (per tutte, Cass., 30.8.2005, n. 17500, in questa Rivista, 2006, I, 505 ss., con nota di Morese; in Danno e resp., 2006, 153 ss., con nota di De Giorgi; in Giust. civ., 2006, I, 1247 ss.). Per quanto riguarda le ipotesi di danno non patrimoniale «da reato», si riscontrano pronunce di merito, relativamente recenti, che correlano il danno non patrimoniale a «turbamenti di carattere psicologico cagionati alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi membri» (v. Trib. Treviso, 20.2.2011, in Fam., pers. e succ., 2012, 517 ss., con nota di Bonamini). La tendenza ad identificare il danno non patrimoniale con il pretium doloris, o comunque con le sofferenze subite dai componenti dell’ente, si riscontra anche in assenza di un fatto illecito penalmente rilevante: in una pronuncia avente ad oggetto un caso di illegittima segnalazione alla Centrale dei Rischi di una persona giuridica privata, il danno non patrimoniale veniva riconosciuto in virtù «del patema e dello stress di reperire, in breve tempo, fonti alternative di finanziamento» (Trib. Roma, 20.2.2011, a quanto consta inedita, ma della quale si legNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale gono stralci nella motivazione di Cass., 9.7.2014, n. 15609, cit.). Allo stesso modo, in Trib. Torino, 20.2.2012, cit., il danno non patrimoniale per lesione del diritto alla reputazione di una nota società per azioni veniva individuato nella «frustrazione e patema d’animo subito dai lavoratori, a qualunque titolo operanti all’interno della società». Così facendo la giurisprudenza pare, da un lato, escludere in toto una soggettività all’ente e, dall’altro lato, discostarsi dall’orientamento che riconosce il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua versione più estesa, non limitata al danno morale soggettivo. Una sentenza rilevante ai fini dell’individuazione dell’oggetto del pregiudizio è la succitata Cass., n. 12929/2007. In tale pronuncia il danno non patrimoniale non veniva individuato come danno morale soggettivo dei componenti della persona giuridica, e neppure come compromissione dell’autonomo sentire dell’ente. La Corte riconosceva, infatti, il danno alla diminuzione di considerazione della persona giuridica «sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente interagisca». Alla stregua di tale orientamento, il danno all’immagine e alla reputazione della persona giuridica assume una duplice connotazione, che si concretizza sia nell’incidenza negativa presso i terzi (per la diminuita credibilità dell’ente e per l’offesa alla reputazione di cui l’ente gode tra i consociati), sia nella diminuita considerazione che i componenti stessi hanno dell’ente, con conseguente necessità di «dover agire per superare la negatività» prodotta dalla lesione. Si tratta di una soluzione che offre l’evidente vantaggio di «salvare» la soggettività dell’ente, ma che si risolve in una difficile combinazione di elementi obiettivi e soggettivi, di non agevole accertamento nell’applicazione concreta. La formula fatta propria da Cass., n. 12929/ 2007, seppur ambigua, è stata accolta dalla più recente giurisprudenza che ha affrontato il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale agli enti collettivi [v. Trib. Roma, NGCC 2015 - Parte seconda 14.5.2013, cit.; Cass., 25.7.2013, n. 18082 (s.m.), in Riv. dir. ind., 2014, II, 283 ss.; Cass., 1o.10.2013, n. 22396, in Danno e resp., 2014, 896 ss., con nota di Treccani]. Le pronunce che riconoscono agli enti collettivi il risarcimento del danno morale soggettivo, in considerazione dei patimenti dei loro componenti, sono ancora numerose, ma perlopiù riferite ad ipotesi di violazione del termine di durata ragionevole del processo ex legge Pinto (l. 24.3.2001, n. 89): tra le più recenti, si segnalano Cass., 28.1.2013, n. 1923; Cass., 20.6.2013, n. 15479; Cass., 21.6.2013, n. 15692, tutte reperibili nella banca dati DeJure. L’evoluzione giurisprudenziale ha, in tale ambito, seguito un percorso autonomo, allontanandosi dagli arresti della giurisprudenza che si è pronunciata sulle altre ipotesi di risarcimento, alla persona giuridica, di danno non patrimoniale. In una prima fase, immediatamente successiva all’entrata in vigore della l. n. 89/2001, la giurisprudenza riteneva irrilevante l’eventuale disagio psichico subito dai componenti l’ente: la riparazione del danno non patrimoniale ex art. 2 l. n. 89/2001 veniva riconosciuta solo quando fosse provata la compromissione di «diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza di fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione» (Cass., 2.8.2002, n. 11592, in Guida al dir., 2002, fasc. 38, 46 ss., con nota di De Paola; Cass., 13.2.2003, n. 2130, in Foro it., 2003, I, 2398 ss.; Cass., 10.4.2003, n. 5664, ivi, 2005, I, 191 ss.; Cass., 2.7.2004, n. 12110, in Danno e resp., 2005, 977 ss., con nota di Venturelli; Cass., 30.9.2004, n. 19647, in Giust. civ., 2005, I, 59 ss., con nota di Giordano; Cass., 16.2.2005, n. 3118, in Rep. Foro it., 2005, voce «Diritti politici e civili», n. 225). La conseguenza era quella di imporre un onere probatorio particolarmente gravoso in capo alla persona giuridica, che doveva provare sia l’effettiva lesione di un diritto della personalità, sia i correlativi riflessi pregiudizievoli. Al fine di allinearsi con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ritiene l’insorgenza di turbamenti di carattere psicologico imputabili alla persona giuridica «conseguenza normale» della durata eccessiva del processo (inter alia, Corte eur. dir. uomo, 17.6.2003, 343 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza Affaire S.C.I. Boumois c. France; Corte eur. dir. uomo, 8.6.2004, Clinique Mozart Sarl c. France, entrambe reperibili nella banca dati HUDOC), la Supr. Corte ha mutato il proprio orientamento, affermando che l’esistenza di un danno non patrimoniale può essere ravvisata nei «disagi o turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto [il riferimento è all’art. 6 Conv. eur. dir. uomo, n.d.r.] solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente (...). Sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento dalla violazione, una volta accertatane e determinatane l’entità, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempreché l’altra parte non dimostri che sussistono nel caso concreto circostanze particolari, la quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente» (Cass., 18.2.2005, n. 3396, in Giust. civ., 2006, I, 2913 ss., con nota di Morozzo della Rocca; in senso conforme anche Cass., 16.7.2004, n. 13163, in Giust. civ., 2005, I, 1579 ss., con nota di Della Rocca; Cass., 8.6.2005, n. 12015, in Rep. Foro it., 2005, voce «Diritti politici e civili», n. 270; Cass., 30.8.2005, n. 17500, cit.; Cass., 29.3.2006, n. 7145, in Rep. Foro it., 2006, voce «Diritti politici e civili», n. 253; Cass., 2.2.2007, n. 2246, in Rep. Foro it., 2007, voce cit., n. 236; Cass., 5.4.2007, n. 8604, in Giust. civ., 2007, I, 1589 ss.; Cass., 1o.12.2011, n. 25730, in Rep. Foro it., 2012, voce «Diritti politici e civili», n. 236). Tale revirement è stato, in dottrina, oggetto di critiche, poiché si risolverebbe nel «dar di spugna alla separazione tra soggetto collettivo e soci» (così, testualmente, De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti, 157, infra, Nota bibl.); l’orientamento in esame, inoltre, appare in contrasto con le più recenti enunciazioni giurisprudenziali relative all’art. 2059 cod. civ., che richiedono che il danno debba sempre essere allegato e provato. 5. Le pronunce delle sezioni unite del 2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale. Come è noto, la sentenza n. 26972/2008, unitamente alle coeve de344 cisioni n. 26973, n. 26974, n. 26975, ha segnato un’importante tappa nell’evoluzione giurisprudenziale in materia di risarcibilità del danno non patrimoniale. In particolare, le sentenze delle sezioni unite del 2008, ponendosi nel solco dell’intervento della Supr. Corte del 2003 (Cass., 31.5.2003, nn. 8827-8828, in questa Rivista, 2004, 238 ss., con nota di Scarpello; in Foro it., 2003, I, 2273 ss., con note di L. La Battaglia e Navarretta; in senso conforme Corte Cost., 11.7.2003, n. 233, in Foro it., 2003, I, 2201 ss., con nota di Navarretta) chiariscono che il danno non patrimoniale è risarcibile in tre distinte tipologie di fattispecie, ossia: i) nell’ipotesi di «illecito penale», ossia quando il fatto illecito sia configurabile (anche solo astrattamente: Cass., sez. un., 6.12.1982, n. 6651, in Rep. Foro it., 1982, voce «Danni civili», n. 40) come reato; ii) nelle «ipotesi legislativamente previste», ossia quando ricorra una delle fattispecie in cui la legge espressamente consente il ristoro del danno non patrimoniale anche al di fuori di una ipotesi di reato; iii) nel caso di «lesione di diritti inviolabili»: al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge è data tutela solo quando il fatto illecito abbia leso in modo grave diritti inviolabili della persona, come tali oggetto di tutela costituzionale ex art. 2 Cost. Le sezioni unite del 2008 hanno poi ribadito il principio, già enunciato dalla Supr. Corte nel 2003, per cui il danno non patrimoniale non può mai considerarsi in re ipsa (v. anche Cass., 14.5.2012, n. 7471, in Riv. it. dir. lav., 2013, II, 81 ss., con nota di Grivet Fetà), e hanno ulteriormente aggravato l’onere probatorio gravante sul danneggiato, attraverso l’introduzione del «doppio filtro» della gravità della lesione del diritto e della serietà del danno, nell’ottica del bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la persona danneggiata e quello di tolleranza. Ancorché tale intervento non sia stato risolutivo nel risolvere le complesse questioni relative al risarcimento del danno non patrimoniale (si vedano, da ultimo, le considerazioni di Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile, 1269 s., infra, Nota bibl.), non può non apprezzarsi il tenNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale tativo di rendere maggiormente organico il sistema del risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ. 6. Segue: danno non patrimoniale da reato. Il reato che più frequentemente viene in rilievo, come fonte di risarcimento del danno non patrimoniale ad una persona giuridica, è quello della diffamazione ex art. 595 cod. pen., commesso attraverso l’utilizzo di mezzi di comunicazione di massa, quali la stampa (tra le più recenti pronunce di merito, Trib. Cassino, 25.3.2014, in Gazz. forense, 2014, 3, 77 ss.; Trib. Roma, 13.11.2012 e Trib. Roma, 28.11.2013, reperibili nella banca dati Leggi d’Italia – Corti di Merito; v. altresì Cass., 3.3.2000, n. 2367, cit.) e la rete Internet (Trib. Roma, 14.5.2013, reperibile nella banca dati Leggi d’Italia – Corti di Merito). Bene giuridico protetto da tale fattispecie criminosa è la reputazione (anche indicata come «onore in senso oggettivo»), consistente, secondo l’interpretazione prevalente, nella stima e considerazione di cui un soggetto, anche collettivo, gode nell’ambito sociale di appartenenza (v. Cass., 20.10.2009, n. 22190, in Rep. Foro it., 2009, voce «Danni civili», n. 337). L’ascrivibilità al soggetto collettivo del diritto all’onore è confermata dall’unanime orientamento della Cassazione penale, che riconosce a persone giuridiche, associazioni non riconosciute ed enti di fatto la veste di soggetti passivi del delitto di diffamazione (Cass. pen., 25.11.1980, n. 6265 e Cass. pen., 24.1.1992, n. 2886, reperibili entrambe in CED Cassazione; Trib. Roma, 19.1.1984, in Cass. pen., 1984, 1265 ss., con note di Bertoni e Fortuna; Cass. pen., 30.1.1998 n. 4982, in banca dati Leggi d’Italia – Cassazione Penale), richiedendo che l’offesa assuma carattere diffusivo, nel senso che venga ad incidere sulla considerazione di cui l’ente gode nella collettività (Cass. pen., 14.1.2002, n. 1188, in CED Cassazione; Cass. pen., 17.10.2011, n. 37383, in Giust. pen., 2012, II, 345 ss.). Un’isolata pronuncia (Cass. pen., 22.3.1988, n. 3756, in CED Cassazione) sembra ammettere la possibilità che la persona giuridica assuma la qualità di soggetto passivo del reato di ingiuria ex art. 594 cod. pen., che si distingue dal reato di diffamazione, in quanto la vittima è presente NGCC 2015 - Parte seconda al momento dell’azione criminosa e «viene offeso prevalentemente il sentimento del [suo] onore» (così Antolisei, 195, infra, Nota bibl.). La prevalente dottrina civilistica ritiene, al contrario, che l’«onore in senso soggettivo», inteso come il sentimento che ciascun soggetto ha del proprio valore sociale, non sia configurabile rispetto alla persona giuridica, non potendo distinguersi dall’onore individuale dei singoli partecipanti (la considerazione è di Pino, 476, infra, Nota bibl.). Laddove non vengano ritenuti sussistenti gli estremi del reato di diffamazione (ad esempio, in caso di mancata sussistenza del dolo), l’illecito è rilevante unicamente sotto il profilo civilistico, ex art. 2043 cod. civ., e può giustificare il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo il diritto alla reputazione considerato diritto inviolabile ex art. 2 Cost. In ogni caso, l’accertamento circa la sussistenza degli elementi costitutivi del reato può essere compiuto, in via incidentale, anche dal giudice civile (Cass., 22.7.1996, n. 6527, in Rep. Foro it., 1996, voce «Danni civili», n. 119; Cass., 10.11.1997, n. 11038, in Arch. civ., 1998, 428 ss.; Cass., 3.3.2000, n. 2367, cit.). Nell’ottica del bilanciamento tra tutela della persona (anche giuridica) e garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, i giudici applicano, anche in tale contesto, i consueti criteri fissati dalla giurisprudenza di legittimità (la «verità oggettiva dei fatti»; l’«interesse pubblico della notizia»; la «correttezza formale dell’esposizione»: sui criteri per la determinazione dell’esercizio legittimo di critica, cfr., da ultimo, Cass., 20.1.2015, n. 839; v. altresì Cass., 10.11.2013, n. 22600, entrambe in CED Cassazione). Rispetto alle fattispecie in cui il danno non patrimoniale scaturisce dall’accertamento di un mero illecito civile, giova segnalare una differenza di notevole rilievo: in presenza di un reato è risarcibile, infatti, qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, senza che sia necessaria la lesione di un diritto inviolabile ex art. 2 Cost. (così come sancito, espressamente, dalle sezioni unite nel 2008). Rilevante è, in questa prospettiva, Cass. pen., 8.11.2012, n. 43184, in Riv. pen., 2013, 186 ss., che, in presenza di una condotta diffamatoria, ha riconosciuto ad una società commerciale il risarcimento del danno 345 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza non patrimoniale da «lesione del diritto alla reputazione commerciale», escludendo, nella fattispecie, la lesione del diritto alla reputazione come diritto della personalità, in quanto l’articolo pubblicato non era in grado di «incidere direttamente sulle qualità e sul valore sociale della persona in sé». La Supr. Corte fa derivare un danno non patrimoniale dalla violazione di un diritto tutelato dalla Costituzione, ma che non assurge a rango di diritto inviolabile. Quanto all’onere probatorio, nell’ipotesi di illecito penale il danno non patrimoniale, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa e, quindi, deve essere provato, anche a mezzo di presunzioni semplici (Cass., 12.4.2011, n. 8421, in Rep. Foro it., 2011, voce «Danni civili», n. 296; più recentemente, Cass., 18.11.2014, n. 24474, in CED Cassazione, relativa ad un caso di diffamazione a mezzo stampa; contra Trib. Palermo, 7.2.2011, in banca dati Leggi d’Italia – Corti di Merito, in cui si è affermato che il danno morale soggettivo è risarcibile in re ipsa quando la lesione derivi da una fattispecie di reato). Infine, si segnala come il reato previsto e punito dall’art. 595 cod. pen. non sia l’unico a venire in rilievo. Si riscontrano fattispecie in cui il danno non patrimoniale viene liquidato a persone giuridiche vittime dei reati di furto (Trib. Treviso, 20.2.2011, cit.), insolvenza fraudolenta (Cass., 12.12.2008, n. 29185, in Danno e resp., 2009, 937 ss., con nota di Plebani) e appropriazione indebita (App. Firenze, 2.2.2012, in banca dati Leggi d’Italia – Corti di Merito). 7. Segue: danno non patrimoniale in ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattamento dei dati personali. Prima dell’entrata in vigore della legge sulla protezione dei dati personali, la giurisprudenza si era espressa in senso favorevole all’estensione del diritto alla riservatezza alla persona giuridica, affermando che «la tutela della riservatezza (...) è accordata dalla legge – senza che al riguardo rilevi il divieto di costituzione di associazioni segrete – anche in favore delle persone giuridiche e non soffre limitazioni per il fatto che l’art. 21 Cost. sancisca la libertà di manifestazione del proprio pensiero, atteso che la stessa Costituzione, mentre non contiene 346 norme che tutelino un ipotetico interesse all’acquisizione di informazioni appartenenti all’altrui sfera privata, preclude (...) ingerenze rivolte all’acquisizione di informazioni relative ad altri soggetti» così Cass., 2.3.1993, n. 2560, in Rep. Foro it., 1993, voce «Lavoro (rapporto)», n. 804. Si era tuttavia affermata la necessità che il diritto alla riservatezza per l’organizzazione collettiva si atteggiasse in modo difforme rispetto all’analogo diritto riconosciuto in capo a persone fisiche, per l’esigenza di garantire i doveri di trasparenza delle persone giuridiche, soprattutto con riferimento ai dati economici relativi a società commerciali (Zoppini, 852, infra, Nota bibl.). La «legge sulla tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali» (l. 31.12.1996, n. 675), poi confluita nel «Codice in materia di protezione dei dati personali» (d. legis. 30.6.2003, n. 196), includeva espressamente, tra i soggetti interessati in relazione al trattamento dei dati personali, le «persone giuridiche e ogni altro ente o associazione». Per effetto delle modifiche apportate dal d.l. 6.12.2011, n. 201, alcune disposizioni contenute nella prima parte del Codice sono state abrogate, con il risultato che gli articoli ora modificati fanno esclusivo riferimento alle persone fisiche. Nondimeno, con provvedimento datato 20.9.2012, n. 262, il Garante per la protezione dei dati personali si è espresso nel senso che le disposizioni del Codice continuino a trovare applicazione a persone giuridiche, enti ed associazioni, anche a seguito delle modifiche del suddetto d.l. n. 201/2011. Alla persona giuridica trova quindi applicazione, nel quadro attuale, la medesima disciplina rimediale che si rivolge alla persona fisica, ed in particolare l’art. 15 del Codice, che prevede espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale cagionato per effetto del trattamento dei dati personali contenuti in una banca dati. Non è agevole individuare sentenze edite in materia di risarcimento del danno non patrimoniale, ex art. 15 del Codice in materia di protezione dei dati personali, a persone giuridiche. Particolare rilevanza assume, dunque, App. Milano, 27.1.2013, in Foro it., 2014, I, 2612 ss. e in Dir. inf., 2013, 831 ss., con nota di NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale Bassini, in cui veniva richiesto, dalla società appellante, di condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali una nota testata giornalistica, per violazione del disposto dell’art. 7, d. legis. n. 196/2003. Tale domanda veniva rigettata e, con riguardo al danno non patrimoniale, si affermava che esso «anche nei casi di lesione di diritti inviolabili, non può ritenersi in re ipsa, ma deve essere debitamente allegato e provato, anche con il ricorso a presunzioni». Anche in relazione all’illecito trattamento di dati personali, vale dunque il principio per cui il danno non può ritenersi in re ipsa (Cass., 5.9.2014, n. 18812, in Foro it., 2015, I, 119 ss.; Cass., 9.1.2014, n. 194, in Foro it., 2015, I, 121 ss.; Cass., 14.8.2014, n. 17974, in CED Cassazione; Cass., 26.9.2013, n. 22100, in Rep. Foro it., 2013, voce «Persona fisica», n. 93; Trib. Milano, 3.9.2012, in Danno e resp., 2013, 51 ss., con nota di Foffa; in Foro it., 2012, I, 2850 ss.). Ciò, contrariamente ad un più risalente orientamento, secondo cui la prova del danno non patrimoniale poteva invece ritenersi individuabile di per sé nel fatto lesivo (cfr. Trib. Milano, 13.4.2000, in Foro it., 2000, I, 3004 ss., in cui il danno veniva identificato nel fatto dell’illecito trattamento di dati anagrafici). La più recente giurisprudenza si dimostra rigorosa anche per quanto riguarda un altro aspetto di rilievo, ossia la necessità che il diritto alla riservatezza sia inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. In Cass., 15.7.2014, n. 16133, in Foro it., 2015, I, 120 ss., si è infatti espressamente affermato che, nel caso di illecito trattamento di dati personali, il risarcimento del danno non patrimoniale non si sottrae all’accertamento dei profili della gravità della lesione e della serietà del danno, in quanto «anche nella fattispecie di danno non patrimoniale di cui al citato art. 15, opera il bilanciamento (...) del diritto tutelato da detta disposizione con il principio di solidarietà». Alla luce di tali orientamenti, la tutela della persona (anche giuridica) che abbia subito un illecito trattamento dei dati personali appare affievolita, non potendo limitarsi ad allegare l’attività di illecito trattamento, ma dovendo dimostrare che il proprio diritto alla riservatezza sia stato leso oltre una certa soglia minima. NGCC 2015 - Parte seconda Con particolare riguardo al caso della persona giuridica, la prova si presenta particolarmente ardua perché, alla generale difficoltà di dimostrare un danno derivante dalla lesione di un bene immateriale, si aggiunge quella costituita dalla riferibilità del pregiudizio ad un’entità sovraindividuale. 8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. Un’altra ipotesi nella quale il risarcimento del danno non patrimoniale è espressamente previsto dalla legge è quella dell’equa riparazione per il caso di illegittima durata del processo, in virtù dell’art. 2, l. n. 89/2001 (Legge Pinto), che riconosce il diritto ad un’equa riparazione a chiunque abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale «sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». In tale casistica si è affermata definitivamente la compatibilità dei diritti della personalità con l’assenza di fisicità (tra le prime pronunce sul punto, Cass., 2.8.2002, n. 11573, in Giust. civ., 2002, I, 3063 ss., in cui si è espressamente affermato che «la persona giuridica (...) è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza di fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione»). Come già accennato supra (§ 4), la giurisprudenza di legittimità ha seguito, al fine di uniformarsi all’orientamento della Corte di Strasburgo, un percorso autonomo che diverge dalle soluzioni che la medesima giurisprudenza ha invece adottato nelle altre ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale. Una volta accertata la violazione del termine ragionevole di durata, infatti, il giudice deve presumere sussistente il danno non patrimoniale, salvo che circostanze particolari portino ad escluderlo (in tal senso, inter alia, Cass., 1o.12.2011, n. 25730, in Rep. Foro it., 2012, voce «Diritti politici e civili», n. 236; Cass., 2.2.2007, n. 2246, in Rep. Foro it., 2007, voce cit., n. 236). Tra le pronunce che, a fronte di circostanze particolari, escludono il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2, l. n. 89/2001, si segnala App. Potenza, 6.7.2010 (a quanto consta inedita, ma della quale si leggono stralci 347 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza nella motivazione di Cass., 20.6.2013, n. 15479, cit.), in cui si negava ad una società di capitali il diritto all’equa riparazione, per non avere dimostrato in concreto la prova del pregiudizio subito dai propri amministratori e soci. La peculiarità della fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte d’Appello – ed, in seguito, della Supr. Corte (Cass., n. 15479/2013, cit.), che confermava la decisione, pur correggendo la motivazione ex art. 384, ult. comma, cod. proc. civ. – si poteva ravvisare, tra l’altro, nel fatto che la società fosse di medio-grandi dimensioni, con conseguente difficoltà di ipotizzare un effettivo patimento dei soci per l’eccessiva durata della controversia, diversamente da quanto si potrebbe ritenere per il caso di una società di persone avente dimensioni ridotte. 9. Segue: danno non patrimoniale per lesione di un diritto inviolabile ai sensi dell’art. 2 Cost. Le Sezioni Unite del 2008 affermano espressamente la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente alla violazione dei diritti alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, ritenuti diritti inviolabili della persona (anche giuridica) ai sensi dell’art. 2 Cost. (conforme anche Cass., 14.8.2008, n. 25157, in Rep. Foro it., 2008, voce «Danni civili», n. 193). Diritti che, contrariamente a quanto ritenuto in dottrina, la giurisprudenza riconosce pacificamente anche in capo ad enti con scopo di lucro. Nella maggior parte dei casi, il danno non patrimoniale subito dalla persona giuridica viene ricondotto alla lesione del c.d. «diritto all’immagine», cui viene riconosciuta la natura di diritto inviolabile ex art. 2 Cost. Non immediata è la ricostruzione del contenuto di tale diritto, poiché la giurisprudenza utilizza l’espressione «immagine» con significati non univoci e non riferibili alla nozione impiegata all’art. 10 cod. civ. Talora il termine viene ad indicare un diritto «speculare» rispetto alla reputazione della persona fisica, inquadrabile come interesse della persona giuridica all’integrità della propria immagine sociale e credibilità; in altri casi viene utilizzato in un’ottica più ampia, comprendente diversi aspetti della personalità, tra cui il diritto all’identità personale (in tal senso v. Trib. 348 Palermo, 7.2.2011, cit., che individua il «danno all’immagine» della persona giuridica in diverse lesioni di diritti inerenti alla personalità, tra cui «il diritto all’identità personale, all’onore, alla reputazione»). Il «danno all’immagine» della persona giuridica è riconducibile alla lesione del diritto alla reputazione quando siano divulgate notizie denigratorie attraverso l’utilizzo di mezzi di diffusione di massa (stampa, televisione, rete Internet), senza che siano integrati, tuttavia, gli estremi del reato di diffamazione (altrimenti, si ricadrebbe nell’ipotesi di danno da reato già illustrato al § 6). Tra le numerose pronunce sul punto, può ricordarsi Trib. Torino, 20.2.2012, cit.), in cui la denigrazione di un prodotto, a mezzo televisione, veniva considerata fonte di lesione del diritto all’onore e alla reputazione di una nota società per azioni, risarcibile «anche in assenza di reato». L’ampio utilizzo dell’espressione «danno all’immagine» dimostra le difficoltà che la giurisprudenza incontra nell’individuazione del diritto della personalità concretamente violato, anche perché spesso il medesimo fatto lesivo è in grado di incidere su diversi aspetti della personalità dell’ente. Così, ad esempio, in Trib. Bergamo, 5.12.2013, in Resp. civ. e prev., 2014, 1667 ss., con nota di Citarella, l’illecito accostamento del nominativo di un ente non profit ad un sito di dating veniva considerato lesivo non soltanto del diritto alla reputazione, ma anche del diritto al nome, ex artt. 6-7 cod. civ., e all’identità personale, con conseguente risarcimento del danno non patrimoniale. Di recente, la Supr. Corte sembra avere avallato l’orientamento che ritiene non configurabile un diritto all’onore dell’ente nella sua «dimensione soggettiva», inteso come considerazione e percezione che ha di se stesso. In particolare, si è ritenuto che le affermazioni offensive rivolte ad una società commerciale e comunicate al legale rappresentante della stessa non siano idonee a ledere il «diritto all’immagine» dell’ente, quando siano confinate nell’ambito aziendale e non siano immediatamente percepibili dalla collettività o da terzi (v. Cass., 21.5.2013, n. 22396, cit.). Sulla base di analoghe argomentazioni, Cass., n. 18082/2013, cit., affermava che gli atti di concorrenza sleale subiti da una società sono idonei a cagionare un NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale «danno all’immagine», con conseguente riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, solo quando siano immediatamente percepibili da terzi estranei all’ente e determinino un effetto negativo sulla reputazione della persona giuridica. Effetto negativo che invece era stato accertato in Trib. Milano, 19.4.2010, in Danno e resp., 2010, 825 ss., con nota di Afferni, in cui veniva riconosciuto, ad una persona giuridica, il danno non patrimoniale derivante da un atto di concorrenza sleale per denigrazione, avendo la denigrazione commerciale «causato una grave lesione del diritto all’immagine dell’impresa». La lesione del «diritto all’immagine» dell’ente ha un ruolo di particolare rilievo, poi, nella copiosa casistica relativa alla illegittima segnalazione di una posizione di sofferenza alla Centrale dei Rischi. Come già accennato, la più recente giurisprudenza ritiene che l’illegittima segnalazione di una posizione di sofferenza può condurre sia alla risarcibilità del danno patrimoniale per peggioramento dell’affidabilità commerciale, sia alla risarcibilità del danno non patrimoniale con riguardo alla lesione del diritto all’immagine dell’ente, «incidendo su di una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione» (Cass., 9.7.2014, n. 15609, cit.; Cass., 4.6.2007, n. 12929, cit.; Trib. Bari, 5.1.2011, cit.). Anche in tale ambito, la giurisprudenza ha mostrato incertezza nell’individuazione dell’interesse giuridico violato: ad esempio in Trib. Milano, 17.3.2004, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II, 528 ss., il danno non patrimoniale veniva riconosciuto in virtù della lesione del diritto alla «reputazione commerciale», la cui violazione condurrebbe, più propriamente, al risarcimento di un danno avente carattere patrimoniale. Nella giurisprudenza più risalente il danno non patrimoniale subito dalla persona giuridica veniva considerato in re ipsa, seguendo l’influenza dell’insegnamento di Corte Cost. n. 184/1986, mentre, secondo l’attuale orientamento, deve trattarsi di un danno-conseguenza, che deve sempre essere allegato e provato [«(...) il danno non deriva dalla mera inserzione nella banca dati, ma dall’effetto che tale inserzione produce sul pubblico»: così, testualmente, Cass., 4.6.2007, n. 12929, cit.]. NGCC 2015 - Parte seconda Nel filone della lesione del «diritto all’immagine» dell’ente, si annoverano anche le numerose pronunce in tema di pubblicazione di protesti illegittimi. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, l’evoluzione giurisprudenziale ha cominciato a dare rilievo, anche nel caso di illegittimo protesto, al profilo della lesione della reputazione personale dell’ente (Trib. Milano, 28.9.1989, in Banca, borsa, tit. cred., 1991, II, 497 ss.; Cass., 3.4.2001, n. 4881, in Giur. it., 2001, 1657 ss.; Cass., 5.11.1998, n. 11103, ivi, 1999, 770 ss., con nota di Sanzo; in Corr. giur., 1999, 998 ss., con nota di Sciso; Cass., 23.3.1996, n. 2576, cit.). Quanto all’onere probatorio, solo di recente si è giunti ad affermare che il danno non patrimoniale da illegittima levata del protesto deve essere provato (v. Cass., 14.1.2015, n. 483, in CED Cassazione; Cass., 11.10.2013, n. 23194, in Vita not., 2014, 406 ss.; contra, per tutte, Cass., 20.6.2006, n. 14977, in Resp. civ. e prev., 2007, 545 ss., con nota di Scognamiglio). Deve, infine, essere preso in considerazione, come diritto la cui lesione può dare origine ad un danno non patrimoniale, quello all’immagine «in senso proprio», come forma di tutela contro le forme di esposizione o pubblicazione dell’immagine della persona giuridica. Rilevante è, al riguardo, Cass., 11.8.2009, n. 18218, in Danno e resp., 2010, 471 ss., con nota di Resta, che ha ritenuto estensibile alla persona giuridica (una società commerciale) la tutela civilistica dell’immagine ex art. 10 cod. civ., contrariamente a quell’orientamento secondo cui «la tutela del diritto all’immagine di cui agli artt. 10 c.c. e 96 seg., legge sul diritto d’autore, non è nemmeno astrattamente invocabile per le persone giuridiche» (Trib. Milano, 28.1.1993, in AIDA, 1994, 325 ss., con nota di Mayr). In particolare, i giudici hanno riconosciuto il diritto all’immagine «fotografica» di un oggetto sulla quale la persona giuridica esercitava il diritto di godimento e sfruttamento materiale, ritenendola tutelabile ai sensi dell’art. 10 cod. civ. Il danno non patrimoniale, causato dall’illecito comportamento, veniva considerato risarcibile ex art. 2059 cod. civ. sotto il profilo del «c.d. annacquamento della denominazione» e dello «svilimento dell’immagine, ove soggetta ad una diffusione non controllata». 349 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza 10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica. Tra le questioni più controverse e di maggiore complessità vi è quella dell’individuazione di univoci criteri per la quantificazione del danno non patrimoniale subito da una persona giuridica privata. Come è noto, ruolo privilegiato assume, in tale contesto, la liquidazione del danno in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., norma applicabile alla responsabilità extracontrattuale grazie all’esplicito rinvio contenuto nell’art. 2056 cod. civ. Per quanto riguarda le ipotesi di condotte diffamatorie attraverso mass media, i giudici prendono in considerazione l’ambito territoriale di diffusione del mezzo utilizzato, il grado di visibilità e notorietà pubblica dell’ente danneggiato, l’entità del fatto, valutando positivamente il comportamento post actum dell’offensore, come l’eventuale pubblicazione di note a chiarimento (Trib. Cassino, 17.3.2014, cit.; Trib. Roma, 28.11.2013, cit.; Trib. Roma, 13.11.2012, cit.). In una fattispecie in cui la diffamazione veniva realizzata attraverso un commento pubblicato su un blog, si considerava come elemento idoneo a limitare la gravità del pregiudizio la circostanza che l’autore del reato si fosse limitato ad associarsi ad altri commenti (Trib. Roma, 14.5.2013, cit.). Gli indici adottati sono sostanzialmente analoghi a quelli elaborati dalla giurisprudenza per la determinazione del quantum del danno non patrimoniale alla personalità dell’individuo, ossia la gravità del fatto lesivo, la diffusione dell’addebito diffamatorio, la qualità del soggetto leso (al riguardo si segnalano Trib. Roma, 5.10.1987, in Dir. inf., 1988, 435 ss.; Trib. Roma, 14.7.1989, ivi, 1989, 952 ss.; Trib. Roma, 16.2.1990, ivi, 1990, 539 ss.; Trib. Roma, 2.5.1995, in Foro it., 1996, 658 ss.; Trib. Napoli, 22.3.1996, in Dir. inf., 1996, 583 ss.) e, talora, l’intensità dell’elemento psicologico del danneggiante (Trib. Venezia, 29.2.2000, in Danno e resp., 2001, 536 ss., con nota di Pino; Trib. Venezia, 5.6.2002, in Dir. eccl., 2003, II, 64 ss.; Trib. Roma, 18.2.2013, nella banca dati Leggi d’Italia-Corti di Merito). Particolarmente rilevanti sono, poi, due pronunce di merito, rese in fattispecie nelle quali non venivano ritenuti integrati gli estremi del 350 reato: la prima è Trib. Milano, 19.4.2010, cit., in cui si è tenuto conto della gravità degli apprezzamenti denigratori, della loro diffusione (mediante libro, campagna stampa ed Internet) e della notorietà della persona offesa. La seconda è Trib. Torino, 20.2.2012, cit., in cui venivano specificati, con insolito dettaglio, i parametri presi in considerazione per la liquidazione del danno non patrimoniale, ossia il numero di persone offese, lo strumento utilizzato (la televisione, con largo bacino di utenza), la gravità dell’offesa, la notorietà e posizione personale e sociale del soggetto leso, il comportamento post actum dell’offensore. Deve rilevarsi come vengano in rilievo elementi che, prima facie, difficilmente si conciliano con la tradizionale funzione riparatoria della responsabilità civile: il riferimento è, in particolare, al profilo della gravità della condotta dell’offensore. In dottrina, infatti, si può riscontrare l’opinione che individua una funzione satisfattivo-deterrente della tutela risarcitoria, quando ad essere violato sia un diritto della personalità (così Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile, 1280, infra, Nota bibl.). Non pienamente condivisibili sono infine quelle sentenze che valorizzano, ai fini della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, elementi ai quali sarebbe più corretto attribuire una natura patrimoniale (la somma non corrisposta da un istituto di credito all’ente, per effetto della illegittima segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia – Trib. Bari, 5.1.2011, cit. –; i dati relativi alla diminuzione di reddito seguita ad un provvedimento di sequestro ingiustificato – Trib. Ivrea, 22.8.2002, in Gius, 2001, 2662 ss.). Nota bibliografica 1. Introduzione. 2. Danno non patrimoniale e persona giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. Sul tema dell’estensione di diritti della personalità agli enti collettivi cfr. De Cupis, I diritti della personalità, nel Trattato Cicu-Messineo, IV, Giuffrè, 1982, 45 ss.; Assanti, Protezione della personalità, onore e libertà d’azione negli enti collettivi, in Giur. it., 1985, 252 ss.; NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale Rescigno, voce «Personalità (diritti della)», in Enc. giur. Treccani, XXIII, Ed. Enc. it., 1990, 7 s.; Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti della)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XIII, Utet, 1995, 430 ss.; Alpa-Ansaldo, Le persone fisiche, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 1996, sub artt. 1-10, 165 s. Per la dottrina più recente si vedano i contributi monografici di Ar. Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, Cedam, 2002, spec. 1-43; C. Perlingieri, Enti e diritti della persona, Esi, 2008; v. altresì Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), in Riv. dir. civ., 2002, I, 851 ss., cui si fa rinvio per i riferimenti ivi forniti, con particolare riguardo alla dottrina tedesca (nt. 22); Zeno Zencovich, I diritti della personalità, in Diritto Civile, diretto da Lipari e Rescigno, I, 1, Giuffrè, 2009, 513 s. In tema di diritto al nome e all’identità personale si segnalano, inter alia, Aa. Vv., La lesione dell’identità personale e il danno non patrimoniale, Giuffrè, 1985 e, in particolare, il contributo di De Cupis, Bilancio di un’esperienza: l’identità personale, 187-197; sul terreno del diritto comparato Gambaro, Falsa luce agli occhi del pubblico (False light in the public eye), in Riv. dir. civ., 1981, I, 84 ss. Per quanto riguarda l’identità degli enti collettivi v. G. Giacobbe, Il diritto all’identità personale dei gruppi organizzati, in Giust. civ., 1980, II, 266, ove è fatto ampio riferimento alla giurisprudenza meno recente, e Ar. Fusaro, Nome e identità personale degli enti collettivi. Dal «diritto» all’identità uti singuli al «diritto» all’identità uti universi, in questa Rivista, 2002, II, 51 ss. Nell’ambito della vasta letteratura in tema di diritto all’onore e alla reputazione, si segnalano Zeno Zencovich, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Jovene, 1985; Garutti, Il diritto all’onore e la sua tutela civilistica, Cedam, 1985; De Vita, Persone fisiche, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1988, sub artt. 1-10; quanto all’onore e alla reputazione della persona giuridica v. Ar. Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, cit., 45 ss. Sul ruolo dell’art. 2 Cost. come fondamento costituzionale dell’estensione dei diritti della personalità alla persona giuridica, v. P. Rescigno, voce «Personalità (diritti della)», cit., 7 s.; NGCC 2015 - Parte seconda Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti della)», cit. Sul ruolo della dottrina nell’auspicare una lettura estensiva dell’art. 2059 cod. civ., che consentisse la risarcibilità del danno non patrimoniale nelle ipotesi di lesione dei diritti della personalità, si vedano, senza alcuna pretesa di completezza: De Cupis, I diritti della personalità, cit., 57 ss.; Tommasini, Diritto alla identità personale e risarcibilità dei danni morali, in La lesione dell’identità personale e il danno non patrimoniale, cit.; Macioce-Garutti, Il danno da lesione dei diritti della personalità, in Rass. dir. civ., 1984, 63 ss.; Salvi, La responsabilità civile, nel Trattato Iudica-Zatti, 2a ed., Giuffrè, 2005, 99 s. Per una recente ricostruzione dell’interpretazione tradizionale dell’art. 2059 cod. civ. e dell’evoluzione in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale, Navarretta, Il danno non patrimoniale, nel Trattato della Responsabilità civile, diretto da Patti, IV, Il danno non patrimoniale, a cura di Delle Monache, Utet, 2010, 1 ss.; Lucchini Guastalla, Il contratto e il fatto illecito, Giuffrè, 2012, 490 ss. 3. La vexata quaestio del danno non patrimoniale subito da società commerciali. Univoco è, in dottrina, l’orientamento secondo cui la lesione di un diritto della personalità può essere fonte tanto di un pregiudizio di natura patrimoniale quanto di un pregiudizio di natura non patrimoniale: v., inter alia, D. Messinetti, voce «Personalità (diritti della)», in Enc. del dir., XXIII, 1983, Giuffrè, 393 ss.; Macioce-Garutti, cit., 49 ss. Ritengono però che non possano essere titolari di diritti della personalità, e dunque non possano subire un danno non patrimoniale, al di fuori dei casi di «danno da reato» e di ipotesi previste dalla legge, Nuzzo, voce «Nome (diritto vigente)», in Enc. del dir., XXVII, Giuffrè, 1978, 310 ss.; Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti della)», cit., 440; Pino, Sul diritto all’identità personale degli enti collettivi (nota a Trib. Roma, 28.2.2001), in Dir. inf., 2001, 475; Ar. Fusaro, I diritti della personalità degli enti collettivi, cit., 257; Fici-Resta, La tutela dei dati degli enti collettivi: aspetti problematici, in Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati personali, a cura di Pardolesi, II, Giuffrè, 2003, 405 ss.; Ar. Fusaro, Discredito dell’impresa mediante prove 351 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza comparative tra prodotti: il caso Fiat contro Annozero (nota a Trib. Torino, 20.2.2012) in questa Rivista, 2012, I, 670 s. Sul tema specifico dell’identità personale, v. Panuccio, La lesione della c.d. identità commerciale e la tutela non patrimoniale, in La lesione dell’identità personale e il danno non patrimoniale, cit., 115, secondo cui l’identità commerciale non può considerarsi come specificazione dell’identità personale, non potendo parlarsi di diritti della personalità nell’ambito dello svolgimento di un’attività imprenditoriale. Non contrari all’estensione di diritti della personalità ad enti con scopo di lucro parrebbero invece Ranieri Bianchi, Danno da lesione dei diritti della personalità degli enti collettivi, in Il danno non patrimoniale: principi, regole e tabelle per la liquidazione, a cura di Navarretta, cit., 363; Delli Priscoli, Diritti della personalità, persone giuridiche e società di persone, in Giust. civ., I, 2008, 2004 s. Per un’analisi critica della giurisprudenza sul «duplice volto» della reputazione, personale e patrimoniale, nello svolgimento di un’attività imprenditoriale, v. Ar. Fusaro, Informazioni economiche e «reputazione d’impresa» nell’orizzonte dell’illecito civile, Giappichelli, 2010, 86 ss., ove ampi richiami giurisprudenziali in tema di protesto illegittimo e segnalazione di una posizione di sofferenza alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. 4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio. Per una completa ricostruzione delle dottrine sull’ascrizione di diritti alle persone giuridiche, v. BasileFalzea, voce «Persona giuridica (dir. priv.)», in Enc. del dir., XXIII, Giuffrè, 1983, 250 ss.; Galgano, Delle persone giuridiche, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 2006, sub artt. 11-35, 1-27; Basile, Le persone giuridiche, nel Trattato Iudica-Zatti, 2a ed., Giuffrè, 2014, 165 ss. Sottolinea le criticità insite in Cass., n. 12929/2007, Foffa, La lesione dell’immagine di una persona giuridica (nota a Cass., 4.6.2007, n. 12929), in Danno e resp., 2007, 1236; evidenzia la presenza di contraddizioni nella motivazione De Giorgi, Persona giuridica e danno non patrimoniale, in Persona e soggetto, a cura di Tescione, Esi, 2010, 198. 352 Esprime perplessità nei confronti dell’orientamento che riconosce il danno morale soggettivo correlato ai turbamenti dell’ente, in presenza di un reato, Bonamini, Gli enti, e il danno non patrimoniale (nota a Trib. Treviso, 27.10.2011), in Fam., pers. e succ., 2012, 517 ss.; gli aspetti problematici insiti nel revirement della Supr. Corte in tema di irragionevole durata del processo sono evidenziati da De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti (nota a Cass., 30.8.2005, n. 17500), in Danno e resp., 2006, 153 ss.; Ead., Persona giuridica e danno non patrimoniale, cit., 197 ss. Contra Vittoria, Il danno non patrimoniale agli enti collettivi, in Riv. dir. civ., 2007, I, 539 ss., che si dichiara favorevole all’imputazione all’ente degli stati soggettivi dei suoi componenti. 5. Le pronunce delle sezioni unite del 2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale. Le sentenze delle sezioni unite del 2008 sono commentate in tutte le principali riviste. Si vedano, ex multis, Bargelli, Danno non patrimoniale: la messa a punto delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2009, I, 102 ss.; Monateri, Il pregiudizio esistenziale come voce di danno non patrimoniale; Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali; Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e l’unicità delle categorie dei danni non patrimoniali; Ziviz, Il danno non patrimoniale: istruzioni per l’uso, tutti in Resp. civ. e prev., 2009, 38 ss.; Busnelli, Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, II, 97 ss. Sulle questioni lasciate irrisolte dall’intervento delle sezioni unite del 2008, v. Busnelli, Non c’è quiete dopo la tempesta, in Riv. dir. civ., 2012, I, 129 ss. e, da ultimo, Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile, in Studi in onore di Giovanni Iudica, Egea, 2014, 1269 ss. 6. Segue: danno non patrimoniale da reato. La dottrina più risalente negava che gli enti diversi da quelli individuati dall’art. 595, ult. comma, cod. pen., potessero essere soggetti passivi dei delitti di ingiuria e diffamazione: NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Danno non patrimoniale v. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VIII, Delitti contro la persona, 5a ed., Utet, 1985, 408. Sulla distinzione tra i delitti di ingiuria e diffamazione, v. Antolisei, Manuale di diritto penale, I, Parte speciale, 14a ed., Giuffrè, 2002, 194 s. Riconoscono pacificamente il diritto all’onore in capo alla persona giuridica, senza distinzioni tra componente «oggettiva» e «soggettiva», Ar. Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, cit., 68; Delli Priscoli, cit., 2005; di contrario avviso De Cupis, I diritti della personalità, nel Trattato Cicu-Messineo, IV, Giuffrè, 1982, 254; Pino, Sul diritto all’identità personale degli enti collettivi, cit., 476; secondo cui la nozione di onore non appare correttamente riferibile ad enti collettivi, se riferita al sentimento che ciascuno soggetto ha della propria dignità personale. Sul tema della diffamazione da mass media, la letteratura è sterminata. Si vedano, a titolo meramente esemplificativo, Ricciuto-Zeno Zencovich, Il danno da mass-media, Cedam, 1990; Chindemi, Diffamazione a mezzo stampa, Giuffrè, 2006, spec. 247 ss., con riguardo al risarcimento del danno da diffamazione. Sulla necessità di provare il danno non patrimoniale in presenza da reato, si segnala la posizione critica di Rizzieri, Il danno non patrimoniale da reato, nel Trattato della Responsabilità civile, diretto da Patti, IV, Il danno non patrimoniale, a cura di Delle Monache, cit., 444 ss. 7. Segue: danno non patrimoniale in ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattamento dei dati personali. Per un’analisi della disciplina sul trattamento dei dati personali v., per tutti, Rodotà, Persona, riservatezza, identità. Prime note sistematiche sulla protezione dei dati personali, in Riv. crit. dir. priv., 1997, 583 ss. Sulle novità legislative relative alla tutela dei dati delle persone giuridiche v. Montesano, I dati personali relativi alle imprese e la circolazione di informazioni aziendali dopo il «decreto salva Italia», in Il dir. ind., 2012, 70 ss.; Basile, Le persone giuridiche, nel Trattato Iudica-Zatti, 2a ed., Giuffrè, 2014, 191 s. In tema di danno da illecito trattamento dei NGCC 2015 - Parte seconda dati personali v. Lucchini Guastalla, Trattamento dei dati personali e danno alla riservatezza, in Resp. civ. e prev., 2003, spec. 650 ss., relativamente al profilo del danno non patrimoniale; v. altresì Finessi, Il danno non patrimoniale da illecito trattamento dei dati personali, nel Trattato della Responsabilità civile, diretto da Patti, IV, Il danno non patrimoniale, a cura di Delle Monache, cit., 481 ss. Circa i possibili effetti negativi della protezione dei dati personali delle società sulla trasparenza del mercato, v. Fici-Resta, La tutela dei dati degli enti collettivi: aspetti problematici, in Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati personali, Giuffrè, 2003, 416 ss.; Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche (e dei gruppi organizzati), cit., 851 s. 8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. Sulla tematica del danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo v. l’ampio contributo di Girolami, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, in Trattato della Responsabilità civile, cit., 535 ss.; quanto al danno non patrimoniale subito in tale contesto da persone giuridiche v. Didone, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo per le persone giuridiche (nota a Cass., 2.8.2002, n. 11573), in Giur. it., 26 ss.; Venturelli, Legge Pinto: per le persone giuridiche la prova del danno non è in re ipsa (nota a Cass., 2.7.2004, n. 12110), in Danno e resp., 2005, 10, 977; V. Giorgianni, Il risarcimento del danno non patrimoniale a persone giuridiche (nota a Cass., 10.3.2004, n. 12110), in La resp. civ., 2005, 624 ss.; De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti, cit.; Toschi Vespasiani, La risarcibilità del danno da irragionevole durata del processo in favore delle società, in Resp. civ. e prev., 2008, 1006 ss. Facendo proprio un ragionamento analogo a quello di Cass., n. 15479/2013, cit., rileva le criticità dell’orientamento che riferisce i patimenti dei soci all’ente, tanto più quando si tratti di una società per azioni, De Giorgi, Persona giuridica e danno non patrimoniale, cit., 199. 353 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza 9. Segue: il danno da lesione di un diritto inviolabile rilevante ai sensi dell’art. 2 Cost. Per un’elencazione di tipologie di diritti inviolabili rilevanti ex art. 2 Cost., v. Navarretta, Il danno non patrimoniale e la responsabilità extracontrattuale, in Il danno non patrimoniale: principi, regole e tabelle per la valutazione, cit., spec. 30 ss. Sulle differenze tra accezione «estensiva» e accezione «tecnica» del diritto all’immagine v. Ar. Fusaro, I diritti della personalità degli enti collettivi, cit., 165 ss.; Ranieri Bianchi, Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità degli enti collettivi, cit., 361 s. Sul riconoscimento del «diritto all’immagine» in senso tecnico, ex art. 10 cod. civ., alla persona giuridica, v. sempre Ar. Fusaro, I diritti della personalità degli enti collettivi, cit., 170; esprime forti perplessità in merito alla succitata Cass., n. 18218/2009, Resta, Diritti della personalità e tutela dell’immagine dei beni, cit. 10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica. Per una rassegna relativa ai criteri utilizzati dalla giurisprudenza per la determinazione del danno non patrimoniale da mass-media, anche se relativa a pronunce risalenti agli anni Ottan- 354 ta del secolo scorso, Zeno Zencovich, Il danno da mass-media, cit., 90 ss. Con riguardo a pronunce più recenti v. Peron-Galbiati, La diffamazione a mezzo stampa nelle sentenze del Tribunale civile e penale di Milano nel quadriennio 2001-2004, in Dir. inf., 2006, 57 ss.; Eid., La giurisprudenza della Corte d’Appello civile di Milano in materia di diffamazione nel triennio 2003-2005, in Resp. civ. e prev., 2007, 2254 ss.; Zeno Zencovich, La quantificazione del danno alla reputazione e ai dati personali: ricognizione degli orientamenti 2013 del Tribunale civile di Roma, in Dir. inf., 2014, 405 ss. Per una rassegna in tema di liquidazione del danno non patrimoniale a persone giuridiche v. Palmerini-Ranieri Bianchi, Il danno non patrimoniale da lesione dei diritti della personalità agli enti collettivi, cit., 671 ss. Per alcune considerazioni sulla possibilità di ammettere una funzione deterrente alla responsabilità civile, v. C. Scognamiglio, Danno morale e funzione deterrente della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2007, 2496 ss.; Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi, in Eur. e dir. priv., 2009, 909 ss. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. VENDITA DI PARTECIPAZIONI SOCIALI DI «CONTROLLO» E GARANZIE PATRIMONIALI: RASSEGNA CRITICA [,] di Giacomo Buset Sommario: 1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni sociali di «controllo». – 2. Oggetto del contratto di vendita di partecipazioni sociali: le quote o azioni e non il patrimonio. – 3. Segue: le eccezioni... – 4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. – 5. Natura delle garanzie patrimoniali: primi tentativi di inquadramento (App. Genova, 6.11.1946 e Cass., n. 338/ 1967). Le reazioni della dottrina. – 6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. – 7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita. – 8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle garanzie: pronunce di merito... – 9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/2014. – 10. Considerazioni conclusive . 1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni sociali di «controllo». Come noto, i contratti di vendita di partecipazioni sociali totalitarie o di «controllo» contengono usualmente, da circa mezzo secolo (cfr. Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, 294, infra, Nota bibl.), pattuizioni con cui l’alienante «garantisce» l’acquirente in ordine all’attuale sussistenza o al verificarsi futuro di una serie di circostanze, assunte come rilevanti nell’economia dell’affare. Si tratta di clausole convenzionali che la prassi definisce, appunto, di garanzia (ovvero, utilizzando un’endiadi diffusa nei formulari di derivazione anglosassone, representations and warranties: v. Pistorelli, 159, infra, Nota bibl.) e che si suddividono tipicamente in due macro-categorie, secondo che l’impegno abbia ad oggetto, in particolare, situazioni relative: (i) alla partecipazione sociale; (ii) al patrimonio della società la cui partecipazione è alienata. [,] Contributo pubblicato in base a referee. NGCC 2015 - Parte seconda Alle prime ci si riferisce con il sintagma garanzie legali (legal warranties): sono tali le clausole con cui il venditore presta garanzia riguardo alla proprietà e alla libera trasferibilità della quote o azioni alienate, nonché ad individuate qualità delle medesime (ad es., percentuale del capitale sociale rappresentato, assenza di vincoli o gravami, categoria delle azioni ove si tratti di partecipazione azionaria). Integrano invece la seconda fattispecie le cc.dd. garanzie patrimoniali (business warranties): vale a dire, pattuizioni in forza delle quali l’alienante assicura all’acquirente che il patrimonio della società cui le partecipazioni si riferiscono abbia, o mantenga entro un dato periodo di tempo, una certa consistenza quantitativa e qualitativa. Nel corso degli anni, i regolamenti negoziali hanno riservato a quest’ultime uno spazio ed un dettaglio sempre maggiori, tanto che non appare eccessivo considerarle ormai «corpo centrale» dei contratti in esame (Speranzin, Le clausole relative all’oggetto «indiretto» (il patrimonio sociale); garanzie sintetiche e garanzie analitiche, 193, infra, Nota bibl.). Possono avere portata generale (garanzie cc.dd. sintetiche: ad es., su veridicità del bilancio allegato al contratto, assenza di sopravvenienze passive) oppure inerire a singole voci della situazione di riferimento (garanzie cc.dd. analitiche: ad es., su crediti, diritti di proprietà intellettuale, rimanenze di magazzino), e la loro previsione assume per l’acquirente di partecipazioni sociali totalitarie o di «controllo» una valenza affatto fondamentale. Da un lato, in tali ipotesi la determinazione negoziale del compratore muove infatti dalla volontà di conseguire – più che la titolarità delle quote o azioni in sé considerata, cioè a dire i diritti patrimoniali ed amministrativi collegati alla qualifica di socio – anzitutto la gestione diretta dell’impresa sociale e la disponibilità del complesso aziendale, verificandosi un fenomeno di «tendenziale identificazione economica» 355 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza tra partecipazione ed azienda (E. Panzarini, 252, infra, Nota bibl.): sicché, massimamente avvertita è proprio l’esigenza di tutelarsi contro il rischio specifico di eventuali mancanze o difformità del patrimonio sociale rispetto alle aspettative. Da altro lato, se sul piano del diritto positivo le legal warranties, riguardando l’oggetto del contratto traslativo, si inquadrano senza difficoltà nell’ambito delle garanzie già in ogni caso previste, appunto, «ex lege» per la vendita agli artt. 1479-1497 cod. civ., pur senza sovrapporvisi del tutto (v. Tersilla, 126, infra, Nota bibl.), le business warranties, afferendo a qualcosa di distinto dalla «cosa venduta», non sono invece in predicato di «doppiare» alcun presidio legale predisposto in detta sede. Ne consegue che, laddove il compratore risulta comunque protetto rispetto ad evizione, vizi occulti e mancanza di qualità essenziali delle quote o azioni acquistate anche in assenza di esplicite pattuizioni, altrettanto non può affermarsi con riferimento ai beni sociali, e più in generale all’ipotesi in cui la consistenza patrimoniale della società risulti in certa misura diversa (in peius) da quella attesa: l’inserimento nel contratto delle clausole di garanzia rappresenta in tal caso, salvo circostanze particolari, l’unica possibile fonte di tutela del compratore di partecipazioni rilevanti deluso. L’opera di qualificazione delle business warranties, essendo funzionale a ricostruire la disciplina ad esse applicabile e fissare così i confini di tale tutela, costituisce pertanto questione di notevole rilevanza pratica: si pensi, in particolare, ai profili dell’individuazione dei rimedi esperibili dal compratore in caso di «violazione» delle garanzie; della prescrizione; degli eventuali limiti imposti da norme imperative; delle modalità d’integrazione delle convenzioni incomplete. Negli ultimi due decenni, molti contributi monografici e saggistici si sono occupati in modo analitico della questione, attribuendovi ampio risalto; cionondimeno, per le ragioni che subito si diranno, il tema rimane oggi di stretta attualità. Da tempo, la posizione assunta dalla prevalente giurisprudenza ordinaria – ma contestata da dottrina e giurisprudenza arbitrale dominanti (per una rassegna di lodi inediti, v. Bonelli, Acquisizioni di società, 318, n. 43; e 356 in precedenza Id., Giurisprudenza e dottrina su acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, 49 ss., infra, Nota bibl.) – sulla natura delle garanzie patrimoniali, comportando quale corollario l’applicazione di un relativo regime prescrizionale e decadenziale assai sfavorevole all’acquirente, si traduce in una condizione di forte incertezza in ordine all’effettività delle clausole pattizie; incertezza che, a propria volta, rischia di incidere negativamente sull’appetibilità degli investimenti economici – specie stranieri – nel settore mergers and acquisitions, disincentivandoli. Ebbene, siffatta consapevolezza ha suscitato, di recente, un primo interessamento da parte del Parlamento: il 20.9.2013 è stata infatti avanzata alla Camera, al fine di farvi fronte, una proposta di legge (n. 1610) che prospetta l’introduzione, nel codice civile, di una disciplina espressa della prescrizione dei «diritti derivanti dai patti relativi alla consistenza, alle caratteristiche del patrimonio, alle prospettive reddituali e alla situazione economica e finanziaria della società» inseriti nei contratti di vendita di partecipazioni sociali (v. Speranzin-Tina, 261 ss., infra, Nota bibl.; in ispecie, il termine è stato fissato in 5 anni). D’altra parte, le argomentazioni tradizionalmente elaborate dalla dottrina a contrasto dell’indirizzo interpretativo poc’anzi ricordato sembrano aver cominciato a far breccia, proprio da ultimo, nella stessa giurisprudenza ordinaria: risale invero a pochi mesi fa una pronuncia con cui la Corte di cassazione ha operato un primo, significativo revirement del proprio consolidato orientamento in materia (Cass., 24.7.2014, n. 16963, in Giur. it., 2014, 11, 1406 ss.). Quest’ultime osservazioni, e il rinnovato interesse verso il tema che ne discende, forniscono lo spunto per svolgere una rassegna delle principali sentenze intervenute negli ultimi decenni in tema di qualificazione delle business warranties e tutela del compratore di partecipazioni rilevanti rappresentanti una situazione patrimoniale non conforme alle aspettative, al fine di fare il punto sull’evoluzione del pensiero pretorio e capire se, sotto la spinta di dottrina e legislatore, il recente mutamento d’opinione del S.C. possa essere suscettivo di consolidarsi nel prossimo futuro. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali 2. Oggetto del contratto di vendita di partecipazioni sociali: le quote o azioni e non il patrimonio. La prima tappa del percorso intrapreso non può che essere costituita da una breve indagine circa l’atteggiamento della giurisprudenza sulla questione della conformazione oggettiva del contratto di vendita di partecipazioni rilevanti, giacché essa, come è agevole intuire, risulta intimamente correlata a quella esaminanda. Si è detto che quando un soggetto acquista l’intera quota di partecipazione in una società, od una quota di «controllo», tramite il negozio egli vuole ottenere in primo luogo – e di fatto ottiene, sul piano economico – il dominio sui beni sociali e sull’impresa. Ci si potrebbe allora chiedere se, in queste ipotesi, esista o no un fondato motivo per ritenere che l’interesse subiettivo perseguito dal compratore sia in grado di riverberarsi, modificandolo od ampliandolo, anche sull’oggetto del contratto di vendita, il quale verrebbe in tal modo costituito non più (soltanto) dalla partecipazione, bensì (anche) dal patrimonio sociale o da una quota ideale sul medesimo: con la significativa conseguenza, per quanto interessa in questa sede, che le business warranties finirebbero in tal caso per essere assimilate, relativamente a qualificazione e disciplina applicabile, alle legal warranties. Al quesito la giurisprudenza largamente prevalente risponde, da sempre (tra le pronunce più risalenti, v. Cass., 29.3.1935, in Riv. dir. comm., 1935, II, 411 ss.; Id., 6.8.1935, n. 3297, in Foro it., 1936, 207 ss.; Id., 10.5.1946, n. 559, ivi, 1944-46, 931 ss.; App. Bologna, 21.9.1935, in Riv. dir. comm., 1936, II, 113 ss.), in modo negativo: la vendita ha per oggetto esclusivo le quote od azioni, che esprimono non già il diritto di proprietà su di una frazione dei beni sociali, bensì il fascio di diritti (ad es., agli utili, di intervento e voto in assemblea) ed obblighi (ad es., di conferimento) che qualificano il c.d. status socii. Vale per tutte, al riguardo, la constatazione che la società, sia essa di capitali o di persone, gode di un’autonomia patrimoniale più o meno marcata rispetto ai soci (artt. 2268, 2304, 2325, comma 1o, 2462, comma 1o, cod. civ.), che si rafforza e giustifica in virtù del concetto di personalità (art. 2331 cod. civ.) o di soggettività giuridica (arg. ex art. 2266, comma 1o, NGCC 2015 - Parte seconda cod. civ.: cfr., di recente, Cass., ord. 4.12.2012, n. 21754, in Società, 2013, 82 ss.). Il socio sarebbe pertanto legittimato a disporre bensì delle quote o azioni, in quanto di sua proprietà; ma non anche del patrimonio sociale, poiché questo appartiene al «soggetto di diritto distinto e autonomo» rappresentato, appunto, dalla società (v. già App. Roma, 27.8.1936, in Riv. dir. comm., 1937, II, 161 ss.). Coerenti con tale assunto sono le conclusioni cui la giurisprudenza è pervenuta, anche in tempi recenti, al fine di giustificare le decisioni assunte in una serie disparata di controversie. A titolo esemplificativo, è stato statuito: (i) che in relazione a società cooperative edilizie aventi come scopo la costruzione, assegnazione in godimento e successivamente il trasferimento della proprietà di alloggi ai soci, l’alienazione della partecipazione non comporta il passaggio della proprietà dell’alloggio costruito ma non ancora assegnato, bensì solo di un diritto di credito verso la società (Cass., 23.9.2013, n. 21745, in Banca dati Leggi d’Italia; Id., 3.5.2010, n. 10648, in Società, 2010, 905); (ii) che qualora nel patrimonio sociale siano ricompresi beni immobili, al fine di concludere un valido contratto di vendita di partecipazioni non è per ciò solo necessaria la forma scritta (App. Roma, 16.4.2009, in Banca dati Leggi d’Italia; indirettamente, Trib. Roma, 26.10.2012, ivi); (iii) che anche qualora il patrimonio sociale sia costituito da soli immobili, la cessione dell’intera partecipazione non può essere considerata alla stregua di una vendita immobiliare (ma contra, sul presupposto della simulazione assoluta del contratto sociale: Trib. Milano, 8.3.2006, in Giur. it., 2006, 2325 ss.), sicché, qualora questi risultino locati, ai conduttori non spetterebbe la prelazione urbana di cui all’art. 38, l. 27.7.1978, n. 392 (Disciplina della locazione di immobili urbani) (Cass., 23.7.1998, n. 7209, in Arch. loc., 2004, 373). In proposito merita solo aggiungere che, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso (Cass., 21.6.1996, n. 5773, in Società, 1997, 33 ss.), il lessico giudiziale ha cominciato a contrapporre un oggetto «immediato» (o «diretto») della vendita, riferito alle quote o azioni, ad uno «mediato» (o «indiretto»), rappresentato dalla quota ideale del patrimonio sociale da queste rappresentata (da ultimo, v. Cass., 6.11.2014, 357 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza n. 23649, in Banca dati Leggi d’Italia; Id., 19.10.2012, n. 17948, in Giur. it., 2013, 1835 ss.; Trib. Milano, 4.8.2014, in Contratti, 2014, 1035 ss.; Trib. Torino, ord. 3.3.2014, in Banca dati Leggi d’Italia); tuttavia, salvo alcune anomalie che saranno esaminate nel prossimo paragrafo, tutte le sentenze che operano la distinzione sanciscono poi che soltanto l’oggetto «immediato» costituisce oggetto in senso tecnico del contratto, confermando con ciò l’indirizzo dominante. Di fatto, il sintagma «oggetto mediato», mutuato in modo improprio da una dottrina (Galgano, voce «Vendita (dir. priv.)», 485, infra, Nota bibl.; ma per il significato tipico della dicotomia, con riferimento alla compravendita in genere, v. Romano, 61, e Rubino, 75, entrambi infra, Nota bibl.), deve ritenersi entrato nel gergo dei giudici in un’accezione atecnica, strumentale a descrivere la funzione economica dell’acquisto di partecipazioni alla luce degli interessi e delle valutazioni personali del compratore. 3. Segue: le eccezioni... Al menzionato orientamento prevalente facevano eccezione, fino a quindici anni fa, solo alcune pronunce isolate. Si tratta di sentenze piuttosto risalenti, accomunate dal rilievo trasversale, contenuto in motivazione, in accordo al quale le società cc.dd. di comodo o «familiari» (i cui soci siano pochi e tutti legati da un rapporto di parentela) non sarebbero soggetti giuridici autonomi, dovendosi ritenere piuttosto che fra i loro soci si instauri un rapporto di comunione avente ad oggetto l’azienda sociale. In tal guisa, la cessione della partecipazione ad opera del socio risulterebbe soltanto apparente, un «mero strumento di smobilizzazione dei beni sociali» (App. Milano, 24.10.1933, in Riv. dir. comm., 1935, II, 122; Id., 5.7.1935, in Banca, borsa, tit. cred., 1937, II, 86; similmente, richiamando la teoretica del negozio indiretto: Cass., 4.8.1941, n. 2736, in Foro it., 1942, 197 ss., e, di recente, Trib. Brindisi, 15.12.2009, in Banca dati DeJure), configurandosi, nella sostanza, «una vendita di quota di azienda gestita in sociale» (Cass., 27.7.1933, in Riv. dir. comm., 1935, II, 121 ss.; App. Milano, 1o.5.1934, ibidem, 122 ss.). A partire dal 2000, peraltro, in seno alla giurisprudenza di merito e di legittimità si è venu358 to formando, su altre basi, un vero e proprio nuovo filone, sia pur anch’esso di gran lunga minoritario. Abbandonato ogni riferimento a società strumentali o fittizie, nel leading case di questo indirizzo si afferma che ove l’acquisto della partecipazione sia «chiaramente finalizzato», secondo «correttezza e buona fede», all’acquisizione «non di un generico “status socii”, ma della disponibilità del patrimonio sociale, allo scopo di utilizzarlo secondo la sua destinazione economica e trarne un adeguato reddito», le caratteristiche dei beni sociali debbano essere considerate parte del «contenuto essenziale» del contratto (Cass., 23.2.2000, n. 2059, in questa Rivista, 2002, I, 209 ss.). Per vero, la sentenza non dimostra, se non mediante un confuso richiamo alla buona fede, né in che modo le finalità dell’acquirente siano in grado di transitare dal piano dei motivi individuali a quello della struttura del negozio, né come il venditore possa legittimamente disporre di beni che non gli appartengono: la conclusione, pertanto, deve reputarsi apodittica. Ad ogni modo, diverse decisioni si sono in seguito conformate al medesimo principio di diritto, pur adoperando un maggior rigore metodologico nell’elaborare le relative motivazioni (Cass., 9.9.2004, n. 18181, in Mass. Giur. it., 2004; Id., 20.2.2004, n. 3370, in Foro it., 2004, I, 2142; App. Milano, 28.1.2009, in Società, 2010, 339 ss.; Trib. Bologna, 26.11.2012, in Banca dati Leggi d’Italia; Trib. Roma, 3.2.2010, ivi; Id., 12.11.2009, ivi; Trib. Milano, 25.8.2006, in Giur. it., 2007, 913). L’argomento più significativo adoperato da queste pronunce per giustificare l’asserita idoneità della vendita di partecipazioni a trasferire la titolarità del patrimonio sociale è – oltre al riferimento alla tesi scolare che qualifica quote sociali ed azioni come «beni di secondo grado» (beni, cioè, meramente rappresentativi di diritti sui beni sociali: v. Ascarelli, 240, infra, Nota bibl.; già conformi: Trib. Milano, 27.6.1988, in Società, 1988, 1164 ss.; App. Milano, 5.7.1935, in Banca, borsa, tit. cred., 1937, II, 86 ss.) – quello che fa leva sulla c.d. concezione riduzionistica (o non dogmatica) della persona giuridica. Secondo detta teoria, il concetto di persona giuridica designerebbe non già una sorta di «macroantropo», soggetto di diritto ulteriore riNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali spetto alle persone fisiche e a queste del tutto parificato sul piano dei rapporti giuridici; bensì soltanto un regime speciale di disciplina dei rapporti intercorrenti tra i suoi membri, sintetizzato in una formula ellittica (cfr. F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, 241 ss., e Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica, 533 ss., entrambi infra, Nota bibl.). Negata all’ente una propria soggettività giuridica, la quota di partecipazione sociale diverrebbe nient’altro che una misura dell’adesione del singolo ad un rapporto tra uomini governato da un peculiare regime giuridico, e titolari effettivi delle situazioni facenti capo alla società, «sia pure in una maniera specifica che vale a distinguerle dalle altre che ad essi competono come individui», sarebbero pertanto, sempre e comunque, i singoli soci (cfr., sul punto, la fondamentale Cass., 26.10.1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, 329 ss., spesso citata nelle sentenze esaminande; è scontato sottolineare che la teoria in discorso riguardi, propriamente, le sole società di capitali, in quanto provviste di personalità giuridica; tuttavia, le conclusioni cui essa addiviene possono estendersi, a fortiori, anche alle società di persone). Accolta questa premessa, si dovrebbe concludere che il venditore di partecipazioni alieni con esse anche la (con)titolarità sui beni sociali: beni che pur sempre gli appartengono, ancorché uti universus (i.e. in quanto socio e in conformità della speciale disciplina giuridica dettata in materia di società) e non già uti singulus. 4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. Ora, prescindendo da ogni valutazione circa la persuasività delle singole giustificazioni formali addotte a sostegno dell’orientamento minoritario, si deve osservare che in gran parte dei casi da ultimo ricordati la ricomprensione del patrimonio sociale nell’oggetto del contratto è stata motivata, più che da reali prese di posizione d’ordine dogmatico, da considerazioni di carattere equitativo, ossia dalla finalità di fornire all’acquirente di partecipazioni insoddisfatto una protezione più ampia di quella apprestabile conformandosi all’orientamento tradizionale. NGCC 2015 - Parte seconda Ad esempio, nella celebre Cass., 27.7.1933 (sul c.d. caso Raggio) la statuizione è funzionale ad affermare la responsabilità del venditore di un pacchetto azionario di riferimento per l’evizione di beni sociali (in particolare, sovraprofitti di guerra avocati dallo Stato in forza di una legge speciale; per una critica alla configurabilità di un fatto evizionale nel caso concreto, v. P. Greco, 133 ss., infra, Nota bibl.), non altrimenti sanzionabile a causa della contestuale assenza nel contratto di esplicite garanzie patrimoniali (cfr. Maggi, 11 ss., infra, Nota bibl.). Quanto all’indirizzo minoritario più recente, in Cass., n. 2059/2000 si trattava di tutelare il compratore delle quote di una S.n.c. (poi trasformata in S.a.s.) che gestiva un bar-tabaccheria, il quale aveva scoperto, in seguito al trasferimento, che nel patrimonio sociale non figurava alcuna licenza amministrativa per la vendita dei tabacchi. Poiché anche in tal caso il contratto di cessione non conteneva business warranties, se la Corte si fosse attenuta all’indirizzo dominante avrebbe verosimilmente dovuto negare all’acquirente l’azionabilità di qualsivoglia strumento rimediale, essendo rari e non sempre privi di ambiguità i precedenti che, in mancanza di clausole convenzionali, hanno consentito al compratore gravemente deluso sotto il profilo della consistenza del patrimonio sociale di ricorrere agli istituti del dolo determinante od incidente del venditore (oltre alla citata Trib. Milano, 25.8.2006, v. Cass., 11.7.2014, n. 16004, in Banca dati Leggi d’Italia; Id., 14.10.1991, n. 10779, in Giur. it., 1993, I, 1, c. 190 ss.; Id., 29.8.1991, n. 9227, in Riv. dir. comm., 1994, II, 379; App. Milano, 21.6.2012, in Obbl. e contr., 2012, 12, 919 ss.; Trib. Milano, 4.6.1998, in Giur. it., 1998, 2106 ss.; Trib. Catania, 30.4.1997, in Giur. comm., 1999, II, 681 ss.), della presupposizione (Cass., 3.12.1991, n. 12921, in questa Rivista, 1992, I, 784 ss.; App. Cagliari, 26.1.1996, in Riv. dir. comm., 1998, II, 65 ss.), della rescissione per lesione (Cass., 14.2.1963, n. 325, in Giust. civ., 1963, I, 743 ss.), dell’errore essenziale (Trib. Roma, 16.4.2009, in Società, 2010, 1203 ss.; confondendo errore e consegna di aliud pro alio: Cass., 28.8.1952, n. 2784, in Riv. dir. comm., 1953, II, 9 ss.) o finanche – salve le più recenti aperture – dell’aliud pro alio datum 359 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza (Cass., 10.12.1991, n. 13268, in Rep. Foro it., 1991, voce «Vendita», n. 59). Una volta ampliato l’oggetto del contratto, sì da ricomprendervi anche la «funzionalità» dell’esercizio commerciale, il S.C. ha invece avuto buon gioco nel condannare il venditore al risarcimento dei danni. Sul piano declamatorio, la Corte motiva la decisione affermando che la sussistenza dell’autorizzazione amministrativa mancante, essenziale al fine del regolare svolgimento dell’attività, avrebbe dovuto ritenersi dedotta a contenuto di una ipotetica garanzia (patrimoniale) implicita, che ritiene di poter configurare in capo al venditore in forza del principio dell’«adempimento del contratto secondo buona fede» (riferimento in sé impreciso, dato che la buona fede verrebbe qui in rilievo, semmai, in funzione integrativa o come criterio ermeneutico ex art. 1366 cod. civ.; v. comunque un cenno già in Cass., 28.3.1996, n. 2843, in Giur. comm., 1998, II, 362 ss.). Ma presa sul serio, tale asserzione non implica in realtà alcuna attività suppletiva dell’interprete nella ricostruzione del regolamento negoziale, né di questa v’è davvero bisogno: una volta qualificato il patrimonio sociale come «cosa venduta», sono le garanzie di cui agli artt. 1479 ss. cod. civ. ad operare in automatico anche con riferimento ai beni sociali (e l’eccentricità del successivo richiamo diretto all’art. 1218 cod. civ., ignorando la disciplina dell’art. 1494 e il regime prescrizionale dell’art. 1495, tende a rafforzare la sensazione che a muovere il Collegio sia stata un’istanza equitativa; v. pure, più in generale, C. D’Alessandro, Vendita di partecipazioni sociali e promessa di qualità, 1074, e le diverse osservazioni sul punto specifico di Tina, 176, entrambi infra, Nota bibl.). Coerenti con quest’ultima considerazione si sono dimostrate, del resto, le pronunce di legittimità successive conformi all’indirizzo minoritario, accordando al compratore, dalle analoghe premesse dell’identificazione tra oggetto del contratto e patrimonio sociale nonché dell’astratta configurabilità di garanzie cc.dd. implicite in capo al venditore, i rimedi tipici previsti: (i) per la mancanza di qualità (la sentenza non chiarisce se essenziali, come forse dovrebbero ritenersi, o promesse) della cosa alienata ex art. 1497 cod. civ., in un caso di vendita dell’intera quota di partecipazione ad una S.r.l. 360 che gestiva un albergo con licenza per l’attività di ristorazione, poi rivelatasi parzialmente insussistente (Cass., n. 3370/2004; ma il diritto del compratore è stato poi dichiarato prescritto); (ii) per la consegna di aliud pro alio, nell’ambito della vendita di un pacchetto azionario di riferimento di una S.p.a. la cui complessiva consistenza patrimoniale era risultata diversa da quella prospettata dal venditore e alla quale erano state irrogate, dopo il trasferimento della proprietà, ma in relazione a fatti intervenuti prima dell’acquisto, delle sanzioni tributarie di importo assai elevato (Cass., n. 18181/2004). In definitiva, la riconduzione dei beni sociali all’attribuzione traslativa del contratto di vendita di partecipazioni, conseguente al superamento dell’alterità soggettiva tra società e socio, sembra per lo più costituire un espediente volto ad ampliare le maglie di protezione del compratore quando appare ingiusto negargli ogni tutela; ossia, sovente, qualora nel contratto non siano state inserite delle clausole di garanzia patrimoniale. Quest’ultime vengono così surrogate da garanzie convenzionali che sono tali solo in quanto ricostruite dal giudice in via d’interpretazione integrativa, e che ricalcano, di fatto, le garanzie di legge. In proposito, d’altra parte, può ricordarsi che gli stessi fautori della concezione riduzionistica della persona giuridica propugnano la teoria non già come schema ricostruttivo valido tout court, bensì in funzione squisitamente strumentale alla repressione di possibili «abusi» della personalità (v. ad es. Galgano, Cessione di partecipazioni sociali e superamento dell’alterità soggettiva fra socio e società, 543, infra, Nota bibl.). 5. Natura delle garanzie patrimoniali: primi tentativi di inquadramento (App. Genova, 6.11.1964 e Cass., n. 338/1967). Le reazioni della dottrina. Se si escludono le sentenze anzidette, e gli ormai frequenti obiter dicta circa l’annullabilità del contratto in caso di falsa rappresentazione dolosa della situazione patrimoniale da parte del venditore (v. per tutte Cass., 19.7.2007, n. 16031, in Giur. comm., 2008, II, 103 ss.), la giurisprudenza dominante nega, ossequiando la concezione tradizionale della persona giuridica come soggetNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali to di diritto ed in conformità dell’assunto per cui la vendita di partecipazioni sociali trasferisce soltanto la proprietà delle quote o azioni, che in assenza di garanzie esplicite il compratore deluso dalla consistenza del patrimonio sociale possa ottenere una qualche tutela (Cass., 12.6.2008, n. 15706, in Giur. it., 2008, 2766 ss.; Id., 18.12.1999, n. 14287, in Vita notar., 2000, 347 ss.; Trib. Roma, 16.11.2011, in Banca dati Leggi d’Italia; Trib. Milano, 8.11.2011, in Società, 2012, 94 ss.; Trib. Belluno, ivi, 2010, 1153; Trib. Milano, 18.3.2006, in Corr. merito, 2006, 1133 ss.; Id., 15.2.2006, in Giur. it., 2006, 757 ss.; Id., 26.11.2001, in Società, 2002, 568 ss.; tra le più risalenti, v. Cass., 16.2.1977, n. 721, in Foro it., 1977, I, 2275 ss.; App. Milano, 13.4.1951, ivi, 1951, I, 607 ss.). Si ammette, al più, che le garanzie esplicite possano anche non essere «espressamente qualificate» come tali nel contratto, essendo sufficiente che la volontà conforme delle parti si evinca in modo «inequivocabile» dal negozio: si pensi, ad esempio, a delle clausole (non denominate «garanzie») con cui le parti ancorino l’ammontare del prezzo al valore totale dell’azienda, con impegno del venditore ad effettuare finanziamenti per ricostituire il capitale sociale qualora i debiti sociali dovessero risultare maggiori rispetto a quelli rappresentati (Cass., 13.12.2006, n. 26690, in Giur. comm., 2008, II, 948 ss.). Va dunque registrato e ribadito che, per il c.d. diritto vivente, le clausole di garanzia patrimoniale costituiscono l’unica àncora di salvezza del compratore di partecipazioni rilevanti rappresentanti una situazione patrimoniale non conforme alle aspettative. Proprio tenendo conto di questa posizione, come anticipato, da alcuni decenni i redattori dei contratti di vendita di partecipazioni sociali di «controllo» prestano grande attenzione ad inserire delle business warranties nel testo dell’accordo. Di regola, a quest’ultime pattuizioni vengono inoltre collegate delle clausole ulteriori, definite di indennizzo (indemnity clauses), che hanno la funzione di integrarle e completarle (cfr. Picone, 104, infra, Nota bibl.) disciplinando sul piano rimediale le conseguenze dell’eventuale mancata corrispondenza tra quanto garantito e la realtà materiale (ad es., preveNGCC 2015 - Parte seconda dendo in capo al venditore l’obbligo di corrispondere all’acquirente una somma di denaro pari all’ammontare di una posta attiva di bilancio rivelatasi inesistente). Va da sé che quanto più dettagliata è la formulazione della disciplina delle garanzie pattizie, tanto minore è il margine di discrezionalità che residua al giudice nella gestione di eventuali controversie o nell’opera di eterointegrazione del regolamento incompleto: per questo le indemnities risultano assai frequenti nella prassi, e per questo esse vengono pure curate molto in dettaglio, prevedendo, oltre a franchigie e massimali, sia un termine temporale entro cui il venditore rimane vincolato a garantire il compratore e questi può far valere, se del caso, l’obbligo di indennizzo (c.d. periodo di validità o durata della garanzia, da non confondere col termine di prescrizione del relativo diritto: sul punto, v. infra), sia quello, di natura decadenziale, entro il quale il compratore stesso deve denunziare al venditore la scoperta della mancata corrispondenza tra garantito e reale (c.d. reclamo) al fine di poter conseguire il pagamento (v. Speranzin, Vendita della partecipazione di «controllo» e garanzie contrattuali, 168 ss., infra, Nota bibl.; nel secondo caso, trattandosi di termine di decadenza, trova applicazione il limite legale di cui all’art. 2965 cod. civ.). Le prime pronunce ad aver definito in modo chiaro la natura delle garanzie patrimoniali, ricostruendone la disciplina applicabile, risalgono agli anni ’60 del secolo scorso. Si tratta di due decisioni, l’una d’appello e l’altra di legittimità, vertenti sulla medesima controversia (rispettivamente, App. Genova, 6.11.1964, inedita, e Cass., 10.2.1967, n. 338, in Foro it., 1967, I, 966 ss.): il venditore di un pacchetto azionario garantisce al compratore che la consistenza patrimoniale della società è conforme a quella specificamente descrittagli in apposita dichiarazione; in seguito all’esame del bilancio da parte dei nuovi amministratori sociali, il compratore rileva una situazione economica peggiore rispetto a quella rappresentata: ammortamenti di impianti e macchinari inadeguati e non conformi alla legge, attivo inferiore a quanto dichiarato, debiti superiori a quelli indicati; conviene pertanto in giudizio il venditore, chiedendone, forte della garanzia espressa, la condanna al risarcimento dei danni subiti. 361 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza Sia la Corte territoriale che il S.C. accolgono la domanda attorea, ma partendo da premesse opposte: la prima ritenendo l’autonomia funzionale e strutturale della clausola apposta al contratto rispetto all’attribuzione traslativa; il secondo assimilando la garanzia ad una promessa di specifica qualità delle azioni vendute ai sensi dell’art. 1497 cod. civ. In altre parole, secondo il giudice di merito, vendita delle partecipazioni e patto di garanzia, pur se integrati da un unico documento, sarebbero due negozi distinti, aventi ciascuno una sua «causa tipica» [traslativa da un lato; di garanzia pura dall’altro: su tale concetto, v. Corrias, 1 ss. e 7, infra, Nota bibl., che lo descrive come «assunzione volontaria da parte di un soggetto (...) del rischio di un determinato evento idoneo a cagionare una oggettiva diminuzione economica del patrimonio di un altro soggetto»], un proprio «oggetto» (partecipazioni; patrimonio sociale), una «tutela giuridica specifica» (azioni edilizie; corresponsione di un indennizzo), e l’azione del compratore avrebbe fondamento unicamente nel secondo. Per la Corte di cassazione, invece, la clausola di garanzia patrimoniale «inerisce essenzialmente al contratto di vendita, dal quale è inscindibile», e si limita ad ampliare il contenuto della tutela legale in accordo con quanto previsto dal ricordato art. 1497 cod. civ., che affianca alle qualità essenziali della cosa anche quelle, non essenziali, che le parti abbiano assunto come rilevanti «nella determinazione dell’oggetto della prestazione del venditore». Sulla prima ricostruzione, subito condivisa da autorevole dottrina (Aa.Vv., 217, infra, Nota bibl.), ci si soffermerà in seguito; sin d’ora può rilevarsi, invece, come la seconda abbia suscitato numerose perplessità tra gli interpreti già all’indomani della pubblicazione della sentenza (v. Schermi, 437 ss., infra, Nota bibl.). Ad essa si è obiettato, in particolare, che qualità promesse della «cosa venduta», cui l’art. 1497 si riferisce, non possano essere che quelle concernenti i diritti e gli obblighi collegati alla partecipazione (ad es., in caso di alienazione di pacchetto azionario, l’essere l’azione ordinaria o privilegiata: così Schermi, 456): se oggetto della vendita sono solo le quote o azioni, risulta impossibile qualificare come qualità promesse di queste le caratteri362 stiche e la consistenza del patrimonio sociale senza incorrere in una contraddizione logica (v., tra i molti, Calvo-Delogu, 170, infra, Nota bibl.). Del resto, per quanto all’autonomia privata sia consentito ampliare il contenuto della garanzia legale tramite una promessa di qualità non essenziali, è indubbio che le parti non possano dedurre a contenuto della promessa ciò che a priori e a prescindere da essa non costituisca qualità del bene: «nemmeno la espressa considerazione delle parti può rendere elemento sostanziale del titolo una circostanza che (...) non è una qualità normale e obiettiva della cosa venduta» (G. Panzarini, 291; v. anche Rubino De Ritis, 886, entrambi infra, Nota bibl.). Qualità essenziali e promesse differiscono, infatti, per il solo fatto che le prime rilevano in automatico ai fini della garanzia ex art. 1497 cod. civ., e non in ragione del differente oggetto o per una ipotetica diversità ontologica, giacché i requisiti promessi debbono pur sempre inerire, alla stessa stregua di quelli essenziali, alla res vendita, come caratteri che essa già possiede per sua natura. I rilievi dottrinali appena richiamati appaiono senz’altro corretti; si deve osservare, però, che in Cass., n. 338/1967, il Collegio cerca di giustificare l’inquadramento proposto assumendo che vera funzione delle business warranties sia non già quella di assicurare una certa consistenza del patrimonio sociale, quanto piuttosto quella di garantire un certo «modo di essere» intrinseco della partecipazione alienata: dunque, una vera e propria qualità della cosa venduta, mediante la creazione di un nesso funzionale tra questa e la situazione patrimoniale della società. Tale «modo di essere» delle partecipazioni, qualificato dalle garanzie, sarebbe costituito nel pensiero della Corte dal loro «valore reale», che, a differenza di quello nominale, si determinerebbe proprio in funzione della consistenza del patrimonio sociale che la partecipazione rappresenta. Le clausole di garanzia patrimoniale costituirebbero pertanto, accogliendo questa impostazione, assicurazioni del venditore circa il fatto che la partecipazione alienata possieda quella specifica «qualità» costituita da un certo «coefficiente economico di valore» ragguagliato alla consistenza patrimoniale della società dichiaraNGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali ta nel contratto, di per sé – ossia in assenza di esplicite pattuizioni – non essenziale. Così precisatone il fondamento argomentativo, può comunque rilevarsi che la tesi della Corte continua a non sottrarsi a censura, risultando fallace sotto molteplici profili invero già da tempo posti in luce dalla dottrina più attenta: (i) anzitutto, i formulari contrattuali non conoscono clausole di garanzia patrimoniale nelle quali si faccia menzione di promesse di «qualità» delle partecipazioni alienate, risultando invece palese dal tenore delle pattuizioni che le parti intendano riferirsi in via diretta ed esclusiva ad una determinata situazione patrimoniale della società (v. Bonelli, Giurisprudenza e dottrina, 30); (ii) la mancanza di qualità, analogamente ai vizi redibitori (art. 1490 ss. cod. civ.), è concretata da un «difetto materiale» della cosa alienata che, anche quando si tratti di qualità promesse, deve per forza attenere ad un intrinseco «attributo funzionale o strutturale del bene» (Luminoso, 265 ss., infra, Nota bibl.): ciò che mal si attaglia al rilievo per cui il valore economico di un bene è ontologicamente inidoneo a costituirne un siffatto attributo, esprimendo soltanto, in termini monetari, la misura in cui esso può essere scambiato con altri beni (v. Corrias, 308); (iii) è opinione diffusa tra gli interpreti che la disciplina legale dei vizi e della mancanza di qualità si applichi soltanto alla vendita di cose materiali, ossia di beni suscettibili di essere consegnati e ispezionati ai fini di una pronta denuncia degli eventuali difetti (cfr. Erede, 204, infra, Nota bibl., che contesta su questa base l’applicabilità dell’art. 1497 cod. civ. alle garanzie patrimoniali): se si accoglie l’insegnamento di una autorevole dottrina (Bianca, 207 ss., infra, Nota bibl.), la disciplina degli artt. 1490 ss. cod. civ. sarebbe inapplicabile, ad esempio, alla vendita di crediti, opere dell’ingegno, invenzioni industriali, contratti e, finanche, partecipazioni sociali; (iv) una volta recepito l’assunto di Cass., n. 338/ 1967, non è chiaro quale differenza residuerebbe tra business e legal warranties, dato che anche le prime finirebbero – sia pur di riflesso – con l’essere riferite alle quote o azioni, oggetto della vendita: il risultato sostanziale cui giunge questa tesi è dunque identico a quello che si ottiene reputando, in premessa, che i beni sociali formino oggetto del contratto di vendita. NGCC 2015 - Parte seconda 6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. Nonostante i condivisibili argomenti contrari elaborati dalla dottrina dominante a contrasto dell’indirizzo, la giurisprudenza successiva alle due pronunce ha in prevalenza confermato la ricostruzione delle business warranties operata dai giudici di legittimità. A titolo esemplificativo, di recente il principio di diritto è stato applicato con riferimento: (i) ad una pattuizione, contenuta in un preliminare di vendita di quote di S.r.l., in forza della quale il promittente alienante assicurava che, alla data del definitivo, nel patrimonio sociale sarebbe stato ricompreso un determinato cespite immobiliare: rilevatane l’assenza, al compratore è stata accordata l’azione redibitoria al fine di risolvere il preliminare (Cass., n. 23649/ 2014); (ii) ad una clausola, inserita in un contratto di vendita di quote di S.r.l., con cui il venditore «dichiarava e garantiva espressamente che la situazione contabile della società ceduta era quella risultante dal bilancio allegato alla scrittura privata»: scoperta la difformità tra garantito e reale, il compratore ha chiesto ed ottenuto una riduzione del prezzo (Trib. Larino, 17.1.2014, in Banca dati Leggi d’Italia; si può notare, incidentalmente, che è invero dubbia tra gli interpreti l’esperibilità dell’azione estimatoria nelle ipotesi regolate dall’art. 1497 cod. civ.: v. ad es., in senso contrario, Cass., 8.3.2013, n. 5845, in Banca dati Leggi d’Italia; ma in dottrina favorevoli, con argomentazioni diverse, Rubino, 898, e Bianca, 850, infra, Nota bibl.); (iii) ad una convenzione, contenuta in un contratto di vendita di quote di S.a.s., in forza della quale il venditore garantiva che l’esposizione debitoria della società era contenuta entro un certo ammontare, impegnandosi espressamente ad indennizzare l’acquirente in caso contrario: emersa in seguito una situazione debitoria occulta superiore a quella dichiarata, il venditore è stato condannato ad indennizzare la controparte dando attuazione a quanto promesso (Trib. Salerno, 6.3.2013, in Banca dati Leggi d’Italia; la clausola prevedeva che l’indennizzo dovesse essere corrisposto alla società, secondo lo schema, validato dal Tribunale, del contratto a favore di terzo ex art. 1411 cod. civ.). Invero, nella maggior parte delle fattispecie 363 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza esaminate la statuizione rappresenta un semplice obiter dictum, in quanto il contratto di vendita risultava sprovvisto, nel caso controverso, di clausole di garanzia patrimoniale (v., in ispecie, le numerose sentenze riportate in apertura del precedente paragrafo). In altri casi, invece, la giurisprudenza ha ritenuto di poter richiamare la disciplina delle garanzie nella vendita soltanto in via analogica (Cass., n. 26690/2006, Trib. Roma, 20.3.2012, in Banca dati Leggi d’Italia, Id., 21.5.2012, ivi, e Trib. Napoli, 11.3.2002, in Giur. it., 2003, 81 ss.); mentre, come già segnalato, nelle sentenze che assimilano cosa venduta e patrimonio sociale l’argomento, ove richiamato (Cass., n. 3370/2004, la quale però non fa chiarezza sul punto), appare privo di pregio, dato che l’applicazione delle norme in materia di garanzia ex art. 1497 cod. civ. sembra dover conseguire piuttosto, al di là degli artifici retorici adoperati, alla peculiare configurazione impressa al contenuto dell’attribuzione traslativa e alla configurabilità di garanzie (dunque, di promesse di qualità) implicite. Una variante dell’impostazione suggerita da Cass., n. 338/1967, si rinviene poi nelle pronunce, in gran parte risalenti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso (App. Milano, 5.6.1990, in Società, 1991, 483 ss.; Trib. Roma, 21.5.2012, cit.; Trib. Milano, 9.11.1992, in Giur. it., 1993, I, 677; Id., 14.9.1992, in Società, 1993, 511 ss.; Id., 27.2.1992, ibidem, 424 ss.; Id., 3.10.1991, ivi, 1992, 517 ss.; Id., 5.7.1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 396; Id., 20.4.-6.7.1989, in Bonelli, Giurisprudenza e dottrina, 74 ss.), che suggeriscono, sia pur quasi sempre in astratto (risolvono la controversia applicando in concreto il principio di diritto: Trib. Roma, 20.3.2012, ma offrendo tutela piena al compratore e svincolandosi, nei fatti, dalla declamazione; Trib. Milano, 16.4.1992, in Giur. it., 1992, I, 696 ss.), che le business warranties siano strumentali a giuridicizzare la mancata corrispondenza tra situazione patrimoniale rappresentata e reale nei termini di un vero e proprio «vizio» redibitorio della partecipazione. L’inserimento nel contratto delle clausole di garanzia patrimoniale avrebbe la funzione, cioè, di rendere operante anche rispetto al patrimonio sociale la garanzia legale per vizi (artt. 1490 ss. cod. 364 civ.), di per sé applicabile alle sole quote o azioni. Quest’ultimo paventato inquadramento, peraltro, sembra non considerare che mentre la promessa di specifica qualità amplia nel singolo caso concreto la tutela legale già offerta al compratore dall’art. 1497 cod. civ., sicché è figura almeno astrattamente idonea a qualificare delle pattuizioni convenzionali in mancanza delle quali il compratore rimane sprovvisto d’ogni tutela, la garanzia per vizi è un c.d. effetto (od elemento) naturale del negozio, perciò tertium non datur: il vizio rileva sempre in quanto ricompreso nell’area operativa della disciplina legale, o non rileva mai in quanto ad essa estraneo. Se si opinasse, in senso contrario, che le parti possono pur sempre derogare alla disciplina legale mediante apposito patto modificativo – finendo così per inquadrare le business warranties nell’alveo dei patti modificativi della garanzia legale per vizi redibitori, e creando con ciò un ulteriore iato tra forma giuridica e realtà materiale – varrebbero comunque qui, e a maggior ragione, le osservazioni già spese nel paragrafo precedente con riguardo alle qualità promesse (sulla definizione di vizio ex art. 1490 cod. civ., cfr. sempre Luminoso, 269). Ad esse si aggiungerebbe, inoltre, quella ulteriore che l’art. 1490, comma 1o, cod. civ., qualifica come vizi i difetti della cosa venduta che «ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore», sicché un parallelismo con la soluzione adottata da Cass., n. 338/1967, appare in ogni caso impraticabile. Sembra infatti ragionevole ritenere che, poiché la norma prende in considerazione la diminuzione di valore come conseguenza di un vizio, essa non possa in assoluto costituire vizio di per sé (mentre con un patto modificativo le parti potrebbero, semmai, rendere rilevanti dei difetti materiali della cosa che diminuiscano il valore in modo non apprezzabile). 7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita. Dall’inquadramento delle garanzie patrimoniali nell’alveo dell’art. 1497 (o 1490) cod. civ. scaturisce una conseguenza pratica di non poco NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali momento: l’applicazione, ai diritti da esse derivanti in favore dell’acquirente, dei ristretti termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 cod. civ. Il compratore di partecipazioni deluso avrebbe dunque l’onere di denunziare al venditore la difformità riscontrata entro otto giorni dalla scoperta (art. 1495, comma 1o) e di agire in giudizio entro l’anno dalla consegna (art. 1495, comma 3o), pena l’impossibilità di ottenere una qualche tutela in forza delle clausole. A titolo esemplificativo, nella controversia oggetto di una delle rare sentenze che aggancia le garanzie pattizie all’art. 1490 cod. civ. facendo poi concreta applicazione di tale statuizione (Trib. Milano, 16.4.1992), il compratore di quote di una S.r.l. aveva riscontrato, in seguito al trasferimento, una consistenza del magazzino diversa da quella indicata nel contratto. Nel contratto erano state inserite delle business warranties, formulate in modo sintetico; poiché tuttavia i registri di magazzino, dai quali la consistenza reale ben avrebbe potuto evincersi, erano stati consegnati all’acquirente più di otto giorni prima che egli denunziasse la difformità al venditore, il Tribunale, adito dal primo a seguito del rifiuto di indennizzarlo da parte del secondo, ha rigettato la domanda dichiarando l’attore decaduto dal diritto alla garanzia. Questa ed analoghe controversie si concludono quasi sempre, pertanto, con la vanificazione della tutela del compratore, mortificando a monte l’autonomia delle parti. Vale la pena osservare in proposito che, al fine di ottenere l’inserimento di garanzie pattizie nel contratto, questi vede di sempre incrementare il prezzo da corrispondere alla controparte (v. De Nova, 40, infra, Nota bibl.), di talché svuotare di efficacia le clausole non equivale soltanto a rendere inoperante una parte dell’accordo, ma comporta anche, in certa misura, uno stravolgimento del sinallagma. Vero è che, nel caso appena richiamato, una maggior prontezza del compratore nel denunziare al venditore la «violazione» della garanzia, sì come palesata dai registri, avrebbe potuto rovesciare l’esito del giudizio. In molti altri casi, però, l’inquadramento delle business warranties nell’ambito della garanzia per vizi o mancanza di qualità rende del tutto impossibile farle valere in giudizio, a causa di un regime NGCC 2015 - Parte seconda prescrizionale non solo ristretto, bensì pure intrinsecamente incompatibile con il peculiare contenuto che esse possono assumere in concreto. Va infatti ricordato che mentre il termine di decadenza ex art. 1495 cod. civ., è modificabile dalle parti ed è soprattutto, ad ogni modo, «mobile», cominciando a decorrere da un momento posteriore alla consegna non individuabile a priori, quello di prescrizione è inderogabile (art. 2936 cod. civ.) e «rigido», poiché il dies a quo è fissato nel giorno della consegna a prescindere da ogni valutazione circa la materiale possibilità per il compratore di rendersi edotto del vizio o della mancanza di qualità. Ne discende che, rispetto a tutta una serie di situazioni dedotte in garanzia le quali, pur originando da fatti antecedenti al trasferimento della proprietà delle quote, ben possono emergere ed essere «scoperte» solo a distanza di anni da tale momento (ad es., sopravvenienze passive, specie fiscali), il compratore rimarrebbe sempre sprovvisto di protezione, poiché privato della garanzia prima ancora di poterla azionare: ciò che appare tanto meno tollerabile in quanto le parti abbiano collegato alle warranties, come in genere accade, delle indemnities, molto puntuali nel delineare tempistiche, modalità dei reclami e periodo di validità della garanzie. Queste osservazioni conducono a ritenere che, anche qualora si reputi valido l’assunto di fondo proprio dell’orientamento prevalente in punto di qualificazione delle garanzie patrimoniali – ossia che le clausole hanno per oggetto, sia pur indiretto, la partecipazione – e se ne voglia pertanto ricercare un corrispettivo nelle norme generali del codice dedicate alla vendita, le pattuizioni rispondano, per propria natura, più alla logica della c.d. garanzia convenzionale di buon funzionamento di cui all’art. 1512 cod. civ. che a quella della garanzia redibitoria o per mancanza di qualità ex artt. 1490-1497 cod. civ. (v., sul punto, Cherti, 1035 ss., infra, Nota bibl.). Invero, garanzia di buon funzionamento e promessa di qualità ex art. 1497 cod. civ. costituiscono due ipotesi di garanzia del tutto assimilabili sotto il profilo obiettivo (cfr. la rassegna di opinioni scolari riportata da Bocchino, 189, infra, Nota bibl.), connotandosi la prima 365 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza soltanto in virtù di una maggiore specificità, giacché non tutti i beni sono suscettibili di un funzionamento e non tutte le qualità della cosa, in ogni caso, sono classificabili in termini di funzionamento (mentre è vero il contrario). Ciò posto, entrambe le garanzie sono nominate dal diritto positivo, entrambe operano di principio solo in quanto le parti lo prevedano in modo espresso e non mancano precedenti in cui la giurisprudenza è giunta a sovrapporle in toto (cfr. Cass., 20.1.1976, n. 177, in Banca dati Leggi d’Italia). È noto, inoltre, che il concetto di buon funzionamento – e, a monte, di funzionalità, che la cosa venduta si ritiene debba possedere affinché se ne possa garantire un funzionamento – venga inteso, da una significativa parte degli interpreti, in maniera assai estensiva, tanto da includere nel suo ambito applicativo, oltre alle macchine, ogni altro bene che non sia consumabile (v., ad es., Cass., 14.6.2000, n. 8126, in Mass. Giur. it., 2000; Cass., 8.10.1968, n. 3165, in Foro it., 1969, I, 662 ss.; in dottrina: Rubino, 874 ss., che vi fa rientrare i beni immobili, e Bianca, 271 ss., che vi aggiunge addirittura anche le cose consumabili). Proprio in ragione di siffatta analogia strutturale e concettuale, in dottrina si è rilevato che se si allarga la nozione di buon funzionamento fino a ricomprendervi anche la mera «idoneità a un uso ripetuto o prolungato» del bene, nella qualificazione giudiziale delle clausole contrattuali (specie se formulate in modo generico) la garanzia ex art. 1512 cod. civ. può prestarsi a soppiantare, in molti casi, la promessa di qualità, limitandone così il campo di azione (v., su questo punto, Cabella-Pisu, 239, infra, Nota bibl.; per un esempio giurisprudenziale conforme, cfr. Cass., 30.11.2012, n. 21463, in Banca dati Leggi d’Italia). I vantaggi per il compratore sono evidenti. Laddove il termine di prescrizione dei diritti derivanti dalla garanzia redibitoria o per mancanza di qualità è, come detto, «rigido», quello relativo alla garanzia di buon funzionamento è infatti «mobile» alla medesima stregua di quello decadenziale, essendo fissato bensì in soli sei mesi, ma decorrenti dalla scoperta del difetto di funzionamento; e le parti possono stabilire pattiziamente il periodo di validità della garanzia. In altri termini, concordato che il venditore sarà tenuto a rimediare al difetto qualora es366 so si palesi entro un «tempo determinato» (ad es., cinque anni) computato a partire dalla conclusione del contratto (periodo di validità), il termine di prescrizione semestrale del diritto del compratore ad ottenere il rimedio opererà all’interno di tale perimetro temporale, cominciando a decorrere solo dal momento in cui il compratore si avvedrà o potrà avvedersi del difetto. Proprio la libera fissazione della durata del vincolo, riflesso della particolarità della fattispecie e del «dinamismo» potenziale del difetto, rappresenta, secondo autorevole dottrina, la caratteristica discretiva della garanzia di buon funzionamento rispetto alla promessa di qualità (v. Luzzatto, 476 ss., infra, Nota bibl.): tanto che, come statuito a più riprese anche dalla giurisprudenza, in mancanza di una sua espressa indicazione la pattuizione rimane priva d’effetto (cfr., oltre alla citata Cass., n. 8126/2000; Cass., 29.5.1995, n. 6033, in Mass. Giur. it., 1995; Trib. Padova, 23.2.2011, in Banca dati Leggi d’Italia; un cenno anche in Cass., 30.10.2009, n. 23060, in Mass. Giur. it., 2009). Alla luce di queste considerazioni, appare difficile negare che, se di garanzie nominate aventi ad oggetto il bene venduto deve trattarsi, le business warranties si attaglino, per necessità logica ancor prima che giuridica, più al prisma della garanzia convenzionale di buon funzionamento – concetto interpretato in modo ampio dalla stessa giurisprudenza – che a quello, seppur per molti versi analogo, della promessa di qualità. Ampliando la visuale al diritto privato di matrice comunitaria, rilievi simili a quelli appena avanzati possono muoversi, del resto, con riguardo alla disciplina della c.d. garanzia convenzionale ulteriore nella vendita business-toconsumer di beni di consumo (artt. 128-133 cod. cons.; cfr. sempre Cherti, 1035 ss. e, in giurisprudenza, per un caso di garanzia convenzionale ulteriore quinquennale relativa al funzionamento di un’autovettura: Trib. Taranto, 27.1.2012, in Banca dati Leggi d’Italia), ove spiccano: (i) la mancanza di ogni riferimento a termini di prescrizione o decadenza e la menzione, per contro, di un termine di «durata» della garanzia (art. 133, comma 2o, lett. b), equipollente del «tempo determinato» di NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali cui all’art. 1512 cod. civ.; (ii) la possibilità, per il consumatore, di «continuare ad avvalersi della garanzia ed esigerne l’applicazione» anche laddove la pattuizione non risponda ai requisiti di forma e contenuto prescritti dalla disposizione (art. 133, comma 5o), ivi compresa l’indicazione «in modo chiaro e comprensibile» del suddetto termine di durata (sempre art. 133, comma 2o, lett. b). Da ultimo, ma non per importanza, può ricordarsi la disciplina contenuta Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili del 1980, che si applica ai rapporti business-to-business e il cui esame risulta pertanto di particolare interesse ai fini dell’indagine. Ai sensi dell’art. 39 della Convenzione, il diritto del compratore di far valere l’eventuale difetto di conformità della cosa venduta è soggetto ad un termine di decadenza biennale a decorrere dalla consegna (v. Cuffaro, 180, infra, Nota bibl.), entro il quale egli ha l’onere non già di agire in giudizio, bensì soltanto di denunciare il difetto (art. 39, comma 2o). La stessa disposizione introducente tale regime decadenziale precisa che il termine non si applica qualora sia «in contrasto con la durata di una garanzia contrattuale»: con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, alle parti è consentito, per implicito, di derogarvi. Riassumendo, l’analisi della disciplina dell’art. 1512 cod. civ., supportata dalla concezione estesa di buon funzionamento recepita anche dalla giurisprudenza di legittimità e da ulteriori indici normativi nazionali e sovranazionali, suggerisce che alle business warranties inserite nei contratti di vendita di partecipazioni non debba essere applicata, né in via diretta né analogica, la disciplina degli artt. 1490-1497 cod. civ., ma che piuttosto, se proprio si voglia ritenere che esse abbiano per oggetto (indiretto) un «elemento» della partecipazione, sia più coerente, nonché conforme a scopi e conseguenze avuti di mira dalle parti mediante la loro predisposizione (cfr. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, 91 ss., infra, Nota bibl.), classificarle come garanzie convenzionali in senso stretto. 8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle garanzie: pronunce di merito... Le sentenNGCC 2015 - Parte seconda ze che inquadrano le clausole di garanzia patrimoniale nell’alveo della promessa di qualità o (del patto modificativo) della garanzia per vizi redibitori, sin qui esaminate, non esauriscono però il panorama giurisprudenziale in argomento. Nell’ultimo decennio diverse sentenze di merito hanno infatti confermato a grandi linee l’opinione espressa da App. Genova, 6.11.1964, svincolando le business warranties dall’angusta disciplina dell’art. 1495 cod. civ. ed applicando, in sua vece, il termine ordinario decennale di cui all’art. 2946 cod. civ. (App. Milano, 9.7.2013, n. 2081, in Banca dati DeJure; App. Roma, 5.3.2011, in Giur. comm., 2012, II, 1008 ss.; un cenno in Trib. Milano, 3.9.2013, in Società, 2013, 1254; Id., 26.8.2011, n. 10733, ivi, 2012, 145 ss.; Id., 25.1.2007, n. 1041, in Resp. civ. e prev., 2007, 1691 ss.; in obiter, Trib. Genova, 9.10.2006, in Banca dati Leggi d’Italia). Un contributo fondamentale al progressivo affermarsi di questo orientamento minoritario è stato apportato da attente dottrine (cfr., fra tutti: Speranzin, Vendita della partecipazione, 114 ss.; Corrias, 309 ss.; v. pure Tina, 318 ss.; C. D’Alessandro, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, 197 ss.; E. Panzarini, 329, n. 167, tutti infra, Nota bibl.), le quali vi hanno fornito un persuasivo supporto dogmatico precisando che, pur non configurando veri e propri contratti strutturalmente distinti dalla vendita in ragione dell’unicità del corrispettivo, le clausole in questione integrano pattuizioni accessorie atipiche di garanzia pura (o copertura del rischio) almeno funzionalmente autonome rispetto all’attribuzione traslativa, modellate sugli schemi del contratto assicurativo (art. 1882 ss. cod. civ.) e della promessa del fatto del terzo (art. 1381 cod. civ.) ed aventi ad oggetto non già la partecipazione, bensì il patrimonio sociale. In questa sede è possibile provare ad abbozzare una sintetica ricostruzione delle pronuncia conforme che si ritiene, tra tutte, più significativa: Trib. Milano, n. 10733/2011. Nel caso deciso dal giudice milanese, l’acquirente di un pacchetto azionario di riferimento aveva lamentato, in seguito al trasferimento, il riscontro di sopravvenienze passive (oneri sostenuti per la riparazione di prodotti difettosi) 367 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza e insussistenze dell’attivo (mancato incasso di crediti) nel patrimonio della società target. Poiché il contratto di vendita conteneva garanzie patrimoniali sintetiche e dettagliate indemnities collegate, egli, richiesto invano al venditore di corrispondere l’indennizzo, aveva agito in giudizio contro quest’ultimo richiedendone la condanna al pagamento di una somma corrispondente. Nonostante le eccezioni di decadenza e prescrizione sollevate dalla controparte ex art. 1495 cod. civ., stante l’inquadramento tradizionale delle garanzie entro il modello dell’art. 1497, il Tribunale milanese accoglie qui la domanda del compratore, ritenendo tali norme inapplicabili alla fattispecie. La pronuncia si segnala in quanto: (i) sottolinea che non tutte le garanzie pattizie inserite nel contratto di vendita debbano per forza essere qualificate come promesse di qualità della cosa venduta: al contrario, una «regolamentazione completa ed esauriente delle modalità di escussione delle garanzie negozialmente pattuite», come quella contenuta nel negozio in esame, forma un complesso di disposizioni «incompatibili con la disciplina legale invocata dal convenuto», ma altresì perfettamente ammissibile «a fronte della non contestabile autonomia negoziale delle parti in materia»; (ii) recepisce la teoria dottrinale che qualifica le business warranties come clausole funzionalmente autonome di garanzia pura, accertando prima la difformità tra garantito e reale (il verificarsi dell’evento dedotto nella clausola) e poi l’inadempimento dell’obbligazione di indennizzo da questa innescata (v. Corigliano, 146 ss., infra, Nota bibl.), alla medesima stregua di ciò che accade nell’assicurazione contro i danni e nella promessa del fatto del terzo. 9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/2014. Ferme quest’ultima e le altre sentenze di merito citate, fino al luglio dello scorso anno, come già accennato, non esistevano tuttavia pronunce di legittimità che confermassero l’indirizzo minoritario conforme ad App. Genova, 6.11.1964. Per la verità, già in una decisione risalente al 2012 il S.C. aveva implicitamente recepito la ricostruzione operata ormai più di mezzo secolo fa dalla Corte ligure (Cass., n. 17948/2012); ma la singolarità della controversia decisa im368 pedisce di considerare la sentenza come senz’altro indicativa di un vero e proprio revirement. Il caso era il seguente: nel contratto di vendita di un pacchetto azionario di riferimento (S.p.a.) erano state inserite, con collegata clausola di indennizzo, tre garanzie patrimoniali, relative, rispettivamente, all’assenza di sopravvenienze passive, alla conformità alla normativa vigente di impianti ricompresi nell’azienda sociale, e alla possibilità di coprire con i ricavi annuali dei costi fissi di gestione di un impianto (garanzia c.d. reddituale); verificata in seguito una netta difformità tra realtà materiale e contenuto delle pattuizioni, l’acquirente chiedeva all’alienante il pagamento dell’indennizzo, che gli veniva prontamente corrisposto. Posto che le parti avevano già provveduto a versare l’imposta di registro sul contratto di vendita di partecipazioni, l’Agenzia delle entrate, ritenendo che il contenuto delle business warranties fosse del tutto avulso dal contratto di vendita, notificava al compratore un avviso di liquidazione, applicando l’imposta di registro, in forza dell’art. 21, comma 1o, d.p.r. 26.3.1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro: d’ora in poi, T.U. Registro), anche sulla somma liquidatagli a titolo d’indennizzo in base alle clausole di garanzia ed indemnity. La norma dell’art. 21, comma 1o, T.U. Registro, prevede, in effetti, la possibilità di tassare separatamente le singole disposizioni (in ispecie: attribuzione traslativa e garanzie patrimoniali) di un unico atto (il contratto di vendita), quando esse «non derivano necessariamente, per la loro intrinseca natura, le une dalle altre»: ciò che l’Agenzia delle entrate pertanto qui sostiene, in modo più o meno consapevole, è che le clausole di garanzia non possono essere considerate funzionalmente inerenti alla alienazione delle partecipazioni. A conclusione di un iter giudiziale che aveva dapprima visto prevalere le contrarie ragioni del privato, il quale sosteneva che le clausole non fossero scindibili dal contratto di vendita e dovessero qualificarsi come qualità promesse della cosa venduta – per inciso: posizione invero obbligata, ma altresì paradossale dato che a sostenerla è qui il compratore – con conseguente applicazione del regime di tassazione NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali unico di cui all’art. 21, comma 2o, T.U. Registro, il S.C. rigetta la tesi tradizionale che considera le garanzie patrimoniali come promesse di qualità della cosa venduta, ne valorizza l’autonomia rispetto all’attribuzione traslativa della vendita e accoglie la ricostruzione operata dall’Agenzia. Premessa l’esistenza di tale precedente, la giurisprudenza di legittimità ha infine confermato anche in modo esplicito e ben argomentato l’interpretazione propria dell’orientamento minoritario, sia pur in una pronuncia che, al momento, rimane isolata (v., infatti, la successiva e difforme Cass., n. 23649/2014). Nel caso deciso da Cass., n. 16963/2014, relativo alla vendita della partecipazione di controllo di una S.p.a., il contratto conteneva una business warranty sintetica, collegata ad un obbligo di indennizzo, per l’ipotesi in cui, successivamente al trasferimento della proprietà delle azioni, fossero emerse sopravvenienze passive (in particolare, derivanti dalla violazione di norme tributarie e contributive). Verificatesi le sopravvenienze, a seguito del rifiuto del venditore di indennizzare il compratore quest’ultimo lo conveniva in giudizio; costituitosi, il venditore eccepiva, secondo il consueto schema, la prescrizione del diritto del compratore, in ragione dell’inutile decorrenza del termine di prescrizione annuale ex art. 1495 cod. civ. In forza di una clausola compromissoria inserita nel negozio, in primo grado il giudizio si svolge dinnanzi ad un collegio arbitrale, che nega la riconducibilità della clausola di garanzia all’art. 1497 cod. civ. e concede, pertanto, tutela piena al compratore, applicando il termine prescrizionale ordinario (il contratto era stato concluso nel 2000; il lodo viene emesso nel 2005). Il lodo viene tuttavia impugnato dinnanzi alla Corte d’appello di Milano, che prima lo dichiara nullo per error in judicando e poi si conforma, nella fase rescissoria, all’indirizzo tradizionale, dichiarando prescritto il diritto del compratore all’indemnity. Il S.C., nella sentenza in esame, sancisce infine che il termine di prescrizione applicabile sia quello ordinario decennale, condannando l’alienante al pagamento dell’indennizzo. I giudici di legittimità, dando atto delle critiche avanzate dalla dottrina dominante alla posizione giurisprudenziale tradizionale circa NGCC 2015 - Parte seconda la natura delle garanzie patrimoniali, rilevano in motivazione: (i) che le clausole di garanzia patrimoniale non concernono la prestazione traslativa giacché la consistenza patrimoniale della società garantita non integra qualità promessa dei beni venduti (le partecipazioni sociali), la quale ultima può attenere soltanto «alla struttura materiale, alla funzionalità o anche alla mancanza di attributi giuridici della cosa venduta»; (ii) che se è vero che una diminuzione della consistenza patrimoniale della società è idonea ad incidere sul valore delle partecipazioni alienate, è altrettanto palese che «la corrispondenza o meno del valore del bene venduto non attiene alle qualità intrinseche (essenziali o promesse) previste dall’art. 1497 cod. civ.»: la misura del prezzo pattuito è infatti normalmente irrilevante sul piano giuridico, salvo il ricorso agli istituti della rescissione per lesione e, ove l’errore sul prezzo sia consistito in «errore sulle qualità del bene», dell’annullamento del contratto; (iii) che la previsione, nell’art. 1495 cod. civ., di termini di decadenza e prescrizione brevi, «risponde all’esigenza di assicurare la pronta contestazione di inesattezze nella prestazione del venditore, che la prolungata inerzia del compratore potrebbe far ritenere tollerate»: la norma postula pertanto, in modo palese, che si tratti di inesattezze del bene le quali, per loro natura, possano manifestarsi «in un ragionevole lasso di tempo, e delle quali il compratore si presume possa rendersi conto in tale arco temporale»; (iv) che poiché l’eventuale difformità della situazione patrimoniale della società rispetto al contenuto dalle business warranties può emergere anche a distanza di tempo dalla conclusione del contratto, se ai diritti da esse derivanti si dovesse ritenere applicabile l’art. 1495 cod. civ. le clausole medesime, «introdotte al fine di tutelare proprio la posizione del compratore, finirebbero per penalizzarlo»; (v) che le clausole di indemnity hanno ad oggetto «obbligazioni accessorie assunte dal venditore in relazione al successivo manifestarsi» dei fatti o degli eventi dedotti nelle garanzie patrimoniali, alle quali si applica il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 cod. civ. Appare evidente come la sentenza faccia propri i numerosi rilievi dottrinali in argomento che si sono segnalati nel corso della tratta369 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza zione, sicché appare superfluo dilungarsi in ulteriori commenti sul punto. Un’unica precisazione andrebbe avanzata con riguardo alla statuizione da ultimo riportata. La sentenza, infatti, mentre descrive contenuto e disciplina delle indemnities, non prende espressa posizione sul tema, logicamente sovraordinato e prodromico, della qualificazione e della struttura delle garanzie patrimoniali. A tale riguardo va chiarito e ribadito, con la miglior dottrina, che le business warranties sono prestazioni accessorie all’attribuzione traslativa integrate da clausole atipiche di copertura del rischio, sicché fino all’eventuale riscontro della «violazione», venditore e compratore sono vincolati, in forza delle pattuizioni, da un rapporto non già obbligatorio, bensì di garanzia pura, ai cui poli si situano, rispettivamente, una soggezione alla «idoneità dell’evento» in esse contemplato a dare origine ad una «obbligazione indennitaria», ed una aspettativa alla «nascita del diritto (soggettivo) a tale prestazione» (v. Corrias, 310). Ciò che già esiste, così come ciò la cui venuta ad esistenza non dipenda da un comportamento attuativo del soggetto passivo, non può, infatti, costituire oggetto di una obbligazione in senso tecnico (cfr. Mengoni, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, 387 ss., e Schlesinger, 1281, entrambi infra, Nota bibl.). Una volta riscontrata la difformità tra garantito e reale o verificatosi l’evento, invece, la soggezione si converte – allora bensì, e anche qualora non vi sia la previsione espressa di una indemnity: c.d. principio indennitario, ricavabile in via analogica dalla disciplina dell’assicurazione contro i danni (v. sempre Corrias, 267) – in obbligazione (di indennizzo) e l’aspettativa in diritto di credito (all’indennizzo), secondo il meccanismo sostanzialmente condizionale tipico della reine Garantie. 10. Considerazioni conclusive. Terminata la rassegna, è ora possibile estendere alcune brevi osservazioni conclusive circa il percorso svolto. Un primo rilievo riguarda lo stato dell’arte della giurisprudenza in punto di qualificazione delle garanzie patrimoniali. All’indirizzo interpretativo consolidato, già di per sé non del tut370 to armonico in quanto oscillante senza esitazioni tra promessa di qualità e garanzia per vizi, si contrappone ormai da qualche anno un indirizzo minoritario che pare conformarsi alle più recenti e persuasive elaborazioni dottrinali, le quali fanno leva sulla categoria concettuale della garanzia pura. Questo secondo orientamento, oltre ad essere più preciso sul piano dei dogmi, comporta di riflesso l’applicazione, ai diritti derivanti dalle garanzie, del termine prescrizionale ordinario (decennale e «mobile», poiché decorrente, in generale, a partire dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere: art. 2935 cod. civ.) in luogo di quello breve (annuale e «rigido», nel senso suesposto) previsto dall’art. 1495 cod. civ., valorizzando così opportunamente l’autonomia delle parti ed evitando di vanificare, a valle, la tutela del compratore. Un secondo rilievo concerne la coerenza della sentenza da ultimo esaminata (Cass., n. 16963/2014), che recepisce per la prima volta in sede di legittimità l’indirizzo minoritario, con l’evoluzione del pensiero pretorio: alla luce di quanto appena rilevato, la statuizione in essa contenuta, lungi dal costituire un precedente eccentrico, rappresenta il coronamento di una tendenza che, benché forse oscurata dal grado delle pronunce anteriori conformi, già avrebbe potuto registrarsi in materia nel decennio passato. Un terzo ed ultimo rilievo, invero connesso a quest’ultimo, inerisce infine alle prospettive future del diritto vivente. La ricca motivazione in diritto di Cass., n. 16963/2014, con la condivisione dei principali argomenti tradizionalmente opposti dalla dottrina dominante all’orientamento giurisprudenziale maggioritario, fa presagire, stante la considerazione di cui appena sopra, che siano ormai maturi i tempi per un – quanto mai auspicabile – progressivo abbandono dell’inquadramento tralatizio delle garanzie patrimoniali. O quantomeno, specie nell’immediato, per l’apertura di un «dibattito» interno alla giurisprudenza sul punto: a tale proposito va infatti ricordato che Cass., n. 23649/2014, di poco successiva al revirement, ha nuovamente ricondotto le business warranties nell’alveo dell’art. 1497 cod. civ. Se si tratti dell’anticamera di un vero e proprio contrasto in divenire in seno alle sezioni semplici della NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali Corte di cassazione (la pronuncia più recente è della sez. I, l’altra della sez. II), o di una mera scossa di assestamento a fronte di un così importante mutamento di rotta, lo chiariranno le future sentenze in argomento. Nota bibliografica 1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni sociali di «controllo». Per un autorevole contributo saggistico sull’evoluzione storica del pensiero giurisprudenziale e dottrinale in tema di qualificazione delle business warranties, contenente anche degli estratti di lodi arbitrali inediti in materia, cfr. Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, in Dir. comm. int., 2007, 293 ss.; già in precedenza, analogamente e allegando anche dei formulari contrattuali nazionali ed internazionali: Id., Giurisprudenza e dottrina su acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, in Bonelli-De André (a cura di), Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, Giuffrè, 1990, 5 ss. Sul significato del sintagma representations and warranties nella prassi dei formulari, v. nello stesso volume Pistorelli, Le garanzie analitiche sulle voci della situazione patrimoniale di riferimento, ivi, 155 ss.; e, in una prospettiva più tecnica e generale, Alpa-Delfino (a cura di), Il contratto nel common law inglese, 3a ed., Cedam, 2005, 86 ss. Un’elencazione esaustiva e chiara delle clausole di garanzia patrimoniale sintetiche ed analitiche è contenuta oggi in Speranzin, Le clausole relative all’oggetto «indiretto» (il patrimonio sociale); garanzie sintetiche e garanzie analitiche, in Irrera (diretto da), Le acquisizioni societarie, Zanichelli, 2011, 193 ss.; cfr. anche, fra gli altri, il recente contributo di Sangiovanni, Compravendita di partecipazione sociale e garanzie del venditore, in Notariato, 2012, 203 ss.; Iorio, Struttura e funzioni delle clausole di garanzia nella vendita di partecipazioni sociali, Giuffrè, 2006, 6 ss.; Ponti-Masetti, La vendita garantita delle partecipazioni sociali, Cedam, 1997, 285 ss.; più risalente Casella, I due sostanziali metodi di garanzia del compratore, in Bonelli-De André (a cura di), Acquisizioni di società, cit., 131 ss. NGCC 2015 - Parte seconda La particolare importanza rivestita dalle business warranties nell’ambito della vendita di partecipazioni di «controllo», rispetto a quella rivestita nella vendita di pacchetti di minoranza, è ben posta in luce da E. Panzarini, Cessione di pacchetti azionari: il contenuto delle clausole di garanzia, nel Trattato de I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, diretto da Galgano, I, Utet, 1995, 247 ss. Sulle differenze tra legal warranties e garanzie di ex artt. 1490-1497 cod. civ., e, in particolare, sull’utilità di inserire le prime nel contratto, cfr., oltre alla citata E. Panzarini-Tersilla, Le clausole di garanzia nei contratti di acquisizione, in Dir. comm. int., 2004, 101 ss.; Callegari, Le clausole sull’oggetto «diretto», in Bonelli-De André (a cura di), Le acquisizioni societarie, cit., 181 ss. Riguardo alla recente proposta di riforma volta a disciplinare in modo espresso il regime prescrizionale dei diritti derivanti dalle clausole di garanzie patrimoniale, v. un primo commento in Speranzin-Tina, Una recente proposta legislativa in tema di trasferimento di aziende e di partecipazioni sociali, in Società, 2014, 261 ss. 2. Oggetto del contratto di vendita di partecipazioni sociali: le quote o azioni e non il patrimonio. Una panoramica delle diverse questioni che gravitano attorno alla vendita di partecipazioni sociali (in società di capitali e di persone) è offerta da Fezza, La vendita di partecipazioni sociali, nel Codice della vendita, 2a ed., a cura di Buonocore-Luminoso, Giuffrè, 2005, 1470 ss.; circa la circolazione di partecipazioni azionarie, invece, si veda l’autorevole contributo di Angelici, La circolazione della partecipazione azionaria, nel Trattato Colombo-Portale, 2, I, Utet, 1991, 101 ss. Sulla distinzione tra oggetto «immediato» e «mediato» del contratto di vendita di partecipazioni sociali, è doveroso rinviare al suo ideatore: Galgano, voce «Vendita (dir. priv.)», in Enc. del dir., XLVI, Giuffrè, 1993, 484 ss.; mentre, riguardo alla distinzione con riferimento alla vendita in generale (con tutt’altra accezione), si può rinviare a Romano, Vendita, Contratto estimatorio, nel Trattato Grosso-San371 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza toro Passarelli, V, 1, Vallardi, 1960; e Rubino, La compravendita, 2a ed., nel Trattato CicuMessineo, XXXIII, Giuffrè, 1971. 3. Segue: le eccezioni... Sulle partecipazioni sociali (in particolare, azioni) come «beni di secondo grado», non può che rinviarsi al fondamentale contributo di Ascarelli, Riflessioni in tema di titoli azionari e società tra società, oggi in Saggi di diritto commerciale, Giuffrè, 1955, 219 ss. Sulla concezione riduzionistica della persona giuridica, è invece d’obbligo consultare i saggi di F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, in Studi in memoria di Ascarelli, Giuffrè, 1969, 241 ss.; e Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica, in Riv. dir. civ., 1965, I, 533 ss. 4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. Una autorevole critica alla sentenza Cass., 27.7.1933 è operata da P. Greco, Le società di comodo e la vendita delle loro azioni, in Riv. dir. comm., 1935, II, 128 ss. Sulle ragioni sostanzialmente equitative che muovono l’orientamento minoritario più risalente in tema di oggetto del contratto di vendita di partecipazioni, cfr. di recente Maggi, I rimedi e le garanzie contrattuali a tutela dell’acquirente di partecipazioni azionarie rilevanti, Jovene, 2012. In un senso analogo, ma con riferimento all’indirizzo minoritario più recente, sembra porsi C. D’Alessandro, Vendita di partecipazioni sociali e promessa di qualità, in Giust. civ., 2005, I, 1071 ss. Una interpretazione della sentenza Cass., n. 2059/2000 diversa da quella suggerita nell’elaborato è contenuta in Tina, Il contratto di acquisizione di partecipazioni societarie, Giuffrè, 2007. Circa la strumentalità della concezione riduzionistica della persona giuridica alla repressione di «abusi» della personalità, si veda Galgano, Cessione di partecipazioni sociali e superamento dell’alterità soggettiva fra socio e società, in Contr. e impr., 2004, 537 ss. 5. Natura delle garanzie patrimoniali: primi tentativi di inquadramento (App. Genova, 6.11.1964 e Cass., n. 338/1967). Le reazioni della dottrina. Sulle clausole di 372 indemnity e sulla loro funzione collegata alle garanzie convenzionali, v. Picone, Contratti di acquisto di partecipazioni azionarie, Pirola, 1995; più di recente, Martinetti, Le «garanzie» delle garanzie e le clausole indennitarie, in Le acquisizioni societarie, cit., 238 ss. Un’analisi esaustiva dei termini convenzionalmente stabiliti per l’attuazione delle garanzie, mediante raffronto con gli istituti della prescrizione e della decadenza, è contenuta in Speranzin, Vendita della partecipazione di «controllo» e garanzie contrattuali, 2a ed., Giuffrè, 2006. Sul concetto di garanzia pura, cfr. oggi l’ampia e meticolosa ricostruzione offerta da Corrias, Garanzia pura e contratti di rischio, Giuffrè, 2006; su quello, originariamente contrapposto, di «supergaranzia», v. la celebre monografia di Gorla, La compravendita e la permuta, nel Trattato Vassalli, VII, 1, Utet, 1937, in particolare 89 ss. Quanto alla pronta condivisione in dottrina della qualificazione delle business warranties operata da App. Genova, 6.11.1964, si possono menzionare: Aa.Vv., Società per azioni, in Casi e materiali di diritto commerciale, I, Giuffrè, 1974; e Montalenti, La compravendita di partecipazioni azionarie, in Scritti in onore di Rodolfo Sacco, II, Giuffrè, 1994, 765 ss., e in particolare 787, il quale precisa che vendita e garanzie sono contratti collegati. Quanto alle numerose critiche dottrinali all’orientamento giurisprudenziale tradizionale, che inquadra le clausole nell’alveo dell’art. 1497 cod. civ., si vedano fra gli altri: Schermi, Considerazioni sulla natura e sulla vendita dei titoli di credito astratti, dei titoli rappresentativi e dei titoli azionari, in Giust. civ., 1967, I, 437 ss.; Calvo-Delogu, La vendita, II, a cura di M. Bin, Cedam, 1994; G. Panzarini, La tutela dell’acquirente nella vendita dei titoli di credito, in Riv. dir. comm., 1959, I, 252 ss.; Rubino De Ritis, Trasferimento di pacchetti azionari di controllo: clausole contrattuali e limiti all’autonomia privata, in Giur. comm., 1997, I, 879 ss.; Bonelli, Giurisprudenza e dottrina, cit.; Corrias, Garanzia pura, cit.; Erede, Durata delle garanzie e conseguenze della loro violazione, in Bonelli-De André (a cura di), Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento, cit., 199 ss. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Vendita di partecipazioni sociali Sul concetto di qualità promesse, v. per tutti Luminoso, La compravendita, Giappichelli, 2011; Fadda, La mancanza di qualità, nel Codice della vendita, 2a ed., cit., 592 ss., che tratta poi anche dell’aliud pro alio (605 ss.) Una autorevole presa di posizione circa l’inestensibilità alla vendita di beni immateriale delle garanzie legali previste ex artt. 1490 ss. cod. civ. è contenuta in Bianca, La vendita e la permuta, 2a ed., nel Trattato Vassalli, VII, 1, Utet, 1993. 6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. Sull’esperibilità dell’azione estimatoria in caso di mancanza di qualità della cosa venduta, v. Rubino, La compravendita, cit.; e Bianca, La vendita e la permuta, cit. Per un’analisi completa ed efficace delle posizioni dottrinali in materia di qualificazione della garanzia legale per vizi redibitori nella vendita, cfr. sempre Luminoso, La compravendita, cit.; e, sui vizi dei titoli di credito, P. Greco-Cottino, Della vendita, nel Commentario ScialojaBranca, Zanichelli-Foro it., 1981, 2a ed., sub art. 1490, 246 ss.; Mirabelli, Dei singoli contratti (artt. 1470-1765 c.c.), nel Commentario al codice civile, IV, 3, sub artt. 1490-1497, Utet, 1991, 90 ss. 7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita. Considerazioni illuminanti circa il rapporto fra estensione delle representations and warranties e prezzo della vendita (e non solo) sono contenute in De Nova, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Giappichelli, 2011. Per una recente indagine sulla compatibilità tra la disciplina delle garanzie convenzionali nominate e le business warranties, cfr. Cherti, Cessione di pacchetti azionari e garanzie convenzionali, in Contratti, 2013, 11, 1035 ss. Con particolare riguardo alla garanzia di buon funzionamento, recente e chiara è l’opera di Bocchino, La vendita di cose mobili, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 2004, 2a ed., sub art. 1512; per una interpretazione estensiva del concetto di buon funzionamento, cfr. Rubino, La compravendita, cit.; e Bianca, La vendita e la permuta, cit.; pone in riNGCC 2015 - Parte seconda salto l’affinità con la promessa di qualità e la possibilità di estendere l’ambito applicativo dell’art. 1512 cod. civ. a scapito dell’art. 1497 cod. civ., Cabella-Pisu, Garanzia e responsabilità nelle vendite commerciali, Giuffrè, 1983; interessanti rilievi dogmatici, compreso quello di centralità della previsione della durata ai fini dell’efficacia della garanzia sono contenuti in Luzzatto, La compravendita, ed. postuma, a cura di Persico, Utet, 1961. Sulla previsione dell’art. 39 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili del 1980, cfr. il commento di Cuffaro, nel Commentario alla Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, coordinato da Bianca, Cedam, 1992, sub art. 39. Sui rapporti tra argomentazione pratica e argomentazione dogmatica nel ragionamento giuridico, e in particolare sulla c.d. folgenorientierte Argumentation, rimane attuale il raffinato contributo di Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, oggi in Ermeneutica e dogmatica giuridica, Giuffrè, 1996, 91 ss. 8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle garanzie: pronunce di merito... Tra i contributi dottrinali che hanno fornito un persuasivo supporto dogmatico all’orientamento minoritario in punto di qualificazione delle garanzie patrimoniali, meritano di essere ricordati: Speranzin, Vendita della partecipazione, cit.; Corrias, Garanzia pura, cit.; Tina, Il contratto, cit.; D’Alessandro, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, Giuffrè, 2003; E. Panzarini, Cessione di pacchetti azionari, cit. Per un breve ma mirato commento alla sentenza Trib. Milano, n. 10733/2011, v. Corigliano, Dichiarazioni e garanzie: un nuovo capitolo di una storia infinita?, in Società, 2012, 145 ss. 9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/2014. Sulla distinzione tra obbligazione e garanzia, è d’obbligo il rinvio alle autorevoli pagine di Mengoni, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, oggi in Scritti di Luigi Mengoni, II, a cura di Castronovo-Al373 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. Rassegne di giurisprudenza banese-Nicolussi, Giuffrè, 2011, 385 ss.; e Schlesinger, Riflessioni sulla prestazione dovuta nel rapporto obbligatorio, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1959, I, 1273 ss., riprese oggi da Corrias, Garanzia pura, cit. Per due primi commenti alla sentenza Cass., n. 16963/2014, cfr. Dalla Massara, La Cassazione su cessione di partecipazioni sociali e prescrizione dell’indennizzo pattuito in caso di sopravvenienze: per una nuova impostazione della 374 questione in termini di obbligazione pecuniaria sottoposta a condizione sospensiva, in www.dirittocivilecontemporaneo.com, 2014, 10 s.; Iorio, Vendita di partecipazioni sociali: garanzie contrattuali e termine di prescrizione, in Giur. it., 2014, 1406 ss. 10. Considerazioni conclusive. Sul punto non si segnalano contributi specifici. NGCC 2015 - Parte seconda Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. ABILITAZIONE FORENSE? Lex go! Prepara ESERCITA AGGIORNA SUPERA Scopri e scegli subito i tuoi allenamenti formativi Prepara, Esercita, Aggiorna, Supera: quattro training per abbinare la teoria con le esercitazioni sulle prove d’esame, per confrontarti con gli esperti, RGTCIIKQTPCTVKGCRRTQHQPFKTGVCPVKVGOKURGEKƒEK Inoltre, grazie ai servizi online puoi allenarti dove vuoi: a casa, in studio QKPOQDKNKVȃ shop.wki.it/esameavvocato2015 QRTGUUQNŨCIGP\KCNKDTGTKCFKƒFWEKC facebook.com/praticantidiritto Y34EQBN 190x270 . La tua palestra formativa NO V ITÀ Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. COMMENTARIO BREVE AL CODICE CIVILE L’opera commenta, con sapiente sintesi degli autori, gli articoli del Codice Civile e delle disposizioni attuative, dando conto delle relative discipline speciali, alla luce delle numerose novellazioni intervenute su tutti i Libri del Codice (non meno da ultimo il d.l. 21 marzo 2014 n.34 in tema di contratti a termine e apprendistato e la sentenza della Corte Costituzionale del 9 aprile 2014 in tema di fecondazione eterologa). Contatta un agente di zona www.shop.wki.it/agenzie Rivolgiti alle migliori librerie professionali Contattaci 02.82476.794 [email protected] Y66EL LE Acquista su www.shop.wki.it Prezzo copertina: 298 euro Codice prodotto: 146251 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. DIREZIONE e REDAZIONE hanno sede presso: Dipartimento di Diritto Comparato, Palazzo del Bo’, via VIII Febbraio 2, 35122 PADOVA, Tel. 049.8278912 (P. Zatti); 049.8273475 (A. Fusaro); 049.8278919 (M. Piccinni); 049.8278918 (M. Cinque). Fax e segreteria 049.655644 La corrispondenza per la Rivista va indirizzata ad Arianna Fusaro, Dipartimento di Diritto Comparato, Palazzo del Bo’, via VIII Febbraio 2, 35122 PADOVA L’indirizzo di posta elettronica è il seguente: [email protected] ABBONAMENTO per il 2015: ITALIA € 225,00 - ESTERO € 289,00 Offerta triennale 2015-2017: ITALIA € 573,00 - ESTERO € 737,00 Condizioni generali di abbonamento L’abbonamento decorre dal 1° gennaio e scade il 31 dicembre successivo. In ipotesi il cliente sottoscriva l’abbonamento nel corso dell’anno la scadenza è comunque stabilita al 31 dicembre del medesimo anno: in tal caso l’abbonato sarà tenuto al pagamento dell’intera annata ed avrà diritto di ricevere gli arretrati editi nell’anno prima dell’inizio dell’abbonamento. Il prezzo dell’abbonamento carta comprende la consultazione digitale della rivista nelle versioni online su http://www.edicolaprofessionale.com/NGCC, tablet (iOS e Android) e smartphone (Android) scaricando l’App Edicola professionale. L’abbonamento si intenderà tacitamente rinnovato per l’anno successivo in assenza di disdetta da comunicarsi almeno 30 giorni prima della scadenza del 31 dicembre esclusivamente a mezzo lettera raccomandata a.r. I fascicoli non pervenuti all’abbonato devono essere reclamati entro e non oltre un mese dal ricevimento del fascicolo successivo. Decorso tale termine saranno spediti contro rimessa dell’importo. Il pagamento potrà essere effettuato tramite gli incaricati della Casa Editrice sottoscrivendo l’apposita ricevuta intestata a WKI Srl - Cedam oppure con un versamento intestato a WKI Srl - Cedam - Viale dell’Industria, 60 - 35129 Padova - utilizzando le seguenti modalità: – Conto corrente postale 205351; Cassa di Risparmio del Veneto - Agenzia Padova via Valeri, CIN C, ABI 06225, – CAB 12163, c/c 047084250184, IBAN IT 30 C 06225 12163 047084250184; – Carta di credito Visa, Master Card, Carta Si, American Card, American Express, Diners Club, – Egregio abbonato, ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs. 30.6.2003 n. 196, La informiamo che i Suoi dati personali sono registrati su database elettronici di proprietà di Wolters Kluwer Italia S.r.l., con sede legale in Strada 1-Palazzo F6, 20090 Assago (MI), titolare del trattamento e sono trattati Assago da quest’ultima tramite propri incaricati. amministrative e Wolters Kluwer Italia S.r.l. utilizzerà i dati che La riguardano per contabili. I Suoi recapiti postali e il Suo indirizzo di posta elettronica saranno utilizzabili, ai sensi dell’art. 130, comma 4, del D.Lgs. n. 196/03, anche a di vendita diretta di prodotti o servizi analoghi a quelli oggetto della presente vendita. Lei potrà in ogni momento esercitare i diritti di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 196/03, fra cui il diritto di accedere ai Suoi dati e ottenerne l’aggiornamento o la cancellazione per violazione di legge, di di invio di materiale pubblicitario, vendita diretta e opporsi al trattamento dei Suoi dati ai comunicazioni commerciali e di richiedere l’elenco aggiornato dei responsabili del trattamento, mediante comunicazione scritta da inviarsi a: Wolters Kluwer Italia S.r.l. – PRIVACY - Centro Strada 1-Palazzo F6, 20090 Assago (MI), o inviando un Fax al numero: Direzionale 02.82476.403. i SERVIZIO CLIENTI CEDAM Informazioni commerciali: WHOHPDLOLQIRFRPPHUFLDOL#FHGDPFRP Informazioni amministrative: tel. 049.8239111HPDLOLQIR#FHGDPFRP www.cedam.com www.praticantidiritto.it 20090 Assago (MI) Autorizzazione del Tribunale di Padova del 12 dicembre 1984 n. 860 Direttore responsabile: Paolo Zatti Stampa: GECA s.r.l. - Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI) #%#'$" ('& % 00187605 ISBN 978-88-13-35374-2 Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. $ 29,00