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Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
ISSN 1593-7305
N. 6 GIUGNO‡$QQR;;;,
RIVISTA MENSILE
de Le Nuove Leggi Civili Commentate
LA NUOVA
GIURISPRUDENZA
CIVILE
COMMENTATA
a cura di
Guido Alpa e Paolo Zatti
La Rivista contribuisce a sostenere la ricerca giusprivatistica
nell’Università di Padova
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
In questo numero segnaliamo:
parte prima
Diritto di visita dei nonni
(Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/10)
Adempimento parziale e rinuncia alla solidarietà
a favore di un condebitore
(Cass., n. 1453/2015)
Attività professionale in forma societaria
e prescrizione presuntiva
(Cass., n. 1184/2015)
parte seconda
Appalto: le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ.
Sindacato sui termini dello scambio nei contratti di consumo
Danno non patrimoniale della persona giuridica
“Degiurisdizionalizzazione” e controversie agrarie
www.edicolaprofessionale.com/NGCC
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LA NUOVA
GIURISPRUDENZA
CIVILE
COMMENTATA
ANNO XXXI
2015
RIVISTA MENSILE
de Le Nuove Leggi Civili Commentate
a cura di
Guido Alpa e Paolo Zatti
Comitato Editoriale
G. Alpa, G. Iudica, S. Patti, E. Quadri, P. Zatti,
F. Addis, G. Amadio, A. Barba, G. Conte, S. Delle Monache, A. Federico,
G. Ferrando, An. Fusaro, E. Lucchini Guastalla, F. Macario, M. Mantovani,
M.R. Maugeri, E. Navarretta, M. Orlandi, F. Padovini, G. Ponzanelli,
R. Pucella, C. Scognamiglio, P. Sirena
Redazione
Responsabili
Ar. Fusaro
M. Cinque M. Piccinni
B. Checchini, G. Cinà, M. Farneti, A. Pasqualetto
U. Roma, F. Viglione
Redazione giudiziaria
V. Durante L.A. Scarano
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Comitato Scientifico per la valutazione
G. Ajani, F. Anelli, A. Antonucci, T. Auletta, P. Auteri, M. Basile, A. Bellelli,
A. Belvedere, G.A. Benacchio, F. Bianchi D’urso, G. Bonilini, U. Breccia,
C. Campiglio, F. Capriglione, V. Carbone, P. Cendon, C. Cester, A. Checchini,
S. Chiarloni, G. Collura, V. Colussi, L.P. Comoglio, M. Confortini, G. D’Amico,
A. D’Angelo, M. De Acutis, M. De Cristofaro, M.V. De Giorgi, R. De Luca Tamajo,
A.M. De Vita, E. del Prato, M. Fortino, M. Franzoni, G. Furgiuele, A. Gambaro,
A. Gentili, F. Giardina, A. Giussani, A. Gorassini, C. Granelli, B. Grasso,
M. Graziadei, C.A. Graziani, A. Guarneri, L. Lenti, F.P. Luiso, A. Luminoso,
M. Maggiolo, G. Marasà, M.R. Marella, A. Masi, C.M. Mazzoni, O. Mazzotta,
E. Merlin, P.G. Monateri, E. Moscati, A. Natucci, M. Nuzzo, R. Pane, M. Paradiso,
R. Pardolesi, R. Pescara, A. Plaia, D. Poletti, P. Pollice, V. Roppo, F. Ruscello,
L. Salvaneschi, C. Salvi, G. Sbisà, M. Sesta, P. Stanzione, M. Tamponi, M. Taruffo,
C. Tenella Sillani, R. Tommasini, M. Trimarchi, S. Troiano, D. Valentino,
G. Vettori, R. Weigmann, A. Zaccaria, V. Zeno-Zencovich
Norme di autodisciplina
1. La valutazione dei contributi inviati alla NGCC per pubblicazione, sia su iniziativa degli autori,
sia in quanto richiesti dal Comitato editoriale, è affidata a due membri del Comitato per la valutazione scientifica scelti per rotazione all’interno di liste per area tematica formate in base alle indicazioni di settore fatte da ciascun componente del Comitato e disposte in ordine casuale.
2. Il contributo è avviato ai valutatori senza notizia dell’identità dell’autore.
3. L’identità dei valutatori è coperta da anonimato. In ciascun fascicolo della Rivista è pubblicato in
ordine alfabetico l’elenco dei valutatori che hanno collaborato alla revisione del fascicolo.
4. In caso di pareri contrastanti la Direzione assume la responsabilità della decisione.
5. Ove dalle valutazioni emerga un giudizio positivo condizionato a revisione o modifica del contributo, la Direzione promuove la pubblicazione solo a seguito dell’adeguamento del saggio assumendosi la responsabilità della verifica.
I contributi del presente fascicolo sono stati valutati da:
M. Basile, A. Bellelli, U. Breccia, F. Capriglione, P. Cendon, C. Cester,
L.P. Comoglio, A. Giussani, F.P. Luiso, M.R. Marella, P.G. Monateri,
M. Paradiso, G. Sbisà, R. Weigmann
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INDICE-SOMMARIO DEL FASCICOLO 6o (giugno 2015)
LEGENDA: Il simbolo [,] a fianco del titolo segnala che il commento/saggio è stato oggetto di referee secondo quanto indicato alla pagina precedente.
Parte prima - Sentenze commentate
Cass. civ., III sez., 12.12.2014, n. 26157 [Cassazione civile-Errores in procedendo-Onere di allegazione della parte ricorrente/Impugnazioni civili in genere-Errore di fatto-Ricorso per Cassazione] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag. 511
Commento di F. Ferrari, L’errore di fatto tra cassazione e revocazione e il pregiudizio derivante dal
vizio in procedendo [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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513
Cass. civ., sez. trib., ord. 9.1.2015, n. 174 [Cassazione civile-Precedente giudiziale-Interpretazione di norme processuali] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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501
Commento di G. Molinaro, Mutamento di giurisprudenza e tutela dell’affidamento: alla ricerca di
una soluzione coerente [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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505
Cass. civ., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590 [Danni civili-Danni non patrimoniali-Risarcimento/Lavoro (rapporto)-Imprenditore-Integrità fisica del prestatore di lavoro] . . . . . .
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519
Commento di F. Malzani, Tutela del lavoratore e personalizzazione del danno: oltre le tabelle?
[,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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526
Cass. civ., III sez., 27.1.2015, n. 1453 [Obbligazioni in genere-Obbligazioni solidali nel
debito-Accettazione di un pagamento parziale da un condebitore] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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531
Commento di S. Balbusso, Sulla rinuncia alla solidarietà a favore di un condebitore in caso di
adempimento parziale [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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535
Trib. Messina, 11.11.2014 [Personalità (diritti della)-Diritto all’identità sessuale-Identità di genere] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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543
Commento di A. Vesto, Favorire l’emersione dell’identità sessuale per tutelare la dignità umana
nella sua unicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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547
Trib. Genova, ord. 5.11.2014, [Sentenza, ordinanza e decreto-Sentenza costitutivaAccertamento costitutivo dell’effetto risolutorio contrattuale] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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551
Commento di F. Bossi, La provvisoria esecutività delle pronunce costitutive di mero accertamento:
un obiettivo o un mito da sfatare? [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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552
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571
Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 [Separazione dei coniugi-FiliazioneAffidamento] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Commento di G. Spelta, Il lungo percorso per l’affermazione del diritto di visita dei nonni [,] . .
Cass. civ., II sez., 22.1.2015, n. 1184 [Società-Società tra professionisti-Esercizio di attività professionale «protetta» e «non protetta»] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Commento di C. Macrì, Esercizio in forma societaria di attività professionale e prescrizione presuntiva [,] . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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I
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Parte seconda
– Saggi e Aggiornamenti
La tutela civile degli anziani alla luce dell’art. 25 della carta di Nizza [,]
di E. Bacciardi
Sommario: 1. Premessa: la «terza età» nell’età dei diritti. – 2. La condizione giuridica
degli anziani nel dibattito dottrinale. – 3. L’art. 25 della Carta di Nizza. – 4. La tutela
degli anziani in ambito patrimoniale... – 5. Segue: e nella sfera dei rapporti personali.
– 6. Le esigenze abitative ed assistenziali nell’età senile. – 7. L’anziano e il risarcimento del danno. – 8. Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag. 293
«Degiurisdizionalizzazione» e controversie agrarie
di M. Tamponi
Sommario: 1. Il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito con modificazioni in l. 10.11.2014, n.
162. – 2. Trasferibilità alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria. – 3. Ricorribilità alla negoziazione assistita. – 4. Credito nascente da
rapporto agrario e negoziazione assistita. – 5. Rilievi conclusivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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317
Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ.
di G. Iudica
Sommario: 1. Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ. – 2. Il diritto potestativo del committente di controllo e verifica. – 3. Il diritto potestativo del committente di risolvere
il contratto. – 4. Limiti al potere del committente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il sindacato sui termini dello scambio nei contratti di consumo: nuovi scenari [,]
di M. Dellacasa
Sommario: 1. L’esclusione dell’equilibrio economico dello scambio dal sindacato giudiziale: struttura e funzione del limite. – 2. Il limite nella giurisprudenza della Corte
di Giustizia: controllo procedimentale (nel diritto comunitario) vs. controllo sostanziale (eventualmente, nel diritto interno). – 3. La portata del limite: le clausole esenti
dal controllo giudiziale. – 4. La trasparenza «presa sul serio»: chiarezza della clausola
e comprensibilità delle sue implicazioni economiche. – 5. Le conseguenze del difetto
di chiarezza e comprensibilità. – 6. Come evitare un paradosso: l’integrazione legislativa della clausola essenziale ritenuta abusiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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324
– Rassegne di giurisprudenza
Danno non patrimoniale e persona giuridica privata [,]
di S. Nobile de Santis
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Danno non patrimoniale e persona giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. – 3. La vexata quaestio del danno non patrimoniale subito
da società commerciali. – 4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio.
– 5. Le pronunce delle sezioni unite del 2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno
non patrimoniale. – 6. Segue: danno non patrimoniale da reato. – 7. Segue: danno
non patrimoniale in ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattaII
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mento dei dati personali. – 8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del
processo. – 9. Segue: danno non patrimoniale per lesione di un diritto inviolabile ai
sensi dell’art. 2 Cost. – 10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
pag. 339
Vendita di partecipazioni sociali di «controllo» e garanzie patrimoniali:
rassegna critica [,]
di G. Buset
Sommario: 1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni
sociali di «controllo». – 2. Oggetto del contratto di vendita di partecipazioni sociali:
le quote o azioni e non il patrimonio. – 3. Segue: le eccezioni... – 4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. – 5. Natura delle garanzie patrimoniali: primi tentativi di inquadramento (App. Genova, 6.11.1946 e Cass.,
n. 338/1967). Le reazioni della dottrina. – 6. Tesi prevalente nella giurisprudenza
successiva. – 7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita. – 8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle garanzie: pronunce
di merito... – 9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/
2014. – 10. Considerazioni conclusive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI
Cassazione civile - Errores in procedendo - Onere di allegazione della parte ricorrente Contenuto (Cass. civ., III sez., 12.12.2014, n. 26157) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Cassazione civile - Precedente giudiziale - Interpretazione di norme processuali - Mutamento di orientamenti costanti della Corte di Cassazione - Principio dell’affidamento - Applicabilità - Condizioni (Cass. civ., sez. trib., ord. 9.1.2015, n. 174) . . . .
pag. 511
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501
Danni civili - Danni non patrimoniali - Risarcimento - Personalizzazione del danno Criteri (Cass. civ., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Impugnazioni civili in genere - Errore di fatto - Ricorso per Cassazione - Esclusione Revocazione (giudizio di) - Sussistenza (Cass. civ., III sez., 12.12.2014, n. 26157) . .
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Obbligazioni in genere - Obbligazioni solidali nel debito - Accettazione di un pagamento parziale da un condebitore - Rilascio di quietanza senza riserva per il residuo - Rinuncia alla solidarietà - Sussistenza - Remissione del debito - Esclusione (Cass. civ.,
III sez., 27.1.2015, n. 1453) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Personalità (diritti della) - Diritto all’identità sessuale - Identità di genere - Rettificazione di attribuzione di sesso - Trattamento medico-chirurgico - Necessità - Esclusione
(Trib. Messina, 11.11.2014) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Lavoro (rapporto) - Imprenditore - Integrità fisica del prestatore di lavoro - Obbligo di
sicurezza - Fondamento (Cass. civ., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590) . . . . . . . . . . . . . . .
Lavoro (rapporto) - Imprenditore - Obbligo di sicurezza ex art. 2087 - Natura ed estensione (Id.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza civile di primo grado - Principio generale della provvisoria esecutività ex art. 282 cod. proc. civ. - Eccezioni giurisprudenziali reNGCC 2015
III
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lative alle sentenze costitutive e dichiarative - Interpretazione restrittiva (Trib. Genova, ord. 5.11.2014) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza costitutiva - Accertamento costitutivo dell’effetto risolutorio contrattuale - Capo accessorio di condanna alla restituzione della caparra - Rapporto di mera dipendenza dall’effetto costitutivo - Provvisoria esecutività
- Sussistenza (Id.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Separazione dei coniugi - Filiazione - Affidamento - Diritto di visita degli ascendenti Art. 8 Conv. eur. dir. uomo - Ambito di applicazione (Corte eur. dir. uomo,
20.1.2015, ric. 107/2010) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Società - Società tra professionisti - Esercizio di attività professionale «protetta» e «non
protetta» - Prescrizione presuntiva - Applicabilità - Questione di massima di particolare importanza - Rimessione degli atti al primo Presidente (Cass. civ., II sez.,
22.1.2015, n. 1184) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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INDICE CRONOLOGICO
Corte eur. dir. uomo
20.1.2015, ric. 107/2010 . . . . . . . . . . pag. 558
Tribunali
Corte di Cassazione
12.12.2014, n. 26157 - sez. III . . . . .
17.12.2014, n. 26590 - sez. lav. . . . .
9. 1.2015, n. 174 - sez. trib. . . . .
22. 1.2015, n. 1184 - sez. II . . . . . . .
27. 1.2015, n. 1453 - sez. III . . . . . .
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Genova, 5.11.2014 (ord.) . . . . . . .
Messina, 11.11.2014 . . . . . . . . . . . . .
INDICE PER AUTORI (Parte prima)
S. Balbusso
– Commento a Cass., 27.1.2015, n. 1453 – Sulla rinuncia alla solidarietà a favore di un
condebitore in caso di adempimento parziale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
F. Bossi
– Commento a Trib. Genova, 5.11.2014 – La provvisoria esecutività delle pronunce
costitutive di mero accertamento: un obiettivo o un mito da sfatare? . . . . . . . . . . . . . . . . .
F. Ferrari
– Commento a Cass., 12.12.2014, n. 26157 – L’errore di fatto tra cassazione e revocazione e il pregiudizio derivante dal vizio in procedendo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
C. Macrì
– Commento a Cass., 22.1.2015, n. 1184 – Esercizio in forma societaria di attività professionale e prescrizione presuntiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
F. Malzani
– Commento a Cass., 17.12.2014, n. 26590 – Tutela del lavoratore e personalizzazione
del danno: oltre le tabelle? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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G. Molinaro
– Commento a Cass., 9.1.2015, n. 174 – Mutamento di giurisprudenza e tutela dell’affidamento: alla ricerca di una soluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
G. Spelta
– Commento a Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010 – Il lungo percorso
per l’affermazione del diritto di visita dei nonni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A. Vesto
– Commento a Trib. Messina, 11.11.2014 – Favorire l’emersione dell’identità sessuale
per tutelare la dignità umana nella sua unicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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V
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174
c CASS. CIV., sez. trib., ord. 9.1.2015, n. 174
Conferma Comm. trib. reg. Lazio, 14.3.2013, n. 194
Cassazione civile - Precedente giudiziale - Interpretazione di norme processuali - Mutamento di orientamenti costanti della Corte di Cassazione
- Principio dell’affidamento - Applicabilità - Condizioni
I precedenti della Corte di Cassazione sulla necessità di tutelare la parte che si è
conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, hanno riguardato
esclusivamente gli effetti processuali di un
mutamento giurisprudenziale e non quelli
di natura sostanziale, introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Pertanto, affinché
si possa parlare di prospective overruling,
devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia
di mutamento della giurisprudenza su di
una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione
del carattere lungamente consolidato nel
tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè,
da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del
diritto di azione o di difesa della parte.
(massima non ufficiale)
[Massima ufficiale: L’orientamento
espresso dalle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione nell’interpretazione delle norme
giuridiche mira ad una tendenziale stabilità
e valenza generale, sul presupposto, tuttavia, di una efficacia non cogente ma solo
persuasiva trattandosi di attività consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, sicché non può mai costituire
limite all’attività esegetica di un altro giudice. Ne consegue che un mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non
soggiace al principio di irretroattività, non è
assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal giudice di
merito, il quale può applicare l’indirizzo
NGCC 2015 - Parte prima
Cassazione civile
giurisprudenziale che ritiene idoneo a definire in modo corretto la controversia, senza
essere tenuto a motivare le ragioni che lo
hanno indotto a seguire lo stesso.]
dal testo:
Il fatto. M.E. ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, contro la
sentenza resa dalla comm. trib. reg. Lazio n.
194/14/13, depositata il 14.3.2013. La comm.
trib. reg. ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza resa
dal giudice di primo grado, il quale aveva accolto il ricorso proposto dalla contribuente
contro l’avviso di liquidazione emesso sul presupposto della decadenza dell’agevolazione
per acquisto prima casa relativa all’atto di vendita stipulato dalla suddetta per non avere acquistato entro l’anno un nuovo immobile da
adibire ad abitazione principale.
Secondo la comm. trib. reg. aveva errato il
primo giudice nel ritenere tardivo l’esercizio
della potestà impositiva, dovendosi applicare
la proroga biennale del termine di tre anni previsto in tema di imposta di registro dal d.p.r. n.
131 del 1986, art. 76, in forza della l. n. 289 del
2001, art. 11, comma 1, per come aveva chiarito la giurisprudenza di questa Corte superando
i dubbi interpretativi sorti all’atto dell’entrata
in vigore della disposizione di cui al d.l. n. 282
del 2002, art. 5 bis, conv. nella l. n. 27 del 2003.
L’Agenzia delle entrate non ha depositato difese scritte.
I motivi. Con l’unico complesso motivo proposto la contribuente prospetta il vizio di
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio e la
lesione del principio del legittimo affidamento
sulle posizioni giurisprudenziali, in relazione al
canone della certezza del diritto. Secondo la ricorrente la decisione impugnata si era fondata
su alcuni precedenti giurisprudenziali che avevano mutato le regole consolidate in tema di
termini decadenziali previsti in ordine al recupero delle agevolazioni prima casa dal d.p.r. n.
131 del 1986, art. 76, sulle quali la contribuente medesima aveva fatto legittimo affidamento.
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174
Ciò contrastava con il principio di certezza
del diritto, poiché anche a volere ritenere che
nel sistema non opera il principio dello stare
decisis, non poteva dubitarsi come la decisione contrastante con il precedente orientamento era tenuta ad esporre le motivazioni del
suo ragionevole distacco dall’indirizzo precedente.
Il giudice solo con grande cautela avrebbe
potuto discostarsi dal precedente orientamento e solo in presenza di un errore interpretativo
della norma, ovvero quando il precedente aveva perso di attualità. Caratteristiche non riscontrabili nella vicenda controversa. Proprio
in ossequio al rispetto della tutela dell’affidamento questa Corte a Sezioni Unite – sent. n.
15144/2011 – prosegue la ricorrente, aveva
escluso la retroattività dei mutamenti giurisprudenziali idonei a determinare effetti preclusivi del diritto di azione e di difesa. Nel caso
di specie l’impossibilità di applicare la l. n. 289
del 2002, art. 11, comma 1, nasceva dall’esistenza di una giurisprudenza di questa Corte
che aveva escluso tale possibilità. Pertanto, la
comm. trib. reg., senza fornire alcuna valida
motivazione, si era discostata dai principi
espressi da numerose decisioni – Cass. n. 1628/
2003, Cass. n. 26180/2010, Cass. n. 12416/
2010; Cass. n. 28880/2008. Da qui la necessità,
sollecitata dalla ricorrente, di chiarire che il
mutamento giurisprudenziale sul quale si era
fondata la comm. trib. reg. non poteva spiegare
effetto che per il futuro.
Orbene, la censura, che sostanzialmente la
parte ricorrente prospetta, pur anche sotto il
paradigma dell’omessa e insufficiente motivazione, riguarda la lesione dei principi in tema
di affidamento e di certezza del diritto, è infondata.
Giova premettere che la posizione espressa
dalla comm. trib. reg. a proposito della prorogabilità del termine triennale previsto dal d.p.r.
n. 131 del 1986, art. 76, alle agevolazioni tributarie relative alla medesima imposta si inscrive
nel principio, più volte affermato da questa
Corte, secondo il quale “La proroga di due anni dei termini per la rettifica e la liquidazione
della maggiore imposta di registro, ipotecaria,
catastale, sulle successioni e donazioni e sull’incremento di valore degli immobili, prevista
dalla l. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 11, com502
Cassazione civile
ma 1, in caso di mancata presentazione o inefficacia dell’istanza di condono quanto ai valori
dichiarati o agli incrementi di valore assoggettabili a procedimento di valutazione, è applicabile anche all’ipotesi di cui al comma 1 bis, riguardante la definizione delle violazioni relative all’applicazione di agevolazioni tributarie
sulle medesime imposte, in quanto, nell’uno e
nell’altro caso, l’Ufficio è chiamato a valutare
l’efficacia dell’istanza di definizione cosicché,
trattandosi delle medesime imposte, sarebbe
incongrua l’interpretazione che riconoscesse
solo nella prima ipotesi la proroga dei termini
per la rettifica e la liquidazione del dovuto”
(Cass. n. 12069/2010).
Di tale decisione la ricorrente si duole non
tanto rispetto al merito della questione, quanto
piuttosto per il fatto che tale indirizzo non poteva alla stessa applicarsi in forza del rispetto
dei canoni di affidamento e di certezza del diritto. Ciò perché (a suo dire) esisteva un pregresso indirizzo giurisprudenziale di diverso
tenore sul quale la stessa aveva fatto pieno affidamento.
Orbene, il tema che viene qui sollecitato presuppone l’analisi di due differenti questioni,
peraltro fra loro intimamente connesse.
Per l’un verso, infatti, viene in discussione la
possibilità stessa del giudice di applicare un
orientamento giurisprudenziale – proveniente
dalla Corte di Cassazione – innovativo rispetto
a quello eventualmente sorto all’epoca in cui la
fattispecie concreta ebbe a verificarsi. Secondo
la ricorrente ciò sarebbe possibile solo in limitatissimi casi – errore interpretativo, inattualità
dell’indirizzo giurisprudenziale. Per l’altro verso, si prospetta l’impossibilità assoluta di applicare il mutamento di giurisprudenza successivamente formatosi proprio in forza dei principi
di certezza e di affidamento che renderebbero,
eventualmente, possibile l’applicazione di tale
indirizzo innovativo solo per il futuro.
Entrambe le prospettazioni della ricorrente
non sono persuasive e meritano di essere disattese, nei termini in cui le stesse sono state avanzate.
Quanto alla prima, occorre muovere dalla
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti
dell’uomo – la quale – Corte dir. uomo 18 dicembre 2008, Unedic c. Francia, (rie. n.
20153/04) – ha escluso che il revirement di un
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174
orientamento giurisprudenziale adottato da un
giudice di ultima istanza – in quel caso le Sezioni riunite della Corte di Cassazione francese
(sez. Lavoro) – può vulnerare il principio della
certezza del diritto anche se è destinato ad incidere retroattivamente sulle posizioni giuridiche soggettive – cfr. p. 74: “la Cour considère
cependant que les exigences de la sécurité juridique et de protection de la confiance légitime des
justiciables ne consacrent pas de droit acquis à
une jurisprudence constante”.
La Corte Europea ha escluso la violazione
dell’art. 6 Conv. eur. dir. uomo, ritenendo che
il principio della certezza del diritto non impone il divieto per la giurisprudenza di modificare i propri indirizzi e di seguire un indirizzo costante, tutte le volte in cui siano rispettate le
generali prerogative garantite dal principio del
giusto processo come tutelato dall’art. 6 – accesso alla giustizia, carattere equo del processo
e principio della certezza del diritto rapportata
all’epoca in cui è dovuto intervenire l’autorità
giudiziaria.
In questa direzione, peraltro, questa Corte è
ferma nel ritenere che “...l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta da un Giudice, in quanto consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non possa
mai costituire limite alla attività esegetica esercitata da un altro Giudice, dovendosi richiamare al proposito il distinto modo in cui opera il
vincolo determinato dalla efficacia oggettiva
del giudicato ex art. 2909 cod. civ., rispetto a
quello imposto, in altri ordinamenti giuridici,
dal principio dello ‘stare decisis’ (cioè del ‘precedente giurisprudenziale vincolante’) che non
trova riconoscimento nell’attuale ordinamento
processuale” – cfr. Cass. n. 23723/2013; conf.
Cass. n. 24438/2013; Cass. n. 24339/13; Cass.
n. 23722/13. Non mancano certo i moniti, provenienti dalla stessa Corte di Strasburgo – Corte eur. dir. uomo sent. 6 dicembre 2007, Beian
c. Romania; Corte eur. dir. Uomo, 2 luglio
2009, Iordan Iordanov c. Bulgaria, Corte dir.
uomo. 24 giugno 2009, Tudor Tudor e Romania – in ordine al fatto che, a fronte dell’assoluta fisiologia connessa alla diversità di orientamenti giurisprudenziali fra le corti di merito e
quella di legittimità, non è tollerabile che vi siano marcate diversità di vedute all’interno dell’organo che ha il compito di dare uniformità
NGCC 2015 - Parte prima
Cassazione civile
alla giurisprudenza. Sul punto, Corte dir. Uomo, 20 ottobre 2011, Nejdet, Sahin e Perihan,
Sahin e Turchia, ha infatti sottolineato la necessità di uno sviluppo giurisprudenziale improntato alla salvaguardia del canone della certezza del diritto – cfr. pp. 55 ss. sent. cit. “... In
this regard, the Court has reiterated on many occasions the importance of setting mechanisms in
place to ensure consistency in court practice and
uniformity of the courts’ case-law (see Schwarzkopf and Taussik, cited above). It has likewise
declared that it is the States’ responsibility to organise their legal systems in such a way as to
avoid the adoption of discordant judgments (...).
Its assessment of the circumstances brought before it for examination has also always been
based on the principle of legal certainty which is
implicit in all the Articles of the Convention and
constitutes one of the fundamental aspects of the
rule of law”.
Ma tali principi non hanno mai messo in discussione la possibilità di un dinamico affinamento della giurisprudenza, affermandosi nel
precedente da ultimo menzionato (p. 58) che
“... the requirements of legal certainty and the
protection of the legitimate confidence of the
public do not confer an acquired right to consistency of case – law...”, così proprio richiamando il caso Unedic c. Francia cit. Si è poi aggiunto, nel medesimo contesto, che “...Caselaw development is not, in itself, contrary to the
proper administration of justice since a failure to
maintain a dynamic and evolutive approach
would risk hindering reform or improvement
(see Atanasovski V. ‘The Former Yugoslav Republic Of Macedonia’, no. 36815/03, p. 38, 14
January 2010)”.
Si tratta di una posizione che trova speculare
risalto nella giurisprudenza di questa Corte, a
sezioni Unite - Cass. S.U. n. 13620/2012; conf.
Cass. n. 7355/2003; Cass. n. 23351/13 – allorché si afferma che “...benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa tuttavia
costituisce un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente all’ordinamento, in
base alla quale non ci si può discostare da una
interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione nomofilattica, senza delle forti ed apprezzabili ragioni
giustificative...”, pure aggiungendosi che l’in503
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174
troduzione dell’art. 380 bis cod. proc. civ.
“...ha accentuato maggiormente l’esigenza di
non cambiare l’interpretazione della legge in
difetto di apprezzabili fattori di novità (Cass.
S.U. 5.5.2011 n. 9847), in una prospettiva di limitazione dell’accesso al giudizio di legittimità
coerente con l’esercizio della funzione nomofilattica”.
Sulla medesima lunghezza d’onda si muove
la Corte costituzionale – sent. n. 230/12 – secondo la quale l’orientamento espresso dalla
decisione delle Sezioni unite della Corte di
Cassazione “aspira indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito: ma si tratta di
connotati solo tendenziali, in quanto basati su
una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente persuasivo. Con la conseguenza che, a
differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova
decisione dell’organo della nomofilachia resta
potenzialmente suscettibile di essere disattesa
in qualunque tempo e da qualunque giudice
della Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni
unite possono trovarsi a dover rivedere le loro
posizioni, anche su impulso delle sezioni singole, come in più occasioni è in fatto accaduto”.
Le indicazioni che sembrano emergere dall’indirizzo appena espresso lasciano, dunque,
intatta la possibilità del giudice di merito della
controversia di applicare l’indirizzo giurisprudenziale reso in sede di nomofilachia che si ritiene idoneo a definire in modo corretto la
controversia, senza che detto giudice sia tenuto
a motivare le ragioni che lo hanno indotto a seguire detto indirizzo.
E nella stessa direzione questa stessa Corte,
con un risalente indirizzo, ancora di recente
confermato, non dubita del fatto che un mutamento di indirizzo verificatosi nella giurisprudenza di legittimità, in ordine ai principi già affermati dalla stessa Suprema Corte in precedenti decisioni, non è assimilabile allo ius superveniens, onde non soggiace al principio di
irretroattività, fissato, per la legge in generale
dall’art. 11 preleggi, comma 1, e, per le leggi
penali in particolare, dall’art. 25 Cost., comma
2. cfr. Cass. n. 565/2007; Cass. n. 8820/2007;
Cass. n. 6225/14.
Il discorso non sembra potere mutare sotto il
profilo della tutela dell’affidamento – al quale
504
Cassazione civile
fa specifico riferimento la parte ricorrente –
considerando i principi espressi da Cass. S.U.
n. 15144/2011 che, sulla scia di taluni precedenti – Cass. n. 14627/2010 e Cass. n. 15811/
2010 – e seguita da Cass. S.U. n. 24413/11 (su
cui v. Cass., ord. n. 959/2013), ha intravisto nel
mutamento, ad opera della stessa Corte di cassazione, di un’interpretazione consolidata a
proposito delle norme regolatrici del processo
(dunque, imprevedibile e idonea a precludere
il diritto di azione prima ammesso), la necessità
di tutelare la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, proprio
in forza del principio costituzionale del “giusto
processo”, la cui portata risente dell’“effetto
espansivo” dell’art. 6 CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Ora, è sufficiente evidenziare che i precedenti da ultimo ricordati hanno riguardato,
esclusivamente, gli effetti processuali di un
mutamento giurisprudenziale e non quelli di
natura sostanziale che qui vengono semmai in
discussione – in termini v. Cass. a 13087/12 –
introducendo, dunque, un principio innovatore a tutela dell’affidamento delle parti nella stabilità delle regole del processo. Ragion per cui,
in dottrina, si è opportunamente ritenuto che
si può profilare una netta distinzione tra mutamenti di orientamenti costanti di giurisprudenza della Corte di cassazione riguardanti l’interpretazione di norme sostanziali e mutamenti
che concernono norme processuali, dovendosi
per i primi confermare il carattere in via di
principio retrospettivo dell’efficacia del precedente giudiziario. In questa direzione si è
espressa, del resto, Cass. S.U. n. 13676/14, affermando che “...affinché si possa parlare di
prospective overruling, devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta
in materia di mutamento della giurisprudenza
su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del
pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la
parte a un ragionevole affidamento su di esso;
che il suddetto overruling comporti un effetto
preclusivo del diritto di azione o di difesa della
parte (Cass. nn. 28967 del 2011,6801 e 13087
del 2012, 5962 e 20172 del 2013)”.
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento
Orbene, è certo nel giusto la parte ricorrente
laddove, nella sostanza, sottolinea come il sistema rimane in equilibrio se il giudice offre all’interno del suo prodotto un’analisi argomentativa capace di supportare in maniera adeguata l’iter decisionale adottato.
In questa direzione, del resto, la già ricordata Corte cost. n. 230/12 non mancò di ricordare che il giudice di cognizione può “...disattendere – sia pure sulla base di adeguata motivazione – la soluzione adottata dall’organo della
nomofilachia (provocando eventualmente, con
ciò, un nuovo mutamento di giurisprudenza)”.
E tuttavia, la critiche che in punto di motivazione hanno riguardato la decisione impugnata
sono manifestamente infondate, se solo si consideri che: a) il giudice di merito non si è discostato dall’indirizzo espresso dalla Corte di legittimità; b) i precedenti di legittimità richiamati dalla ricorrente a sostegno dell’asserito
contrasto all’interno della giurisprudenza di
questa Corte – pag. 13 ricorso – non riguardano, a ben considerare, il tema della proroga
biennale del termine di decadenza venuto in
essere per effetto dell’entrata in vigore della L.
n. 289 del 2002, art. 11, ma, semmai, la decorrenza iniziale di detto termine.
In definitiva, la decisione impugnata ha
espresso in modo appropriato e completo le
ragioni della decisione, evocando un principio
giurisprudenziale – reso da questa Corte sulla
base dell’interpretazione di una norma positiva
– che ha ritenuto di fare proprio senza mostrare alcuna delle lacune invece prospettate dalla
ricorrente. Il ricorso va rigettato. Nulla sulle
spese.
[Iacobellis Presidente – Conti Estensore. – M.E.
(avv. Mari) – Agenzia delle entrate (avv. dello Stato)]
Nota di commento: «Mutamento di giurisprudenza e tutela dell’affidamento: alla ricerca di
una soluzione coerente» [,]
I. Il caso
Un contribuente lamenta che un asserito mutamento della giurisprudenza di legittimità, che avreb[,] Contributo pubblicato in base a referee.
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Cassazione civile
be recentemente reso applicabile la proroga di un
termine decadenziale per l’esercizio della potestà
impositiva, ha consentito all’Agenzia delle entrate di
richiedergli il pagamento di una somma a titolo di
imposta di registro. Ciò le sarebbe stato precluso secondo la più vecchia interpretazione. Il contribuente impugna, quindi, l’avviso di liquidazione, facendo
valere l’affidamento riposto in un precedente indirizzo giurisprudenziale, che aveva ritenuto applicabile alla fattispecie un termine più breve. La comm.
trib. prov., in primo grado, accoglie le doglianze del
contribuente, mentre la comm. trib. reg., in appello,
le rigetta in applicazione della giurisprudenza più
recente. La Supr. Corte conferma la decisione di secondo grado, in quanto conforme ai più recenti indirizzi della Corte stessa, aggiungendo, inoltre, che
il mutamento giurisprudenziale, in realtà, ha riguardato un aspetto diverso da quello segnalato dal ricorrente (ovverosia la decorrenza iniziale del termine di decadenza per far valere la pretesa fiscale, non
già la sua proroga).
Tali statuizioni, espresse in poche righe, sono, invece, precedute da una dettagliata premessa sul tema della tutela dell’affidamento della parte su un
precedente indirizzo giurisprudenziale, mutato dopo il verificarsi dei fatti dedotti in giudizio. Dopo tale ragionata esposizione, la Corte ritiene inapplicabili i principi statuiti dalle sez. un. nel 2001 in materia di mutamento di giurisprudenza (forse impropriamente etichettato con il lemma inglese overruling). Secondo il Collegio, l’affidamento della
parte è tutelabile mediante la dichiarazione
di non retroattività del nuovo indirizzo giurisprudenziale soltanto quando quest’ultimo
riguardi una norma processuale, abbia carattere repentino e determini una preclusione
nell’esercizio del diritto di azione o difesa
della parte. Nel caso di specie, tali requisiti non
sussistono, in quanto la disposizione in questione ha
carattere sostanziale, riguardando una decadenza
dell’amministrazione finanziaria dall’esercizio di
una potestà impositiva, oggetto di un contrasto di
giurisprudenza poi composto in senso sfavorevole al
contribuente.
II. La questione
La decisione in esame si colloca nel solco, di particolare rilevanza in questi ultimi anni, di quell’indirizzo che sta formando, nel nostro Paese, ciò che si
può definire una giurisprudenza al quadrato: sempre più decisioni, soprattutto della Supr. Corte, affrontano la natura e gli effetti della pronuncia del
giudice e in particolare, la tutela dell’affidamento
della parte in caso di mutamento di un indirizzo giurisprudenziale consolidato, giungendo a risultati che
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento
presentano delle gravi contraddizioni interne. La
colpa di ciò, come si dirà, non può, però, essere fatta
ricadere soltanto sulla giurisprudenza: l’ordinamento italiano è, infatti, in buona parte privo di un’elaborazione dogmatica della teoria del precedente
giudiziale che possa dirsi completa e adeguata ai nostri tempi. Non si pretende, in una breve nota, di
contribuire all’opera della sua costruzione, ma soltanto di segnalare le aporie dell’esistente tentando
di indicarne almeno le cause principali.
È un fatto risaputo che il tema del precedente
giudiziario, il quale sembrava essere governato da
norme tanto antiche quanto immutabili, sia stato riscoperto negli ultimi anni a seguito delle due celebri
e criticate sentenze delle sez. un., che hanno rispettivamente riguardato il rilievo ufficioso del difetto di
giurisdizione nei gradi d’impugnazione, o meglio la
sua preclusione (Cass., sez. un., 9.10.2008, n. 24883,
infra, sez. III) e soprattutto la dimidiazione del termine di costituzione dell’opponente un decreto ingiuntivo (Cass., sez. un., 9.9.2010, n. 19246, infra,
sez. III). Lo sviluppo di quest’ultima vicenda giurisprudenziale (divenuta, poi, anche legislativa) è talmente noto da non aver bisogno che di un rapido
cenno: interpretando il testo allora vigente dell’art.
645, comma 2o, cod. proc. civ., nel senso che esso
contenesse un termine perentorio di costituzione
dell’opponente pari a cinque giorni, un numero assai elevato di opposizioni pendenti sarebbe stato destinato alla ghigliottina dell’improcedibilità, nonostante la più assoluta buona fede e diligenza del difensore, che si era comportato in conformità a un indirizzo giurisprudenziale di lunghissimo corso.
Altrettanto conosciuta è stata la durissima reazione della dottrina, che ha visto nascere dal nulla una
gravissima (e, per molti, non condivisa) preclusione
idonea a compromettere seriamente i diritti del debitore opponente un decreto ingiuntivo. Ci si è, così, resi conto che il nostro ordinamento versa in una
situazione inidonea a essere governata dai principi
tralatizi per cui, essendo il giudice la bocca della legge, l’interpretazione da questi adottata non può che
risalire alla data di entrata in vigore di quella: era talmente summa l’iniuria, che si è unanimemente percepita l’esigenza di rivisitare l’interpretazione dello
ius.
L’anno successivo alla sentenza sul decreto ingiuntivo, le sez. un. sono, così, nuovamente intervenute, con pronuncia altrettanto celebre (Cass., sez.
un., 11.7.2011, n. 15144, infra, sez. III), per affrontare il difficile problema che consiste nel conciliare
la tutela dell’affidamento della parte nell’interpretazione consolidata di una norma processuale con gli
effetti pacificamente retroattivi del mutamento di
giurisprudenza. Tale pronuncia può, almeno fino a
oggi, essere definita quale leading case del S.C. sul
506
Cassazione civile
punto. In estrema sintesi, essa prende le mosse dall’interpretazione che la dottrina prevalente, anche se
non unanime (Gorla, voce «Precedente giudiziale», 4; Id., Postilla, 133, entrambi infra, sez. IV), dà
dell’art. 101, comma 2o, Cost., con riferimento al
precedente giudiziale: nessuno, eccetto la legge, può
interferire con la libertà interpretativa del giudice,
sicché egli è libero di non seguire quella proposta da
altri magistrati. Il mutamento di giurisprudenza si
giustifica, peraltro, vuoi in forza di un’evoluzione
del contesto giuridico e sociale, vuoi perché si ammetta che la precedente esegesi era sbagliata. Tuttavia, si riconosce che, nel campo processuale, un mutamento repentino è in grado di introdurre delle decadenze ex post, cioè a rendere successivamente
inefficace un atto processuale che, quando fu compiuto, era pienamente rispettoso dei canoni normativi allora vigenti. Il massimo dell’attrito tra esigenze
giuridiche apparentemente inconciliabili si coglie
quando la Corte passa all’individuazione di una soluzione al dilemma. I giudici, infatti, arrivano a scrivere che «ciò che non è consentito alla legge non possa similmente essere consentito alla giurisprudenza. I
cui mutamenti (...) debbono, al pari delle leggi retroattive, a loro volta rispettare il principio di ragionevolezza, non potendo frustrare l’affidamento ingenerato come, nel cittadino, dalla legge previgente, così,
nella parte, da un pregresso indirizzo ermeneutico, in
assenza di indici di prevedibilità della correlativa modificazione». La soluzione è, quindi, dichiarare inapplicabile il mutamento di giurisprudenza su norme
processuali preclusive a casi precedenti il momento
della sua conoscibilità.
La Supr. Corte, nel trattare apertis verbis la modificazione di un indirizzo giurisprudenziale allo stesso modo dell’emendamento di una disposizione di
legge, sia pur limitatamente al campo del diritto
processuale e ai casi di mutamento repentino, impiega il lemma inglese «overruling». Ciò nonostante
si continui ad affermare con forza che, in Italia, il
precedente giudiziale non ha alcuna efficacia vincolante: ciò che è stato ribadito ancora, di recente, dalle stesse sez. un. civili (Cass., sez. un., ord.
6.11.2014, n. 23675, infra, sez. III). Di conseguenza,
il giurista italiano dovrebbe scandalizzarsi di fronte
all’impiego di un termine (e dell’istituto che esso definisce) che di per sé presuppone l’efficacia vincolante della giurisprudenza, così come accade in altri
sistemi giuridici. Senonché, proprio da un’attenta
analisi di quest’ultima decisione, emerge che ciò che
dovrebbe destare l’attenzione dello studioso del diritto italiano è, piuttosto, un vistoso avvicinamento
della Cassazione italiana alla concezione del precedente nei sistemi di common law. Nel prosieguo dell’ordinanza n. 23675/2014 da ultimo citata, infatti, i
giudici scrivono che «un overruling delle sezioni uniNGCC 2015 - Parte prima
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te in materia processuale può pertanto essere giustificato solo quando l’interpretazione fornita dal precedente in materia risulti manifestamente arbitraria e
pretestuosa e/o comunque dia luogo (eventualmente
anche a seguito di mutamenti intervenuti nella legislazione o nella società) a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti”». In sostanza, dalla lettura del
provvedimento sembra emergere che lo stesso S.C.
si senta vincolato ai propri precedenti, anche se erronei, purché non si tratti di interpretazioni arbitrarie della legge (contra legem, o, come direbbero gli
inglesi, precedenti emessi per incuriam, cioè ignorando una disposizione di legge a essi contraria), ovvero non urtino contro il valore costituzionale della
ragionevolezza che, com’è noto, deriva direttamente
dal principio di uguaglianza. In una frase, si potrebbe dire che la regola, in materia processuale, è ... stare decisis et quieta non movere, salvo che il precedente in questione sia stato emesso per incuriam o
sia riconosciuto incostituzionale (nella stessa nozione di «ingiustizia» non può che notarsi un riferimento ai principi del giusto processo, anch’essi di
natura costituzionale). Ciò, almeno, per quanto riguarda il comportamento della Supr. Corte.
D’altro canto, un fenomeno giurisprudenziale di
avvicinamento del precedente alla legge si ritrova
anche in altre recenti decisioni della Cassazione su
fattispecie di cui è indubbia l’appartenenza al campo del diritto sostanziale. Si prenda, per esempio,
una decisione del 2013 in materia di responsabilità
dell’avvocato, in cui la Corte ha riscontrato la negligenza del professionista che, in presenza di un contrasto giurisprudenziale circa la durata di un termine prescrizionale, non abbia agito entro il termine
più breve e poi sia risultato soccombente in seguito
alla risoluzione del contrasto nel senso più restrittivo. Orbene, la Corte, richiamato un proprio precedente, reso «in un caso che presenta stretta analogia
con quello attualmente all’esame», cassa la sentenza
di merito che vi si era discostata, aggiungendo che
proprio a causa del contrasto giurisprudenziale,
l’avvocato avrebbe dovuto adoperare la massima
prudenza possibile, interrompendo la prescrizione
nel termine più breve, a pena del riconoscimento
della sua «colpa grave». Aggiunge poi la Corte, in un
significativo obiter dictum, che la decisione sarebbe
stata diversa (cioè assolutoria nei confronti del professionista) «nella ben diversa ipotesi di overruling,
ovverosia di mutamento giurisprudenziale, nell’interpretazione di una norma o di un sistema di norme,
inatteso o comunque privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi (...), e sino a quando esso
possa ancora reputarsi tale, in ragione dell’onere di
costante informazione del difensore sulla giurisprudenza» (Cass., 5.8.2013, n. 18162, infra, sez. III). A
questo punto, vi sono due possibilità. La prima è riNGCC 2015 - Parte prima
Cassazione civile
tenere che il precedente non abbia efficacia che per
il singolo caso e l’avvocato abbia il dovere di seguire
la via che, secondo una corretta e motivata interpretazione della legge, gli pare giusta, indicandola altresì al giudice, il quale deve discostarsi dal precedente
eventualmente errato. Allora, questa decisione dev’essere ritenuta assurda, perché impone all’avvocato di seguire una norma giuridica che non è tale, a
pena di responsabilità per colpa grave. La seconda è
riconoscere che il precedente giudiziale ha un valore
giuridico, non solo di mero fatto, il quale, anche se
indubbiamente subordinato a quello della legge,
consente di imporre agli operatori del diritto di conformarvisi. Ciò giustificherebbe non solo la ratio decidendi, ma pure l’obiter dictum: così come non si
può imporre all’avvocato di prevedere che (in ipotesi) il Parlamento approverà una legge retroattiva,
non si può nemmeno attribuirgli il dovere di prevedere un repentino mutamento di giurisprudenza
con effetti retroattivi. Il suo obbligo professionale,
infatti, si limita alla conoscenza (aggiornata e ragionata) del diritto vigente, non di quello futuro.
Un indice ancor più significativo (o allarmante,
sotto altro punto di vista) dell’atteggiamento della
Supr. Corte si riscontra in un’altra nota decisione
del 2011, la quale ha escluso la tutelabilità dell’affidamento in un precedente orientamento, poi oggetto di repentino mutamento (ancora una volta, denominato «overruling»), mediante rimessione in termini, dal momento che la sentenza delle sez. un. recante il nuovo indirizzo era stata pubblicata nel «Servizio novità» del sito Internet della Corte prima del
compimento dell’atto processuale inammissibile secondo il nuovo orientamento (Cass., 7.2.2011, n.
3030, infra, sez. III). In questo caso, la Corte va addirittura alla ricerca del momento in cui la propria
giurisprudenza può dirsi legalmente nota a tutti gli
operatori giuridici, con conseguente impossibilità di
invocare a propria tutela un precedente orientamento, proprio come se si trattasse di una norma legislativa.
Ne risulta una posizione gravemente contraddittoria da parte della Supr. Corte, la quale, da un lato,
afferma in principio che il precedente giudiziale non
ha carattere vincolante, in forza del principio di indipendenza della magistratura, ma poi si comporta
come se la regola fosse quella esattamente opposta,
avvicinando la giurisprudenza alla legge quasi come
nessun autore italiano avrebbe osato fare fino a pochi anni or sono. Non solo. La giurisprudenza italiana ha preso a prestito istituti tipici del diritto inglese
e americano, quali l’overruling e il prospective overruling. Entrambi presuppongono, però, che si segua
la doctrine of binding precedent, in assenza della quale non ha senso discorrere di overruling. In estrema
e approssimativa sintesi, quest’ultimo si può definire
507
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento
quale eccezione alla regola dello stare decisis (et
quieta non movere), in base alla quale le Corti supreme si sono autoattribuite il potere eccezionale di discostarsi dai propri precedenti, producendo per essi
un effetto simile a ciò che noi chiameremmo annullamento, con efficacia retroattiva, salvi i diritti quesiti. Si noti che sia la doctrine of binding precedent,
sia il potere di overruling non trovano fondamento
in una norma espressa di legge, che imponga ai giudici di attenervisi, ma in una scelta di questi ultimi,
fortemente radicata in quelle tradizioni giuridiche,
di seguire i precedenti in quanto, da molto tempo,
essi sono ritenuti parte del diritto oggettivo. Il prospective overruling, poi, costituisce la massima
espressione del potere dei giudici statunitensi (e in
qualche raro caso, inglesi) di creare diritto: esso si
sostanzia in un obiter dictum, con il quale la corte in
questione avverte che, per tutti i casi decisi successivamente, il precedente fino ad allora in vigore sarà
superato, giacché esso non è più ritenuto adeguato
ai tempi, ma non si vuole ledere l’affidamento riposto dai consociati nella norma giurisprudenziale fino
a quel momento vigente. Si tratta, quindi, di un potere rilevantissimo, alla base del quale non può non
esservi il disconoscimento della teoria per cui il giudice si limita a dichiarare il diritto vigente, senza potere di mutarlo (teoria invalsa, con notevoli varianti,
sia nei sistemi di common law, che in quelli di civil
law). Vale, infine, la pena di precisare, a scanso di
equivoci, che in entrambi i sistemi, inglese e statunitense, alla legge formale (statutes) è riconosciuta una
posizione superiore nella gerarchia delle fonti del
diritto, sicché il potere legislativo è sempre in grado
di espungere dall’ordinamento o modificare una
norma di origine giurisprudenziale che non approvi,
esattamente come avviene da noi (ex multis Barsotti-Varano, 315 ss.; Marinelli, 881-884; Mattei,
277 ss.; Monateri, in Vacca (a cura di), 103 ss.;
Serio, La rilevanza, in part. 357-363; Id., Il valore,
passim, tutti infra, sez. IV).
Dopo queste necessarie precisazioni sul contesto
giurisprudenziale che ha influenzato tutta la prima
parte della sentenza in commento, è ora possibile
esaminare con maggior cognizione di causa il punto
più rilevante del percorso argomentativo dei giudici.
Orbene, essi dichiarano espressamente di aderire a
quanto statuito dalle sez. un. nel 2014 in relazione a
un caso, anch’esso in materia tributaria, che, a loro
avviso, presenta importanti similitudini con quello
loro sottoposto (Cass., sez. un., 16.6.2014, n. 13676,
infra, sez. III). La questione riguardava la decorrenza del termine per richiedere il rimborso di un’imposta versata e poi dichiarata illegittima dalla Corte
giust. UE: il contribuente, paragonando la sentenza
dei giudici di Lussemburgo a uno dei fenomeni di
mutamento di giurisprudenza appena esaminati, so508
Cassazione civile
steneva che il termine decadenziale per l’istanza di
rimborso decorresse dal momento della pronuncia
europea (emessa, naturalmente, su rinvio in un procedimento diverso dal suo) che aveva mutato il quadro giuridico di riferimento e non dal versamento
dell’imposta illegittima, com’è la regola. Dopo alcune premesse sulla vicenda normativa che aveva riguardato l’imposta in esame e sulle ragioni per cui la
legge prevede ipotesi di decadenza e prescrizione,
con riferimento alla materia fiscale, il S.C. spiega
perché, a suo avviso, «deve escludersi che sulla questione in esame possa esplicare effetti diretti la nota
pronuncia di questa Corte in tema di overruling»
(cioè Cass. n. 15144/2011). Al di là della (all’apparenza, dopo ciò che si è appena detto) sorprendente
idea per cui un precedente italiano possa esplicare
«effetti diretti» in un altro caso, ciò che merita di essere sottolineato è il modo in cui la Corte giunge a
escludere tali effetti nel caso di specie: «nel caso di
pronuncia che dichiari la contrarietà di una norma nazionale al diritto comunitario non si è in presenza di
un “mutamento della giurisprudenza”; e, con riferimento alla questione in esame e con argomento ancor
più decisivo, va rilevato che la sentenza della Corte di
giustizia non solo non è intervenuta (in malam partem, cioè con effetti preclusivi dell’esercizio del diritto) su norme di carattere processuale, ma neanche sulle disposizioni, di natura sostanziale, che qui interessano, relative ai termini (di prescrizione o decadenza)
per l’esercizio del diritto alla ripetizione dell’indebito
tributario, bensì, con effetto ampliativo, su una norma tributaria che riduceva illegittimamente la portata
di un beneficio fiscale».
In definitiva, le sez. un. escludono l’applicabilità
del proprio precedente non perché erroneo, ma perché i fatti di causa sono differenti rispetto a quelli
che avevano portato alla sua pronuncia. Si tratta, ancora una volta, di un’operazione tipica degli ordinamenti in cui vige la dottrina del precedente vincolante e che là è denominata distinguishing. Facendo
ancora una volta, per la necessità della sintesi, violenza alla complessità dei sistemi giuridici, si può affermare che esso si sostanzia nel rilievo che, stante la
differenza della fattispecie concreta dedotta in giudizio, la quale non è sovrapponibile a quella decisa
da un certo precedente, quest’ultimo non vincola il
giudice nel caso che gli è sottoposto. La necessità
del distinguishing nasce dalla stessa natura del precedente giudiziale: esso non si sostanzia mai in una
norma generale e astratta, ma nel principio in base a
cui è stato deciso un caso concreto, le cui particolarità fattuali sono una componente fondamentale
della ratio decidendi adottata; di conseguenza, se i
fatti mutano, può e talora deve mutare anche la decisione e dove questo è normalmente vigente, non si
applica lo stare decisis (ex multis, Barsotti-VaraNGCC 2015 - Parte prima
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento
no, 322-323; Bin, passim; Gorla, Lo studio, 76 s.;
Marinelli, 885-887; Monateri, in Vacca (a cura
di), 103 ss.; Serio, La rilevanza, 364 ss.; Id., Il valore, 115 ss.; Taruffo, Precedente e giurisprudenza, 9
ss., tutti infra, sez. IV). D’altro canto, dove non v’è
vincolo all’osservanza dei precedenti, ma totale libertà di discostarsene, non v’è nemmeno ragione di
far uso del distinguishing, essendo, al contrario, sufficiente enunciare la regola applicabile al caso e le
relative ragioni giuridiche: più banalmente, non ha
senso che il giudice spieghi perché sta compiendo
un’operazione che è in ogni caso e pacificamente in
suo potere.
Le sez. un., esclusa l’operatività diretta del precedente in tema di overruling, si chiedono se esso possa essere richiamato in via analogica, giungendo,
cioè, alle medesime conclusioni in virtù di un’esigenza generale di tutela dell’affidamento. La risposta è, ragionevolmente, negativa, giacché «la posizione del soggetto che, in vigenza della norma che lo
escludeva dal beneficio, è rimasto inerte fino all’intervento della sentenza (o anche successivamente), così
trovandosi in tutto o in parte decaduto dal diritto al
rimborso, non è assimilabile, sotto il profilo dell’esigenza di tutela, a quella», già accennata, che ha dato
causa all’introduzione, nel nostro ordinamento, di
una forma nostrana dell’istituto del prospective overruling di norme processuali da parte di Cass. n.
15144/2011. In definitiva, i fatti di causa sono troppo differenti anche per escludere l’esistenza di effetti indiretti del precedente giudiziale, sicché si deve
adottare una differente ratio decidendi e, di conseguenza, dichiarare decaduto il contribuente dal diritto al rimborso.
La sentenza qui in commento, richiama il precedente appena riassunto e ritiene che i fatti siano suscettibili di essere decisi secondo la medesima ratio:
nel caso di specie, si trattava non di una decadenza
gravante sul contribuente a causa del mutamento di
giurisprudenza, ma di un ampliamento del termine
decadenziale imposto dalla legge alla controparte
(Agenzia delle entrate). Nel merito, la decisione può
senz’altro essere condivisa, anche perché l’esclusione della retroattività del mutamento di giurisprudenza, come si è già ricordato, costituisce una fattispecie del tutto eccezionale tanto nei Paesi di common law, quanto in quelli di civil law e senz’altro
non si giustifica alla luce dei fatti del caso in esame.
Quanto al metodo con cui è stata elaborata questa
sentenza, nel contesto giurisprudenziale che si è appena tentato di descrivere, sia consentita la metafora
per cui gli Ermellini, alle prese con le insormontabili
difficoltà derivanti dalla tradizione, sembrano aver
sostituito, sopra la toga, il tocco di velluto con la
parrucca di crine di cavallo tipica dei giudici delle
corti superiori inglesi. Si tratta di un colpo di Stato?
NGCC 2015 - Parte prima
Cassazione civile
Probabilmente, qualunque avvocato d’oggi risponderebbe di no, alla luce della sempre maggiore importanza che il precedente giudiziale ha assunto nella prassi italiana degli ultimi decenni. Dal punto di
vista teorico, si deve senz’altro condividere l’avvertenza di più d’un autorevole studioso, secondo la
quale la tradizionale (e troppo comoda) distinzione
netta tra le categorie dell’efficacia vincolante e persuasiva del precedente non rispecchia la realtà e dovrebbe essere rivisitata alla luce della complessità di
questo fenomeno giuridico (tra gli altri, Gorla, voce «Precedente giudiziale», 4 s.; Lupoi, in Vacca (a
cura di), in part. 99 ss.; Serio, Il valore, passim; Taruffo, Precedente ed esempio, 24-27, tutti infra, sez.
IV). D’altra parte, lo sviluppo degli studi sul tema
condurrà, nel tempo, verosimilmente al definitivo
superamento dell’utopia illuministica del giudice
bouche de la loi e di tutto ciò che da essa è derivato,
come da tempo è avvenuto, al di là della Manica, per
le teorie dichiarative, un tempo prevalenti, secondo
le quali la funzione del giudice sarebbe stata non
quella di creare diritto, bensì quella di scoprire norme già appartenenti alla common law.
Per il momento, tuttavia, non pare possibile dolersi troppo del fatto che la nostra Cassazione attinga alle nozioni proprie dei sistemi giuridici dove il
tema è affrontato in maniera più completa, pagando
il prezzo consistente nelle contraddizioni che sono
state segnalate: in conclusione, la strada verso la ricerca di una soluzione coerente è stata sicuramente
intrapresa, ma buona parte del percorso verso tale
obiettivo deve ancora essere compiuto.
III. I precedenti
Secondo l’opinione più diffusa, hanno ridestato
l’interesse per il tema dei mutamenti giurisprudenziali Cass., sez. un., 9.10.2008, n. 24883, in Riv. dir.
proc., 2009, 1071 ss., con note di Petrella e di E.F.
Ricci; in Giur. it., 2009, 406 ss., con note di Socci e
Vaccarella e ivi, 1459 ss., con nota di Carratta;
in Corr. giur., 2009, 372 ss., con note di Caponi e
Cuomo Ulloa; in Foro it., 2009, I, 806 ss., con nota
di Poli e Cass., sez. un., 9.9.2010, n. 19246, in questa Rivista, 2011, 253 ss., con nota di P. Comoglio;
in Corr. giur., 2010, 1447 ss., con nota di Tedoldi;
in Giur. it., 2011, 1599 ss., con nota di Dalmotto;
in Foro it., 2011, I, 3014 ss., con note di Barone e
Caponi e ivi, 2011, I, 117, con nota di Proto Pisani; in Riv. dir. proc., 2011, 210 ss., con nota di Ruggeri.
Il leading case, finora, sul mutamento di interpretazione di norme processuali si ritrova in Cass., sez.
un., 11.7.2011, n. 15144, in Riv. dir. proc., 2012,
1072 ss., con nota di Vanz; in Corr. giur., 2011,
1392 ss., con note di Cavalla, Consolo, De Cri509
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Cass., ord. 9.1.2015, n. 174 - Commento
stofaro; in Foro it., 2011, I, 2254 ss., con note di
Costantino e Mazzullo e ivi, 3343 ss., con nota
di Caponi; in Giusto proc. civ., 2011, 1117 ss., con
nota di Auletta.
Sull’efficacia (apparentemente) solo persuasiva
del precedente giudiziale vedi di recente Cass., sez.
un., ord. 6.11.2014, n. 23675, nella banca dati Pluris. La sentenza citata in materia di responsabilità
dell’avvocato è Cass., 5.8.2013, n. 18162, in Giur.
it., 2014, 841, con nota di Favale. Sulla pubblicazione su Internet della sentenza delle sez. un. come
limite alla tutelabilità dell’affidamento v. Cass.,
7.2.2011, n. 3030, in Foro it., 2011, I, 1075 ss., con
nota di Costantino e in Giur. it., 2011, 1600 ss.,
con nota di Dalmotto.
Il precedente a cui la sentenza in commento dichiara espressamente di aderire è Cass., sez. un.,
16.6.2014, n. 13676, in Riv. giur. trib., 2015, 17 ss.,
con nota di Bodrito.
IV. La dottrina
Sulla sentenza in commento, vedi anche l’analisi
critica di Lanzafame, Retroattività degli overruling
e tutela dell’affidamento. L’istituto del prospective
overruling nella giurisprudenza italiana tra occasioni
mancate e nuove prospettive applicative. Note a margine di Cass. civ., VI, n. 174/2015, in www.judicium.
it.
Sulla recente giurisprudenza della Supr. Corte in
materia di mutamenti di giurisprudenza vedi, oltre
alle note citt. nella sez. che precede, P. Comoglio,
Minime riflessioni di ordine sistematico in tema di
perpetuatio iurisdictionis, tempus regit actum e ovverruling processuale, in Riv. trim. dir. e proc. civ.,
2013, 525 ss.; Punzi, Il ruolo della giurisprudenza e i
mutamenti d’interpretazione di norme processuali, in
Riv. dir. proc., 2011, 1337 ss. e Vincenti, Le sezioni
unite della Cassazione sull’overruling in materia processuale, in Giusto proc. civ., 2012, 289 ss. Sul tema,
rapportato con i principi del giusto processo, L.P.
Comoglio, Rigore sistematico ed etica «interna» del
processo «giusto», in Jus, 2013, 19 ss., in part. 43-45.
La letteratura italiana in tema di precedente giudiziale è assai vasta e ci si limita, quindi, in questa se-
510
Cassazione civile
de, ad alcuni richiami ritenuti essenziali per le questioni analizzate nel presente scritto. Dopo gli (ormai assai risalenti, ma con acute intuizioni) studi di
Bigiavi, Appunti sul diritto giudiziario, 1933 (rist.
Cedam, 1989, a cura di Bin) e Calamandrei, Appunti sulla sentenza come fatto giuridico, in Riv. dir.
proc. civ., 1932, 15 ss., v., in tempi più recenti,
Aa.Vv., Otto voci sul precedente giudiziario, in Contr. e impr., 1988, 504 ss.; Bin, Il precedente giudiziario. Nozione e interpretazione, Cedam, 1995; L.P.
Comoglio-V. Carnevale, Il ruolo della giurisprudenza e i metodi di uniformazione del diritto in Italia,
in Riv. dir. proc., 2004, 1037 ss.; Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, in Contr. e impr., 1985, 701 ss.; Gorla, voce «Precedente giudiziale», in Enc. giur., XXIII, Treccani, 1990; Id., Postilla su «l’uniforme interpretazione della legge e i tribunali supremi», in Foro it., 1976, V, 127 ss.; Id., Lo
studio interno e comparativo della giurisprudenza e i
suoi presupposti: le raccolte e le tecniche per la interpretazione delle sentenze, in Foro it., 1964, V, 73 ss.;
Marinelli, voce «Precedente giudiziario», in Enc.
del dir., Agg. VI, Giuffrè, 2002, 871 ss.; Taruffo,
Precedente e giurisprudenza, Editoriale scientifica,
2007; Id., Precedente ed esempio nella decisione giudiziaria, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1994, 19 ss.; Visintini (a cura di), La giurisprudenza per massime e
il valore del precedente, Cedam, 1988.
Per gli aspetti di diritto comparato succintamente
riferiti nel testo, si sono consultati, oltre ai riferimenti comparatistici nelle opere appena citate, Barsotti-Varano, La tradizione giuridica occidentale.
Testo e materiali per un confronto civil law common
law, 5a ed., Giappichelli, 2014; Mattei, Stare decisis. Il valore del precedente giudiziario negli Stati
Uniti d’America, Giuffrè, 1988; Serio, La rilevanza
del fatto nella struttura del precedente giudiziario inglese, in Eur. e dir. priv., 2013, 357 ss.; Id., Il valore
del precedente tra tradizione continentale e common
law: due sistemi ancora distanti?, in Riv. dir. civ.,
suppl. annuale 2008, 109 ss.; Vacca (a cura di), Lo
stile delle sentenze e l’utilizzazione dei precedenti.
Profili storico-comparatistici, Giappichelli, 2000.
Gabriele Molinaro
NGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 12.12.2014, n. 26157
c CASS. CIV., III sez., 12.12.2014, n. 26157
Conferma Trib. Palermo, 4.2.2008
Impugnazioni civili in genere - Errore
di fatto - Ricorso per Cassazione Esclusione - Revocazione (giudizio di)
- Sussistenza (cod. proc. civ., art. 395, n. 4) (a)
Cassazione civile - Errores in procedendo - Onere di allegazione della
parte ricorrente - Contenuto (cod.
proc. civ., art. 360, nn. 3, 4 e 5) (b)
(a) Ove si imputi al giudice del merito un
errore di percezione della realtà in riferimento al contenuto materiale della relata
di notificazione, assumendosi che la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario in essa rinvenuta (ossia che il nominativo della
C. si trovava «sul campanello» del domicilio in Piazza XIII Vittime) è, in realtà,
inesistente, si addebita un errore di fatto,
di immediata e oggettiva rilevabilità, che
sarebbe stato tale da aver indotto il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dal documento esaminato; ciò legittima la parte
ad esperire il rimedio della revocazione ex
art. 395 cod. proc. civ., comma 1o, n. 4,
non già il ricorso per cassazione.
(b) La parte che propone ricorso per cassazione, deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice, lesivo del proprio diritto di difesa, ha l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi
di economia processuale, di ragionevole
durata del processo e di interesse ad agire, l’impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira
ad eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della
sentenza impugnata è necessario solo se
nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole a quella cassata. (Nella
specie, con riguardo ad un asserito vizio
di notifica del pignoramento, sanato per
la proposizione dell’opposizione, la parte
si era limitata a dedurre l’avvenuta lesione
NGCC 2015 - Parte prima
Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile
del suo diritto di difesa in forza del notevole lasso temporale intercorso tra la notificazione del pignoramento e l’introduzione del giudizio di opposizione).
dal testo:
Il fatto. Con ricorso ex art. 615 cod. proc.
civ., C.P. proponeva opposizione avverso
l’espropriazione promossa nei suoi confronti
dal B., deducendo la nullità ed inefficacia dell’atto di precetto e del pignoramento immobiliare. A tal fine, l’attrice sosteneva che la notificazione del precetto era avvenuta in luogo diverso da quello di residenza ed assumeva, altresì, il mancato rispetto delle norme di cui all’art. 139 cod. proc. civ., con riguardo alla notificazione dell’atto di pignoramento. Con
sentenza resa pubblica il 2 febbraio 2008, l’adito Tribunale di Palermo rigettava l’opposizione. (Omissis).
I motivi. Con il primo mezzo è dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e
479 cod. proc. civ. Il giudice del merito avrebbe errato nell’escludere la nullità insanabile, ex
art. 156 cod. proc. civ., comma 2o, delle notificazioni dell’atto di precetto e del pignoramento, in quanto eseguite in un luogo non avente
alcuna relazione con l’effettiva residenza, dimora o ufficio del destinatario. Infatti, sarebbe
“destituita di ogni fondamento” l’affermazione
del Tribunale – posta alla base del convincimento che il luogo di effettuazione delle notificazioni anzidette fosse quello di residenza effettiva di essa C. – in ordine alla circostanza
che l’ufficiale giudiziario aveva “rinvenuto il
nominativo del destinatario sul campanello”,
giacché “nessuna dichiarazione o certificazione
in questo senso è rilasciata dall’Ufficiale Giudiziario nella relata di notifica, effettuata ai sensi
dell’art. 140 cod. proc. civ.”. Inoltre, non sarebbe stata necessaria la querela di falso “avverso
le dichiarazioni rese dall’UNEP nella relata dell’atto di precetto”, sulla “cui genuinità non v’è
motivo di dubitare”, ma non avendo “le due notifiche dell’atto di precetto, la prima negativa e
la seconda ex art. 140 cod. proc. civ., alcuna relazione”. Peraltro, “diversi erano gli elementi
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Cass., 12.12.2014, n. 26157
probatori di cui era in possesso il Giudice che
evidenziavano il reale domicilio della Sig.ra C.”.
(Omissis). Con il secondo mezzo viene prospettata violazione e falsa applicazione dell’art.
115 cod. proc. civ. Il Tribunale sarebbe incorso nella violazione dell’art. 115 cod. proc. civ.,
in quanto non avrebbe compiuto l’accertamento del luogo di residenza e/o domicilio del destinatario della notificazione sulla base di
quanto allegato e provato dalle parti. E, infatti,
le uniche prove fornite sul punto – consistenti
in un certificato storico di residenza, in una
sentenza di omologa della separazione consensuale e in una serie continua di bollette Enel –
confermerebbero che la residenza effettiva del
destinatario della notifica non era quella ritenuta in sentenza dal giudice del merito (Omissis). Con il terzo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1o, n. 5 e art.
111 Cost., comma 6o, insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Il Tribunale, nel
desumere la riferibilità al destinatario del luogo di notificazione (Omissis) ai sensi dell’art.
140 cod. proc. civ., avrebbe fatto leva su una
dichiarazione dell’ufficiale giudiziario – quella
di aver “rinvenuto il nominativo del destinatario sul campanello” – in realtà inesistente, “in
quanto nessuna dichiarazione o certificazione in
questo senso è rilasciata dall’Ufficiale Giudiziario nella relata di notifica, effettuata ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ.”. Il vizio di motivazione
deriverebbe, dunque, dal fatto che il giudice
del merito ha “considerato fatti in realtà insussistenti”, mancando altresì di valutare le prove
documentali prodotte dalla opponente (certificato storico di residenza, sentenza di omologa
della separazione consensuale con assegnazione della casa coniugale, bollette Enel), senza
ammettere l’esame “di alcuni testi in grado di
riferire sulla effettiva residenza” di essa attuale
ricorrente. Il motivo si conclude con l’indicazione del seguente “fatto controverso, ai sensi
dell’art. 366 bis cod. proc. civ.: È viziata nella
motivazione, per palese illogicità, contraddittorietà e insufficienza, la decisione del Giudice a
quo che, al fine di desumere la riferibilità al destinatario del luogo di notifica di cui alla relata,
fa riferimento ad una inesistente dichiarazione
dell’Ufficiale Giudiziario che, secondo quanto
erroneamente ritenuto dal Decidente, avrebbe
dichiarato di aver rinvenuto nel campanello il
512
Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile
nominativo del destinatario. È, altresì, viziata
nella motivazione, per palese illogicità, contraddittorietà e insufficienza, la decisione del Giudice a quo che, a fronte di prove documentali (certificato storico di residenza, bollette Enel, omologa di separazione), che rilevano sulla effettiva
residenza, domicilio e dimora del destinatario
della notifica, effettuata in luogo diverso rispetto
a quanto si desume dai medesimi elementi probatori, non valuta adeguatamente dette prove
documentali, e non compie ulteriori accertamenti istruttori richiesti (prove testimoniali), giungendo a conclusioni in contrasto con gli elementi
probatori già acquisiti e che potevano essere oggetto di ulteriori accertamenti”. Con il quarto
mezzo è prospettata violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 156 cod. proc. civ. e art.
24 Cost., nonché illogicità e contraddittorietà
della motivazione. Il giudice del merito sarebbe incorso nella violazione dell’art. 24 Cost.,
che garantisce l’inviolabilità del diritto di difesa, dal momento che, nel ritenere sanata ex art.
156 cod. proc. civ., la nullità della notifica dell’atto di pignoramento, non avrebbe tenuto
conto del dato temporale, ovvero della circostanza per cui l’odierna ricorrente è venuta a
conoscenza dell’atto notificato solo dopo diversi anni dalla sua notifica, vedendo, dunque,
compromesso e/o pregiudicato il suo diritto di
difesa, stante il lasso di tempo intervenuto. Per
le stesse ragioni, la motivazione sul punto sarebbe palesemente illogica, insufficiente e contraddittoria. Viene formulato il seguente quesito ex art. 366 bis cod. proc. civ.: “Viola gli artt.
140 e 156 cod. proc. civ. e l’art. 24 Cost. il decidente a quo nella misura in cui, a fronte dell’accertata nullità della notifica dell’atto di pignoramento effettuata nelle forme di cui all’art. 140
cod. proc. civ., senza che risulti fosse stata effettuata l’affissione nella porta dell’abitazione dell’avviso della notifica, come previsto dalla stessa
norma, la ritiene sanata ex art. 156 cod. proc.
civ., in virtù della avvenuta conoscenza dell’atto,
riscontrabile dalla intervenuta opposizione, di
cui al presente giudizio e, pertanto, non tenendo
conto della mancanza di tempestività della conoscenza dell’atto notificato, in considerazione degli anni trascorsi tra la notifica e l’introduzione
del giudizio di opposizione all’esecuzione; tutto
ciò nella considerazione che la mancanza di tempestività della conoscenza viola il diritto di difeNGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento
sa, pregiudicando la posizione sostanziale e processuale del debitore e non potendosi, pertanto,
ritenere raggiunto lo scopo ex art. 156 cod. proc.
civ.? È viziata nella motivazione, per palese illogicità, insufficienza e contraddittorietà la decisione del Giudice a quo che, ritenendo sanata ex
art. 156 cod. proc. civ., la nullità della notifica
dell’atto di pignoramento, non tiene conto del
dato temporale, ovvero della circostanza per cui
l’odierna ricorrente è venuta a conoscenza dell’atto notificato solo dopo diversi anni dalla sua
notifica, vedendo, dunque, compromesso e/o
pregiudicato il suo diritto di difesa; stante il lasso di tempo intervenuto e non valutato dal Giudice a quo ai fini della sanatoria?”.
I primi tre motivi – che possono essere esaminati congiuntamente – sono inammissibili.
Lo sono, anzitutto, le censure svolte con il
primo e terzo motivo, che insistono sulla inesistenza della dichiarazione dell’ufficiale giudiziario di aver “rinvenuto il nominativo del destinatario sul campanello” del domicilio (effettivo)
di Piazza XIII Vittime, in forza della quale il
Tribunale ha fondato il proprio convincimento
circa la regolarità della notificazione dell’atto di
precetto ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. (altresì evidenziando che le dichiarazioni rese dal
pubblico ufficiale non erano state oggetto di
impugnazione con querela di falso).
Con tali censure, infatti, si imputa al giudice
del merito un errore di percezione della realtà
in riferimento al contenuto materiale della relata di notificazione, assumendosi che la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario in essa rinvenuta (ossia che il nominativo della C. si trovava
“sul campanello” del domicilio in Piazza XIII
Vittime) era, in realtà, inesistente.
Trattasi, all’evidenza, di addebito di un errore di fatto, di immediata e oggettiva rilevabilità, che sarebbe stato tale da aver indotto il giudice ad affermare l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dal documento
esaminato; ciò avrebbe, dunque, legittimato la
parte ad esperire il rimedio della revocazione
ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4, ma non già il
presente ricorso per cassazione (cfr., tra le altre, Cass., 20.12.2011, n. 27555, infra, sez. III).
[Russo Presidente – Vincenti Estensore – Carestia P.M. (conc. conf.). – C.P. (avv. Zummo) – B.S.
s.p.a.]
NGCC 2015 - Parte prima
Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile
Nota di commento: «L’errore di fatto tra cassazione e revocazione e il pregiudizio derivante dal
vizio in procedendo» [,]
I. Il caso
La vicenda dalla quale trae origine la pronuncia
oggetto di queste considerazioni è un procedimento
esecutivo, nel contesto del quale si era provveduto
alla notificazione del precetto e del pignoramento.
L’opposizione veniva proposta nei confronti dell’espropriazione e l’opponente censurava la validità
e l’efficacia di precetto e pignoramento per violazione delle norme in materia di notificazione.
Esauritosi il giudizio di primo grado con il rigetto
dell’opposizione, l’opponente – stante l’inappellabilità della sentenza che conclude il giudizio di opposizione agli atti esecutivi – proponeva ricorso per
cassazione.
I profili di interesse della pronuncia citata riguardano il rapporto tra ricorso per cassazione e
revocazione ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ.,
la censura di errores in procedendo e le modalità di formulazione della stessa, l’individuazione del nesso causale che deve sussistere tra il vizio denunciato e l’esito del giudizio nonché la conciliabilità tra la posizione
espressa dalla Supr. Corte nel caso di specie e
l’affermazione della giurisprudenza maggioritaria della stessa Corte ove sostiene che
tutte le volte in cui venga prospettato un vizio in procedendo ex art. 360, n. 4, cod. proc.
civ. il giudice di legittimità è anche giudice
del fatto.
II. Le questioni
1. Il rapporto tra ricorso per cassazione e
revocazione ex art. 395, n. 4, cod. proc. civ. La
Corte ritiene che le censure proposte dalla ricorrente relativamente al contenuto della relata di notifica
del precetto si possano considerare come errore di
fatto di immediata ed oggettiva rilevabilità, con la
conseguenza di qualificare come inammissibile il ricorso proposto ai sensi del n. 5 dell’art. 360 cod.
proc. civ., posto che tale errore avrebbe legittimato
la parte ad instaurare il giudizio di revocazione ex
art. 395, n. 4, cod. proc. civ.
La Corte in primo luogo distingue la censura di
cui sopra dalle altre censure, nel contesto delle quali
la ricorrente si duole della erronea valutazione di
determinate prove documentali e della mancata ammissione di una prova testimoniale. Ed infatti dal
concetto di errore di fatto revocatorio vanno certa[,] Contributo pubblicato in base a referee.
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Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento
mente esclusi tutti i casi nei quali si ponga un problema di interpretazione e valutazione giudiziale e,
dunque, si faccia riferimento ad attività che il giudice compie ai fini della formazione del proprio convincimento.
In realtà l’errore di fatto revocatorio è, in questo
caso, un errore di fatto processuale, ossia un errore
di lettura e percezione, da parte del giudice, degli atti acquisiti al processo, che attiene ad un elemento
decisivo della decisione da revocare.
Ciò che rileva in particolare è il confine tra errore
di fatto e errore di giudizio, posto che il primo legittima la proposizione della revocazione ex art. 395, n.
4, cod. proc. civ., mentre il secondo legittima il ricorso per cassazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
La distinzione tra l’errore di fatto e quello di giudizio è talvolta molto sottile, come la dottrina ha già
da tempo sottolineato, tuttavia nel caso di specie,
anche alla luce delle interpretazioni più restrittive
del presupposto di cui all’art. 395, n. 4, cod. proc.
civ., sembra che si versi in questa ipotesi. Ed infatti
dalla pronuncia della Corte si desume che, nella motivazione della sentenza di primo grado, è riferito expressis verbis il contenuto della relata, contrastante
con quanto dalla stessa risultante.
Dalla lettura della parte in fatto della sentenza
non sembra invece sussistere, nel caso concreto, l’altro elemento che qualifica l’errore di fatto revocatorio e precisamente il non attenere tale errore ad un
punto controverso e sul quale la decisione non abbia
espressamente motivato. Anzi, per la verità – nel vigore dell’art. 366 bis cod. proc. civ. introdotto dall’art. 6 d. legis. n. 40/2006 e abrogato dall’art. 47 l.
n. 69/2009, applicabile ratione temporis al ricorso
che ha introdotto l’odierno giudizio – sembra potersi desumere, dalla stessa formulazione del quesito di
diritto, che il fatto in questione era controverso.
2. La censura di errores in procedendo e
la formulazione della stessa. Il nesso causale. Con il quarto motivo di ricorso viene dedotta sia
la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e
156 cod. proc. civ. e 24 Cost. sia l’illogicità e contraddittorietà della motivazione; la ricorrente propone dunque due motivi di ricorso per cassazione
riconducibili ai nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.
A fronte del ricorso così come formulato, la Corte, premesso che la ricorrente non ha indicato quale
sia stato il pregiudizio effettivamente subito dal suo
diritto di difesa, ritiene che si possa applicare al caso
il principio consolidato – in merito all’art. 360, n. 4,
cod. proc. civ. – ai sensi del quale, ove venga proposto ricorso per cassazione ex art. 360, n. 4 e, dunque,
censurando la nullità della sentenza per un error in
procedendo, il ricorrente ha l’onere di indicare il pregiudizio subito dal proprio diritto di difesa, nonché
514
Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile
il nesso causale del vizio sull’esito della sentenza.
In realtà sembra che il motivo di ricorso sia stato
innanzitutto ricondotto anziché ai nn. 3 e 5 dell’art.
360 cod. proc. civ. al n. 4 della stessa norma. Nel caso di specie, infatti, ciò che parte ricorrente censura
è la violazione – da parte del giudice – di norme processuali, precisamente l’art. 140 cod. proc. civ. in
materia di notificazioni e l’art. 156 cod. proc. civ. in
materia di nullità, che avrebbe determinato, a dire
della ricorrente, la pronuncia di un provvedimento
di sanatoria della notificazione dell’atto di pignoramento e perciò leso il suo diritto di difesa.
La precisazione si ritiene non sia irrilevante posto
che, da un lato, la Corte richiama il principio formulato in merito all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., ma,
dall’altro lato, omette di riqualificare il ricorso.
Riconosciuto che, nel caso di specie, il vizio fatto
valere è qualificabile quale error in procedendo, ci si
chiede se lo stesso possa essere dedotto sub art. 360,
n. 3, cod. proc. civ. e sul punto non si può che richiamare quella dottrina che ha più volte messo in
luce come le norme di diritto alla cui violazione o
falsa applicazione fa riferimento il n. 3 dell’art. 360
cod. proc. civ. sono certamente le norme sostanziali,
ma in alcuni casi possono essere anche le norme
processuali. In realtà tale ricostruzione, seppur condivisibile nei fini, conduce inevitabilmente ad ulteriori qualificazioni quale quella di error in iudicando
de iure procedendi.
Corretta sembra dunque quella ricostruzione secondo la quale ciò che rileva è la distinzione tra fatto
processuale e fatto extraprocessuale e, relativamente
al caso di specie, certamente di fatto processuale si
tratta.
Se l’approccio della Corte in questo caso, così come in molti altri, sembra potersi giustificare alla luce
dell’ormai ben noto congestionamento del contenzioso affidato alla corte stessa, sul quale si ritiene
non sia neppure utile soffermarsi ulteriormente, è
però indubbio che, nel contesto dell’iter argomentativo della corte, è sorprendente che – a fronte di un
ricorso fondato sui nn. 3 e 5 dell’art. 360 cod. proc.
civ. – la Corte si limiti a richiamare un principio da
sempre formulato in merito al n. 4 dello stesso art.
360; delle due l’una: o il ricorso andava riqualificato
o qualche parola avrebbe dovuto essere spesa al fine
di giustificare l’applicazione del principio in questione anche in relazione al motivo di ricorso ex art.
360, n. 3, cod. proc. civ.
Non si può infatti dimenticare che comunque esiste nel nostro ordinamento un onere di specificare i
motivi di ricorso per cassazione e che tale onere
sembra difficilmente conciliabile con operazioni di
riqualificazione implicita, quale quella che pare essere stata attuata nel caso di specie. Se infatti è ben
noto che la giurisprudenza ha escluso la necessità
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per il ricorrente di individuare con assoluta precisione la natura del vizio censurato e l’indicazione numerica del motivo al quale il vizio va ricondotto,
purché vi sia nell’ambito del ricorso un’esposizione
chiara delle ragioni per le quali il vizio è fatto valere,
è però altrettanto vero che l’art. 366 bis cod. proc.
civ. è esplicito nel precisare che il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, motivi specifici,
completi e riferibili alla sentenza impugnata ed anzi
la Suprema Corte ha in più occasione fatto riferimento proprio a questo principio anche al fine di individuare il fondamento giuridico delle più aberranti applicazioni del principio di autosufficienza del ricorso.
Peraltro la giurisprudenza ha altresì chiarito che
la riqualificazione del ricorso proposto ex art. 360,
nn. 3 o 5 in ricorso ex art. 360, n. 4, che lo sottrae alla scure della declaratoria di inammissibilità, si può
verificare solo ove lo stesso contenga un inequivocabile riferimento alla nullità della decisione derivante
dal vizio fatto valere.
Premesso che, per quanto desumibile dalla pronuncia della Corte, il riferimento di cui sopra non risulta essere incluso nel ricorso, la Suprema Corte, in
relazione al caso di specie, precisa che il ricorso deve contenere altresì la chiara indicazione del pregiudizio causato al ricorrente dal vizio di attività del
giudice. La necessità di individuare il danno al diritto di difesa subito dal ricorrente, richiamata dalla
Corte, trova la sua ragion d’essere non solo nei principi di ragionevole durata del processo e di economia processuale, ma ancor prima in quello di cui all’art. 100 cod. proc. civ.; sotto questo profilo la giurisprudenza è unanime nel ritenere che la ratio del
principio in questione deriva dalla ratio dell’art.
360, n. 4, cod. proc. civ. che si deve individuare non
nella tutela dell’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, bensì nella eliminazione del pregiudizio del
diritto di difesa concretamente subito, a causa del
vizio, dal ricorrente; tutto ciò con la conseguenza
che si può addivenire alla cassazione della sentenza
solo nel caso in cui, nel successivo giudizio di rinvio,
il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e
più favorevole.
È dunque evidente che la Corte tratta il motivo di
ricorso come se lo stesso fosse ricondotto al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. e ciò senza peraltro fornire
alcuna motivazione. Alla luce di quanto sostenuto
dalla Supr. Corte si deve, peraltro, ritenere che tutte
le volte in cui il ricorrente faccia valere un vizio relativo ad un fatto processuale egli sia tenuto non solo
ad indicare il vizio, ma altresì come lo stesso abbia
inciso dapprima sull’attività del giudice e, in seconda istanza, sui diritti del ricorrente.
Nel caso di specie ciò che la Corte censura è non
tanto la mancata indicazione del nesso causale,
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quanto proprio la mancata allegazione del pregiudizio subito dalla parte ricorrente; si tratta dunque di
un prius in quanto solo in presenza delle deduzioni
di un pregiudizio la Corte sarà tenuta ad accertare
se lo stesso possa dirsi funzionalmente collegato al
vizio censurato.
3. Il controllo del fatto ad opera della
Corte di Cassazione. È ben noto che il sindacato
di cui gode la Corte nell’ambito di valutazione di un
ricorso ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ. è ben più ampio di quello che la stessa può esercitare in caso di
ricorso per motivi diversi da quello richiamato. In
particolare, ove il fatto censurato in cassazione costituisca un vizio di attività, alla Corte è riconosciuto il
potere di percepire direttamente e pienamente il fatto, di riesaminare gli atti processuali e di valutare le
risultanze processuali. A tale pienezza di poteri cognitori riconosciuta alla Corte, fa da contraltare anche il potere della stessa Corte di ritenere fondata la
censura per un motivo diverso da quello specificamente indicato dalla parte.
Il tema che la sentenza non affronta, ma che sembra derivi dalle statuizioni della Corte, concerne la
possibilità di ritenere operante questo sindacato
«aperto» non solo in relazione alle ipotesi di ricorso
ex art. 360, n. 4, cod. proc. civ., ma anche al ricorso
ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
Pur senza addivenire alla valutazione secondo la
quale il sindacato della Corte, nel caso di ricorso ex
art. 360, n. 3, cod. proc. civ., «concerne illico et immediate la norma processuale (quale norma che disciplina il contenuto della sentenza) e soltanto per
suo tramite quello sostanziale» (Fazzalari, voce
«Revocazione (dir. proc. civ.)», 584, infra, sez. IV),
pare indubbio che i confini tra i motivi di cui al n. 4
e quelli di cui al n. 3 dell’art. 360 cod. proc. civ. siano divenuti in molte ipotesi evanescenti. In questi
casi tuttavia sembrerebbe restare immutato il principio in forza del quale la Corte non può, ove adita ai
sensi del n. 3, procedere alla ricostruzione del fatto.
Le giustificazioni addotte a sostegno di tale divieto
risiederebbero nel fatto che il motivo di cui al n. 3
dovrebbe ritenersi «classico» (Tiscini, 579, infra,
sez. IV) in quanto avrebbe il ruolo di fungere da
spartiacque tra il giudizio di diritto e quello di fatto,
attribuendo alla Corte solo il sindacato sul primo
(Silvestri, 1349, infra, sez. IV).
Ciò che ci si deve chiedere è se tale divieto abbia
ancora senso.
In relazione al caso di specie per esempio, vero è
che il ricorso censura la violazione o falsa applicazione degli artt. 140, 156 cod. proc. civ. e 24 Cost.,
vero però è anche che tale censura deriva dal fatto
che – nella prospettazione della ricorrente – il giudice del merito avrebbe illegittimamente considerato
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Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento
sanata una notifica in virtù dell’avvenuta conoscenza dell’atto, senza considerare il pregiudizio al diritto di difesa cagionato al ricorrente in forza del lasso
di tempo trascorso.
A chi scrive sembra evidente che la norma che si
assume illegittimamente applicata e interpretata è
una norma processuale e che, rispetto al vizio censurato, non si comprende per quale ragione non dovrebbe essere consentito al giudice di legittimità di
utilizzare poteri cognitori lati, quali quelli allo stesso
riconosciuti nel caso di ricorso ex art. 360, n. 4, cod.
proc. civ.
Tale conclusione si ritiene ancor più fondata nei
casi – come quelli di specie – nell’ambito dei quali la
sentenza di primo grado viene censurata direttamente in cassazione in quanto non appellabile.
III. I precedenti
La giurisprudenza è unanime nel definire l’errore
di fatto revocatorio come falsa percezione di ciò che
emerge dagli atti del giudizio, svista materiale immediatamente rilevabile (Cass., sez. un., 28.5.2013, n.
13181, in Mass. Giust. civ., 2013; Cass., 15.1.2009,
n. 844, ivi, 2009; Cass., 25.5.2004, n. 10027, ivi,
2004; nello stesso senso si esprime anche la giurisprudenza amministrativa, cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI, 5.3.2013, n. 1316, in Foro amm., 2013,
III, 771) che deve avere ad oggetto un fatto decisivo
(Cass., 25.5.1992, n. 632, in Mass. Giust. civ., 1993).
La giurisprudenza individua la distinzione tra
l’errore di fatto revocatorio e l’errore di giudizio,
denunciabile ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nel fatto che, pur essendo entrambi rilevabili ex actis, il secondo si qualifica rispetto al primo in quanto relativo all’attività ermeneutica e valutativa del giudice
(Cass., 19.2.2009, n. 4056, in Mass. Giust. civ., 2009;
Cass., 19.2.2009, n. 3365, ibidem; Cass., sez. un.,
2.4.2003, n. 5150, ivi, 2003; nel contesto della giurisprudenza amministrativa cfr.: Cons. Stato, sez. V,
30.8.2013, n. 4319, in Foro amm., 2013, 2107; Cons.
Stato, ad. plen., 24.1.2015, n. 5, in Foro it., III, 557
ss., con nota di Travi).
Si è ritenuto riconducibile all’errore di fatto revocatorio l’omesso esame di atti difensivi che abbia determinato un’omissione di pronuncia o un errore di
percezione da parte del giudice (Cass., 20.12.2011,
n. 27555, in Mass. Giust. civ., 2011; Cass.,
30.3.1994, n. 3137, ivi, 1994; Cons. Stato, sez. I,
11.4.2007, n. 1662, in Foro amm., 2007, IV, 1203;
Cons. Stato, sez. IV, 25.7.2002, n. 4070, ivi, 2002,
IV, 1809), ma non il vizio che attiene all’interpretazione da parte del giudice della domanda giudiziale
(Cass., 10.3.1992, n. 2884, Mass. Giust. civ., 1992).
Si è altresì evidenziato come non si possa avere errore di fatto revocatorio relativo a norme di diritto e
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dunque non possa considerarsi tale quello relativo
all’affermata idoneità di un atto di notificazione a
determinare effetti giuridici (Cass., sez. un.,
12.6.1997, n. 5303, ivi, 1997; relativamente alla decorrenza del termine per impugnare), mentre si è ritenuto qualificabile come errore di fatto revocatorio
l’aver ritenuto inesistente una notificazione documentata in atti (Cass., 24.8.2000, n. 11056, ivi,
2000).
Peraltro il fatto del quale si discute e sul quale cade l’errore deve costituire un punto non controverso
in causa (Cass., 15.12.2011, n. 27094, ivi, 2011)
neppure implicitamente (Cons. Stato, sez. IV,
7.6.2005, n. 2904, in Foro amm., 2005, VI, 1698), né
controvertibile (Cass., 28.8.1997, n. 8118, in Mass.
Giust. civ., 1997). Quanto, invece, all’ormai abrogato art. 366 bis cod. proc. civ. la norma prevedeva
che, in ipotesi di motivo di ricorso incentrato sull’omissione, insufficienza o contraddittorietà della
motivazione fosse necessario indicare chiaramente il
fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assumeva omessa, insufficiente o contraddittoria nonché con l’orientamento della Suprema Corte
che ha fornito un’interpretazione rigida della norma
in questione, sostenendo che l’onere de quo non potesse ritenersi assolto ove non fosse possibile individuare il fatto controverso se non da una completa
lettura del ricorso e dunque, in ultima analisi, identificando nell’indicazione del fatto controverso un
momento di sintesi del ricorso assolutamente omologo al quesito di diritto (cfr. Cass., 1o.10.2007, n.
20603, in Foro it., 2008, I, 521 con nota di Caponi;
Cass., sez. un., 16.11.2007, n. 23730, in Mass. Giust.
civ., 2008, in Corr. giur., con nota di Consolo-Costantino; Cass., sez. un., 24.3.2009, n. 7032, in
Mass. Giust. civ., 2010, con nota di Morozzo della Rocca).
Quanto al principio in forza del quale affinché la
censura dell’error in procedendo sia ammissibile è
necessario non solo che il vizio non sia sanato, ma
anche che lo stesso si sia ripercosso sulla sentenza ed
abbia determinato un pregiudizio al ricorrente cfr.
Cass., 27.1.2012, n. 1201, in Mass. Giust. civ., 2012;
Cass., 21.2.2008, n. 4435, ivi, 2008; Cass.,
14.1.2003, n. 365, in Int’l Lis, 2003, fasc. 2, 84, con
nota di Kofler; Cass., 7.2.2011, n. 3024, in Mass.
Giust. civ., 2008, all’esito di un giudizio di divisione
di comunione ereditaria, ove sottolinea che non solo
il pregiudizio al diritto di difesa deve essere allegato,
ma deve anche essere plausibile.
In merito all’error in iudicando de iure procedendi
Cass., 4.9.2012, n. 14788, in Guida al dir., 2012,
fasc. 44, 65, qualifica come tale il caso in cui, col ricorso, si censuri la qualifica dell’arbitrato – operata
dalla Corte che si sia pronunciata su impugnazione
del lodo arbitrale – come rituale.
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In relazione alla giurisprudenza che ha escluso la
necessità per il ricorrente di individuare con assoluta precisione la natura del vizio censurato e l’indicazione numerica del motivo al quale il vizio va ricondotto cfr. Cass., sez. un., 24.7.2013, n. 17931, in
Riv. dir. proc., 2014, 1, 179, con nota di Poli il quale
ha escluso che, nel caso di censura di omessa pronuncia, sia determinante il riferimento al n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ., richiedendo tuttavia che almeno sia indicata la nullità della sentenza nel contesto del ricorso. In senso conforme cfr. Cass.,
14.11.2011, n. 23794, in Mass. Giust. civ., 2011, che
ha ritenuto ammissibile il ricorso per cassazione nonostante il vizio fosse stato qualificato erroneamente
dal ricorrente; Cass., 21.1.2013, n. 1370, ivi, 2013,
che ha negato che la corretta menzione del vizio sia
condizione necessaria per l’ammissibilità del ricorso. In senso contrario, ritengono che il ricorrente
debba indicare specificamente il motivo di ricorso:
Cass., 14.5.2013, n. 11542, in Guida al dir., 2013,
fasc. 32, 24; Cass., 13.12.2012. n. 22912, ibidem,
fasc. 10, 70; Cass., 29.5.2012, n. 8565, in DeJure;
Cass., 4.3.2010, n. 5207, in Guida al dir., 2010, fasc.
15, 66, secondo cui il singolo motivo di ricorso ha
«funzione identificativa»; Cass., 20.11.2007, n.
24139, ivi, 2008, fasc. 9, 46; Cass., 18.9.2007, n.
19356, ivi, 2007, fasc. 44, 81; Cass., 26.1.2006, n.
1701, ivi, 2006, fasc. 15, 54; Cass., 15.7.2005, n.
15022, in Dir. e giust., 2005, 40, 37, con nota di Rossetti; Cass., 26.5.2005, n. 11187, in DeJure.
In materia di vizi in procedendo la Supr. Corte ha
precisato che non è consentito alla parte interessata
di formulare in sede di legittimità la censura di
omessa motivazione, spettando alla Corte medesima
accertare se vi sia stato o meno il denunciato vizio di
attività attraverso l’esame diretto degli atti, indipendentemente dall’esistenza o dalla sufficienza e logicità dell’eventuale motivazione del giudice di merito
sul punto (Cass., 16.12.2005, n. 27728, in Resp. civ.
e prev., 2006, 937; Cass., 24.11.2004, n. 22130, in
Mass. Giust. civ., 2005).
Quanto alla difficoltà di discernere tra errores in
procedendo e in iudicando cfr. Cass., 19.5.2004, n.
9471, in Danno e resp., 2005, 30, con nota di De
Matteis. In merito all’omessa pronuncia su una domanda giudiziale ed all’erronea interpretazione del
contenuto della domanda proposta.
In merito al controllo del fatto che compete alla
Corte di Cassazione ove adita ai sensi dell’art. 360,
n. 4, cod. proc. civ. cfr. da ultimo le pronunce di
Cass., sez. un., 22.5.2012, n. 8077, in Il giusto processo civile, 2012, 837 s., con nota di Balena nonché
in Giust. civ., 2012, I, 1173, con nota di Didone e
Cass., sez. un., 22.5.2012, n. 8078, in Il civilista,
2012, fasc. 6, 25, che hanno composto il contrasto
denunciato con due ordinanze interlocutorie dalla
NGCC 2015 - Parte prima
Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile
prima sezione civile ed hanno chiarito che, in questa
ipotesi, spetta al giudice di legittimità il potere di
esaminare direttamente gli atti e i documenti sui
quali il ricorso si fonda, posto che la Corte stessa, ai
soli fini del sindacato sull’error in procedendo denunciato è anche giudice del fatto. Nello stesso senso cfr. anche Cass., 1o.6.2007, n. 12904, in Mass.
Giust. civ., 2007; Cass., 7.3.2006, n. 4840, in Il civilista, 2011, 5, con nota di Scarpa; Cass., 23.1.2006,
n. 1221, in Giur. it., 2006, 2119.
Quanto alla possibilità di estendere il sindacato
sul giudizio di fatto della Corte di Cassazione anche
alle ipotesi nelle quali sia denunciato un vizio processuale ai sensi dei nn. 1 e 2 dell’art. 360 cod. proc.
civ., cfr. Cass., 9.1.2008, n. 169, in Giust. civ., 2009,
I, 1110, in merito al ricorso per questioni di giurisdizione nonché Cass., 8.1.2007, n. 13514, in Mass.
Giust. civ., 2007, in merito ad una censura di competenza ricondotta al n. 2 della norma citata.
IV. La dottrina
La dottrina si è a lungo interrogata sul significato
da attribuire all’errore di fatto revocatorio di cui all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ. In generale sul tema
ed ai fini di individuare le varie definizioni cfr. Colesanti, voce «Sentenza civile (revocazione della)»,
nel Noviss. Digesto it., XVI, Utet, 1969, 1161 che riferisce le opinioni di Carnelutti, Istituzioni del
processo civile italiano, II, Soc. ed. del Foro it., 1956,
615 ove distingue tra pensiero del giudice e realtà,
ma anche quelle di Redenti, Liebman, Satta, Andrioli, giungendo alla conclusione che, «operare una
scelta tra le diverse definizioni (...) o proporne di
nuove, pare (...) una sterile fatica» e che la miglior
definizione si rinviene proprio nella lettera della
norma [nello stesso senso Fazzalari, voce «Revocazione (dir. proc. civ.)», in Enc. del dir., XL, Giuffrè, 1989, 297 s.], peraltro recepita integralmente
nel vigente codice di rito da quello del 1865 e prima
ancora da quello degli Stati Sardi.
A seguito della modifica di cui all’art. 115, comma 1o, cod. proc. civ., volta ad integrare la norma
con il principio di contestazione, gli Autori si sono
anche interrogati sulla possibilità di far ricadere,
nell’ambito dell’errore di fatto in questione, l’errore
sul fatto non contestato. Secondo una prima lettura
tale riconduzione non sarebbe possibile, posto che
la non contestazione determinerebbe solo una relevatio ad onere probandi [Rota, voce «Revocazione
(dir. proc. civ.)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez.
civ., XVII, Utet, 1998, 473 ss.], secondo invece altra
prospettiva – che per la verità pare a chi scrive più
condivisibile – il fatto non contestato è un fatto pacifico e come tale non controverso (Petrillo, nel
Commentario del codice di procedura civile, V, Utet,
517
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Cass., 12.12.2014, n. 26157 - Commento
2013, sub art. 395, 65). Vi è peraltro chi ha sostenuto che ove si censurasse l’erroneo apprezzamento
della non contestazione il ricorso non potrebbe che
essere proposto ai sensi del n. 3 dell’art. 360 cod.
proc. civ. (Balena, Questioni processuali e sindacato
del fatto in Cassazione, in Il giusto processo civile,
2012, 842).
Quanto al confine tra revocazione ordinaria ex
art. 395, n. 4, cod. proc. civ. e ricorso per cassazione
ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ. nonostante la rilevabilità d’ufficio di entrambi, la dottrina ha evidenziato come il primo si qualifichi come mero vizio documentale (Consolo, Mancata considerazione di una
decisione che ebbe ad annullare un regolamento: sentenza revocabile ex art. 395 cod. proc. civ., per errore
di fatto revocatorio o per contrasto con un precedente
giudicato, in Giur. it., 1993, III, 1, 976) di percezione del fatto, il secondo, invece, implichi una censura
in merito al ragionamento giudiziale (Asprella,
Breve rassegna tematica dell’errore di fatto in Cassazione, in Giust. civ., 2001, 703 ss., nota a Cass., sez.
un., 15.11.2000, n. 1178; Colesanti, op. cit., 1168
precisa che «pur sotto il velame delle varie formulazioni, l’erronea supposizione del fatto, quale elemento costitutivo del motivo di revocazione, viene
comunque posta agli antipodi dell’errore di giudizio, nel senso che fin dove c’è giudizio, non vi è non
può esserci supposizione di un fatto»; De Stefano,
La revocazione, Giuffrè, 1957, 183 s.; Baccaglini,
Travisamento della consulenza tecnica, fra errore di
fatto revocatorio e vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod.
proc. civ., in Resp. civ. e prev., 2002, 1050 s.).
Quanto alla possibilità che l’errore di fatto revocatorio possa cadere non solo su fatti sostanziali, ma
anche su fatti processuali si pronunciano in modo
favorevole Petrillo, op. cit., 65; Luiso, Diritto processuale civile, II, Giuffè, 2013, 506.
In relazione alla distinzione fra errores in procedendo e errores in iudicando cfr. Calamandrei, Sulla distinzione tra error in iudicando ed error in procedendo, in Id., Studi sul processo civile, I, Cedam,
1930, 213 ss.; Id., La teoria dell’«error in iudicando»
nel diritto italiano intermedio, nello stesso volume,
64 ss.; Id., La Cassazione civile. II. Disegno generale
dell’istituto, Fratelli Bocca, 1920, 168 s. ove richiama altresì la distinzione tra vizio di attività e vizio di
giudizio di Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Jovene, 1965, 76, II, 893 s., ma anche
Lorenzetto Peserico, Errores in procedendo e
giudizio di fatto in cassazione, in Riv. dir. civ., 1976,
I, 638 s.; Fazzalari, op. cit., 56 s., secondo il quale
«il culto di quelle categorie e della problematica che
le concerne deve essere svalutato»; posizione simile
esprime l’a. in Id., Il processo ordinario di cognizione, II, Le impugnazioni, Utet, 1990, 169 e Calogero, La logica del giudice e il suo controllo in Cassa518
Impugnazioni civili in genere / Cassazione civile
zione, Cedam, 1964, 170. In realtà anche la dottrina
più recente critica tale distinzione; cfr. Panzarola,
La Cassazione civile giudice del merito, II, Giappichelli, 2005, 744 s., ove qualifica tale distinzione come empirica e approssimativa e relativa, alla luce del
diverso punto di vista dal quale potrebbe essere
considerato l’error, nonché alle pp. 777 s., ove chiarisce che si tratta di un «quadro dai contorni complessi» ed evidenzia come l’opinabilità del criterio
discretivo derivi dal fatto che «come l’errore d’attività può rampollare da quello di giudizio (assorbendolo), così potrebbe avvenire anche il reciproco»,
ma non manca chi, tra gli aa., sottolinea l’utilità pratica della distinzione; cfr. Gradi, Vizi in procedendo
e ingiustizia della decisione, in Aa.Vv., Studi in onore
di Carmine Punzi, III, Le impugnazioni, Giappichelli, 2008, 69; Nardo, «Errores in procedendo» e giudizio di fatto nella giurisprudenza della Cassazione, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1992, 692 s.
Quanto alla possibilità di dedurre ex art. 360, n.
3, cod. proc. civ. solo la violazione di norme sostanziali e non processuali, cfr. Calamandrei-Furno,
voce «Cassazione civile», nel Noviss. Digesto. it., II,
Utet, 1974 s.; Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, II, Giappichelli, 2014, 566, una qualche
apertura tuttavia si desume alle pp. 559 s., nt. 67;
Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile,
Jovene, 2006, 517; attribuiscono invece alle «norme
di diritto» di cui alla previsione un ambito di applicazione più esteso e tale da ricomprendere anche la
violazione di norme processuali: Liebman, Manuale
di diritto processuale civile, rist., Giuffrè, 1984, 258
s.; Fazzalari, op. cit., 63 s.; Luiso, op. cit., 428; Balena, La riforma del processo di cognizione, Jovene,
1994, 482 s.; Id., op. cit., 840; Consolo, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Cedam, 2012, 329
s.; si esprime in senso dubitativo Mazzarella, Analisi del giudizio civile di cassazione, Cedam, 2003, 66
s.
In merito al controllo spettante alla Corte di Cassazione in ipotesi di deduzione del motivo di cui all’art. 360, n. 4 cfr.: Travaglino, Errores in procedendo e poteri della Cassazione, in Corr. merito,
2012, 791; Scarpa, Nullità della citazione, errores in
procedendo ed accesso diretto della Corte di Cassazione agli atti del procedimento, in Corr. giur., 2013,
92 s.; Ferrari, Il giudizio sul «fatto processuale» in
cassazione, in Riv. dir. proc., 2012, 6, 1462 s.
A favore di una latitudine del sindacato della Corte che non si fonda sul «tipo di vizio denunciato,
bensì sulla natura e qualità dei «fatti» dal cui accertamento dipende la sussistenza di tale vizio e dalla
circostanza che si tratti di fatti interni o esterni al
processo» si esprime Balena, op. cit., 842, che peraltro sottolinea come anche la distinzione fra fatto
interno e fatto esterno al processo può risultare di
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
Lavoro (rapporto) / Danni civili
non facile applicazione e, al riguardo, fa riferimento
al ben noto tema del sindacato da attribuirsi alla
Corte con riferimento all’esistenza di un precedente
giudicato, sul quale cfr. Consolo, Giudicato «esterno» non eccepito e disciplina nelle fasi di gravame (corollari di un bisecolare «crittotipo»), in Corr. giur.,
2000, 1051 s.; Menchini, Il giudicato civile, nella
Giur. Sist. dir. proc. civ., a cura di Proto Pisani,
Utet, 2002, 62, nonché la giurisprudenza e in particolare Cass., sez. un., 25.5.2001, n. 226, in Corr.
giur., 2001, 1460 s., con nota di Fittipaldi, e in Foro it., 2001, I, 2810, con nota di Iozzo, che ha composto il contrasto di giurisprudenza sulla rilevabilità
di ufficio del giudicato esterno, enunciando il seguente principio di diritto: «poiché nel nostro ordinamento vige il principio della normale rilevabilità di
ufficio delle eccezioni, derivando la necessità dell’istanza di parte solo da una specifica previsione normativa, l’eccezione di giudicato esterno, in difetto di
una tale previsione, è rilevabile d’ufficio ed il giudice
è tenuto a pronunciare sulla stessa, qualora il giudicato risulti da atti comunque prodotti nel corso del giudizio di merito, con la conseguenza che, in mancanza
di pronuncia o nell’ipotesi in cui il giudice del merito
abbia affermato la tardività dell’allegazione – e la relativa pronuncia sia stata impugnata – il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato
con cognizione piena che si estende al diretto riesame
degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed
interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice del merito»; in senso analogo si è poi espressa anche Cass., sez. un., 28.11.2007, n. 24664, in Riv. dir.
proc., 2008, 6, 1687 s., con nota di E.F. Ricci e in
Giust. civ., 2008, I, 1487 s., con nota di Nappi.
Infine, quanto all’estensione dell’esame del fatto
da parte della Supr. Corte a ricorsi fondati su motivi
diversi da quello ex n. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ.,
cfr.: Ferri, Note in tema di pronunce sulla giurisdizione, Pubbl. Un. n. 147, 1968, 65, quanto al motivo
di cui al n. 1, e Buongiorno, Il regolamento di competenza, Giuffrè, 1970, 294 s., quanto al motivo n. 2,
nonché il già citato Balena, op. cit., 842.
In generale sul motivo di cui all’art. 360 n. 3 cfr.
Tiscini, nel Commentario del codice di procedura civile, Utet, 2013, sub art. 360, 579 s.; Silvestri, nel
Commentario breve del codice di procedura civile,
Cedam, 2012, sub art. 360, 1349; De Cristofaro,
nel Codice di procedura civile, II, Wolters Kluwer,
sub art. 360, 823 s.
c CASS. CIV., sez. lav., 17.12.2014, n. 26590
per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o,
quando queste non siano rinvenibili, dalla
norma di ordine generale di cui all’art.
2087 cod. civ.
Cassa App. Milano, 31.10.2011
Lavoro (rapporto) - Imprenditore Integrità fisica del prestatore di lavoro - Obbligo di sicurezza - Fondamento (cod. civ., artt. 1218, 2087) (a)
Lavoro (rapporto) - Imprenditore Obbligo di sicurezza ex art. 2087 Natura ed estensione (cod. civ., artt. 1218,
2087) (b)
Danni civili - Danni non patrimoniali - Risarcimento - Personalizzazione
del danno - Criteri (cod. civ., artt. 1218,
2056, 2059, 2087, 2697) (c)
(a) La responsabilità dell’imprenditore
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Francesca Ferrari
(b) La responsabilità dell’imprenditore
ex art. 2087 cod. civ. non configura
un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma
tuttavia non è circoscritta alla violazione
di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce
delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del
datore di lavoro delle misure e cautele atte
a preservare la salute del lavoratore, tenuto conto della concreta realtà aziendale e
519
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
della maggiore o minore conoscibilità dei
fattori di rischio in un determinato momento storico.
(c) Il risarcimento del danno deve essere
personalizzato al fine di dare una risposta
congrua, adeguata e satisfattiva rispetto
alla lesione di beni giuridici preminenti
quali la vita e la salute, anche svincolandolo dalle tabelle dei Tribunali.
dal testo:
Il fatto. La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale di quella stessa sede, accoglieva la domanda di B.A., M.A.,
M.M.G., M.V.G. in proprio e quali eredi di
M.U., dipendente di A.E. S.p.A. dal 7 maggio
1963 al 26 giugno 1987, riconosciuto affetto da
mesotelioma pleurico in data 1998 e deceduto
il 16 marzo 1999, proposta nei confronti di
detta società tendente ad ottenere la condanna
di quest’ultima al risarcimento, ex art. 2087
c.c., dei danni da liquidarsi iure proprio ed iure
hereditatis conseguenti all’evento che aveva
colpito il proprio dante causa.
A base del decisum la Corte del merito, innanzitutto, poneva il rilievo che doveva condividersi la consulenza espletata nel corso del
giudizio di secondo grado, secondo la quale il
decesso del lavoratore era avvenuto a causa di
mesotelioma pleurico maligno e non, a differenza di quanto affermato dal CTU di primo
grado e condiviso dal Tribunale, in ragione di
mesotelioma pericardico e tanto sia per le manifestazioni clinico somatiche in vita – che non
avevano mai evidenziato una patologia di pertinenza del cavo pericardio – sia per i rilievi autoptici che dimostravano una cavità pericardica completamente libera.
Osservava, poi, la Corte territoriale relativamente al nesso di causalità tra l’attività lavorativa e la patologia di cui era portatore il M. che:
le misure di protezione adottate dalla società
non potevano considerarsi sufficienti alla luce
delle conoscenze tecniche del tempo così come
emergente anche dalla comunicazione del Responsabile della sicurezza; i verbali che richiamavano l’accordo aziendale del 1977 rilevava520
Lavoro (rapporto) / Danni civili
no la conoscenza della pericolosità dell’amianto; l’esposizione derivava dalla natura delle
mansioni svolte dal lavoratore.
Quanto al danno la Corte milanese, premesso che in base agli arresti della Sezioni Unite
della cassazione (sentenze nn. 26972 e 26975
del 2008) il riferimento a tipi di pregiudizi diversi rispondeva ad esigenze descrittive e non
implicava riconoscimento di distinte categorie
di danno rilevava che il danno morale, inteso
come sofferenza fisica, costituiva una componente del danno biologico. Su tali premesse liquidava per invalidità parziale e temporanea la
somma totale di E. 10.500,00 e per il danno
biologico cd. terminale quella di E.
150.000,000 con giudizio equitativo (età del
soggetto e sofferenze fisiche correlate alle malattie che avevano determinato il decesso e psichiche per la situazione di attesa dello spegnersi della vita).
Il danno subito dai congiunti veniva quantificato dalla Corte del merito, in considerazione
della gravità della perdita subita, del rapporto
di parentela e di convivenza, in E. 330.000,00.
Tale somma veniva anch’essa con giudizio
equitativo “sulla base della gravità della perdita subita, del rapporto di parentela e di convivenza” ripartita in favore di B.A. per E.
110.000,00, in favore di M.M.G. e di M.A, per
E. 80.000,00 ciascuno e in favore di M. V. G.
per E. 60.000,00.
Sulle somme liquidate, specificava la Corte
di Appello, comprensive della rivalutazione
monetaria ad oggi, spettavano gli interessi legali dalla data della domanda fino all’effettivo pagamento.
Avverso questa sentenza la società A.E. ricorre in cassazione sulla base di quattro censure.
M.V.G. resiste con controricorso e propone
impugnazione incidentale assistita da un’unica
censura.
Le altre parti intimate resistono con controricorso. Vengono depositate memorie illustrative.
I motivi. I ricorsi vanno preliminarmente
riuniti riguardando l’impugnazione della stessa
sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale la
società deduce vizio di motivazione in quanto
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
la Corte del merito non ha tenuto conto: delle
critiche mosse dal consulente di parte alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio; delle diverse conclusioni cui è pervenuta la consulenza d’ufficio espletata nel corso del giudizio
di primo grado; delle attività lavorative prestate in precedenza dal M. presso altri datori di
lavoro.
Il motivo è infondato.
Mette conto, innanzitutto, richiamare la ricorrente affermazione di questa Corte, condivisa dal Collegio, secondo cui qualora il giudice aderisca al parere del consulente la motivazione della sentenza è sufficiente – ed è escluso
quindi il vizio deducibile in cassazione di cui
all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – pur se tale
adesione non sia specificamente giustificata,
ove il parere tecnico fornisca gli elementi che
consentano, su un piano positivo, di delineare
il percorso logico seguito e, sul piano negativo,
di escludere la rilevanza di elementi di segno
contrario, siano essi esposti in una prima difforme relazione, nella relazione di parte o
aliunde deducibili (v. per tutte Cass. n. 7494/
2011, n. 4850/2009, n. 19256/2003 e n. 3747/
2002).
Parallelamente, deve essere richiamato il
principio, consolidato nella giurisprudenza di
questa Corte regolatrice, per cui in sede di giudizio di legittimità non possono essere prospettati temi nuovi di dibattito non tempestivamente affrontati nelle precedenti fasi, principio
che trova applicazione anche in riferimento alle contestazioni mosse alle conclusioni del consulente tecnico di ufficio, e per esse alla sentenza che le abbia recepite nella motivazione, che
intanto sono ammissibili, in sede di ricorso per
cassazione, in quanto ne risulti la tempestiva
proposizione davanti al giudice di merito e che
la tempestività di tale proposizione risulti, a
sua volta, dalla sentenza impugnata, o, in mancanza, da adeguata segnalazione contenuta nel
ricorso, con specifica indicazione dell’atto del
procedimento di merito in cui le contestazioni
predette erano state formulate, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità
dell’asserzione prima di esaminare nel merito
la questione sottopostale (cfr. ex plurimis Cass.
n. 12532/2011 e n. 7696/2006).
Alla stregua dei richiamati principi sono infondate le censure che il ricorrente muove alla
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sentenza impugnata in punto di erronea valutazione delle condizioni patologiche in quanto,
per un verso non risulta la tempestiva proposizione davanti al giudice di merito delle contestazioni mosse alle conclusioni del consulente
tecnico di ufficio, né è specificato dalla società
ricorrente in quale atto processuale tali contestazioni sono state dedotte, e dall’altro il giudice di appello dà adeguatamente conto della
non condivisibilità dal punto di vista medico
legale della consulenza espletata nel primo grado del giudizio e tanto in considerazione delle
manifestazioni clinico somatiche in vita – che
non avevano mai evidenziato una patologia di
pertinenza del cavo del pericardio – e dei rilievi autoptici che dimostravano una cavità pericardica completamente libera.
Né può attribuirsi rilievo decisivo al richiamo operato dalla società ricorrente alle attività
lavorative prestate in precedenza dal M. presso
altri datori di lavoro, atteso che in ordine a tali
attività la relativa incidenza sulla patologia è
meramente assertiva.
Con la seconda censura del ricorso principale la società, denunciando violazione degli artt.
2087, 1218 e 2697 c.c., D.P.R. n. 303 del 1956,
art. 21 e art. 115 c.p.c., sostiene che erroneamente la Corte territoriale, relativamente al
nesso di causalità tra la morte del M. e l’esposizione alle polveri di amianto, ha fatto riferimento alla nozione di responsabilità oggettiva
ritenendo automaticamente sussistente la responsabilità risarcitoria di essa ricorrente in assenza di un indagine istruttoria correlata alla
vicenda lavorativa del M.
Con la terza critica del ricorso principale la
società A.E., assumendo vizio di motivazione,
denuncia che la Corte milanese ha omesso
d’individuare la condotta positiva che se posta
in essere avrebbe evitato il prodursi dell’evento.
Le censure, che in quanto strettamente connesse da un punto di vista logico-giuridico vanno tratte unitariamente, sono infondate.
Devesi al riguardo rilevare che, come ribadito anche di recente da questa Corte (Cass. n.
13956/2012 nonché Cass. n. 17092/2012 e
Cass. n. 18626/2013), la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando
521
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., la quale
impone all’imprenditore l’obbligo di adottare
nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure
che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori
(v. fra le altre Cass. n. 6377/2003, Cass. n.
16645/2003). In particolare, con riferimento
all’inalazione di polveri di amianto questo giudice di legittimità (nel confermare la sentenza
di merito che aveva ritenuto responsabili ex
art. 2087 c.c. le Ferrovie dello Stato per non
aver predisposto, negli anni ’60, le cautele necessarie a sottrarre il proprio dipendente al rischio amianto), ha asserito che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva,
ma tuttavia non è circoscritta alla violazione di
regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a
sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte
quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel
luogo di lavoro, tenuto conto della concreta
realtà aziendale e della sua maggiore o minore
possibilità di venire a conoscenza e di indagare
sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (v. Cass. n. 644/2005).
Parallelamente (in relazione ad una fattispecie
concernente il periodo 1975/1995) questa Corte ha riaffermato che la detta responsabilità
pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte
quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel
luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo
di lavorazione e del connesso rischio (Cass. n.
2491/2008 e Cass. n. 15156/2011).
Inoltre è stata anche ritenuta la irrilevanza della circostanza che il rapporto di lavoro si fosse
svolto (in quel caso) dall’anno 1956 sino al gennaio 1980 mentre specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto sono state introdotte per la prima volta col D.P.R. 10 febbraio 1982, n. 15 (Cass. n. 14010/2005).
Infatti si è rimarcato che “la pericolosità della
lavorazione dell’amianto era nota da epoca ben
522
Lavoro (rapporto) / Danni civili
anteriore all’inizio del rapporto di lavoro de
quo”. Già il R.D. 14 giugno 1909, n. 442 che
approvava il regolamento per il T.U. della legge
per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all’art.
29, tabella B, n. 12, includeva la filatura e tessitura dell’amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l’applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a
speciali cautele, con una specifica previsione
dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo. Analoghe disposizioni dettava il regolamento per l’esecuzione della
legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli,
emanato con D.Lgt. 6 agosto 1916, n. 1136, art.
36, tabella B, n. 13 e il R.D. 7 agosto 1936, n.
1720 che approvava le tabelle indicanti i lavori
per i quali era vietata l’occupazione dei fanciulli e delle donne minorenni, prevedeva alla tabella B i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri
in cui era consentita l’occupazione delle donne
minorenni e dei fanciulli, subordinatamente all’osservanza di speciali cautele e condizioni e,
tra questi, al n. 5, la lavorazione dell’amianto,
limitatamente alle operazioni di mescola, filatura e tessitura. Lo stesso R.D. 14 aprile 1927, n.
530, tra gli altri agli artt. 10, 16 e 17, conteneva
diffuse disposizioni relative alla aerazione dei
luoghi di lavoro, soprattutto in presenza di lavorazioni tossiche. D’altro canto l’asbestosi,
malattia provocata da inalazione da amianto,
era conosciuta fin dai primi del ’900 e fu inserita tra le malattie professionali con la L. 12 aprile 1943, n. 455. In epoca più recente, oltre alla
legge delega 12 febbraio 1955, n. 52, che, all’art. 1, lett. F, prevedeva di ampliare il campo
della tutela, al D.P.R. 19 marzo 1956, n. 303 e
alle visite previste dal D.P.R. 20 marzo 1956, n.
648, si deve ricordare il regolamento 21 luglio
1960, n. 1169 ove all’art. 1 si prevede, specificamente, che la presenza dell’amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto
tale da determinare il rischio alla salute può infine ricordarsi che il premio supplementare stabilito dal T.U. n. 1124 del 1965, art. 153 per le
lavorazioni di cui all’allegato n. 6, presupponeva un grado di concentrazione di agenti patogeni superiore a determinati valori minimi.
D’altro canto l’imperizia, nella quale rientra
la ignoranza delle necessarie conoscenze tecniNGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
co-scientifiche, è uno dei parametri integrativi
al quale commisurare la colpa, e non potrebbe
risolversi in esimente da responsabilità per il
datore di lavoro. Da quanto esposto discende
che all’epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti era ben nota
l’intrinseca pericolosità delle fibre dell’amianto, tanto che l’uso di materiali che ne contengono era sottoposto a particolari cautele, indipendentemente dalla concentrazione di fibre. Si
imponeva, quindi, il concreto accertamento
della adozione di misure idonee a ridurre il rischio connaturale all’impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di
chiusura di cui all’art. 2087 c.c. ed al D.P.R. 19
marzo 1956, n. 303, art. 21 ove si stabilisce che
“nei lavori che danno normalmente luogo alla
formazione di polveri di qualunque specie, il
datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è
possibile, lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro” soggiungendo che “le misure
da adottare a tal fine devono tenere conto della
natura delle polveri e della loro concentrazione” cioè devono avere caratteristiche adeguate
alla pericolosità delle polveri. Devono altresì
esser tenute presenti altre norme dello stesso
D.P.R. n. 303 ove “si disciplina il dovere del
datore di lavoro di evitare il contatto dei lavoratori con polveri nocive: così l’art. 9, che prevede il ricambio d’aria, l’art. 15, che impone di ridurre al minimo il sollevamento di polvere nell’ambiente mediante aspiratori, l’art. 18, che
proibisce l’accumulo delle sostanze nocive,
l’art. 19, che impone di adibire locali separati
per le lavorazioni insalubri, l’art. 20, che difende l’aria dagli inquinamenti con prodotti nocivi
specificamente mediante l’uso di aspiratori,
l’art. 25, che prescrive, quando possa esservi
dubbio sulla pericolosità dell’atmosfera, che i
lavoratori siano forniti di apparecchi di protezione”.
Da questa ricostruzione storico-giuridica
dell’art. 2087 c.c. in relazione alla fattispecie di
cui è causa, alla quale il Collegio pienamente
aderisce ribadendola nella presente sede,
emerge la correttezza della sentenza impugnata
che adeguandosi ai richiamati principi sanciti
da questa Corte nella specifica materia ha fatto
corretta applicazione della norma codicistica
denunciata ed ha appunto ritenuto la responNGCC 2015 - Parte prima
Lavoro (rapporto) / Danni civili
sabilità della società in relazione alla mancata
adozione di quelle cautele – prescritte da norma specifica ed in via generale dall’art. 2087
c.c. – che avrebbero ridotto il rischio, non essendo necessaria, ai fini di cui trattasi, per le
ragioni sopra esposte, la prova che ove adottate siffatte cautele avrebbero evitato l’evento.
Con l’ultima censura del ricorso principale la
società, prospettando violazione degli artt.
2059 e 2697 c.c., deduce che la Corte del merito, quanto al danno iure hereditatis, riconoscendo il danno biologico cd. terminale ed il
danno da inabilità, ha erroneamente proceduto
ad una duplicazione del risarcimento del danno, mentre in relazione al danno iure proprio
ha riconosciuto una pluralità di danni in assenza di prova del concreto pregiudizio patito.
In particolare per quanto attiene agli attuali
controricorrenti, eredi di M.U., la S.p.A. A.E.
rimarca come il danno non patrimoniale morale non ricorre automaticamente e che, quindi,
le controparti avrebbero dovuto allegare concrete e significative circostanze atte a dimostrare lo sconvolgimento foriero di “scelte di vita
diverse” e cioè lo sconvolgimento della esistenza obiettivamente accertabile in ragione della
alterazione del modo di rapportarsi con gli altri
nell’ambito della vita comune di relazione, sia
all’interno che all’esterno del nucleo familiare.
Rileva il Collegio che la censura è, alla luce
della giurisprudenza più recente di questa Corte, qui da ribadire infondata, nella parte in cui
contesta la liquidazione dei danni subiti dal
M.U. sia sul versante patrimoniale, sia di quello della sofferenza fisica e di quelle psichiche e
morali, scaturenti dalla consapevolezza del malato dello spegnersi della vita.
Questo giudice di legittimità, infatti, ha sancito che il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita – bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto ed
inviolabile – è garantito dall’ordinamento in
via primaria anche sul piano della tutela civile,
presentando carattere autonomo, (per tutte v.
Cass. 1361/2014).
Tanto comporta che non vi è stata alcuna
duplicazione del danno in parola avendo la
Corte riconosciuto iure hereditatis, il danno
biologico cd. terminale ed il danno da inabilità.
Sotto altro profilo, ossia quello dei danni liquidati in favore degli eredi, la censura è fon523
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
data perché la Corte del merito ha proceduto
alla loro liquidazione senza dare conto – anche
sulla base di presunzioni – della esistenza di tali danni e perché ha applicato criteri di valutazione non idonei alla loro “personalizzazione”.
È oramai da tempo acquisita la condivisione
dell’assunto che il principio dell’integrale risarcimento del danno non può subire restrizione
quando è in discussione la tutela dei diritti fondamentali ed individuali della persona (cfr.
Corte Cost. 485/1991) e che alla inderogabilità
di tale tutela debba conseguire, come è stato
osservato in dottrina, una consequenziale personalizzazione dei pregiudizi che tenga conto
delle modalità del caso concreto e della sua
specificità al fine di pervenire ad una “totale
restaurazione della persona”.
Corollario, sul piano della realtà fattuale, è
che i principi ora enunciati portano ad evidenziare – ancora una volta in linea con quanto sostenuto con la dottrina civilistica – come soprattutto in tema di quantificazione dei danni
non patrimoniali si possa evidenziare la necessità di una drastica riduzione dell’applicazione
delle poste liquidatorie indicate nelle tabelle
normative (di cui al D. Lgs. n. 38 del 2000, art.
13 e al D. Lgs. n. 209 del 2005 e successive modifiche, artt. 138 e 139) o in quelle di diversa
natura, come le tabelle del Tribunale di Milano, la cui applicabilità in giudizio ha trovato riconoscimento anche a livello di giurisprudenza
di legittimità (cfr. ex plurimis: Cass. 14402/
2011 nonché Cass. 12408/2011, che ha evidenziato come il richiamo alle tabelle di Milano
garantisce una unità di trattamento di riferimento al criterio di liquidazione predisposto
dal suddetto Tribunale essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale tanto da
assumere la valenza in linea generale di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico di cui agli artt. 1226 e
2056 c.c.).
Le suddette considerazioni hanno indotto –
specialmente in settori come quello giuslavoristico in cui non di rado si assiste alla lesione di
diritti primari dei lavoratori aventi copertura
costituzionale – ad auspicare un progressivo allargamento dell’area della risarcibilità dei danni non patrimoniali, quali quelli morali, ed alla
formulazione di un catalogo di diritti inviolabili al fine di garantire una piena tutela della in524
Lavoro (rapporto) / Danni civili
tegrità sia fisica che morale della persona, che
quale espressione primaria della dignità umana, viene tutelata dall’art. 2 Cost. e dall’art. 1
della Carta di Nizza (che antepone la dignità finanche alla vita) ed ora dal Trattato di Lisbona
ratificato dall’Italia con la L. 2 agosto 2007, n.
290).
Alla stregua delle svolte riflessioni può affermarsi che il “principio della personalizzazione
del danno non patrimoniale” e, in primo luogo, del danno morale soggettivo per richiedere
un’attenta valutazione delle modalità delle singole ed individuali situazioni esistenziali in cui
versa il danneggiato e per richiedere, altresì, un
esame delle possibili ricadute delle sofferenze
sulla salute anche psichica dello stesso danneggiato ha portato ad un graduale “declinio delle
tabelle” ed a rendere la materia in esame poco
permeabile ai criteri di quantificazione delle
summenzionate tabelle per essere queste volte
ad equiparare – al fine di garantire in tutto il
territorio nazionale un uguale trattamento nella loro liquidazione – danni che, invece, per loro natura, devono rimanere differenziati.
Detti danni, infatti, in quanto non omologabili sulla base di indici standard di liquidazione
ed in quanto non suscettibili di essere risarciti
– in ragione di una propria specifica natura –
nel “loro preciso ammontare” sono assoggettabili da parte del giudice, alla stregua di quanto
disposto dagli artt. 1226 e 2056 c.c., unicamente ad una valutazione equitativa, che deve fare
riferimento a criteri funzionalizzati alla “personalizzazione” del danno, in linea con i dieta
giurisprudenziali più volte ribaditi, con i quali
è stato rimarcato il dovere del giudice del merito di dare conto dei criteri di valutazione
equitativa e del percorso logico che ha condotto al risultato finale della liquidazione, in ordine al quale deve considerare tutte le circostanze del caso concreto e, specificamente – quali
elementi di riferimento pertinenti – l’attività
espletata, le condizioni sociali e familiari del
danneggiato, la gravità delle lesioni e degli
eventuali postumi permanenti subiti (cfr. in tali
sensi Cass. 20320/2005 e Cass. 11039/2006).
Per gli enunciati principi il giudice di merito,
pur non essendo tenuto, nel liquidare equitativamente il danno non patrimoniale, ad una
motivazione minuziosa e particolareggiata, è
obbligato, però, a perseguire una “personalizNGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 17.12.2014, n. 26590
zazione” del danno, che passi attraverso la individuazione di criteri valutativi parametrata
alla specificità del caso esaminato e, conseguentemente, dando il dovuto rilievo anche alla natura ed alla entità delle sofferenze ed alle
consequenziali ricadute sul vivere quotidiano
del danneggiato (cfr. al riguardo per riferimenti Cass. 11039/2006 cit.).
Corollario ultimo dell’iter argomentativo seguito, e che, in parziale accoglimento del quarto motivo del ricorso principale, la sentenza
della Corte territoriale va cassata nella parte in
cui – dopo avere riconosciuto agli eredi di
M.U., in proprio e quali eredi del suddetto M.,
danni non patrimoniali nella complessiva somma di trecentomila Euro – ha ripartito tale
somma, così come riportato nello storico di lite, senza procedere ad una motivata ed esauriente personalizzazione dei danni subiti da
ciascuno degli eredi, per non avere indicato
con la necessaria specificità le ragioni poste a
base della differenza nel riparto; differenza
oscillata tra massimo di centodiecimila Euro
(in favore di B.A.) ed un minimo di sessantamila Euro (in favore di M.V.G.), e giustificata
con richiamo del tutto generico solamente al
“rapporto di parentela e convivenza”, senza
nessun esame e valutazione delle specifiche ricadute che l’evento doloroso della morte del
M. ha determinato nella vita di ciascuno dei
suoi congiunti e conviventi.
Per concludere, dunque, a seguito della cassazione della sentenza impugnata la causa va rimessa alla Corte di Appello di Milano (in diversa composizione) che si atterrà al seguente
principio di diritto: “nella liquidazione dei danni non patrimoniali patiti dagli eredi per la
morte di un loro congiunto per malattia professionale (nella specie per mesiotelioma polmonare) il giudice del merito pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una motivazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, nella valutazione equitativa di detti
danni ex artt. 1226 e 2059 c.c., ad individuare
dei validi criteri di giudizio parametrati alla
specificità del caso da esaminare e, conseguentemente, funzionalizzati ad una ‘personalizzazione’ di detti danni, non conseguibile, invece,
attraverso standards valutativi delle tabelle normative (di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000, art. 13 e
del D.Lgs. n. 209 del 2005 e successive modifiNGCC 2015 - Parte prima
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che, artt. 138 e 139) o di quelle del Tribunale di
Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità”.
Con il ricorso incidentale M.V.G., denunciando violazione dell’art. 1219 c.c. sostiene
che la Corte del merito ha erroneamente liquidato interessi e rivalutazione monetaria (quest’ultima già calcolata nelle somme liquidate)
dalla domanda intendendo con ciò erroneamente la data del primo atto giudiziale, mentre
in realtà interessi e rivalutazione monetaria dovevano farsi decorrere dalla raccomandata del
27 maggio 2000 con cui gli eredi del M., chiedendo il risarcimento dei danni patiti a seguito
della malattia e morte del loro congiunto, mettevano in mora la società A.E.
La censura è infondata.
Invero il ricorrente incidentale con la censura in esame deduce un omessa pronuncia, tuttavia non allega, in violazione del principio di
autosufficienza, di aver chiesto nell’atto introduttivo del giudizio la liquidazione degli accessori con decorrenza dalla data della allegata
messa in mora. Né specifica di aver fatto riferimento in detto atto alla raccomandata del 27
maggio 2000.
In conclusione va accolto, e solo in parte, il
quarto motivo del ricorso principale mentre gli
altri motivi di detto ricorso in uno a quello incidentale vanno rigettati.
Conseguentemente la sentenza impugnata
va, in relazione al motivo accolto, cassata con
rinvio anche per le spese del giudizio di legittimità alla Corte di Appello di Milano in diversa
composizione.
P.Q.M.
La Corte riuniti i ricorsi accoglie in parte il
quarto motivo del ricorso principale, rigetta gli
altri motivi ed il ricorso incidentale. Cassa in
relazione al motivo accolto la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio
di legittimità, alla Corte di Appello di Milano
in diversa composizione.
[Vidiri Presidente – Napoletano Estensore – Celentano P.M. (concl. parz. diff.). – A.E. s.p.a. (avv.ti Morrico e Del Franco) – B.A., M.M.G., M.A.
(avv. Paganetti Bianchi) – M.V.G. (avv.ti Aurelio e
Poggi Longostrevi]
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Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento
Nota di commento: «Tutela del lavoratore e
personalizzazione del danno: oltre le tabelle?» [,]
I. Il caso
La sentenza della Cassazione muove dal riconoscimento della malattia professionale (mesotelioma)
del lavoratore, dipendente della Società A.E. dal
1963 al 1987. La malattia è stata diagnosticata nel
corso dell’anno 1998 e il lavoratore è deceduto nel
marzo 1999.
Gli eredi della vittima hanno agito nei confronti
della Società per ottenere la condanna al risarcimento dei danni iure proprio e iure hereditatis conseguenti all’evento (malattia e successivo decesso) che
ha colpito il dante causa.
La Corte d’Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale, ha accolto la domanda degli
eredi e liquidato le seguenti poste risarcitorie:
10.500,00 euro per invalidità parziale e temporanea
e 150.000,00 euro per il danno biologico subiti dal
lavoratore.
Il danno subito dai congiunti, invece, è stato stimato, con giudizio equitativo, nella somma di
330.000,00 euro, in ragione della gravità della perdita subita, del rapporto di parentela e di convivenza,
ripartita in modo differenziato tra gli eredi.
Avverso la sentenza, la Società A.E. ha proposto
ricorso in Cassazione sulla base di quattro censure
che attengono al rapporto tra consulenza peritale e decisione del giudice, al nesso causale e
al ruolo dell’art. 2087 cod. civ. come norma
di chiusura del sistema, nonché alla necessaria
personalizzazione del danno che non è assicurata dalla mera applicazione delle tabelle dei
Tribunali.
II. Le questioni
1. L’art. 2087 cod. civ. come norma di chiusura del sistema prevenzionistico. Il primo
profilo esaminato dal giudice, di cui si può dare solo
brevemente conto per soffermarsi, invece, sui punti
centrali della motivazione, riguarda il ruolo di peritus peritorum svolto dal giudice a fronte delle consulenze tecniche fornite dal c.t.u. e dai c.t.p. L’orientamento della giurisprudenza è pacifico laddove ritiene che il giudice può aderire al parere del consulente senza giustificare in modo analitico tale adesione
sempre che dal parere si possa evincere il ragionamento logico seguito e al contempo escludere la rilevanza di elementi di segno contrario esposti nella
relazione di parte o altrove deducibili (Cass.,
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
526
Lavoro (rapporto) / Danni civili
31.3.2011, n. 7494; Cass., 27.2.2009, n. 4850, entrambe infra, sez. III).
Il secondo e terzo motivo, che vengono trattati
congiuntamente dalla Supr. Corte, attengono al nesso causale tra la morte del lavoratore e l’esposizione
alle polveri di amianto e, strettamente connesso a tale profilo, al ruolo di chiusura del sistema offerto
dall’art. 2087 cod. civ. Ciò anche al fine di individuare la condotta positiva attesa dall’obbligato principale alla sicurezza (Cass., 5.8.2013, n. 18626;
Cass., 8.10.2012, n. 17092; Cass., 3.8.2012, n.
13956; Cass., 5.11.2003, n. 16645; Cass., 19.4.2003,
n. 6377, tutte infra, sez. III).
La Società ha, infatti, lamentato come la Corte
territoriale abbia attribuito una responsabilità risarcitoria senza una effettiva indagine istruttoria sulle
condizioni lavorative e sulla sussistenza del nesso
eziologico tra tale attività e il decesso del lavoratore,
configurando così una responsabilità oggettiva in
capo alla medesima.
Va precisato che, nel nostro ordinamento, l’interpretazione tradizionalmente rigorosa e garantista
dell’art. 2087 cod. civ. ha sì integrato, ed esteso, il
contenuto dell’obbligo prevenzionistico, includendo i c.d. nuovi rischi, attraverso il parametro della
massima sicurezza tecnologicamente possibile, ma
non ha mai inficiato il principio di responsabilità
per colpa, sia in sede civile che penale. Ciò sebbene
si sia spesso sostenuta l’esistenza di una difficoltà
del datore di lavoro a fornire la prova liberatoria (o
a discarico) dell’adozione di tutte le misure necessarie per evitare l’infortunio o la malattia professionale.
La giurisprudenza penale, al fine di individuare la
responsabilità del datore di lavoro, ricorre al giudizio di prevedibilità ed evitabilità del pericolo che è
considerato il fondamento della responsabilità per
colpa; tale ragionamento è mutuato, con gli opportuni accorgimenti, in sede civile. Alla base di norme
precauzionali volte a rimuovere il pericolo derivante
dalle diverse attività umane si collocano, pertanto,
regole di esperienza dedotte da giudizi reiterati sulla
pericolosità dei comportamenti e sui mezzi più idonei ad evitarne le conseguenze: le regole di esperienza rappresentano la «cristallizzazione di giudizi di
prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo».
Nel valutare la posizione del datore di lavoro si
devono, pertanto, considerare due fattori: il rispetto
delle regole di condotta e il rinnovo (volta per volta)
del giudizio prognostico per verificare la persistente
validità delle suddette regole.
Secondo la Corte, qualora le misure prevenzionistiche non siano indicate da norme specifiche, dovranno essere adottate proprio sulla base dell’art.
2087 cod. civ. che impone al datore di lavoro una diligenza particolarmente qualificata nel rispetto delNGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento
l’obbligo di sicurezza, per i preminenti valori giuridici tutelati dalla norma (vita, salute e, nelle letture
più recenti, dignità, benessere).
Il datore di lavoro dovrà, in ragione della concreta realtà aziendale e dei rischi ad essa connessi
(Cass., 11.7.2011, n. 15156; Cass., 1.2.2008, n.
2491; Cass., 14.1.2005, n. 644, tutte infra, sez. III),
attivarsi sulla scorta della c.d. best available technology che subordina l’adozione delle misure alla loro
disponibilità sul mercato, prescindendo dal costo
economico (considerando 13 dir. n. 391/89 CE): chi
pone in essere un’attività economica deve, pertanto,
dimostrare di aver predisposto la miglior tecnologia
o che l’attività non presenti rischi per la salute.
Con riguardo a quest’ultimo profilo, la Società,
nel caso concreto, non poteva opporre la non conoscenza della pericolosità dell’amianto, quale premessa esimente per la mancata adozione di opportune cautele. La Supr. Corte, infatti, ricostruisce con
minuzia i precedenti normativi – in particolare l’art.
21 e gli artt. 9, 15, 18, 19, 20 e 25 del d.p.r. n. 303/
1956 – in cui sono contenuti peculiari divieti, limitazioni, indicazioni di necessari e speciali presidi in relazione all’utilizzo o al contatto con l’amianto.
In presenza di tali disposizioni il datore di lavoro
difficilmente sarebbe riuscito a sostenere di ignorare
la nocività della sostanza. E comunque, prosegue la
Corte, «l’imperizia, nella quale rientra l’ignoranza
delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno
dei parametri integrativi a cui commisurare la colpa, e
non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità
per il datore di lavoro».
L’art. 2087 cod. civ. si conferma, così, anello di
congiunzione tra le norme di diligenza e la disciplina tecnica e, come spesso definito, norma di chiusura del sistema di prevenzione.
Il quarto motivo concerne, invece, il risarcimento
del danno riconosciuto alla vittima ed ai suoi eredi
e, soprattutto, la quantificazione dello stesso alla luce del principio di integrale riparazione.
Nel contratto di lavoro, è l’art. 2087 cod. civ. che
inserisce nell’area del rapporto interessi non suscettibili di valutazione economica (l’integrità fisica e la
personalità morale) la cui lesione a seguito di inadempimento del (o ascrivibile al) datore di lavoro
determina, se soddisfatti i requisiti di prova, il risarcimento del danno non patrimoniale. Il filtro offerto
dall’art. 2087 cod. civ., in questa ed in altre vicende
legate alla tutela della persona nel rapporto di lavoro, garantisce il rispetto del principio di tipicità sotteso all’art. 2059 cod. civ.
Le sentenze di San Martino del novembre 2008
avevano ribadito, infatti, l’autosufficienza dell’art.
2087 cod. civ. nel far emergere i diritti inviolabili del
lavoratore – anche in combinato disposto con le
norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 32 e 41) – la cui leNGCC 2015 - Parte prima
Lavoro (rapporto) / Danni civili
sione può dar corso al risarcimento del danno non
patrimoniale, senza dover ricorrere al danno esistenziale.
Nell’ordinanza di rimessione aveva colpito il quesito sull’autonomia e la risarcibilità del danno esistenziale da contratto e, nello specifico, nel rapporto
di lavoro, come se il danno non patrimoniale qui assumesse caratteristiche specifiche. In realtà, il contenzioso in materia di lavoro offre spunti interessanti di discussione che muovono dall’atteggiamento
delle Corti a mostrarsi, in molti casi, più disponibili
a riconoscere le diverse voci in cui il danno non patrimoniale viene suddiviso per esigenze descrittive:
in particolare, il danno morale spesso concesso anche in vicende che non sono connotate dall’esistenza di una fattispecie, seppur astratta, di reato (Cass.,
28.6.2013, n. 16413, infra, sez. III).
Il danno non patrimoniale si conferma, però, un
danno conseguenza «determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza
economica». Ai fini del risarcimento devono sussistere tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile:
condotta; nesso di causalità; danno, che viene appunto distinto in danno evento – ossia l’ingiustizia
determinata dalla lesione non giustificata di interessi
meritevoli di tutela – e danno conseguenza ovvero il
pregiudizio derivante dalla condotta. A questi requisiti, va aggiunto quello della prevedibilità, come indicato da Cass., 31.5.2003, n. 8828 (in questa Rivista, 2004, I, 232 ss.).
A differenza del danno patrimoniale, la tipicità
del danno non patrimoniale esige una selezione rigorosa dei beni tutelati funzionale alla sopravvivenza di un sistema di responsabilità civile con ormai
sempre più scarse risorse da redistribuire. Tale selezione viene operata o, a monte, dal legislatore o, a
valle, dal giudice, che si orienta utilizzando alcuni
criteri: l’ingiustizia costituzionalmente qualificata
dell’evento di danno (e non l’ingiustizia generica di
cui all’art. 2043 cod. civ.), la gravità dell’offesa e la
serietà del pregiudizio. Questi criteri sono stati indicati dalle sez. un. del 2008 come limiti alla risarcibilità del danno ed attuano un «bilanciamento tra il
principio di solidarietà verso la vittima, e quello di
tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del
danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui
sia superato il livello di tollerabilità ed il c.d. pregiudizio non sia futile».
Sebbene il danno non patrimoniale sia inteso come categoria unitaria, a fini descrittivi e di quantificazione, è ammessa una articolazione che viene in
parte riproposta nella sentenza in commento, dove
sono stati individuati: il danno biologico che consiste nel pregiudizio all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale; il
danno morale che rappresenta la sofferenza sogget527
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tiva (transeunte o meno), di cui le sez. un. del 2008
hanno escluso l’automatica risarcibilità come frazione del biologico; il danno non patrimoniale subito
dagli eredi per il venir meno del rapporto parentale
e di convivenza.
2. La quantificazione del danno. Punto interessante della pronuncia concerne la quantificazione
e, soprattutto, la necessaria personalizzazione del
danno (Cass., 18.11.2014, n. 24473; Cass.,
18.11.2014, n. 23778; Cass., 8.7.2014, n. 15491,
Cass., 18.5.2012, n. 7963, tutte infra, sez. III). Le
sentenze di San Martino chiedevano al giudice di
procedere ad una adeguata personalizzazione della
liquidazione del danno biologico nella sua dinamicità, con valutazione delle sofferenze fisiche e psichiche patite nella loro effettiva consistenza: l’obiettivo
è quello della riparazione integrale, «ma non oltre».
Per raggiungere tale obiettivo, la giurisprudenza
ha fatto ricorso alle tabelle, tra cui in particolare
quelle di Milano, che tuttavia sono considerate dalla
Supr. Corte come non vincolanti; esse costituiscono,
infatti, «un parametro meramente orientativo ed indicativo della liquidazione equitativa nella singola fattispecie e necessitano comunque di un’attività di compiuta ed adeguata personalizzazione, al fine di renderle aderenti alla peculiarità del caso», senza che sia necessario ricercare quella correttamente applicata al
tempo della liquidazione nell’ufficio giudiziario procedente o in altri uffici.
L’unico obbligo per il giudice è quello di motivazione, indicando l’iter logico seguito e salvo solo il
ricorso a parametri o a ragioni incongrui o illogici
(Cass., 24.3.2011, n. 6737, infra, sez. III).
Negli ultimi anni, molti Tribunali hanno aggiornato il valore di punto del danno biologico, anche a
fronte della nozione totalizzante/omnicomprensiva
del c.d. danno biologico dinamico nel d. legis.
7.9.2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private),
in cui si dà risalto all’incidenza sulle attività quotidiane e ai profili relazionali del danno alla salute ampliando così la nozione rispetto a quella dell’art. 13
del d. legis. 20.2.2000, n. 38 (Disposizioni in materia
di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le
malattie professionali, a norma dell’art. 55, comma
1o, della legge 17 maggio 1999, n. 144), in materia di
assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le
malattie professionali. L’indennizzo offerto dall’Inail risponde, infatti, ad una ratio diversa ossia a
quelle esigenze solidaristiche ed assistenziali sottese
all’art. 38, comma 2o, Cost.; la soddisfazione del
principio di integrale riparazione del danno è così
affidata, in tale ambito, al danno differenziale.
Nelle tabelle milanesi – che risultano essere le più
utilizzate – la componente di sofferenza soggettiva
viene inserita e conglobata nel valore di liquidazione
528
Lavoro (rapporto) / Danni civili
medio del punto, soggetto poi alle variazioni quantitative relative alla gravità delle lesioni e all’età dell’infortunato; è, altresì, ammessa la possibilità di una
personalizzazione con applicazione discrezionale di
una variazione percentuale da modellare sul caso
concreto (Trib. Pavia, 19.11.2010, infra, sez. III).
L’adeguamento delle tabelle è quindi necessario,
oltre che apprezzabile. Tuttavia, nella sentenza in
commento la Cassazione nel rinviare al criterio equitativo e al suo ancoraggio a validi criteri di giudizio
– parametrati alla specificità del caso da esaminare e
funzionalizzati ad una personalizzazione dei danni –
asserisce che detta personalizzazione non è perseguibile attraverso gli standard valutativi delle tabelle
predisposte dal legislatore o dai Tribunali. Ciò conferma quanto sostenuto dalla dottrina che ritiene la
quantificazione operata attraverso le tabelle un «il
minimo risarcitorio», uniforme per tutte le vittime
che hanno subito lo stesso tipo di lesione, ma a cui
va aggiunta una personalizzazione effettiva basata su
parametri che attengono alla funzione assegnata al
risarcimento del danno, anche in chiave deterrentepunitiva.
Si offre, così, maggior margine di manovra alla valutazione equitativa del giudice. Sebbene essa sia
inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di
approssimazione e, pertanto, suscettibile di rilievi in
sede di legittimità, lo è, secondo la Cassazione, solo
«se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai
dati di comune esperienza, o sia radicalmente contraddittoria» (Cass., 26.1.2010, n. 1529; Cass.,
16.9.2008, n. 23725, infra, sez. III). Si può parlare,
quindi, di criterio equitativo «puro», quando la determinazione è svincolata da tabelle standardizzate e
criteri automatici (Cass., 14.9.2010, n. 19517, infra,
sez. III) e di «criteri equitativi correttivi», quando
questi vengono finalizzati alla effettiva personalizzazione del ristoro pecuniario, integrando la quantificazione tabellare (Cass., 20.2.2015, n. 3374, infra,
sez. III).
Ciò assegna al giudice una valutazione ponderata
dei connotati caratterizzanti il singolo caso sottoposto alla sua attenzione, sebbene non vada trascurato
il fatto che ciò può portare a scostamenti notevoli
nella liquidazione anche in casi simili. Va segnalato
che nella pronuncia del 2011 sulla c.d. vocazione nazionale delle tabelle milanesi, la Cassazione ha sostenuto che «il concetto di equità racchiude in sé due caratteristiche»: la prima è quella di «giustizia del caso
singolo», strumento di adattamento della legge al
caso concreto; la seconda attiene alla «funzione di
garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che i casi uguali non siano trattati in modo diseguale». La finalità sarebbe quella di garantire sia il
principio di eguaglianza sia la certezza del diritto
NGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento
(Cass., 7.6.2011, n. 12408; Cass., 26.4.2010, n.
9921, entrambe infra, sez. III).
A ciò si aggiungono le considerazioni svolte supra
sulla funzione del risarcimento che trova peculiare
declinazione in alcune sentenze relative al rapporto
di lavoro.
Nella pronuncia della Cassazione del 2010 (Cass.,
19.5.2010, n. 12318, infra, sez. III), in un caso di
molestie sessuali nei confronti di una lavoratrice, è
stato dedicato ampio spazio ai criteri di liquidazione
equitativa del danno. Nel caso specifico, il giudice
di merito si era discostato dalle tabelle utilizzate del
Tribunale di Torino. Secondo la Supr. Corte, il giudice territoriale aveva correttamente adottato criteri
diversi, in ragione della peculiarità del caso. Infatti,
da un lato, si è ritenuto che il danno biologico fosse
di lieve entità mentre, dall’altro, la gravità della condotta discriminatoria e la sua idoneità a offendere
beni personali di rilevanza costituzionale hanno fatto sì che venissero personalizzati sia il danno morale
(per la odiosità della condotta molesta) sia quello
esistenziale (per il clima di intimidazione creato nell’ambiente di lavoro con ricadute anche sui rapporti
affettivi e sulla vita familiare). La Corte ha parlato di
«particolare gravità ed odiosità del comportamento lesivo e notevole capacità di offendere i beni personali
costituzionalmente protetti», che ha portato il giudice a disattendere le indicazioni contenute nelle tabelle adottate nel foro di competenza, per garantire
una più effettiva personalizzazione del risarcimento
(Cass., 24.3.2011, n. 6737), e a stabilire che la somma liquidata fosse in grado di fungere da monito solo qualora non rappresentasse un «simulacro di risarcimento» (Cass., 10.3.2010, n. 5770, infra, sez. III).
Alla funzione compensatoria del danno il giudice ha
evidentemente affiancato, nel caso specifico, una
funzione afflittivo-deterrente. È quanto viene
espressamente affermato dal Tribunale di Pistoia,
sempre in un caso di molestie sessuali sul luogo di
lavoro (Trib. Pistoia, 8.9.2012, infra, sez. III). Il
giudice ha ritenuto che nei casi di discriminazione
fondate sul genere (e le molestie sono equiparate alle discriminazioni ai sensi dell’art. 2 dir. n. 43/2000
CE e dir. n. 78/2000 CE, nonché ai sensi dell’art. 26,
comma 2o, d. legis. n. 198/2006, c.d. codice delle
pari opportunità) la quantificazione del danno deve
essere «idonea a soddisfare la funzione non solo ripristinatoria, ma anche dissuasiva del rimedio». Tale
funzione, secondo il Tribunale, trova la sua radice
nel diritto comunitario e, in particolare, nella dir. n.
54/2006 CE che, in continuità con le direttive del
2000, non solo ha incluso il risarcimento del danno
non patrimoniale tra le sanzioni comminabili, ma ha
specificato che le sanzioni devono assumere il carattere della effettività, proporzionalità e dissuasività.
La direttiva del 2006, inoltre, ha stabilito che il risarNGCC 2015 - Parte prima
Lavoro (rapporto) / Danni civili
cimento, in generale, «non può avere un massimale
stabilito» (art. 18).
Le argomentazioni della giurisprudenza sono interessanti in relazione ai dubbi sollevati dopo le pronunce di San Martino sul ruolo di cenerentola assegnato al danno morale, nei passaggi in cui si nega la
sua liquidazione calcolata come frazione del danno
biologico senza indagine sulla sua sussistenza. La liquidazione «può essere effettuata dal giudice sulla base di criteri standardizzati e predeterminati, assumendosi come parametro il valore medio per punto, calcolato sulla media dei precedenti in virtù della cosiddette “Tabelle” presso l’ufficio giudiziario, sempre che il
risultato, in tal modo raggiunto, venga poi “personalizzato”, tenendo conto della particolarità del caso
concreto e della reale entità del danno» (Cass.,
26.4.2010, n. 9921).
Sebbene l’adozione di meccanismi semplificativi
non sia sempre idonea a far intendere come siano
state apprezzate la gravità del fatto, le condizioni
soggettive della persona, l’entità della sofferenza e
del turbamento dello stato d’animo, al fine di dare
una risposta congrua, adeguata e satisfattiva della lesione della dignità umana «desumibile dall’art. 2
Cost. in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza»
(Cass., 12.12.2008, n. 29191, infra, sez. III), non va
dimenticato che, in alcuni casi, l’allontanamento
dalle tabelle ha portato il giudice a risarcire meno di
quanto si sarebbe stato riconosciuto ai danneggiati
utilizzando il parametro standardizzato (Cass.,
17.4.2013, n. 9231, infra, sez. III).
La Supr. Corte, nella sentenza in commento, fornisce, infine, al giudice del rinvio il principio di diritto cui attenersi: «nella liquidazione dei danni non
patrimoniali patiti dagli eredi per la morte di un loro
congiunto per malattia professionale (...) il giudice del
merito pur non essendo tenuto a supportare la sua decisione con una valutazione minuziosa e particolareggiata, è tuttavia tenuto, nella valutazione equitativa
dei danni ex artt. 1226 e 2059 cod. civ., ad individuare dei validi criteri di giudizio parametrati alla specificità del caso da esaminare e, conseguentemente, funzionalizzati ad una “personalizzazione” di detti danni,
non conseguibile, invece, attraverso standard valutativi delle tabelle normative o di quelle del Tribunale di
Milano, che hanno trovato riconoscimento nella giurisprudenza di legittimità».
Se l’obiettivo è quello dell’integrale riparazione
del danno, le tabelle rimangono un buon punto di
partenza, in quanto il delta della possibile liquidazione permette comunque un apprezzamento equitativo del giudice. L’allontanamento dalle tabelle –
nella prospettiva di una personalizzazione del ristoro, innegabilmente utile soprattutto in vicende come
quelle che attengono al rapporto di lavoro in cui
non sempre è apprezzabile la componente biologica
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Cass., 17.12.2014, n. 26590 - Commento
della lesione – può, in alcuni casi, tradursi in un’arma a doppio taglio perché non determina de plano
un innalzamento dei valori che sarebbero liquidati
sulla scorta delle tabelle stesse. Trovare una composizione tra istanze di certezza ed oggettività, garantite dalle tabelle, e di giustizia, offerte dalla valutazione oculata del caso concreto, resta una sfida aperta.
III. I precedenti
Sul rapporto tra perizia e decisione del giudice, v.
Cass., 31.3.2011, n. 7494; Cass., 27.2.2009, n. 4850,
entrambe ined.
Sul ruolo di norma di chiusura svolto dall’art.
2087 cod. civ., v. Cass., 5.8.2013, n. 18626; Cass.,
8.10.2012, n. 17092; Cass., 3.8.2012, n. 13956, tutte
ined.; Cass., 5.11.2003, n. 16645, in Orient. giur.
lav., 2003, I, 997ss.; Cass., 19.4.2003, n. 6377, in Resp. civ. e prev., 2003, 1069 ss.
Sulla necessaria valutazione delle specificità del
contesto lavorativo per assolvere all’obbligo di sicurezza, v. Cass., 11.7.2011, n. 15156, in Foro it.,
2012, I, 2147 ss.; Cass., 1o.2.2008, n. 2491, ined.;
Cass., 14.1.2005, n. 644, in Orient. giur. lav., 2005,
I, 123 ss.
Sulla c.d. «vocazione nazionale» delle tabelle di
Milano, v. Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Foro it.,
2011, I, 2274 ss.; Cass., 30.6.2011, n. 14402, in Resp. civ. e prev., 2011, 2025 ss.
Sulla liquidazione e personalizzazione del danno,
in generale, v. Cass., 20.2.2015, n. 3374, in D & G,
6, 2015, 55 ss.; Cass., 18.11.2014, n. 24473, in D &
G, 19.11.2014; Cass., 18.11.2014, n. 23778, ined.;
Cass., 8.7.2014, n. 15491, in D & G, 9.7.2014. Nel
rapporto di lavoro, Cass., 28.6.2013, n. 16413, in
Danno e resp., 2013, 1081 ss.; Cass., 17.4.2013, n.
9231, in D & G, 18.4.2013; Trib. Pistoia,
8.9.2012, ined.; Cass., 18.5.2012, n. 7963, in Notiz.
giur. lav., 2006, 632 ss.; Cass., 24.3.2011, n. 6737,
ined.; Cass., 26.4.2010, n. 9921, ined.; Trib. Pavia, 19.11.2010, in Note informative, 2011; Cass.,
10.3.2010, n. 5770, in Arch. giur. circ., 2011, 605
ss.
Sul criterio equitativo, v. Cass., 14.9.2010, n.
19517, in Il civilista, 2010, n. 11, 22 ss.; Cass.,
19.5.2010, n. 12318, in Danno e resp., 2010, 1043 ss.;
Cass., 26.1.2010, n. 1529, ined.; Cass., 12.12.2008,
n. 29191, in Resp. civ. e prev., 2009, 811 ss.; Cass.,
16.9.2008, n. 23725, in Giust. civ., 2009, 12, 2714 ss.
530
Lavoro (rapporto) / Danni civili
IV. La dottrina
Cfr. Albi, Adempimento dell’obbligo di sicurezza e
tutela della persona, nel Commentario al codice civile,
diretto da Busnelli, Giuffrè, Milano, 2008; Amato, voce «Danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale», nel Digesto IV ed., Disc. priv.,
sez. civ., agg., 2011, 302 ss.; Busnelli-Patti, Danno
e responsabilità civile, Giappichelli, 2013; Corazza,
Mobbing e discriminazioni, in Pedrazzoli (diretto
da), Vessazioni e angherie sul lavoro, Zanichelli,
2007, 81 ss.; Del Punta, Il danno non patrimoniale
dopo le Sezioni unite del 2008: riflessioni di sistema e
ricadute lavoristiche, in Giur. it., 2009, 1038 ss.; Id.,
Diritti della persona e contratto di lavoro, in Dir. lav.
e rel. ind., 2006, 195 ss.; Fiandaca-Musco, Diritto
penale. Parte Generale, Zanichelli, 1995, 488 ss.;
Giubboni-Ludovico-Rossi, Infortuni sul lavoro e
malattie professionali, Cedam, 2014; Lassandari,
Le discriminazioni nel lavoro. Nozioni, interessi, tutele, in Galgano (diretto da), Trattato di Diritto commerciale e di Diritto pubblico dell’economia, Cedam,
2010; Lazzeroni, Molestie e molestie sessuali: nozioni, regole, confini, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, 2007, 379 ss.;
Malzani, Ambiente di lavoro e tutela della persona.
Diritti e rimedi, Giuffrè, 2014; Navarretta (a cura
di), Il danno non patrimoniale. Principi, regole e tabelle per la liquidazione, Giuffrè, 2010; Nogler,
(Ri)scoprire le radici giuslavoristiche del «nuovo» diritto civile, in Eur. e dir. priv., 2013, 959 ss.; Ponzanelli, Quale danno? Quanto danno? E chi lo decide
poi?, in Danno e resp., 2015, 71 ss.; Id., Il danno non
patrimoniale giuslavorista è diverso da quello «generale»?, ivi, 2013, 1081 ss.; Id., Tabelle, prova del
danno e concezione unitaria del danno non patrimoniale, ibidem, 595 ss.; Id., Il danno non patrimoniale:
una possibile agenda per il nuovo decennio (20102020), in Studi in onore di Tiziano Treu, Università
Cattolica del Sacro Cuore, 2011, 235 ss.; Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una
missione impossibile. Osservazione sui criteri per la
liquidazione del danno non patrimoniale, in Eur. e
dir. priv., 2014, 517 ss.; Tullini, I nuovi danni risarcibili nel rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2004,
571 ss.; Vallauri, Il danno non patrimoniale alla luce della giurisprudenza delle Sezioni unite, in Riv. dir.
sic. soc., 2009, 407 ss.
Francesca Malzani
NGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 27.1.2015, n. 1453
c CASS. CIV., III sez., 27.1.2015, n. 1453
Cassa App. Firenze, 13.10.2010, n. 1428
Obbligazioni in genere - Obbligazioni solidali nel debito - Accettazione
di un pagamento parziale da un condebitore - Rilascio di quietanza senza riserva per il residuo - Rinuncia
alla solidarietà - Sussistenza - Remissione del debito - Esclusione (cod. civ.,
artt. 1301, 1311, 1312, 1313)
In tema di obbligazioni solidali, la circostanza che il creditore accetti da uno dei
debitori il pagamento di una parte del debito complessivo, rilasciandone quietanza
e non riservandosi di agire nei confronti
dello stesso debitore per il residuo, integra gli estremi della rinuncia alla solidarietà disciplinata dall’artt. 1311, comma
2o, n. 1), cod. civ., con conseguente conservazione dell’azione in solido nei confronti degli altri condebitori, non rinvenendosi nella specie gli estremi per l’applicazione della remissione del debito liberatoria per gli altri coobbligati, disciplinata dall’art. 1301, comma 1o, cod. civ.,
giacché l’effetto della rinuncia è solo quello di ridurre l’importo del debito residuo
verso quell’obbligato e non di abdicare al
diritto di esigere dagli altri coobbligati il
pagamento di quanto ancora dovuto.
dal testo:
Il fatto. 1. L.F.P., C.G. e N.S. convennero in
giudizio La.Sa. e An.Ma. e chiesero il pagamento, in solido, del compenso residuo (pari a
Euro 38.734,27), essendo le convenute obbligate quali debitrici solidali. Esposero: – di essere stati componenti del collegio arbitrale in
un procedimento (irrituale) relativo a una controversia tra le convenute e la sorella El., nella
quale la stessa era restata soccombente; – che il
collegio arbitrale aveva liquidato in loro favore
il doppio della somma, comprensiva del compenso per il segretario, e che la soccombente
El. aveva corrisposto la metà dell’importo totale.
NGCC 2015 - Parte prima
Obbligazioni in genere
Ai fini che ancora rilevano, le convenute La.
sostennero che, avendo l’attore liberato El. da
qualsiasi ulteriore onere dopo il pagamento
della metà, non avendola citata in giudizio, doveva ravvisarsi una remissione di debito ex art.
1301 cod. civ. nei confronti della stessa, estesa
alle obbligate solidali per mancanza di riserva
nei loro confronti.
Gli attori, unitamente alla memoria ex art.
183 cod. civ., depositarono un documento a
propria firma nel quale dichiaravano di aver ricevuto la metà della somma da El. e di liberare
la stessa da qualsiasi onere e si riservavano il
recupero del residuo nei confronti delle coobbligate in solido. Le convenute contestarono la
data del documento.
Il Tribunale di Lucca accolse la domanda.
La Corte di appello di Firenze, in totale riforma, rigettò la domanda.
Ritenne l’obbligazione estinta ex art. 1301,
per intervenuta remissione del residuo debito
nei confronti di un condebitore solidale, liberatoria anche nei confronti degli altri in mancanza di riserva del diritto nei loro confronti;
compensò interamente tra le parti le spese dei
due gradi di giudizio (sentenza del 13 ottobre
2010).
2. Avverso suddetta sentenza, gli arbitri
propongono ricorso affidato a quattro motivi,
esplicati da memoria.
Resistono con unico controricorso La.Sa. e
An.Ma., che propongono ricorso incidentale in
riferimento alla compensazione delle spese
processuali operata dalla sentenza impugnata.
La decisione ha per oggetto i ricorsi riuniti
proposti avverso la stessa sentenza.
I motivi. 1. La Corte di merito ha rigettato la
domanda seguendo, per vero in modo tortuoso, il percorso logico che può essere così sintetizzato.
Gli arbitri hanno rimesso il debito residuo
ad uno dei condebitori solidali (El.) ai sensi
dell’art. 1301 cod. civ.; tanto emerge da un atto
processuale, la memoria ex art. 183 cod. proc.
civ., e dal documento prodotto con la stessa,
costituente prova contra se nei confronti di coloro che lo hanno prodotto.
Per stabilire le conseguenze verso gli altri
coobbligati dell’avvenuta remissione del debito
nei confronti di un condebitore solidale, rileva
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Cass., 27.1.2015, n. 1453
il documento prodotto, atteso che in esso è
contenuta la riserva nei confronti dei coobbligati, che è la condizione posta dall’art. 1301
cit. affinché la remissione del debito effettuata
nei confronti di un coobbligato non si estenda
nei confronti degli altri.
Non avendo il documento data certa, stante
la mancanza di tutte le condizioni previste dall’art. 2704 cod. civ. affinché sia opponibile ai
terzi (i coobbligati), non può ritenersi esistente
la riserva nei confronti dei coobbligati che,
pertanto, sono liberati dall’obbligazione per effetto della remissione. Infatti, per poter operare verso i coobbligati, la riserva deve essere
espressa, contestuale alla remissione del debito
e deve essere comunicata ai coobbligati, anche
per il principio di correttezza dei rapporti tra
creditore e debitore. In mancanza della data
certa del documento che la contiene vengono a
mancare tutte le condizioni che la riserva deve
avere per poter operare e la remissione nei
confronti di un coobbligato libera gli altri.
2. I quattro motivi del ricorso principale sono strettamente connessi.
Con il primo motivo, si deduce la violazione
degli artt. 2730, 2735 e 2734 cod. civ., unitamente a vizi motivazionali per avere la Corte di
appello ritenuto che il documento ha valore di
prova legale quanto alla remissione ed è invece
non opponibile ai coobbligati quanto alla riserva.
Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 1301 e 2697 cod. civ. oltre a insufficienza di motivazione.
Con il terzo motivo, si deduce la violazione
degli artt. 2704, 1301 e 1236 cod. civ., unitamente a vizi motivazionali, sostenendo la non
applicabilità dell’art. 2704 cod. civ.
Con il quarto motivo, si deduce la violazione
dell’art. 1301, dell’art. 1175, oltre a vizi motivazionali.
2.1. In estrema sintesi, i ricorrenti censurano la sentenza per aver, fermo restando il pagamento parziale di un condebitore e la relativa
quietanza rilasciata dai creditori, ritenuto esistente la remissione del debito verso un coobbligato e non esistente la riserva verso gli altri
coobbligati, sulla base dello stesso documento,
considerando applicabile allo stesso l’art. 2704
cod. civ., e considerando necessari i requisiti
della riserva verso i coobbligati solidali, quali il
532
Obbligazioni in genere
carattere espresso, e non i comportamenti univoci e concludenti, la comunicazione ai coobbligati, oltre che la contestualità alla avvenuta
remissione; caratteristiche tutte che non sarebbero ricavabili dal documento prodotto perché
non opponibile ai coobbligati. Aggiungono
che sarebbe stato onere probatorio dei coobbligati, che fanno valere un fatto estintivo, provare la remissione del debito e la riserva.
2.2. I motivi vanno accolti per quanto di ragione. Con il ricorso, fermo il pagamento parziale di un condebitore e la relativa quietanza
rilasciata dai creditori, si mette in discussione
l’esistenza stessa della remissione del debito a
favore di uno dei coobbligati, che è il presupposto essenziale per l’applicabilità dell’art.
1301 cod. civ. e della riserva ivi prevista, idonea ad impedire l’estensione della remissione
del debito agli altri coobbligati. Tanto consente alla Corte di procedere ad una diversa qualificazione in diritto dei fatti, come accertati nel
merito ed emersi nel ricorso per cassazione.
3. Costituisce principio consolidato nella
giurisprudenza di legittimità – in riferimento ai
poteri della Cassazione, individuati in ragione
della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge – quello secondo cui “Nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei
fatti, la Corte di Cassazione può dare al rapporto una qualificazione giuridica diversa da
quella accolta dal giudice di merito, con il solo
limite che tale individuazione deve avvenire
sulla base dei fatti per come accertati nelle fasi
di merito ed esposti nel ricorso per cassazione
e nella stessa sentenza impugnata, senza cioè
che sia necessario l’esperimento di ulteriori indagini di fatto, fermo restando, peraltro, che
l’esercizio del potere di qualificazione non deve confliggere con il principio del monopolio
della parte nell’esercizio della domanda e delle
eccezioni in senso stretto” (Cass. n. 9143 del
2007; n. 6935 del 2007).
Nella specie, i fatti, quali accertati nel merito
e esposti nel ricorso sono questi: La.El. era soccombente sulla base del lodo arbitrale; il collegio arbitrale aveva determinato il compenso
degli arbitri; El. aveva versato agli arbitri la
metà delle somme determinate dalla ordinanza
arbitrale; questi avevano rilasciato quietanza e
avevano dichiarato di liberarla da qualunque
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Cass., 27.1.2015, n. 1453
ulteriore onere relativo alle spese arbitrali; nello stesso documento gli arbitri si erano riservati
di agire per il residuo loro dovuto nei confronti
degli altri obbligati in solido; nello stesso documento erano fatti salvi i diritti di questi altri
obbligati verso El.; gli arbitri hanno agito verso
i coobbligati in solido per la parte residua del
loro credito.
Ritiene il Collegio che, sulla base dei fatti accertati e della domanda proposta, la fattispecie
trovi regolazione nella previsione legislativa
dell’art. 1311, n. 1, cod. civ., trattandosi di una
ipotesi tipica di rinunzia alla solidarietà e non
di remissione del debito verso uno dei coobbligati.
3.1. Non è in discussione il carattere solidale dell’obbligo dei contendenti del procedimento arbitrale nei confronti degli arbitri, relativamente al compenso dovuto per la prestazione d’opera intellettuale; né, nella specie, è
rilevante come l’obbligazione in solido si divide nei rapporti interni tra i diversi debitori
(l’essere El. l’unica obbligata nei rapporti interni sulla base della soccombenza dichiarata
dal lodo), avendo i creditori agito in solido per
il recupero del residuo credito. Si discute, invece, sul se l’adempimento parziale della prestazione oggetto dell’obbligazione da parte di
uno dei coobbligati mediante il pagamento
della metà del compenso dovuto, con relativa
quietanza rilasciata dai creditori, abbia comportato la remissione del debito residuo da
parte degli arbitri verso lo stesso obbligato parzialmente adempiente, e la conseguente estensione, o meno, della remissione del residuo debito agli altri, a seconda che si valuti come non
esistente o esistente la riserva verso i coobbligati, contenuta nella stessa quietanza.
3.2. La particolarità della specie è data dalla
circostanza che i convenuti abbiano prospettato, e il giudice, sulla base della loro prospettazione, abbia ritenuto che oggetto della remissione sia stato il debito residuato dopo l’adempimento parziale e a favore dello stesso soggetto che aveva effettuato un adempimento parziale dell’obbligazione, essendo stato questi liberato da ogni ulteriore onere rispetto alle
spese, inquadrando la fattispecie nella previsione codicistica dell’art. 1301 cit.
Ma, nella remissione di obbligazioni solidali
regolata dall’art. 1301 il debitore a favore del
NGCC 2015 - Parte prima
Obbligazioni in genere
quale essa opera è liberato verso il creditore remittente per la propria quota – che gli è stata
rimessa e si estingue per ragioni diverse dall’adempimento – e non di quanto residua rispetto all’obbligazione solidale cui era tenuto
per l’intero sulla base del vincolo di solidarietà.
E, nel caso di riserva verso gli altri coobbligati,
questi saranno tenuti non per l’intera prestazione, ma solo per il residuo una volta detratta
la parte del debitore a favore del quale è avvenuta la remissione per ragioni diverse dall’adempimento. Tanto, in virtù di una regola di
fondo della solidarietà per la quale il condebitore non è tenuto per le parti di debito inesistenti o estinte. Mentre, se la riserva non è stata
formulata, il legislatore presume, secondo il
principio della estensione ai condebitori solidali degli effetti vantaggiosi proprio delle obbligazioni solidali, che la remissione, per ragioni diverse dall’adempimento, compiuta a favore di un debitore in solido si estenda all’intero
debito e quindi, alle quote degli altri coobbligati. In definitiva, presupposto per l’applicabilità dell’art. 1301 cod. civ. è la liberazione dalla
prestazione della propria quota e l’estinzione
di tale obbligazione per ragioni diverse dall’adempimento della stessa, quale modo non
satisfattivo di estinzione dell’obbligazione, a
favore del beneficiario della remissione. Non è
la liberazione di colui che ha adempiuto una
parte dell’obbligazione solidale dalla esigibilità
del residuo, che è, invece, il presupposto di fatto della specie all’attenzione della Corte.
3.3. Questa diversa ipotesi è quella regolata
dall’art. 1311, n. 1 cod. civ., quale rinuncia alla
solidarietà.
In generale, il creditore – salvo che la solidarietà non sia prevista dalla legge per motivi di
ordine pubblico – può rinunciare all’effetto
principale della solidarietà, cioè alla possibilità
di agire per l’intero verso ogni debitore, essendo la solidarietà passiva prevista nell’esclusivo
suo vantaggio con la funzione di rafforzare il
credito; mentre, per il debitore potrà derivare
solo un vantaggio dall’essere tenuto verso il
creditore esclusivamente per la propria quota,
con conseguente sufficienza della sola volontà
del creditore, anche in atto unilaterale. E, la rinuncia alla solidarietà può essere limitata solo
ad alcuno dei condebitori, con la conseguenza
che il creditore conserva l’azione solidale verso
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Cass., 27.1.2015, n. 1453
gli atri per l’intero credito, sostanziandosi la rinuncia alla solidarietà quale beneficium divisionis comportante solo la rinuncia all’effetto
principale della solidarietà di poter agire per
intero verso ciascun condebitore e restando
ferme le regole della solidarietà per altri effetti,
come nel caso, previsto dall’art. 1313 cod. civ.,
dell’insolvenza di un condebitore (Cass. n.
16125 del 2006).
Ai nostri fini, rispetto alle differenze tra l’art.
1311 e l’art. 1301, basta rilevare che, nel primo
caso gli altri debitori continueranno a rispondere per l’intero nei rapporti esterni con il creditore, mentre, nel secondo, la previsione legislativa è che – sempre che vi sia stata riserva
nei loro confronti – non dovranno adempiere
la quota del debitore liberato, proprio perché
nel primo caso si tratta della rinuncia ad un effetto della solidarietà, cioè della rinuncia a pretendere l’intero dal coobbligato, e nel secondo
si tratta della rinuncia alla prestazione.
3.3.1. In alcuni casi la legge presume che vi
sia stata rinuncia alla solidarietà. Ed esiste tale
presunzione a norma di legge quando il creditore rilascia ad uno dei condebitori quietanza
“per la parte di lui” ricevuta senza alcuna riserva (art. 1311, n. 1); cioè rilascia quietanza a chi
adempie parzialmente la prestazione dovuta,
senza riservarsi di agire nei suoi confronti per il
residuo. A rilevare ai fini della operatività della
presunzione, non è la corrispondenza della
quota ricevuta con la quota interna gravante
sull’adempiente, ma il rilascio della quietanza
senza alcuna riserva di agire nei confronti della
stessa parte; attuandosi in tal modo la rinuncia
a far valere la solidarietà nei confronti di una
parte.
Questa è, appunto, l’ipotesi entro cui si inquadra la specie all’attenzione della Corte, atteso che i creditori avevano rilasciato quietanza
per l’importo ricevuto da uno dei coobbligati e
avevano dichiarato di liberarlo, quanto al vincolo della solidarietà rilevante nei rapporti
esterni, da qualunque ulteriore onere relativo
alle spese arbitrali. Ed allora, la fattispecie all’esame rientra pienamente nella previsione legislativa di cui all’art. 1311, n. 1, cod. civ. di
presunzione di rinuncia alla solidarietà verso
uno dei condebitori. Dalla rinuncia alla solidarietà nei confronti di un coobbligato derivante
dalla quietanza rilasciata nel ricevere l’adempi534
Obbligazioni in genere
mento parziale del proprio credito, con l’esclusione della riserva di agire verso lo stesso per il
residuo, consegue la conservazione per legge
dell’azione solidale verso gli altri obbligati.
Pertanto, non si pone proprio il problema della estensione nei loro confronti della rimessione del debito e della eventuale esistenza della
riserva per impedire l’estensione della remissione. Di conseguenza, non si pongono le questioni esaminate dal giudice quanto alle caratteristiche della riserva e alla opponibilità del
documento che la contiene, poiché la conservazione dell’azione solidale verso gli altri condebitori deriva direttamente dalla legge e non
dalla riserva nei confronti degli stessi nel documento di quietanza e di liberazione del debitore parzialmente adempiente da ogni onere relativo alle spese, quale rinuncia alla solidarietà.
3.4. In conclusione, il ricorso è accolto e la
sentenza impugnata è cassata sulla base del seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di
adempimento parziale dell’obbligazione da
parte di uno dei coobbligati solidali, con relativa quietanza rilasciata dai creditori senza alcuna riserva di questi di agire verso lo stesso debitore per il residuo, è integrata la fattispecie di
presunzione di rinuncia alla solidarietà disciplinata dall’art. 1311, n. 1 cod. civ., e conseguente conservazione dell’azione in solido verso gli altri obbligati solidali ai sensi del primo
comma dello stesso articolo, non assumendo
rilievo la riserva di agire verso gli altri obbligati
ai sensi dell’art. 1301 cod. civ., che regola la diversa fattispecie di remissione del debito a favore di uno dei debitori solidali”.
3.4.1. Risultando la quietanza rilasciata dai
creditori ad uno dei condebitori per l’adempimento parziale dell’obbligazione, senza alcuna
riserva nei suoi confronti, ed avendo agito i
creditori nei confronti degli altri obbligati per
ottenere la condanna in solido degli stessi al residuo del credito – tanto anche nel rispetto della regola della solidarietà che il condebitore
non è tenuto per le parti del debito estinte, in
questo caso mediante adempimento – non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto e la
causa può essere decisa nel merito mediante il
rigetto dell’appello.
4. Dall’accoglimento del ricorso, con cassazione della sentenza impugnata, deriva l’assorbimento del ricorso incidentale, volto ad otteNGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
nere la revisione della pronuncia di appello
sulle spese processuali che erano state compensate.
5. Quanto alle spese processuali del giudizio
di merito, le stesse seguono la soccombenza;
trattandosi di un’attività difensiva ormai esaurita, si deve applicare la normativa vigente al
tempo in cui l’attività stessa è stata compiuta,
e, quindi, le tariffe previste dal d.m. n. 127 del
2004 e non i parametri sopravvenuti (Cass. 18
dicembre 2012, n. 23318).
Le spese del processo di cassazione, che pure seguono la soccombenza, sono liquidate sulla base dei parametri vigenti (Sez. Un. 12 ottobre 2012, n. 17406). (Omissis)
[Russo Presidente – Carluccio Estensore – Corasaniti P.M. (concl. diff.). – C.G., N.S. e L.F.P. (avv.ti Iacomini e Sassani) – La.Sa. e La.An.Ma. (avv.
Saponaro)]
Nota di commento: «Sulla rinuncia alla solidarietà a favore di un condebitore in caso di adempimento parziale» [,]
I. Il caso
Al termine di un procedimento arbitrale, i componenti del collegio ricevevano dalla parte soccombente la metà del compenso loro spettante per l’attività svolta. A fronte di tale pagamento parziale, i
creditori rilasciavano quietanza in favore dell’adempiente, dichiarando di liberare la stessa da ogni ulteriore onere e riservandosi di agire per il residuo nei
confronti delle altre parti del procedimento. Dopo
essersi inutilmente rivolti a queste ultime per conseguire il loro credito residuo, gli arbitri agivano in
giudizio contro le stesse al fine di ottenerne la condanna in solido al pagamento delle somme richieste.
Il Tribunale di Lucca accoglieva la domanda.
La decisione di primo grado veniva riformata dalla Corte d’Appello di Firenze (con sentenza del
13.10.2010, n. 1428, infra, sez. III), che respingeva
la domanda di condanna al pagamento proposta dagli arbitri. Il giudice dell’impugnazione, ritenuto che
i creditori avessero concesso a favore della condebitrice (parzialmente) adempiente la remissione del
debito residuo, riconosceva a tale remissione piena
efficacia liberatoria anche in favore delle altre coobbligate, sulla base dell’art. 1301, comma 1o, cod.
civ., secondo il quale «[l]a remissione a favore di
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
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Obbligazioni in genere
uno dei debitori in solido libera anche gli altri debitori, salvo che il creditore abbia riservato il suo diritto verso gli altri (...)». Gli arbitri – argomentava la
Corte territoriale – avevano infatti prodotto in giudizio un documento nel quale affermavano di aver
ricevuto dalla soccombente la metà della somma loro dovuta e dichiaravano di liberare la stessa da
qualsiasi onere. Dalla medesima scrittura risultava
bensì che i creditori si fossero riservati il recupero
del residuo dalle altre parti, ma tale riserva sarebbe
stata in concreto inidonea a precludere il dispiegarsi
della piena efficacia estintiva in favore delle condebitrici: secondo la Corte, infatti, poiché la data del
documento non era certa e computabile rispetto ai
terzi (nella specie, le coobbligate) ai sensi dell’art.
2704 cod. civ., i creditori non avevano fornito sufficiente prova di due circostanze ritenute essenziali
per l’efficacia della riserva, ossia la contestualità rispetto al pagamento e la comunicazione ai condebitori.
Con la sentenza in commento, il S.C. cassa la decisione della Corte d’Appello, svolgendo un ampio
esame in merito ai differenti presupposti applicativi della disciplina in materia di remissione (art. 1301, comma 1 o , cod. civ.) e di rinuncia alla solidarietà a vantaggio di un
coobbligato (artt. 1311-1313 cod. civ.). Più
specificamente, la Supr. Corte, procedendo a una
diversa qualificazione in diritto dei fatti di causa,
esclude nel caso di specie la configurabilità di una
remissione a beneficio della condebitrice adempiente, ravvisando piuttosto, a favore della stessa, gli
estremi di una rinuncia alla solidarietà. Conseguentemente, visto il comma 1o dell’art. 1311 cod. civ.,
secondo il quale il creditore che rinuncia alla solidarietà verso uno degli obbligati conserva l’azione in
solido verso gli altri, la Corte reputa che il diritto degli arbitri verso le altre condebitrici per il conseguimento del residuo compenso fosse rimasto in vita e
non si fosse, per converso, estinto a seguito del rilascio in favore della condebitrice adempiente di una
quietanza che espressamente liberava la stessa da
ogni ulteriore onere.
Sull’esclusione dell’effetto estintivo nei confronti
delle altre obbligate neppure avrebbe potuto incidere, a parere della Supr. Corte, la questione circa la
sussistenza o no di un’idonea dichiarazione con cui i
creditori si fossero riservati i propri diritti verso gli
altri obbligati. Una tale riserva, argomenta il Collegio, è contemplata dall’art. 1301, comma 1o, cod.
civ. in relazione alla diversa ipotesi della remissione
in favore di uno dei condebitori, mentre non viene
in considerazione nel caso di rinuncia alla solidarietà, figura che risulta caratterizzata di per sé dalla
permanenza dell’azione in solido verso gli altri debitori.
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
II. Le questioni
1. La disciplina della remissione e della rinuncia alla solidarietà in favore di un condebitore in solido. Nella decisione in commento
vengono in rilievo le ipotesi della remissione e della
rinuncia alla solidarietà in favore di uno dei coobbligati. Di tali figure è opportuno richiamare i tratti essenziali di disciplina.
Ai sensi dell’art. 1301, comma 1o, cod. civ., la remissione accordata dal creditore a uno dei condebitori in solido produce di regola la liberazione di tutti
gli obbligati. Soltanto qualora il creditore si sia riservato il suo diritto verso gli altri consorti, la remissione comporta la liberazione integrale del debitore direttamente beneficiato e la liberazione parziale degli
altri obbligati in ragione della quota del primo. La
soluzione coincide, nella sostanza, con quella contemplata dall’art. 1281 del codice civile del 1865, e
trova corrispondenza nell’art. 1285 del Code Napoléon (diversa è la regola contenuta nell’art. 1329.1
dell’attuale versione del projet d’ordonnance per la
riforma del diritto dei contratti e del regime generale e della prova delle obbligazioni, infra, sez. IV). Alla previsione appena ricordata si affianca l’art. 1237,
comma 1o, cod. civ., ove si stabilisce che «[l]a restituzione volontaria del titolo originale del credito,
fatta dal creditore al debitore, costituisce prova della liberazione anche rispetto ai condebitori in solido» (cfr. art. 1279 cod. civ. 1865; con alcune differenze si v., quanto al codice francese, la previsione
di cui all’art. 1284, unitamente agli artt. 1282 e
1283).
Nella diversa ipotesi della rinuncia alla solidarietà
in favore di un condebitore, quest’ultimo rimane tenuto a rispondere non più per l’intero debito ma –
salvo ciò che si dirà in relazione all’ipotesi di insolvenza di alcuno fra gli altri coobbligati – soltanto
per la sua quota. Quanto alla posizione degli ulteriori obbligati, l’art. 1311, comma 1o, cod. civ. afferma
che il creditore «conserva l’azione in solido contro
gli altri». Nell’attuale norma è stata soppressa la precisazione contenuta nell’art. 1195 cod. civ. 1865 in
forza della quale l’azione nei confronti degli altri debitori risultava conservata «per l’intero credito». Peraltro, dalla mancata riproposizione dell’inciso non
si è tratto argomento per affermare che la nuova disposizione comporti conseguenze diverse rispetto al
suo antecedente storico nel codice abrogato, onde
anche per il diritto vigente continua ad affermarsi
che la rinuncia alla solidarietà concessa a un condebitore lascia in vita l’azione in solido del creditore
verso gli altri per la totalità del debito, senza alcuna
decurtazione (per riff., infra, sez. IV). Questa conclusione trova conferma anche nella sentenza in
commento, la quale espressamente afferma che gli
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Obbligazioni in genere
altri condebitori restano obbligati in solido «per
l’intero» nei confronti del creditore (cfr. la motivazione al § 3.3.; analogamente si esprimono precedenti decisioni: v. infra, sez. III). Un discorso più
complesso richiede invece, sotto questo profilo, la
corrispondente disciplina francese, come meglio si
vedrà nel par. seguente.
Peraltro, è necessario chiarire che la generale
enunciazione secondo cui, a seguito della rinuncia
alla solidarietà, il diretto beneficiario resta tenuto
per la sua sola quota mentre gli altri obbligati continuano a rispondere dell’intero debito può richiedere alcune precisazioni a seconda dell’interpretazione
che si accolga dell’art. 1313 cod. civ. Quest’ultima
disposizione prende in considerazione l’ipotesi dell’insolvenza di uno dei condebitori, disponendo che
la sua quota venga ripartita fra tutti i cobbligati,
compreso quello che abbia beneficiato della liberazione dalla solidarietà. La previsione – così come le
corrispondenti regole nel codice italiano del 1865 e
nel codice francese – ha sollevato complesse questioni ermeneutiche (parla di disposizione dal «significato assai controverso» M. Giorgianni, 683,
infra, sez. IV). Così, vi è chi sostiene che la norma in
esame ascriverebbe soltanto fittiziamente, in via di
mero computo aritmetico, una quota delle insolvenze al beneficiario della rinuncia, ponendo in realtà il
peso delle stesse a carico del creditore, con correlativa parziale liberazione degli altri condebitori. All’opposto, altri interpreti sostengono che il beneficiario della rinuncia debba effettivamente sostenere
il carico delle insolvenze verificatesi fra gli altri obbligati, discutendosi tuttavia, fra questi autori, sull’ulteriore questione se tale debitore risponda per
contributo dell’insolvenza di altri coobbligati soltanto nei rapporti interni o anche nei rapporti esterni con il creditore (per un quadro delle opinioni, G.
Rossetti, 852 ss., e Busnelli, 230 s., 234 s., nonché, con riguardo al codice previgente, Melucci,
176 ss., ove anche riff. all’esperienza francese; tutti
infra, sez. IV). È evidente, dunque, che le diverse
letture dell’art. 1313 cod. civ. possono imporre
adattamenti di segno diverso alla generale affermazione in base alla quale il beneficiario della rinuncia
resta tenuto soltanto per la propria quota, mentre i
condebitori continuano a rispondere dell’intero.
Nondimeno, per semplicità di esposizione, nel prosieguo ci si atterrà a tale enunciazione di massima,
prescindendo dai possibili significati attribuibili all’art. 1313 cod. civ., la cui specifica indagine esula
dai limiti del presente commento.
Tornando alla distinzione tra remissione e rinuncia alla solidarietà, è opportuno evidenziare le diverse conseguenze che queste comportano nei rapporti
fra il creditore e i condebitori (difformità di esiti,
peraltro, che una parte della dottrina ha ritenuto
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
non del tutto coerente: con riguardo alle corrispondenti regole del Code Napoléon, v. Demolombe, §§
460 s., 395 ss.; Baudry-Lacantinerie-Barde, §
1280, 401 s.; tutti infra, sez. IV). Quando il creditore, senza riservarsi i propri diritti verso gli altri debitori, accorda la remissione (anche solo parziale) a
uno degli obbligati, l’effetto liberatorio (eventualmente limitato a una parte del credito) si estende a
tutti i consorti; diversamente, se il creditore rinuncia
alla solidarietà in favore di un singolo coobbligato,
soltanto il diretto beneficiario della rinuncia resta
esonerato dall’obbligo di corrispondere ciò che eccede la sua quota, mentre gli altri continuano a rispondere dell’intero debito.
2. La rinuncia alla solidarietà ai sensi dell’art. 1210 del codice civile francese. Si è visto
che, in tema di remissione, la regola accolta dall’art.
1281 del codice previgente e mantenuta nell’art.
1301, comma 1o, del codice attuale coincide sostanzialmente con quanto previsto dal codice civile francese all’art. 1285. Per contro, tanto nel codice italiano del 1865 quanto nel codice attuale, la disciplina
della rinuncia alla solidarietà si allontana dal modello transalpino. Secondo quanto dispone il code civil
all’art. 1210, infatti, in caso di rinuncia alla solidarietà («division de la dette», secondo l’espressione impiegata nella norma) a beneficio di un condebitore
gli altri consorti restano invero obbligati in solido,
ma non per l’intero debito originario, bensì con deduzione della quota di quel debitore che il creditore
ha liberato dalla solidarietà («sous la déduction de la
part du débiteur qu’il a déchargé de la solidarité»).
Sulla base del tenore letterale dell’art. 1210 cod. civ.
fr. (nell’attuale versione del projet d’ordonnance di
riforma, la regola, che è contenuta nell’art. 1315,
continua a prevedere la decurtazione della quota del
diretto beneficiario dal vincolo degli altri consorti;
per riff., infra, sez. IV), la division de la dette non
avrebbe allora come effetto soltanto quello di limitare alla sua propria quota il vincolo del debitore a cui
è concessa, ma comporterebbe altresì la parziale
estinzione dell’obbligazione degli altri consorti –
conseguenza estranea alla rinuncia alla solidarietà
per come disciplinata tanto dall’art. 1195 cod. civ.
abr., quanto dall’art. 1311 del codice vigente.
La previsione del codice francese ha peraltro dato
luogo a vivaci discussioni fra gli interpreti. Secondo
alcuni autori, la division de la dette avrebbe effettivamente come conseguenza anche la riduzione del
vincolo degli altri condebitori (Demolombe, § 464,
399 s.; Marcadé, sub art. 1210, 515 ss.; Rodière, §
145, 106 s.; Laurent, §§ 346 s., 347 ss., BaudryLacantinerie-Barde, § 1281 s., 402 ss.; e così sembra orientato, recentemente, anche Hontebeyrie,
156; tutti infra, sez. IV). Peraltro, secondo quanto
NGCC 2015 - Parte prima
Obbligazioni in genere
osserva una nota opinione critica (il riferimento è, in
particolare, ai rilievi di Marcadé, sub art. 1210, 515
ss.; e v. altresì le considerazioni di Laurent, §§ 346
s., 347 ss., e Baudry-Lacantinerie-Barde, § 1281,
402), col prevedere l’effetto parzialmente estintivo
in favore dei debitori estranei il legislatore avrebbe
accolto una soluzione ingiustificata. A seguito della
rinuncia alla solidarietà, si osserva, il condebitore resta pur sempre tenuto a corrispondere la propria
quota, onde nessun pregiudizio si verifica a carico
degli altri obbligati, i quali, nel caso in cui debbano
provvedere al pagamento integrale del debito, rimangono legittimati a rivalersi contro il primo in via
di regresso; sicché, non vi sarebbe alcuna necessità
di defalcare la quota del beneficiario della rinuncia
dal vincolo degli altri obbligati. Se poi, si aggiunge,
il creditore effettivamente volesse scorporare la quota di debito del beneficiario e sottrarla dal credito
totale, non ricorrerebbe alla rinuncia alla solidarietà,
ma si avvarrebbe della remissione. Queste critiche,
peraltro, non sono condivise da un’altra parte degli
interpreti. La decurtazione, secondo questi autori, si
spiegherebbe in base alla considerazione per cui il
creditore non può migliorare la situazione di uno
dei condebitori a scapito degli ulteriori obbligati:
poiché rinunciando alla solidarietà in favore di uno
di essi, egli renderebbe deteriore la posizione degli
altri, che vedrebbero accresciute le probabilità di essere richiesti del pagamento dell’intero, la riduzione
del vincolo di questi ultimi risulterebbe pienamente
giustificata (in partic. Demolombe, § 464, 401 ss.;
in un ordine di idee analogo, Colmet de Santerre, § 144 bis III, 234, infra, sez. IV).
Una diversa opinione sostiene invece che l’art.
1210 cod. civ. fr. dispone la parziale liberazione dei
condebitori estranei non tanto come conseguenza
della rinuncia alla solidarietà, quanto piuttosto sull’implicito presupposto che il debitore beneficiario
della divisione effettui altresì il pagamento della
propria quota (ovvero, come talora si aggiunge, operi un’altra causa estintiva del debito, quale ad es.
una remissione). Quella prevista dall’art. 1210, allora, sarebbe in realtà soltanto l’ipotesi particolare in
cui la rinuncia alla solidarietà sia accompagnata da
un pagamento parziale da parte del beneficiario; al
contrario, quando alla rinuncia non si affianchi un
pagamento parziale, l’art. 1210 non troverebbe applicazione e si resterebbe alla conclusione per cui la
division de la dette comporta la limitazione dell’obbligo del beneficiario alla sua propria quota, con
conservazione dell’intero credito (vale a dire, senza
alcuna decurtazione) in solido verso gli altri condebitori (si v. le opinioni di Delvincourt, 510; Duranton, § 231, 279; Larombière, sub 1210, n. 7,
481 s.; Aubry-Rau, § 298 ter, 52, nt. 42; e più di recente Mignot, 91, 568; tutti infra, sez. IV).
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
Come è noto, la scelta del legislatore francese di
prevedere la decurtazione del vincolo a carico dei
condebitori estranei è stata consapevolmente disattesa nell’elaborazione del codice italiano del 1865
dalla Commissione speciale per il coordinamento
delle disposizioni del codice civile, con espresso richiamo, in particolare, ai rilievi critici svolti in area
francese da Marcadé (v. il verbale n. 33, seduta antimeridiana del 15.5.1865, in I processi verbali delle sedute della commissione speciale nominata con R. Decreto del 2 aprile 1865 al fine di proporre le modificazioni di coordinamento delle disposizioni del codice
civile e le relative disposizioni transitorie a mente della legge di detto giorno, Marghieri e Perrotti, 1866,
208, nonché in Gianzana, 293 s., infra, sez. IV).
3. La rinuncia alla solidarietà che consegue al rilascio a un condebitore della «quietanza per la parte di lui senza alcuna riserva» (art. 1311, comma 2o, n. 1, cod. civ.). L’art.
1311, comma 2o, ai nn. 1 e 2, e l’art. 1312 cod. civ.
prevedono tre casi di rinuncia alla solidarietà comunemente indicata come presunta, secondo un inquadramento accolto anche dalla sentenza in commento. In queste ipotesi non è richiesta la prova di
un’effettiva volontà di rinuncia da parte del creditore, essendo sufficiente che siano presenti gli elementi previsti dalle relative disposizioni. Si tende inoltre
a ritenere che si tratti di presunzioni assolute, con
conseguente esclusione della possibilità di invocare
una difforme volontà del creditore (ma per un accenno alla necessità di fare riferimento alla «volontà
che sorregge l’operazione» v., in giurisprudenza,
Cass., 12.1.1978, n. 130, infra, sez. III). Si ammette,
peraltro, che pure al di fuori di tali fattispecie sia
ammissibile una rinuncia tacita, la quale presuppone
tuttavia, a differenza delle rinunce c.d. presunte, la
dimostrazione di una reale volontà abdicativa del
creditore.
L’ipotesi legale di rinuncia c.d. presunta che viene in rilievo nella decisione in commento è quella
contemplata dall’art. 1311, comma 2o, n. 1, cod.
civ., ai sensi del quale rinuncia alla solidarietà «il
creditore che rilascia a uno dei debitori quietanza
per la parte di lui senza alcuna riserva». Tale previsione trova i suoi antecedenti nell’art. 1196, commi
1o e 2o, cod. civ. 1865 e nell’art. 1211, commi 1o e
2o, cod. civ. fr. (ma la regola non compare più nell’attuale versione del projet d’ordonnance di riforma), peraltro differenziandosi da questi modelli per
una redazione più sintetica. Nella genesi della regola
ha svolto un ruolo determinante, come è noto, l’insegnamento di Pothier, il quale osservava che «lorsque le créancier donne quittance en ces termes à
l’un de ses codébiteurs solidaires: J’ai reçu d’un tel la
somme de... pour sa part, il le reconnoît débiteur de
538
Obbligazioni in genere
la dette pour une part; et par conséquent il consent
qu’il ne soit plus solidaire, étant deux choses opposées, d’être débiteur pour une part, et d’être débiteur
solidaire» (§ 277, 114, corsivi dell’a.; infra, sez. IV).
L’ipotesi di rinuncia c.d. presunta di cui all’art.
1311, comma 2o, n. 1, cod. civ. presuppone anzitutto che il creditore ottenga da parte di uno degli obbligati un pagamento pari alla sua quota (Gangi, Le
obbligazioni, 246; Scuto, 305; Rubino, 323; tutti
infra, sez. IV). Si precisa, peraltro, che la semplice
richiesta (Rubino, 323 s.; Amorth, 101, 105, infra,
sez. IV) o ricezione (Scuto, 305; La Porta, 336, infra, sez. IV; Amorth, 105; la puntualizzazione si ritrova già in Pothier, § 277, 115, che richiama il
principio per cui le rinunce non si presumono) ad
opera del creditore di una parte della prestazione
non implica di per sé rinuncia alla solidarietà in assenza degli ulteriori presupposti contemplati dalla
disposizione, onde in tali casi il creditore resta legittimato a pretendere il pagamento del residuo debito
allo stesso solvens.
La norma richiede poi che il creditore rilasci quietanza al debitore adempiente, e che in essa non sia
contenuta alcuna riserva: l’apposizione di quest’ultima, si afferma in dottrina, sarebbe incompatibile
con la presunzione di rinuncia alla solidarietà (v. in
questo senso Gangi, Le obbligazioni, 246; Scuto,
305; Rubino, 324 s.).
Discussa è la necessità di un ulteriore presupposto, consistente nell’esplicita dichiarazione da parte
del creditore circa il fatto che il pagamento ricevuto
vada riferito alla quota del solvens. In senso affermativo si esprime la dottrina maggioritaria, sostenendo
che tale è «il significato dell’inciso “per la parte di
lui”» (v. in partic. Rubino, 324; similmente v. anche
Gangi, Le obbligazioni, 246; Scuto, 305; Capobianco, 208, infra, sez. IV; la necessità di un espresso riferimento alla parte del solvens era già stata evidenziata da Pothier, § 277, 115). In direzione opposta si è invece osservato che una siffatta dichiarazione non è richiesta dalla norma, onde la circostanza per cui «si tratta della parte del debitore p[otrebbe] risultare obiettivamente dallo stesso ammontare
del pagamento» (C.M. Bianca, 749; e v. anche
Giaquinto, 272; ancora diversa è l’opinione di
Longo, 103, che sembra assegnare alla norma attuale un significato differente rispetto all’art. 1196
cod. civ. 1865; tutti infra, sez. IV).
La sentenza che si annota sembra aderire, almeno
implicitamente, alla prima impostazione (accolta invece in maniera più univoca in precedenti decisioni
della stessa Supr. Corte: Cass., 12.1.1978, n. 130;
Cass., 12.7.2001, n. 9424; Cass., 18.5.2006, n.
11749; tutte infra, sez. III), là dove esclude che la
semplice coincidenza quantitativa del solutum con
la quota interna dell’adempiente sia sufficiente a inNGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
tegrare la presunzione di rinuncia («[a] rilevare ai fini della operatività della presunzione, non è la corrispondenza della quota ricevuta con la quota interna
gravante sull’adempiente, ma il rilascio della quietanza senza alcuna riserva di agire nei confronti della
stessa parte»), ancorché manchi, nelle parole della
Corte, una chiara menzione del riferimento della
prestazione alla «parte» dell’adempiente.
Nel codice abrogato, l’art. 1196, comma 2o (sul
modello del cpv. dell’art. 1211 cod. civ. fr.) espressamente escludeva la presunzione di rinuncia qualora la quietanza non specificasse che il pagamento era
ricevuto per la parte del debitore adempiente. Ora,
malgrado la più concisa formulazione dell’attuale
disposizione, la necessità di tale indicazione non
sembra essere venuta meno anche alla stregua della
disciplina vigente. La mera corrispondenza quantitativa dell’importo versato con la quota del solvens
non appare un elemento sufficientemente univoco
per distinguere la rinuncia alla solidarietà dalla mera
ricezione di una prestazione parziale con conservazione dell’azione in solido verso lo stesso condebitore adempiente. E non potendosi, nel dubbio, presumere una rinuncia da parte del creditore, è preferibile accogliere un’interpretazione restrittiva dell’art.
1311, comma 2o, n. 1, cod. civ. che ricolleghi all’espressione «per la parte di lui» la necessità che il
pagamento parziale venga riferito, nella quietanza,
alla quota di spettanza del condebitore adempiente;
in mancanza, la prestazione parziale andrà intesa
quale semplice acconto sul credito complessivo (in
questo senso v. Gangi, Le obbligazioni, 246 e, con
riguardo al codice previgente, Giorgi, vol. I, 243;
Melucci, 184). Non appare peraltro necessario che
la quietanza riporti la precisa formula secondo cui il
pagamento è ricevuto «per la parte» del debitore
adempiente, essendo all’uopo idonee anche dizioni
analoghe (Giorgi, vol. I, 243; Melucci, 184).
4. Adempimento parziale di un condebitore e dichiarazione liberatoria da parte del
creditore: problemi qualificatori. La riflessione sul fenomeno delle quietanze c.d. a saldo ha da
tempo posto in luce i problemi qualificatori che sorgono allorché, a fronte di un adempimento parziale
da parte del debitore, il creditore rilasci una dichiarazione nella quale asserisca di null’altro aver a pretendere dal solvens o affermi di liberare quest’ultimo da ogni ulteriore peso. Simili questioni possono
porsi anche in presenza di un’obbligazione solidale,
nei casi in cui il creditore riceva un pagamento parziale da parte di uno dei condebitori e rilasci a quest’ultimo una quietanza corredata da una dichiarazione di carattere lato sensu liberatorio in suo favore.
Fra le diverse configurazioni prospettabili a seNGCC 2015 - Parte prima
Obbligazioni in genere
conda dei casi concreti, l’alternativa che assume rilievo nella decisione in commento è quella tra remissione parziale del residuo debito e rinuncia alla solidarietà in favore del solvens. In questa sede si prescinde, per esigenze di sintesi, dal prendere in considerazione l’ulteriore variabile costituita dall’eventuale riserva del creditore con la quale egli faccia
salve le sue pretese nei confronti degli altri obbligati, dichiarazione che potrebbe assumere rilievo, ai
sensi dell’art. 1301, comma 1o, cod. civ., al fine di
circoscrivere l’effetto liberatorio per i condebitori
estranei alla sola quota di spettanza del beneficiario
della remissione. Una simile riserva era invero contenuta, nel caso di specie, nella quietanza rilasciata
dai creditori alla debitrice adempiente; tuttavia, essa
non ha assunto rilievo né nel giudizio d’appello, dove è stata ritenuta inopponibile alle altre obbligate,
né dinanzi alla Supr. Corte la quale, dopo aver inquadrato la fattispecie nell’alveo della rinuncia alla
solidarietà anziché in quello della remissione, ha ritenuto assorbita la questione inerente all’efficacia
della riserva stessa.
Va inoltre puntualizzato che un passaggio della
sentenza in commento (§ 3.2 dei motivi della decisione) potrebbe evocare l’idea per cui la fattispecie
in esame dovrebbe dirsi già in astratto del tutto
estranea all’ordine di ipotesi a cui ha riguardo l’art.
1301, comma 1o, cod. civ. [in particolare, là dove si
afferma che «presupposto per l’applicabilità dell’art.
1301 cod. civ. è la liberazione dalla prestazione della
propria quota e l’estinzione di tale obbligazione per
ragioni diverse dall’adempimento della stessa, quale
modo non satisfattivo di estinzione dell’obbligazione,
a favore del beneficiario della remissione. Non è la liberazione di colui che ha adempiuto una parte dell’obbligazione solidale dalla esigibilità del residuo (...)»].
Peraltro, non si tratta di una lettura obbligata, in
quanto l’argomentazione sviluppata dalla Supr. Corte potrebbe essere semplicemente intesa come volta
a sottolineare la diversità fra gli effetti scaturenti rispettivamente dalla remissione e dalla rinuncia alla
solidarietà, e non già come diretta a prendere posizione sull’astratta configurabilità di una remissione
parziale per il residuo a fronte di un adempimento
pro quota ad opera di un condebitore e sulla riconducibilità di tale fattispecie alla previsione di cui all’art. 1301, comma 1o, cod. civ.
Ciò precisato, quindi, può ritenersi che, qualora
nell’ipotesi in esame si ravvisassero nella dichiarazione del creditore gli estremi di una remissione parziale del residuo debito, troverebbe applicazione la
disciplina di cui all’art. 1301, comma 1o, cod. civ.,
tenuto conto che la remissione ha avuto ad oggetto
non già l’intero debito, ma soltanto una frazione
dello stesso. Di conseguenza, l’effetto liberatorio si
estenderebbe (in mancanza di riserva da parte del
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
creditore) anche agli altri coobbligati, i quali potrebbero cumulare il vantaggio dell’effetto estintivo prodotto dal pagamento parziale effettuato dal primo
debitore con quello conseguente alla remissione del
restante debito. Una diversa situazione si verificherebbe, invece, ritenendo sussistente una rinuncia alla solidarietà: questa comporterebbe l’esonero del
solvens dall’obbligo di corrispondere il residuo debito, per il quale tuttavia continuerebbero a rispondere gli altri obbligati; questi ultimi, dunque, non
beneficerebbero se non dell’effetto estintivo conseguente all’adempimento parziale del primo.
Sembra corretto ritenere che la scelta fra le due ricostruzioni debba farsi dipendere, innanzitutto, dal
concreto contenuto della dichiarazione resa dal creditore. Il problema, quindi, si pone in prima istanza
come quaestio voluntatis, dovendosi allora appurare
se il creditore abbia inteso soltanto concedere al debitore il beneficio della rinuncia alla solidarietà o
non piuttosto rimettere il proprio credito residuo,
con conseguente liberazione dei condebitori estranei.
Nondimeno, ben può darsi l’eventualità che l’esame del tenore della dichiarazione del creditore non
fornisca risultati univoci e rimanga incerto il risultato che egli intendeva perseguire. In tali casi, appare
corretto fare riferimento al criterio secondo il quale,
nel dubbio, alla dichiarazione a sé sfavorevole resa
dal creditore nei confronti del solvens devono ricollegarsi le più ridotte conseguenze pregiudizievoli
a carico del suo autore. Conseguentemente, l’alternativa fra rinuncia alla solidarietà e remissione parziale dovrà essere sciolta, nel dubbio, in favore della
prima soluzione. Questa conclusione risulta anzitutto la più coerente con il principio per cui l’onere di
provare l’intervenuta remissione grava, ex art. 2697,
cpv., cod. civ., sul debitore che invoca la liberazione
dall’obbligazione (v. infra, sez. III), oltre che con il
consolidato criterio in base al quale l’intenzione di
rimettere il debito (pur potendo risultare anche in
forma tacita) non può, di regola, ritenersi presunta e
deve essere dimostrata in modo inequivoco (per
riff., infra, sezz. III e IV). Sicché, qualora i condebitori solidali che invocano la liberazione dal vincolo
non forniscano la prova dell’intenzione del creditore
di rimettere il residuo debito, o comunque non riescano a dimostrare l’esistenza di indici che implichino univocamente una volontà del creditore incompatibile con la permanenza in vita dell’obbligazione
a loro carico, la sussistenza di una remissione del debito dovrà essere esclusa e la dichiarazione del creditore potrà al più, ricorrendone i presupposti, essere qualificata come rinuncia alla solidarietà. Quando
poi nella tradizionale massima «renuntiatio non
praesumitur» non si rintracci soltanto una riaffermazione della generale regola sull’onere probatorio per
540
Obbligazioni in genere
cui spetta al debitore la dimostrazione del fatto
estintivo che egli invoca, ma da essa si deduca un vero e proprio canone ermeneutico (v. su questo
aspetto Kleinschmidt, Der Verzicht, 41, nt. 124;
Id., sub § 397, Rn 21, 2269 s., nt. 127; entrambi infra, sez. IV), allora anche dal punto di vista interpretativo dovrà riconoscersi, nel dubbio, la più ridotta
portata possibile alla dichiarazione del creditore;
conseguentemente, essa andrà intesa come una rinuncia alla solidarietà piuttosto che come una remissione, dal momento che la prima lascia sussistere
l’obbligo a carico degli altri condebitori, mentre la
seconda comporta una definitiva estinzione del credito.
Per queste ragioni, appare condivisibile, nel suo
esito, la scelta della Supr. Corte di ravvisare nella vicenda in esame una rinuncia alla solidarietà anziché
una remissione parziale. Quanto al percorso argomentativo seguito nella sentenza, si potrebbe forse
porre l’interrogativo se, al di là dell’operatività nel
caso di specie della c.d. presunzione di rinuncia di
cui all’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., la dichiarazione
con la quale i creditori esplicitamente liberavano la
debitrice adempiente da ogni ulteriore peso non potesse essere considerata una rinuncia espressa alla
solidarietà. L’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., infatti,
postula bensì l’elemento negativo costituito dall’assenza di una riserva da parte del creditore, ma prescinde dal rilascio di qualunque dichiarazione in cui
positivamente il creditore stesso asserisca di liberare
il debitore dalla solidarietà, affermazione riscontrabile, invece, nella vicenda giunta all’attenzione della
Supr. Corte.
Tale profilo, peraltro, non è specificamente affrontato nella decisione in commento, giacché la fattispecie viene senz’altro inquadrata nell’ipotesi di rinuncia c.d. presunta senza che emerga la questione
relativa alla possibile sussistenza di una rinuncia
espressa. Dovendo pertanto limitare il discorso a un
piano generale, può osservarsi che, rispetto all’ipotesi in cui la rinuncia debba affermarsi in virtù dell’operatività dell’art. 1311, cpv., n. 1, cod. civ., in
presenza di un’espressa dichiarazione di rinuncia alla solidarietà perde rilievo il problema circa l’esistenza o no, all’interno della quietanza, del riferimento del pagamento parziale alla quota di debito
di spettanza del solvens; in tal caso, infatti, il riferimento non è più necessario per la liberazione del
debitore adempiente dalla solidarietà (in questa direzione, nella giurisprudenza francese, v. le affermazioni di Cour d’appel Lyon, 30.11.1989, infra, sez.
III, secondo la quale la rinuncia alla solidarietà può
conseguire alla dichiarazione per cui il pagamento è
intervenuto «pour soldes de tous comptes concernant
la créance du débiteur»).
NGCC 2015 - Parte prima
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
III. I precedenti
La sentenza App. Firenze, 13.10.2010, n. 1428,
cassata dalla decisione in commento, può consultarsi nella banca dati Lex24. Del tutto simile è la controversia oggetto di App. Firenze, 13.10.2010, n.
1455, ibidem, che riguarda il medesimo procedimento arbitrale e concerne la pretesa al compenso
spettante al consulente tecnico; quest’ultima decisione è stata cassata, con pronuncia pressoché identica alla sentenza che si annota, da Cass., 27.1.2015,
n. 1454, in DeJure.
Nel senso che in caso di rinuncia alla solidarietà
verso un condebitore gli altri rimangono tenuti in
solido per l’intero debito, v. Cass., 24.9.1979, n.
4919, in Rep. Foro it., 1979, voce «Obbligazioni e
contratti», n. 71; Cass., 5.3.1997, n. 1934, ivi, 1997,
voce cit., n. 71; Cass., 28.3.2001, n. 4507, ivi, 2001,
voce «Obbligazioni in genere», n. 53; Cass.,
14.7.2006, n. 16125, in Danno e resp., 2007, 655,
con nota di Selvini, e in Foro it., 2007, I, 1552, con
nota di Caputi.
Affermano la rilevanza della previsione di cui all’art. 1313 anche nei rapporti esterni con il creditore, ma senza ulteriore approfondimento, Cass.,
28.3.2001, n. 4507, cit.; Cass., 14.7.2006, n. 16125,
cit.
A proposito delle ipotesi di cui all’art. 1311, cpv.,
cod. civ., e in particolare di quella di cui al n. 1, per
il riferimento all’idea della presunzione di rinuncia,
fra le altre, v. Cass., 29.5.1958, n. 1813, in Rep. Foro
it., 1958, voce «Obbligazioni e contratti», n. 149;
Cass., 12.1.1978, n. 130, in Arch. civ., 1978, 435;
Cass., 5.3.1997, n. 1934, cit.; Cass., 4.10.2000, n.
13169, in Dir. ed econ. ass., 2001, 559, e in Resp. civ.
e prev., 2002, 170, con nota di Capilli; Cass.,
12.7.2001, n. 9424, in Rep. Foro it., 2001, voce «Obbligazioni in genere», n. 50; Cass., 18.5.2006, n.
11749, in Foro it., 2007, I, 184.
Nel senso che la semplice accettazione di un pagamento parziale, benché di importo pari alla quota
del solvens, non comporta di per sé rinuncia alla solidarietà da parte del creditore, in mancanza degli
ulteriori presupposti costituiti dal rilascio di una
quietanza per la parte del debitore e dall’assenza di
riserva per il residuo, v. Cass., 12.1.1978, n. 130,
cit.; Cass., 12.7.2001, n. 9424, cit.; Cass., 18.5.2006,
n. 11749, cit.; similmente, App. Bari, 11.11.1948, in
Rep. Foro it., 1949, voce «Obbligazioni e contratti»,
nn. 146, 147; Trib. Palermo, 13.2.1948, ivi, 1948,
voce cit., n. 170. In senso diff., v. Trib. Roma,
14.4.2003, reperibile nella banca dati DeJure, nonché, con riguardo alla richiesta di pagamento della
quota del singolo debitore, App. Genova,
16.12.1955, in Foro pad., 1956, II, 23 (in massima).
Si ammette che la remissione, pur non potendosi
NGCC 2015 - Parte prima
Obbligazioni in genere
presumere, possa risultare in via tacita, esigendosi
tuttavia che la relativa volontà emerga «da una serie
di circostanze concludenti e non equivoche, assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi del diritto di credito» (così, fra le tante, Cass., 14.7.2006,
n. 16125; similmente, Cass., 18.5.2006, n. 11749,
cit.; Cass., 4.10.2000, n. 13169, cit.; Cass., 7.4.1999,
n. 3333, in Foro pad., 1999, I, 350).
Nel senso che la remissione costituisce eccezione
non rilevabile d’ufficio e grava sul debitore che invoca tale fatto estintivo l’onere di allegazione e prova, Cass., 18.5.2006, n. 11749, cit.; e con riferimento
alla «rinuncia al credito fatto valere in giudizio»,
Cass., 10.8.1990, n. 8155, in Rep. Foro it., 1990, voce «Procedimento civile», n. 112.
La sentenza Cour d’appel Lyon, 30.11.1989, richiamata nel testo, si legge in Recueil Dalloz Sirey,
1990, Inf. rap., 23.
IV. La dottrina
Per un inquadramento generale dei temi della remissione e della rinuncia alla solidarietà in favore di
un condebitore, v. fra i contributi più recenti, senza
pretesa di completezza, G. Rossetti, in G. Rossetti e M. De Cristofaro, Le obbligazioni solidali, nel
Trattato di diritto delle obbligazioni, diretto da L.
Garofalo e Talamanca, V, Le figure speciali, a cura di S. Patti e Vacca, Cedam, 2010, 803 ss., 849
ss.; Siclari, Delle obbligazioni in solido, in Gorassini-Siclari, Di alcune specie di obbligazioni, nel
Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del
Notariato, diretto da P. Perlingieri, Esi, 2013,
307; La Porta, Delle obbligazioni in solido, nel
Commentario Schlesinger, Giuffrè, 2014, sub artt.
1300-1304, 245 ss., e sub artt. 1311-1313, 333 ss.;
Dellacasa, sub art. 1301, e Grondona, sub art.
1311-1313, entrambi nel Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, a
cura di Cuffaro, artt. 1277-1320. Leggi collegate,
Utet, 2013, rispett. 321 ss. e 438 ss. Con riguardo al
cod. civ. 1865, v. Melucci, La teoria delle obbligazioni solidali nel diritto civile italiano, Utet, 1884,
113 ss., 163 ss.; Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel
diritto moderno italiano, vol. I, 7a ed. (rist.), Fratelli
Cammelli, 1924, 186 ss. (sulla remissione), 238 ss.
(sulla rinuncia alla solidarietà), e Id., Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, vol. VII, 7a
ed. (rist.), Fratelli Cammelli, 1924, 435 ss. (sulla remissione).
Sulla restituzione volontaria del titolo originale
del credito o della copia spedita in forma esecutiva
del titolo in forma pubblica, ai sensi dell’art. 1237,
commi 1o e 2o, v., fra i tanti, Boero, sub art. 1237,
nel Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, a cura di Cuffaro, artt.
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Cass., 27.1.2015, n. 1453 - Commento
1218-1276, Utet, 2013, 527 ss.; Romeo, La remissione del debito, in Maffeis-Fondrieschi-Romeo, Le
obbligazioni, 4, I modi di estinzione delle obbligazioni, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco,
Utet, 2012, 104 ss.
Per un raffronto dell’art. 1311, comma 1o, cod.
civ. con la corrispondente norma del codice previgente (art. 1195), v. Gangi, Le obbligazioni. Concetto – obbligazioni naturali – solidali – divisibili e indivisibili, Giuffrè, 1951, 239 ss., il quale giunge alla
conclusione per cui la remissione della solidarietà a
favore di un debitore non comporta alcuna decurtazione del vincolo degli altri [come escluso esplicitamente anche dalla Relazione al progetto preliminare
del libro delle obbligazioni, n. 56, lett. c); cfr. Ministero di grazia e giustizia, Lavori preparatori del
codice civile (anni 1939-1941). Progetti preliminari
del libro delle obbligazioni, del codice di commercio e
del libro del lavoro, vol. I, Istituto Poligrafico dello
Stato. Libreria, 1942, 32].
E nel senso che in caso di remissione della solidarietà a favore di uno soltanto dei debitori gli altri restano tenuti in solido per l’intero, v. anche, espressamente, fra i tanti, M. Giorgianni, voce «Obbligazione solidale e parziaria», nel Noviss. Digesto it.,
XI, Utet, 1965, 683; Rubino, Delle obbligazioni.
Obbligazioni alternative – obbligazioni in solido – obbligazioni divisibili e indivisibili. Art. 1285-1320, 2a
ed. (rist.), nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 1968, 318; Siclari, Delle obbligazioni in solido, cit., 307; La Porta, op. cit., 334 s.
Sulle diverse letture dell’art. 1313 cod. civ., v. G.
Rossetti, op. cit., 852 ss.; F.D. Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa. Profili sistematici,
Giuffrè, 1974, 230 s., 234 s.
In generale, sulla rinuncia alla solidarietà e sulla
remissione in favore di un condebitore nel sistema
francese, v. Terré-Simler-Lequette, Droit civil.
Les obligations, 11e éd., Dalloz, 2013, 1305, 1505 s.;
le Tourneau-Julien, «Solidarité», in Rép. civ. Dalloz, 2010, 16, 18 s., 24 s.
Il Projet d’ordonnance portant réforme du droit des
contrats, du régime général et de la preuve des obligations può consultarsi all’indirizzo internet www.
justice.gouv.fr/publication/j21_projet_ord_reforme_
contrats_2015.pdf.
Sulla rinuncia alla solidarietà ai sensi dell’art.
1210 cod. civ. fr., v., ex multis, le letture di Delvincourt, Cours de Code Civil, t. II (Notes et explications, 3e éd.), 1834, 510; Duranton, Cours de droit
français suivant le Code civil, 4e éd., t. XI, ThorelGuilbert, 1844, 286; Demolombe, Cours de Code
Napoléon, XXVI, Traité des contrats ou des obligations conventionnelles en général, t. III, Lahure-Durand et Pedone Lauriel (e altri), 1880, § 464, 399 s.;
Larombière, Théorie et pratique des obligations,
542
Obbligazioni in genere
nouvelle éd., t. III, Durand et Pedone-Lauriel, 1885,
sub art. 1210, n. 7, 481 s.; Marcadé, Explication
théorique et pratique du code civil, 8e éd., t. IV, Delamotte, 1892, sub art. 1210, 515 ss.; Rodière, De la
solidarité et de l’indivisibilité, Durand, Jougla, Gimet, 1852, §§ 145 s., 106 s.; Colmet de Santerre,
in Demante-Colmet de Santerre, Cours analytique de Code civil, 2e éd., t. V, Plon et Cie, 1883, 144
bis III, 234; Laurent, Principes de droit civil
français, t. XVII, 5e éd., Bruylant-Christophe et Cie
– Marescq, 1893, §§ 344 ss., 346 ss.; Aubry-Rau,
Cours de droit civil français d’après la méthode de Zachariæ, 6e éd. par Bartin, t. IV, Éditions techniques, 1942, § 298 ter, 52, nt. 42; Baudry-Lacantinerie-Barde, Delle obbligazioni, II, nel Trattato
teorico-pratico di Diritto Civile, trad. it. a cura di
Bonfante-Pacchioni-Sraffa, Vallardi, 1915, §§
1279 ss., 401 ss.; più di recente, Mignot, Les obligations solidaires et les obligations in solidum en droit
privé français, Dalloz, 2002, spec. 90 ss., 567 ss.;
Hontebeyrie, Le fondement de l’obligation solidaire en droit privé français, Economica, 2004, 156.
Sulle ragioni dell’allontanamento, nella redazione
dell’art. 1195 cod. civ. 1865, dal corrispondente modello francese dell’art. 1210, cfr. Codice civile, ordinato da Gianzana, III, Verbali della Commissione
di Coordinamento, Utet, 1887, 293 s.; e v. altresì
Gangi, Le obbligazioni, cit., 240 s., e Id., Remissione del debito solidale e remissione della solidarietà,
tip. C. Nava, Siena, 1905, ora in appendice a Le obbligazioni, cit., 354 s. (da cui la citazione).
In relazione alle ipotesi di rinuncia alla solidarietà
previste dagli artt. 1311, comma 2o, nn. 1 e 2, e 1312
cod. civ. parlano di rinuncia tacita Giaquinto, nel
Codice civile. Commentario, diretto da D’Amelio e
Finzi, Libro delle obbligazioni, I, Barbèra, 1948, sub
artt. 1311-1312, 272, e Scuto, Teoria generale delle
obbligazioni con riguardo al nuovo codice civile, pt. I,
3a ed., Treves, 1950, 304 s.; ma più frequentemente
si richiama l’idea della rinuncia presunta, sovente
con la precisazione che si tratta di presunzioni assolute; cfr. Gangi, Le obbligazioni, cit., 244 ss.; Rubino, op. cit., 322, testo e nt. 2; Amorth, L’obbligazione solidale, Giuffrè, 1959, 102 s.; Longo, Diritto
delle obbligazioni, Utet, 1950, 103; M. Giorgianni,
op. cit., 683; La Porta, op. cit., 335. Nel senso che si
tratti di ipotesi di rinuncia alla stregua di una «valutazione legale tipica», v. Capobianco, Contributo
allo studio della quietanza, Esi, 1992, 208; Breccia,
Le obbligazioni, nel Trattato Iudica-Zatti, Giuffrè,
1991, 187, e C.M. Bianca, Diritto civile, 4, L’obbligazione, Giuffrè, 1993, 750, (il quale afferma che il
creditore può, a evitare le conseguenze previste dalle norme in esame, «esplicitare una volontà contraria alla rinuncia»).
Sull’ammissibilità, al di fuori dei casi previsti daNGCC 2015 - Parte prima
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Trib. Messina, 11.11.2014
Personalità (diritti della)
gli artt. 1311 e 1312 cod. civ., di una rinuncia tacita,
Longo, op. cit., 103; Rubino, op. cit., 322.
Influenza decisiva, nella redazione dell’art. 1211
cod. civ. fr., ha esercitato, come è noto, il pensiero
di Pothier: cfr. Traité des obligations, Dalloz, 2011,
§ 277, 114 ss.
Sui presupposti di operatività della c.d. presunzione di rinuncia di cui all’art. 1311, cpv., n. 1, cod.
civ., cfr. le opinioni di Giaquinto, op. cit., 272;
Gangi, Le obbligazioni, cit., 245 ss.; Longo, op. cit.,
103; Rubino, op. cit., 323 ss.; C.M. Bianca, op. cit.,
749.
In generale, sul fenomeno delle quietanze c.d. a
saldo, v., ex multis, L. Pellegrini, sub art. 1199, nel
Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Delle obbligazioni, a cura di Cuffaro, artt.
1173-1217, Utet, 2012, 632 ss.; Granelli, voce
«Quietanza», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ.,
XVI, Utet, 1997, 162 s., 173 ss.; G. Cian, voce «Pagamento», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ.,
XIII, Utet, 1995, 249 s.; Capobianco, op. cit., spec.
55 ss., 167 s.; M. Prosperetti, Adempimento parziale e liberazione del debitore, Jovene, 1980.
Secondo La Porta, op. cit., 355, in caso di pagamento parziale accompagnato dalla piena liberazione del solvens, non troverebbe applicazione l’art.
1301 cod. civ., non potendosi ravvisare una remissione parziale da parte del creditore; l’ipotesi andrebbe piuttosto assoggettata alla disciplina dell’adempimento, con conseguente effetto estintivo
generale ex art. 1292 cod. civ.
Ritiene C.M. Bianca, op. cit., 473, che la remissione debba risultare in modo non equivoco, in ac-
cordo con il «principio secondo il quale le rinunzie
non si presumono»; similmente, v. P. Stanzione, in
P. Stanzione-Sciancalepore, Remissione e rinuzia, Giuffrè, 2003, 223. V. peraltro, in tema di rinuncia, per aperture al ragionamento presuntivo, ma entro limiti rigorosi, A. Bozzi, voce «Rinunzia (diritto
pubblico e privato)», nel Noviss. Digesto it., XV,
1968, 1151; Macioce, Il negozio di rinuncia nel diritto privato, t. I, Parte generale, Esi, 1992, 207; Distaso, Un luogo comune in tema di rinunzia, nota a
Cass., 15.5.1948, n. 720, in Giur. compl. Cass. civ.,
1948, II, 126 ss.
Sui presupposti per affermare la sussistenza di
un’idonea dichiarazione del creditore volta a porre
in essere una remissione v., con riguardo al sistema
tedesco, fra i tanti, Kleinschmidt, Der Verzicht im
Schuldrecht. Vertragsprinzip und einseitiges Rechtsgeschäft im deutschen und US-amerikanischen Recht, Mohr Siebeck, 2004, 40 s.; Id., sub § 397, in Historisch-kritischer Kommentar zum BGB, herausgegeben von Schmoeckel, Rückert, Zimmermann,
Bd. II/2, Mohr Siebeck, 2007, Rn 21, 2269 s.; per
l’esperienza francese, Simler, Contrats et obligations – Remise de dette, in JurisClasseur Civil Code,
Art. 1282 à 1288, 2010, nn. 27 s.
In prospettiva storica, sul criterio espresso dalle
massime «renuntiatio non praesumitur» e dalla connessa «renuntiatio est strictissimae interpretationis»,
A. Wacke, Donatio non praesumitur. Ein sprichwörtliches Naturrechtsprinzip gegen ein versteinertes
Beweislast-Dogma, in Archiv für die civilistische Praxis, 191, 1991, spec. 4.
Stefano Balbusso
TRIB. MESSINA, 11.11.2014
loro caratteri sessuali primari, ma anche a
coloro che senza modificare i caratteri
sessuali primari abbiano costruito una diversa identità di genere e si siano limitati
ad adeguare in modo significativo l’aspetto corporeo.
Personalità (diritti della) - Diritto
all’identità sessuale - Identità di genere - Rettificazione di attribuzione
di sesso - Trattamento medico-chirurgico - Necessità - Esclusione (l.
14.4.1982, n. 164, art. 1; d. legis. 1o.9.2011, n. 150,
art. 31, comma 4o)
dal testo:
Il diritto all’identità sessuale va pienamente riconosciuto non solo a coloro che,
sentendo in modo profondo di appartenere all’altro genere, abbiano modificato i
Il fatto. I motivi. Con citazione notificata al
Pubblico Ministero in data 28.04.2014, ai sensi
dell’art. 31 D. Lgs. 01.09.2011, n. 150, D.D.
NGCC 2015 - Parte prima
543
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Trib. Messina, 11.11.2014
nato a Messina il XXX, chiedeva che fosse rettificata con sentenza l’attribuzione di sesso
contenuta nell’atto di nascita dell’istante, che
fosse ordinato all’ufficiale dello stato civile del
Comune di Messina di effettuare la rettificazione nel relativo registro e che fosse assegnato all’istante il prenome S.A.
A sostegno della domanda evidenziava che
egli era affetto da disturbo di identità di genere, sentendosi appartenere al sesso femminile;
che egli aveva da tempo preso coscienza del
proprio stato che gli aveva provocato profondo
disagio psicofisico, ed aveva accettato la propria diversità; che egli aveva interesse ad ottenere una sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso per potere condurre un’esistenza
serena e superare la propria sofferenza esistenziale.
Il Giudice Istruttore, all’udienza del 7 ottobre 2014, effettuava l’audizione dell’attore e,
udite le conclusioni del procuratore dell’istante, rimetteva la causa al collegio per la decisione, concedendo il termine di venti giorni per il
deposito di comparsa conclusionale e disponendo la trasmissione degli atti al P.M. in sede,
che in data 15.10.2014 esprimeva il proprio parere.
Ritiene il collegio che la domanda vada accolta. La peculiarità del caso consiste nel fatto
che l’attore non ha effettuato un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali, ma
solamente una terapia ormonale femminilizzante, ed ha chiesto la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri di stato civile da maschile a femminile in quanto la percezione psicologica del sesso da parte dell’istante era sicuramente quella femminile, mentre un intervento
demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali
sarebbe risultato inopportuno e rischioso rispetto al raggiungimento dell’equilibrio nella
sua vita sessuoaffettiva. Occorre, pertanto, verificare in primo luogo se la normativa in tema
di rettifica di attribuzione di sesso introdotta
dalla legge 14.04.1982, n. 164, in parte sostituita dalla disciplina contenuta nell’art. 31 D.
Lgs. 01.09.2011, n. 150, consenta l’accoglimento della domanda anche in assenza di un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali.
L’art. 1 della legge 14.04.1982, n. 164, stabilisce che “la rettificazione si fa in forza di sen544
Personalità (diritti della)
tenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, mentre il menzionato art. 31 D. Lgs.
01.09.2011 n. 150 recita, al 4o comma, “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”. La disciplina, com’è stato giustamente evidenziato,
è “fumosa e generica”. Come è noto, il sesso
anagrafico viene attribuito al momento della
nascita in base a un esame morfologico degli
organi genitali. Tale accertamento avviene ai
sensi degli artt. 28 e seg. D.P.R. 3 novembre
2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la
semplificazione dell’ordinamento dello stato
civile), ove viene stabilito che l’atto di nascita
riporta “il sesso del bambino”, facendo così
coincidere il sesso anagrafico col sesso “biologico”.
Tuttavia, se per la maggior parte degli individui tale attribuzione rispecchia fedelmente tutte le componenti sessuali, possono verificarsi
ipotesi nelle quali questa coincidenza non sussiste o cessa ed in questi casi in cui la componente psicologica si discosta dal dato biologico, l’attribuzione di sesso si atteggia a pura finzione, essendovi una dissociazione tra il sesso e
il genere. In questi casi si parla di transessualismo; infatti, secondo la dottrina medico legale,
transessuale è il soggetto che, presentando i caratteri genotipici di un determinato genere sente in modo profondo di appartenere all’altro
genere, del quale ha assunto l’aspetto esteriore
ed adottato i comportamenti e nel quale, pertanto, vuole essere riconosciuto. Il legislatore
non ha disciplinato tutti gli aspetti del transessualismo, ma solo i profili attinenti alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, trascurando
tutti gli altri. Anzi sembra che la legge non
guardi immediatamente alla realtà del transessualismo, ma si preoccupi della mancata corrispondenza tra il sesso attribuito ad una persona con l’atto di nascita e quello che, a causa di
“intervenute modificazioni” possa essere stato
riscontrato in una fase successiva, con la finalità di tutelare i terzi rispetto alle intervenute
modificazioni sessuali che il soggetto trasporta
nelle relazioni sociali. In proposito, appare siNGCC 2015 - Parte prima
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gnificativo che l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico va autorizzato dal Tribunale
quando “lo ritenga necessario”, sicché il legislatore ha rimesso esclusivamente al Giudice
tale valutazione, trascurando di specificare i
presupposti e di esaminare le peculiarità della
situazione del transessuale, anche se il controllo da parte del giudice sulla necessità del trattamento non può certamente risolversi in una
valutazione circa l’opportunità o la convenienza in sé dell’intervento, ma va effettuato in ragione della necessità dell’intervento ai fini dell’adeguamento dei caratteri sessuali. È stata,
invero, la Corte costituzionale con l’ordinanza
del 24 maggio 1985, n. 161, ad effettuare una
lettura “personalistica” della legge n. 164 del
1982 e ad applaudire alla legge stessa come
espressione di “una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e
dignità”, strumento per la “ricomposizione
dell’equilibrio tra soma e psiche” del transessuale.
Orbene, il conflitto tra vissuto personale e
sociale ed identità esteriore non sempre necessariamente sfocia nella scelta di sottoporsi ad
un intervento chirurgico demolitivo e ricostruttivo. Emerge, nondimeno, chiaramente,
dalla lettera della legge, che il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso è riconosciuto nei limiti dell’“intervenuta modificazione dei caratteri sessuali”, requisito che la giurisprudenza maggioritaria ha interpretato come
necessità dell’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso. Eppure, dalla lettera della
legge non si ricava immediatamente quali debbano essere i caratteri sessuali da modificare,
potendosi ritenere sufficiente anche una modifica dei caratteri sessuali secondari (che a partire dalla pubertà consentono di distinguere i
maschi dalle femmine, come la distribuzione
delle masse muscolari e della forza, dell’adipe,
dei peli, della laringe e della voce, delle mammelle), per la quale è normalmente sufficiente
effettuare delle cure ormonali, e non anche una
modifica dei caratteri sessuali primari (ossia gli
organi genitali e riproduttivi), che richiede, invece, una operazione chirurgica particolarmente invasiva. Per comprendere in cosa debba
consistere la modificazione dei caratteri sessuali occorre muovere dal concetto di identità di
NGCC 2015 - Parte prima
Personalità (diritti della)
genere, la quale è costituita da tre componenti:
il corpo, l’autopercezione e il ruolo sociale.
Ciò significa che non si può prestare attenzione esclusivamente alla componente biologica, poiché l’apparenza fisica non può essere disgiunta dall’autopercezione e dalla relazione
che l’individuo sviluppa con la società e con le
sue norme comportamentali concernenti la sfera della sessualità, sicché la soluzione interpretativa che ritiene l’intervento chirurgico come
momento essenziale della modificazione dei
caratteri sessuali è sotto molti aspetti riduttiva,
non considerando gli aspetti psichici e comportamentali.
D’altronde, il legislatore specifica che “l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare
mediante trattamento medico-chirurgico” va
effettuato “quando risulta necessario” e tale
espressione può essere ritenuta come l’indice
normativo della mera “eventualità” dell’intervento chirurgico, mentre nella visione tradizionale è stata interpretata nel senso “quando l’intervento non sia già stato effettuato”. Infine, va
osservato che l’utilizzazione del termine “adeguamento” sembra stare a significare che non
occorre una modifica di tutti i caratteri sessuali, potendo ritenersi sufficiente una evoluzione
incompleta o imperfetta dei caratteri e della
stessa identità sessuale risultante dalla loro
considerazione unitaria, purché venga realizzato un significativo avvicinamento dell’identità
del richiedente a quella tipica del nuovo sesso.
Al riguardo si è, d’altra parte, constatato come
una totale coincidenza non sia spesso realizzabile ed è per tale motivo che la legge fa riferimento alla circostanza che i caratteri della persona devono presentare solo una certa corrispondenza con quelli propri dell’identità affermata.
La lettera della legge consente, pertanto, una
ermeneusi del dettato normativo diversa da
quella tradizionale secondo la quale l’effettuazione dell’intervento chirurgico dovrebbe rappresentare il passaggio obbligato per realizzare
l’auspicata corrispondenza tra corpo e psiche.
Non vi è dubbio che nel 1982, la realtà con la
quale si è misurato il legislatore era quella delle
persone transessuali biologicamente solo di
sesso maschile, che avevano fatto ricorso all’operazione chirurgica per modificare i loro
caratteri sessuali primari, ed i primi interpreti
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della legge sono stati certamente condizionati
da tale presupposto culturale, ma il fenomeno
del transessualismo nella società contemporanea è profondamente mutato, poiché vi sono
persone transessuali biologicamente di sesso
maschile ed altre biologicamente di sesso femminile; inoltre, con l’ausilio delle terapie ormonali e della chirurgia estetica, la fissazione della
propria identità di genere spesso prescinde
temporaneamente o definitivamente dalla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari e si è spesso utilizzato il termine “transgenderismo”, per distinguere tale fenomeno
dal “transessualismo” tradizionale.
Occorre, allora, verificare se l’interpretazione tradizionale risponda ad una qualche esigenza prevalente rispetto a quella sottesa alla
diversa interpretazione, maggiormente coerente con la realtà contemporanea del transessualismo, per la quale la rettificazione di sesso prescinde dall’esecuzione di un intervento chirurgico demolitivo ricostruttivo.
Si deve premettere che, tra i diritti che formano il patrimonio irretrattabile della persona
umana, l’art. 2 della Costituzione riconosce e
garantisce anche il diritto all’identità personale, quale espressione della dignità del soggetto
e del suo diritto ad essere riconosciuto nell’ambito sociale di riferimento per quello che
si è (Corte Cost. 03.02.1994 n. 13). La Corte
Costituzionale ha, poi, specificato che nel concetto di identità personale deve farsi rientrare
anche il concetto di identità sessuale, ricostruibile non solo sulla base della natura degli
organi riproduttivi esterni bensì anche sulla
base di elementi di ordine psicologico e sociale (Corte Cost. 24.05.1985 n. 161). A prescindere dalla disputa dogmatica se la dignità
umana sia un diritto o un valore, tutelare la
dignità significa, infatti, rispettare l’insieme di
valori di cui l’individuo è portatore e consentire all’individuo di viverli nella quotidianità
con la massima libertà. Sennonché, non sussiste un concetto fisso ed immutabile di dignità
umana, poiché tale concetto sintetizza sul piano giuridico il livello di sensibilità espresso
dalla società ed il rispetto dovuto alla persona
secondo le esigenze ed i valori avvertiti in un
determinato tempo. Il concetto di dignità
umana svolge, allora, un ruolo insostituibile
quale criterio interpretativo evolutivo delle
546
Personalità (diritti della)
norme che definiscono l’oggetto dei diritti individuali e di quelle che individuano gli strumenti giuridici per assicurarne effettività, evitando il rischio di cristallizzazioni ermeneutiche. Nel caso in esame il diritto all’identità
sessuale va, allora, pienamente riconosciuto
non solo a coloro che, sentendo in modo profondo di appartenere all’altro genere, abbiano
modificato i loro caratteri sessuali primari, ma
anche a coloro che senza modificare i caratteri
sessuali primari abbiano costruito una diversa
identità di genere e si siano limitati ad adeguare in modo significativo l’aspetto corporeo.
Una notevole spinta a tale evoluzione viene
data non solo dalla attuale percezione sociale
del fenomeno, ma anche dalla giurisprudenza
delle Corti Europee. Già nel 1996 la Corte di
Giustizia della Comunità europea aveva ritenuto che il tollerare discriminazioni nei confronti dei transessuali equivarrebbe “a porre
in non cale il rispetto della dignità e della libertà che la Corte deve tutelare” (Corte Giustizia Comunità Europee, 30 aprile 1996, in
causa C-13/14), un orientamento che ha trovato ulteriore conferma in altra e successiva
sentenza della medesima Corte (Corte Giustizia Comunità Europee, Sez. I, 27 aprile 2006).
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella
nota sentenza Goodwin c. Regno Unito n.
28957/95 dell’11 luglio 2002, modificando il
proprio precedente indirizzo, ritenne violati
sia l’art. 8 (diritto alla vita privata e familiare)
sia l’art. 12 (diritto al matrimonio) nel caso di
una transessuale alla quale era stato negato sia
il diritto al pensionamento nell’età in cui era
garantito alle donne, in quanto nata uomo, sia
il diritto di sposarsi. In detta sentenza la Corte
ha sottolineato che non ha senso difendere ad
oltranza l’elemento cromosomico, sostenendo
che non può riconoscersi l’avvenuto mutamento dei caratteri sessuali perché in ogni caso la persona conserverebbe il cromosoma
maschile; questa interpretazione mette nell’ombra tutti gli altri elementi della sessualità
umana, che possono invece essere modificati a
beneficio del benessere psicologico delle persone transessuali. Inoltre, nella risoluzione del
29 aprile 2010 l’Assemblea parlamentare del
Consiglio d’Europa ha richiesto agli Stati
membri di introdurre normative apposite sul
cambiamento di sesso anagrafico, evitando di
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Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento
sottoporre le relative richieste alla condizione
del trattamento medico o dell’operazione chirurgica.
La necessità di un intervento chirurgico è
stata talvolta giustificata sulla base del rilievo
che, in mancanza di un intervento chirurgico
demolitore che privi il soggetto della capacità
di procreare, il processo di adeguamento dei
caratteri esteriori a quello dell’altro genere potrebbe essere reversibile. Tuttavia, tale argomentazione non è convincente, poiché in tal
modo viene effettuato un bilanciamento tra
due interessi erroneamente posti sullo stesso
piano: da un lato, l’interesse collettivo a una
corrispondenza tra il corpo e il sesso anagrafico e, dall’altro lato, il diritto alla identità personale, così bilanciando, in assenza di una rigorosa indicazione legislativa, un diritto fondamentale della persona con un interesse collettivo
privo di copertura costituzionale.
D’altronde, se è vero che l’identità di genere
sotto il profilo relazionale può essere considerata un aspetto costitutivo dell’identità personale, la sua esplicazione risulterebbe ingiustificatamente compressa ove la modificazione chirurgica dei caratteri sessuali divenisse presupposto indefettibile della rettificazione degli atti
anagrafici, specie quando la modificazione chirurgica possa risolversi in un danno alla salute
fisica o psicologica del soggetto, costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 32 Cost. Non vi
sono, infatti, interessi superiori da tutelare,
non potendosi considerare tali né la certezza
delle relazioni giuridiche, che comunque sarebbe salvaguardata dalle risultanze anagrafiche, né la necessaria diversità sessuale delle relazioni famigliari, dal momento che la diversità
di sesso non è più considerata dalla Carta di
Nizza né dalla Corte europea dei diritti umani
un presupposto naturalistico del negozio matrimoniale, come riconosciuto dalla stessa Corte Costituzionale nella recente sentenza
18.06.2014 n. 170.
Riconosciuta la possibilità di accogliere la
domanda di rettificazione di sesso anche in assenza di un intervento chirurgico demolitivo
dei caratteri sessuali primari, va osservato che
nel caso in esame il D.D. si è sottoposto a terapia ormonale femminilizzante dal 09.04.2014,
e ciò, come riferito dal Dirigente medico psichiatra del D.S.M. di Messina Sud nella nota
NGCC 2015 - Parte prima
Personalità (diritti della)
datata 25.10.2014, ha già consentito il raggiungimento di un assetto dei caratteri secondari e
dei valori ormonali compatibili con un aspetto
ed un quadro ormonale femminile, come peraltro riscontrato dal Giudice Istruttore in sede
di audizione, sicché si può considerare realizzato quell’adeguamento dell’aspetto fisico necessario per ritenere sussistente una modificazione dei caratteri sessuali. Inoltre il D.D. appare aver raggiunto un sufficiente equilibrio
psicofisico ed una soddisfacente accettazione
della propria condizione mantenendo con continuità la motivazione a raggiungere e mantenere un aspetto femminile, sicché anche sotto
il profilo psicologico sussistono tutti gli elementi per ritenere che sia stata raggiunta la necessaria modificazione dei caratteri sessuali.
Infine, va osservato che, come sottolineato nella menzionata nota del 25.10.2014, il trattamento chirurgico appare in atto non solo non
necessario ma addirittura sconsigliabile in
quanto potrebbe compromettere il mantenimento del suddetto equilibrio.
Occorre, pertanto, ordinare all’ufficiale dello stato civile la chiesta rettificazione dell’attribuzione di sesso nel relativo registro dello Stato Civile; inoltre, conformemente alla richiesta
avanzata dalla ricorrente, va rettificato anche il
prenome da “D.” in “S.A.”.
Tenuto conto della natura della causa, le
spese processuali vanno compensate. (Omisssis)
[Bonanzinga Presidente ed Estensore. – D.D. (avv.
Tommasini)]
Nota di commento: «Favorire l’emersione dell’identità sessuale per tutelare la dignità umana
nella sua unicità»
I. Il caso
In data 28.4.2014, un uomo chiede, con atto di citazione notificato al p.m., la rettificazione del sesso,
da maschile a femminile, nei registri di stato civile,
avendo da tempo preso coscienza della propria diversità.
L’attore, tuttavia, non aveva compiuto alcun intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali, ma solamente una terapia ormonale femminilizzante, poiché un intervento demolitorio-ricostruttivo degli organi genitali sarebbe stato (a parer del Di547
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Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento
rigente medico psichiatra) non solo «non necessario» ma «addirittura sconsigliabile» per il raggiungimento e per il mantenimento dell’equilibrio
sessuoaffettivo del paziente.
Secondo la disposizione normativa di cui alla l.
14.4.1982, n. 164, il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso è riconosciuto a seguito «di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali» (art. 1):
questo requisito è stato interpretato dalla giurisprudenza maggioritaria come necessità dell’intervento
chirurgico al fine di ottenere una rettificazione anche anagrafica. Il Tribunale di Messina, con la sentenza in commento, rileva che dalla lettera della legge non si ricava immediatamente quali debbano essere i caratteri sessuali da modificare, «potendosi ritenere sufficiente anche una modifica dei caratteri sessuali secondari (...), per la quale è normalmente sufficiente effettuare delle cure ormonali, e non anche una
modifica dei caratteri sessuali primari (ossia gli organi
genitali e riproduttivi), che richiede, invece, una operazione chirurgica particolarmente invasiva». Dunque, sulla base di questo ragionamento che demanda al giudice la valutazione sulla necessità o meno
del ricorso all’intervento chirurgico, il Tribunale di
Messina ha concesso con sentenza la rettificazione
di sesso all’interessato che aveva modificato i
caratteri sessuali secondari e non anche quelli primari.
II. La questione
La sentenza in commento muove dall’art. 1 l.
14.4.1982, n. 164, poiché, seguendo un’interpretazione restrittiva, l’intervento medico-chirurgico è
necessario per ottenere la rettificazione anagrafica
del sesso richiesto; viceversa, una diversa interpretazione demanda alla discrezionalità del giudice la necessità o meno dell’intervento chirurgico demolitorio-ricostruttivo. In particolare, la giurisprudenza
mostra di ritenere l’intervento non più «condicio sine qua non» ai fini della rettificazione anagrafica del
sesso, specialmente laddove l’interessato esprima
una volontà contraria alla sottoposizione a trattamenti clinici talmente invasivi, oltre che molto pericolosi per la sua salute. In questa posizione si colloca la sentenza del Tribunale di Messina, la quale, innanzitutto, considera la diversa realtà storica del legislatore del 1982, rispetto a quello odierno; difatti,
oggi, il fenomeno del transessualismo assume connotati diversi, anche perché, attraverso l’ausilio delle
terapie ormonali e della chirurgia estetica, «la fissazione della propria identità di genere spesso prescinde
temporaneamente o definitivamente dalla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari».
La questione è stata rimessa dal Trib. Trento,
ord. 20.8.2014, infra, sez. III, alla Corte costituzio548
Personalità (diritti della)
nale, dato il contraddittorio panorama giurisprudenziale che attenta alla certezza del diritto in un
delicato settore, poiché discrimina la condizione del
transessuale a seconda del luogo di residenza.
A parer dei giudici messinesi, il legislatore, trascurando di specificare in modo esaustivo le peculiarità
della situazione del transessuale, ha rimesso al giudice la valutazione sulla necessità o meno dell’operazione chirurgica considerando il caso concreto, senza ledere la dignità umana, da non soffocare o imbrigliare in cliché preconfezionati, a salvaguardia di
un astratto ordine pubblico. Ciò mostra il superamento del momento strutturale, a favore della funzione dello status che il soggetto desidera che la collettività gli riconosca, nella stessa maniera in cui lui
stesso avverte di essere: in altri termini, lo status si
pone «al servizio di valori collocati al vertice della
scala gerarchica: persona e libertà» (Mazzù, Riflessioni sullo status, 53, infra, sez. IV).
Il dato fondamentale non è più il sesso biologico
o anagrafico, ma il genere, che si può definire quale
«variabile socio-culturale», vale a dire «qualità della
persona in base alla quale della stessa si può dire che è
maschile o femminile»: il genere può discostarsi dal
sesso biologico e cambiare col tempo in varie declinazioni e direzioni (Trib. Trento, ord. 20.8.2014,
infra, sez. III). Dunque, imporre un determinato
trattamento medico, anche rischioso per la salute
umana, costituisce una limitazione al riconoscimento dell’identità di genere che sia la Costituzione, all’art. 2, che la Conv. eur. dir. uomo, all’art. 8, riconoscono e tutelano. Ciò significa che ogni persona
ha il diritto di scegliere la propria identità sessuale, a
prescindere dal dato biologico di appartenenza, senza subordinare l’esercizio di tale diritto a dolorosi e
pericolosi interventi chirurgici non voluti.
La «necessità» dell’intervento chirurgico dovrebbe essere valutata tenendo conto unicamente della
volontà della persona, mentre il presupposto delle
«intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali» dovrebbe essere soddisfatto a seguito di trattamento ormonale, peraltro non esente da rischi per la
salute e, pertanto, difficilmente conciliabile, se obbligatorio, con i principi costituzionali che tutelano
la persona (Patti, 46, infra, sez. IV).
Il concetto di «dignità umana», non è predeterminabile a priori, non è statico, ma svolge un ruolo di
bussola dinamica nella galassia antropologica dei
rapporti umani, specialmente quando una persona
«debole» desidera fa emergere la propria identità,
senza alcun compromesso, senza doverla schematizzare in una formula tipica, prevista ed «accettata»
dall’ordinamento, che non rispecchia la propria
identità sessuale; senza subordinare l’esercizio di un
diritto a invasivi e pericolosi trattamenti sanitari che
contrastano con l’art. 32 Cost., finendo per consuNGCC 2015 - Parte prima
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Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento
mare un atto di violenza sul corpo della persona che
si trova costretta a subirli.
In tal senso, la decisione del Tribunale di Messina
focalizza il ragionamento sul rispetto della dignità
dell’individuo di vivere i propri valori «nella quotidianità con la massima libertà», esprimendo il concetto di dignità umana (inteso in una dimensione dinamica e non immutabile) «il livello di sensibilità
espresso dalla società ed il rispetto dovuto alla persona secondo le esigenze ed i valori avvertiti in un determinato tempo». Non occorre obbligare la persona a
ricercare «lidi sicuri per l’approdo dell’esistenza,
utilizzando lo steccato invisibile ma insuperabile
delle «appartenenze», per resistere alle invasioni dei
diversi» (Mazzù, L’identità, 36, infra, sez. IV). Il diritto all’identità personale, rientrando tra i diritti inviolabili dell’uomo, ex art. 2 Cost., costituisce una
«formula riassuntiva di tutte le manifestazioni e qualità dell’individuo, che ne specificano la personalità,
rendendola un unicum» (Mazzù, Profili civilistici,
165, infra, sez. IV).
A presidio di valori assoluti come la «dignità», la
«identità», la «solidarietà» si giustifica un’evoluzione incompleta dei caratteri sessuali per realizzare
«un significativo avvicinamento dell’identità del richiedente a quella tipica del nuovo sesso», senza dover, per ciò stesso, obbligare l’interessato a subire
una modificazione chirurgica che potrebbe, altresì,
risolversi in un danno alla sua salute fisica o psicologica, o potrebbe privare il soggetto della capacità di
procreare.
La diversità di sesso non è più considerata dalla
Carta di Nizza né dalla Conv. eur. dir. uomo un presupposto naturalistico del negozio matrimoniale, come confermato nella recente sentenza della Corte
cost., 18.6.2014, n. 170 (infra, sez. III). Senza trascurare che il cambiamento di sesso, anche se meramente anagrafico, influisce su diversi piani applicativi della realtà umana, che variano a seconda del
nome (femminile o maschile) che rappresenta la
persona in quel determinato momento: si pensi alla
successione testamentaria, al sistema pensionistico,
alla trascrizione immobiliare.
Questa riflessione mostra come il legislatore si
trovi a dover regolare interessi nuovi, relazioni personali o familiari che si emancipano dalle regole positive facendo emergere formule di status volte all’accesso, in una dimensione dove la «funzione»
mette in ombra la struttura dei modelli tradizionali,
nel primato della terza dimensione teleologica o
funzionale. In questo cammino lo Stato non può costringere una persona a subire un trattamento sanitario per avere un diritto che la l. n. 184/1982, già riconosce alla persona che decide di modificare il proprio genere. Proprio per questo non deve essere
espropriata della propria dignità per un’imposizione
NGCC 2015 - Parte prima
Personalità (diritti della)
statale, che allo stato dell’arte realizza una discriminazione inaccettabile e vietata in tutti i gradi di legalità, tra cui, al vertice, l’art. 14 Conv. eur. dir. uomo.
In questa direzione si muove la sentenza del Tribunale di Messina, in un cammino volto al pieno riconoscimento della natura di diritto soggettivo dell’identità di genere, la quale deve essere rispettata in
ogni individuo, costituendo il minimo comune denominatore capace di spezzare la catena culturale
della diversità. In quest’itinerario di sviluppo culturale, la sentenza dei giudici messinesi è stata seguita
da una importante pronuncia della Corte eur. dir.
uomo, 10.3.2015, Affaire YY c. Turquie, infra, sez.
III, che riconosce il diritto alla modifica dei dati
anagrafici del transessuale, indipendentemente dalla
sottomissione della persona ad un intervento chirurgico, in quanto una persona non può essere sottoposta a subire una sterilizzazione forzata.
In questo contesto, è lecito pensare che la decisione della Corte costituzionale si muoverà in questo
senso.
III. I precedenti
La problematica è stata affrontata dalla giurisprudenza in diverse occasioni, considerato che «i diritti
della personalità (...) non possono comprimere l’esigenza fondamentale della persona umana alla propria
identità sessuale, che è un aspetto ed un fattore di
svolgimento della personalità» (Corte cost.,
24.5.1985, n. 161, in Giur. cost., 1985, I, 1173). Con
la sentenza 11.7.2002, ric. 28957/95, Goodwin c.
Regno Unito, in www.personaedirittiumani.com, la
Corte di Strasburgo tutela il diritto all’identità personale dei transessuali con riferimento ai profili della loro vita di relazione.
Parte della giurisprudenza di merito è contraria
ad una rettificazione di attribuzione di sesso senza
previo intervento chirurgico. Tra le pronunce, Trib.
Roma, 18.7.2014, in DeJure, Trib. Brescia,
15.10.2004, in Fam. e dir., 2005, 527, e Trib. Vercelli, 12.12.2014, in DeJure, che si pone in netto
contrasto con la pronuncia del Tribunale di Messina, negando ad una persona transessuale, che non si
era sottoposta all’intervento medico-chirurgico, la
rettificazione anagrafica, considerata la «indefettibilità dell’intervento chirurgico». Alla stessa conclusione era giunto il tribunale romano ritenendo «l’avvenuta modificazione della struttura anatomica del soggetto con eliminazione quanto meno degli organi riproduttivi» «presupposto applicativo» per la rettificazione sessuale. La motivazione del Tribunale di Vercelli pone l’accento sul ridotto potere del giudice, il
quale non può forzare la legge che subordina la concessione della rettificazione di attribuzione di sesso
al superamento di un intervento chirurgico demoli549
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Trib. Messina, 11.11.2014 - Commento
torio-ricostruttivo. Difatti, secondo l’interpretazione
dei giudici vercellesi, ciò si deduce «de jure condito» ed in mancanza di una rimeditazione legislativa
della questione volta ad uniformare la normativa interna a quella degli Stati europei, alla luce della presumibile intenzione del legislatore, che, se avesse voluto fare propria la distinzione concettuale medicoanatomica tra caratteri sessuali primari e secondari,
avrebbe potuto farlo espressamente, oltretutto chiarendo la modificazione di quali e di quanti caratteri
sessuali secondari, e con quale grado di profondità,
sarebbe stata sufficiente ad ottenere la rettificazione.
Il Trib. Trento, ord. 20.8.2014, in www.gazzetta
ufficiale.it, ha sottoposto al vaglio della Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 1o, l. 14.4.1982, n. 164, nella parte in cui subordina la rettificazione di attribuzione
di sesso alla intervenuta modificazione dei caratteri
sessuali della persona istante, con riferimento ai parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 32 e 117,
comma 1o, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8
Conv. eur. dir. uomo.
L’ampiezza della formulazione normativa, infatti,
ha portato parte della giurisprudenza di merito ad
autorizzare una rettificazione anagrafica, pur in assenza d’intervento demolitorio-ricostruttivo dei caratteri propri del nuovo sesso (Trib. Roma,
18.10.1997, in Dir. fam. e pers., 1998, 1033; Trib.
Roma, 11.3.2011, in questa Rivista, 2012, I, 243;
Trib. Rovereto, 3.5.2013, in questa Rivista, 2013,
I, 1116; Trib. Siena, 12.6.2013, in www.intersexioni.
it), essendo sufficiente una terapia ormonale. Secondo altra giurisprudenza di merito, invece, è sufficiente la perdita della capacità procreativa propria
del sesso originario: Trib. Pavia, 26.2.2006, in Foro
it., 2006, I, 1596.
Superando il binarismo di genere, la Corte suprema indiana, con la decisione del 15.4.2014, in
www.ilsecoloxix.it, garantisce alle persone che non
si riconoscono né nel genere maschile né nel genere
femminile il riconoscimento legale come «terzo genere», poiché «ogni essere umano ha il diritto di scegliere di che genere sessuale è».
Corte cost. 18.6.2014, n. 170, in DeJure, tutela
il rapporto di coppia del transessuale.
Tra le sentenze della Corte di Strasburgo, volte a
fornire protezione al transessuale, ai sensi dell’art. 8
Conv. eur. dir. uomo, v. Corte eur. dir. uomo,
10.3.2015, Affaire YY c. Turquie, in www.hudoc.
echr.coe.int.
550
Personalità (diritti della)
IV. La dottrina
Per una disamina della l. 14.4.1982, n. 164, al
tempo dell’emanazione, si rinvia: al Commento di
Patti-Will, in Nuove leggi civ. comm., 1983, 35 ss.;
a Bessone-Ferrando, voce «Persona fisica», in
Enc. dir., XXXIII, Giuffrè, 1983, 193 ss.; Stanzione, Transessualismo e sensibilità del giurista. Una rilettura attuale della l. n. 164/1982, in Riv. pers. e
fam., 2009, 713 ss. In tema di rettificazione di attribuzione di sesso: D’Addino Serravalle-Perlingieri-Stanzione, Problemi giuridici del transessualismo, Esi, 1981; Tommasini, L’identità del soggetto
tra apparenza e realtà: aspetti di una ulteriore ipotesi
di tutela della persona, in Scritti in memoria di Lorenzo Campagna, Giuffrè, 1981; Dogliotti, Identità
personale, mutamento del sesso e principi costituzionali, in Giur. it., 1981, 27 ss.; Mazzù, Profili civilistici della legislazione dell’emergenza, in Id., La soggettività contrattata, Giuffrè, 2005, 165; Veronesi,
Cambiamento di sesso tra (previa) autorizzazione e
giudizio di rettifica, in Fam. e dir., 2005, 528 ss.; Patti, Rettificazione di sesso e intervento chirurgico, in
Fam. pers. e succ., 2007, 25 ss.; Mazzù, L’identità come stella polare nella traversata del deserto dal non
essere all’essere, in L’Arco di Giano, 2007, fasc. 53,
36; Venturelli, Volontarietà e terapeuticità nel mutamento dell’identità sessuale, in Rass. dir. civ., 2008,
732 ss.; Palazzani, Identità di genere come problema biogiuridico, in Iustitia, 2011, 157 ss.; Aa.Vv.,
Identità sessuale e identità di genere, Atti del convegno nazionale dell’U.G.C.I., Palermo, 9-11.12.2010,
a cura di D’Agostino, in Quaderni di Iustitia, fasc.
6, Giuffrè, 2012; Trimarchi, L’attribuzione di una
nuova identità sessuale in mancanza di intervento chirurgico, in Fam. e dir., 2012, 184 ss.; Lorenzetti,
Diritti in transito, La condizione giuridica delle persone transessuali, FrancoAngeli, 2013; Patti, Mutamento di sesso e «costringimento al bisturi»: il Tribunale di Roma e il contesto europeo, in questa Rivista,
2015, II, 39 ss.
Sulla mutazione genetica dello «status» emendato
da pregiudizi ideologici e storici, riconducibili alla
sua originaria funzione selettiva, e costruito in una
funzione nuova di natura promozionale, conforme
allo spirito ed alle esigenze del tempo, Mazzù, Riflessioni sullo status tra passato e futuro, in Id., Il diritto civile all’alba del terzo millennio, Famiglia –
Successioni – Contratto – Patrimoni separati, I, Giappichelli, 2011, 53.
Aurora Vesto
NGCC 2015 - Parte prima
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014
TRIB. GENOVA, ord. 5.11.2014
Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza civile di primo grado - Principio generale della provvisoria esecutività ex art. 282 cod. proc. civ. - Eccezioni giurisprudenziali relative
alle sentenze costitutive e dichiarative - Interpretazione restrittiva
(cod. proc. civ., art. 282; cod. civ., artt. 2907, 2908,
2909, 2932) (a)
Sentenza, ordinanza e decreto - Sentenza costitutiva - Accertamento
costitutivo dell’effetto risolutorio
contrattuale - Capo accessorio di
condanna alla restituzione della caparra - Rapporto di mera dipendenza
dall’effetto costitutivo - Provvisoria esecutività - Sussistenza (cod. proc.
civ., artt. 91, 282) (b)
(a) Il principio generale di cui all’art. 282
cod. proc. civ., secondo cui «la sentenza di
primo grado è provvisoriamente esecutiva
tra le parti», impone un’interpretazione
restrittiva delle eventuali eccezioni, quale
è quella – di origine giurisprudenziale –
relativa alle sentenze costitutive e dichiarative.
(b) Il nesso tra la condanna alla restituzione della caparra e l’accertamento costitutivo della risoluzione contrattuale si
presenta come di mera dipendenza e non,
invece, di sinallagmaticità, con la conseguenza che il capo condannatorio accessorio alla pronuncia costitutiva deve ritenersi immediatamente esecutivo.
dal testo:
Il fatto. I motivi. (Omissis) ritenuto: (Omissis)
– che nel merito l’opponente fonda il proprio
assunto sull’assenza di esecutività del capo della
sentenza non definitiva (costituente il titolo esecutivo indicato in precetto) con cui lo stesso opponente veniva condannato alla restituzione delNGCC 2015 - Parte prima
Sentenza, ordinanza e decreto
la caparra, in conseguenza della risoluzione contrattuale dichiarata in quella sede;
– che l’assunto non ha pregio;
– che è nota la statuizione della S.C. a Sezioni unite (n. 4059 del 2010) secondo cui – in un
caso di sentenza emessa ex art. 2932 c.c. – “l’effetto traslativo della proprietà del bene si produce solo con l’irretrattabilità della sentenza per
cui è da escludere che prima del passaggio in giudicato della sentenza sia configurabile un’efficacia anticipata dell’obbligo di pagare il prezzo: si
verificherebbe un’alterazione del sinallagma. Ritenere diversamente consentirebbe alla parte
promittente venditrice – ancora titolare del diritto di proprietà del bene oggetto del preliminare
– di incassare il prezzo prima ancora del verificarsi dell’effetto, verificabile solo con il giudicato, del trasferimento di proprietà”;
– che malgrado il citato arresto sia applicabile – per espressa precisazione della Corte – ai
soli casi di sentenza ex art. 2932 cc e non già a
tutte le sentenze costitutive (Omissis), si ritiene
che la stessa possa essere d’ausilio alla presente
decisione;
– che infatti la S.C. – al fine di evitare la paventata alterazione del sinallagma – ha statuito
che “la possibilità di anticipare l’esecuzione delle statuizioni condannatorie contenute nella sentenza costitutiva va riconosciuta in concreto volta a volta a seconda del tipo di rapporto tra l’effetto accessivo condannatorio da anticipare e
l’effetto costitutivo producibile solo con il giudicato. A tal fine occorre differenziare le statuizioni condannatorie meramente dipendenti dal detto effetto costitutivo, dalle statuizioni che invece
sono a tale effetto legate da un vero e proprio
nesso sinallagmatico ponendosi come parte – talvolta ‘corrispettiva’ del nuovo rapporto oggetto
della domanda costitutiva”;
– che in questa sede occorre quindi verificare se la condanna alla restituzione della caparra
(e di cui al precetto qui opposto) si presenti in
mero rapporto di dipendenza dalla dichiarazione di risoluzione contrattuale ovvero in rapporto di stretta sinallagmaticità con la medesima;
che deve concludersi in senso favorevole alla
prima opzione, con conseguente riconoscimento della provvisoria esecutività della pronuncia
di condanna di cui al precetto; che infatti a tal
riguardo va osservato che la successiva giurisprudenza della S.C. ha fatto piena applicazio551
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento
ne del citato arresto delle SS. UU., statuendo
che “L’anticipazione in via provvisoria, ai fini
esecutivi, degli effetti discendenti da statuizioni
condannatorie contenute in sentenze costitutive,
(...) è invece consentita quando la statuizione
condannatoria è meramente dipendente dall’effetto costitutivo, essendo detta anticipazione
compatibile con la produzione dell’effetto costitutivo nel momento temporale successivo del
passaggio in giudicato (come nel caso di specie riguardante la condanna di un istituto di credito
alla restituzione delle somme di denaro ricevute
da un istituto di credito a seguito di atti solutori
dichiarati inefficaci ai sensi dell’art. 67 legge
fall.)” (Cassazione civile sez. I 29 luglio 2011 n.
16737, in Giust. civ. Mass. 2011, 9, 1229);
– che la motivazione di detto arresto è perspicua: “il nesso tra la statuizione condannatoria e l’accertamento costitutivo si presenta come
di mera dipendenza: la condanna alla restituzione delle somme ricevute con gli atti solutori dichiarati inefficaci – non diversamente, ad esempio, da quella alla restituzione del bene locato
conseguente alla risoluzione del contratto di locazione – dipende dall’accertamento circa la sussistenza, o non, del titolo in base al quale tali
somme sono state acquisite, ma non è in un rapporto di stretta sinallagmaticità tra i due capi,
quale quello sopra descritto. Ne deriva di necessità la conclusione che la anticipazione degli effetti esecutivi di tale capo condannatorio – cioè
l’adeguamento della realtà materiale al decisum
– non è nella specie incompatibile con la produzione dell’effetto costitutivo al momento successivo del passaggio in giudicato”;
– che pare evidente la piena sovrapponibilità tra l’ipotesi di condanna alla restituzione di
somme per effetto dell’accoglimento della domanda revocatoria ex art. 67 LF (caso di cui alla citata Cass. 2011 n. 16737) e l’odierna fattispecie di condanna alla restituzione di caparra
per effetto della risoluzione contrattuale;
– che quindi – utilizzando le espressioni linguistiche delle SS. UU. – la condanna alla restituzione della caparra è sì statuizione condannatoria dipendente dall’effetto costitutivo della pronuncia di risoluzione, ma non configura un vero
e proprio nesso sinallagmatico con quest’ultima;
– che in particolare il rapporto tra condanna
alla restituzione di caparra e la pronuncia di risoluzione è di natura meramente logica e pro552
Sentenza, ordinanza e decreto
cessuale (nel senso che la restituzione della caparra trova la causa nella dichiarata risoluzione
del contratto) ma non configura di per sé il sinallagma contrattuale del contratto di vendita,
come diversamente si registra tra trasferimento
di proprietà e pagamento del prezzo;
– che in tal senso è orientato anche il Tribunale di Como in controversia analoga alla presente causa (ord. 22.5.2013, in Giur. it., 2014,
330, est. Nardecchia);
– che l’assenza di fumus boni iuris rende superflua ogni valutazione sul periculum in mora;
che quindi non sussistono i gravi motivi per la sospensione dell’esecutività del titolo esecutivo;
– che da ultimo va osservato che l’inequivoco enunciato del principio generale dell’art.
282 c.p.c. (“La sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti”) impone
un’interpretazione restrittiva delle eventuali
eccezioni, quale è quella – di origine giurisprudenziale – relativa alle sentenze costitutive e dichiarative; (Omissis);
P.Q.M.
1 - respinge l’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo di cui al precetto qui
opposto e per l’effetto revoca la sospensione di
cui al decreto;
2 - rimette le parti per il merito all’udienza di
cui all’atto introduttivo. (Omissis)
[Bianchi G. Un.]
Nota di commento: «La provvisoria esecutività
delle pronunce costitutive di mero accertamento:
un obiettivo o un mito da sfatare?» [,]
I. Il caso
La vicenda oggetto di queste considerazioni trae
origine da un procedimento di opposizione all’esecuzione ex art. 615 cod. proc. civ., nel contesto del
quale l’opponente chiedeva la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo con cui era stato condannato alla restituzione della caparra, sul presupposto
che la sentenza azionata, avendo ad oggetto la risoluzione del contratto, ha natura costitutiva e non è
pertanto provvisoriamente esecutiva.
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento
Nel caso in esame il Giudice, ritenendo che il rapporto sussistente tra la condanna alla restituzione della caparra e la pronuncia di risoluzione del contratto
non sia di natura sinallagmatica bensì meramente logica e processuale, ha rigettato la domanda di sospensione dell’efficacia esecutiva, riconoscendo l’anticipazione in via provvisoria dell’effetto discendente da una
statuizione condannatoria – quale quella alla restituzione della caparra versata in forza di un valido contratto – contenuto in una sentenza costitutiva.
La questione sottoposta all’esame del Tribunale
di Genova ripropone l’annoso tema, dibattuto in
dottrina e giurisprudenza ancor prima della riforma
del 1990, relativo all’ambito di applicazione oggettivo dell’art. 282 cod. proc. civ. Gli interrogativi che questo tema pone sono, da un lato, se
l’esecutività provvisoria riguarda solo le sentenze di condanna e, dall’altro lato, se i capi
condannatori accessori ad una sentenza costitutiva o ad una sentenza dichiarativa possano
ritenersi esecutivi prima del passaggio in giudicato della sentenza cui accedono.
II. Le questioni
1. L’esecuzione provvisoria in relazione
alle diverse tipologie di sentenze. Nella versione originaria del codice di rito del 1942, la sentenza di primo grado non aveva efficacia esecutiva
sin tanto che non fosse passata in giudicato; era tuttavia prevista la facoltà per il giudice, su istanza di
parte, di munire la sentenza della «clausola» di
provvisoria esecuzione, eventualmente subordinata
a cauzione, qualora la domanda fosse fondata su atto pubblico, scrittura privata riconosciuta o sentenza passata in giudicato, oppure sussistesse un pericolo nel ritardo o, ancora, nel caso di sentenze di
condanna al pagamento di provvisionali o a prestazioni alimentari.
L’art. 282 cod. proc. civ., come modificato dalla l.
26.11.1990, n. 353 prevede che «la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti».
Il nodo interpretativo da dipanare concerne il «limite oggettivo» della provvisoria esecutività, ossia se la
stessa vada riferita alle sole sentenze di condanna o a
tutti i tipi di pronunce giudiziali. Sotto questo profilo, infatti, il testo dell’art. 282 cod. proc. civ. riformato appare lacunoso, riferendosi in generale alla
sentenza di primo grado.
Con riferimento alle sentenze di mero accertamento, il dibattito in merito alla provvisoria esecutività appare meno pregnante, alla luce del fatto che,
da un lato, tali pronunce si limitano a creare certezza e la certezza, per essere tale, presuppone che la
sentenza abbia acquisito quel grado di stabilità tipico del giudicato (Chiovenda, Istituzioni, 204 s., inNGCC 2015 - Parte prima
Sentenza, ordinanza e decreto
fra, sez. IV, che esclude la provvisoria esecutorietà
in quanto la sentenza di mero accertamento «non
tende per sé all’esecuzione, né d’altra parte la certezza può essere provvisoria») e, dall’altro lato, non
richiedono un’attività estrinseca di attuazione o esecuzione o, comunque, di adeguamento della realtà
al decisum.
Diversamente il tema in questione pone maggiori
profili di criticità con riferimento alle sentenze costitutive.
Da una parte vi è chi, aderendo alla tesi tradizionale, ritiene debba limitarsi la provvisoria esecutività
alle sole sentenze di condanna sulla base delle seguenti motivazioni: (i) solo le sentenze di condanna
possono costituire titoli esecutivi, in virtù delle necessaria correlazione tra esecuzione forzata e tali tipi
di sentenze (Mandrioli, Sulla correlazione, 134 s.,
infra, sez. IV); ciò sarebbe altresì confermato dall’art. 283 cod. proc. civ. che, nel disciplinare la sospensione dell’esecuzione provvisoria in appello, si
riferisce espressamente alla possibilità di sospendere
l’efficacia esecutiva, tipica delle sole pronunce di
condanna; (ii) le altre norme codicistiche che disciplinano la provvisoria esecutorietà, quali gli artt. 431
e 447 bis cod. proc. civ., si riferiscono univocamente
alle sentenze di condanna (Attardi, 117; Monteleone, 367, entrambi infra, sez. IV); (iii) l’art. 64,
lett. d), l. 31.5.1995, n. 218 stabilisce che la sentenza
italiana non ancora passata in giudicato non può dirsi espressiva di alcuna efficacia di accertamento.
Dall’altra parte vi è chi ritiene che il nuovo testo
dell’art. 282 cod. proc. civ., scevro da ogni espresso riferimento al tipo di sentenza, sarebbe applicabile anche alle sentenze diverse da quelle di condanna e sostiene tale tesi in quanto: (i) l’art. 2908
cod. civ. non subordina il prodursi gli effetti costitutivi, modificativi o estintivi al passaggio in giudicato della sentenza (Carpi, La provvisoria esecutorietà, 89, infra, sez. IV; Tavormina, infra, sez. IV);
(ii) l’art. 2909 cod. civ., che ricollega l’efficacia della sentenza di accertamento al suo passaggio in
giudicato formale, non esclude che possa verificarsi
un tipo di efficacia diversa da quella che «fa stato»
(Impagnatiello, Sentenze costitutive, 751 s., infra,
sez. IV); (iii) il diritto positivo riconosce, in alcuni
casi, la provvisoria esecutività degli effetti costitutivi della sentenza indipendentemente dal passaggio
in giudicato della stessa, come nel caso della sentenza di interdizione o inabilitazione di cui all’art.
421 cod. civ. (Impagnatiello, La provvisoria esecuzione, 47 s., infra, sez. IV); (iv) le norme che
espressamente fanno riferimento alle sentenze di
condanna (quali gli artt. 431 e 447 bis cod. proc.
civ.) hanno in realtà carattere derogatorio e speciale rispetto all’art. 282 del codice di rito (Comoglio-Ferri-Taruffo, 634, infra, sez. IV); (v) il ri553
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento
conoscimento della provvisoria esecutività delle
sentenze costitutive sarebbe conforme alle garanzie
costituzionali di effettività di tutela e di ragionevole durata del processo (Carpi, voce «Esecutorietà»,
2; Impagnatiello, Sentenze costitutive, 781, entrambi infra, sez. IV); (vi) nei lavori preparatori alla modica dell’art. 282 cod. proc. civ. l’emendamento volto a puntualizzare il riferimento alle sole
sentenze di condanna venne respinto.
Cercare di trovare una soluzione al tema dei limiti
oggettivi della provvisoria esecutorietà sulla base
dell’astratta natura del provvedimento non ci sembra una strada percorribile in quanto, sulla base di
una mera definizione teorica e dogmatica, si consentirebbe l’anticipazione degli effetti (rispetto al giudicato formale) delle sentenze di condanna e non anche di quelle sentenze che, seppur definite «non di
condanna», contengono in sé capi condannatori.
Aderendo a questa impostazione, si verrebbe a creare un’incertezza pratica derivante dalla (talvolta
dubbia) qualificazione di un’azione di cognizione
come di mero accertamento, costitutiva o di condanna, come nel caso delle impugnative negoziali
(sulla dubbia qualificazione di tali azioni v. per tutti
Pagni, Le azioni di impugnativa negoziale. Contributo allo studio della tutela costitutiva, Giuffrè, 1998;
Id., Il «sistema» delle impugnative negoziali dopo le
Sezioni Unite, nota a Cass., sez. un., 12.12.2014, n.
26242 e Cass., sez. un., 12.12.2014, n. 26243, in
Giur. it., 2014, 1, 70 s.).
In assenza di un chiaro dettato occorre dunque
essere prudenti e valutare caso per caso la fattispecie
sottoposta all’interprete. Tuttavia è innegabile che la
«crisi del giudicato», bene di massimo valore ma acquisibile – talvolta – ad alto prezzo, non solo dal
punto di vista economico, ma anche in termini di
durata del processo, impone un ripensamento anche
della disciplina della provvisoria esecutorietà delle
sentenze costitutive e dichiarative. È indubbio infatti che l’istituto della provvisoria esecutività ha un valore di natura pragmatica quale mezzo per garantire
una maggiore rapidità nella tutela dei diritti; alla luce di ciò sono certamente condivisibili le tesi che
propugnano una concezione «ampia» di provvisoria
esecutività che escluda dal suo ambito di applicazione unicamente le statuizioni (di accertamento o costitutive) che non necessitano di un’attuazione materiale ricomprende, invece, tutte le sentenze, indipendentemente dalla loro natura e dal relativo contenuto, destinate a regolare vicende patrimoniali da
cui conseguono effetti sul piano della realtà fattuale
sempre reversibili.
2. La condanna accessoria a statuizione
costitutiva o dichiarativa. Un problema diverso è quello relativo alla provvisoria esecutività dei
554
Sentenza, ordinanza e decreto
capi condannatori accessori ad una sentenza. Sulla
questione non sussiste un orientamento univoco in
dottrina ed in giurisprudenza anche se una soluzione, seppur parziale, è stata raggiunta con la sentenza
delle sez. un. del 2010 (Cass., sez. un., 22.2.2010, n.
4059, infra, sez. III) citata anche dal provvedimento
del Tribunale di Genova, in cui la Supr. Corte ha affermato che non è provvisoriamente esecutivo il capo decisorio relativo al trasferimento dell’immobile
contenuto nella sentenza resa ai sensi dell’art. 2932
cod. civ., producendosi l’effetto traslativo della proprietà del bene solo al momento del passaggio in
giudicato della sentenza costitutiva. La Corte ha
dunque negato l’efficacia esecutiva immediata ai capi condannatori legati alla pronuncia principale da
un nesso sinallagmatico, in quanto gli effetti costitutivi, modificativi ed estintivi di rapporti giuridici determinati dalla decisione si producono solo al momento del passaggio in giudicato della sentenza e
dunque anche i capi condannatori legati alla decisione principale da un nesso di sinallagmaticità devono
ritenersi privi di efficacia immediata.
A ben vedere, tuttavia, il problema della provvisoria esecutività dei capi condannatori consequenziali a pronunce costitutive è tutt’altro che risolto in
quanto, per espressa affermazione della giurisprudenza di legittimità, i principi fatti propri dalle sez.
un. nella sentenza del 2010 non si applicano in generale ad ogni tipo di sentenza costitutiva ma solo alla
sentenza ex art. 2932 cod. civ.
Diversa è poi la questione relativa alla condanna
del soccombente al pagamento delle spese processuali. In linea con quanto disposto dall’art. 669 septies cod. proc. civ. per il rito cautelare uniforme, la
dottrina e la giurisprudenza prevalenti hanno infatti
riconosciuto la provvisoria esecutorietà della condanna alle spese di lite.
III. I precedenti
1. L’esecuzione provvisoria in relazione
alle diverse tipologie di sentenze. La giurisprudenza prevalente ha escluso dall’ambito applicativo dell’art. 282 cod. proc. civ. le sentenze diverse
da quelle di condanna (cfr., ex multis, Cass.,
15.11.2013, n. 25743, in Mass. Giust. civ., 2013;
Cass., 26.3.2009, n. 7369, in Giusto proc. civ., 2009,
875, con nota di Impagnatiello; Cass., 21.2.2008,
n. 4522, in Giust. civ., 2008, 6, I, 1416; Cass.,
5.7.2006, n. 15294, in Dir. e giust., 2006, 27 s.;
Cass., 10.11.2004, n. 21367, in questa Rivista, 2005,
I, 729, con nota di Volpino; in Corr. giur., 2005, I,
2057, con nota di Petrillo; Cass., 10.3.1999, n.
2522, in Mass. Giust. civ., 1999; Cass., 24.3.1998, n.
3090, in Il civilista, 2011, 6, 64, con nota di Penuti,
con riferimento ad un’azione di trasferimento del
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento
passaggio di una servitù ad altro luogo ex art. 1068
cod. civ. Nella giurisprudenza di merito cfr. Trib.
Salerno, 26.9.2002, n. 2663, in Giur. merito, 2003,
1680 s., con nota di Corrado; Trib. Napoli,
19.6.2002, ivi, 2004, 77; Trib. Napoli, 23.4.2002, in
Giur. napoletana, 2002, 297; App. Roma, 9.4.2002,
in Giur. romana, 2002, 292; Trib. Padova,
30.9.2000, in Riv. esecuzione forzata, 2002, 282 s.;
Trib. Como, 2.1.1999, in Giur. it., 1997, 1, II, 8 s.,
con nota di Murettino; App. Napoli, 21.1.1999,
in Giust. civ., 1999, I, 3433; App. Venezia,
28.6.1996, in Giur. it., 1997, 1, II, 8 s.; App. Milano, 22.12.1995, ivi, 1996, 1, II, 482, con nota di
Consolo; Trib. Cagliari, 28.2.1995, in Riv. giur.
sarda, 1996, 405, con nota di Cao; Trib. Firenze,
22.7,1998, in Toscana lav. e giur., 1999, 1).
Ritengono che la sentenza di cui all’art. 2932 cod.
civ. produca gli effetti reali del contratto non concluso solo dal momento del suo passaggio in giudicato: Cass., sez. un., 22.2.2010, n. 4059, in Riv. dir.
proc., 2011, 171 s., con nota critica di Marelli; in
Riv. esecuzione forzata, 2010, 1-2, 267, con nota di
Iuorio; in Giusto proc. civ., 2010, 515, con nota di
Impagnatiello; Cass., 6.4.2009, n. 8250, in Contratti, 2009, 827; Cass., 16.1.2006, n. 690, in Mass.
Giust. civ., 2006; Cass., 3.8.2005, n. 26233, in Dir. e
giust., 2006, 11, 56; Cass., 6.2.1999, n. 1037, in Fallimento, 2000, 142 s.
La giurisprudenza di merito è più incline a riconoscere l’immediata efficacia della sentenza costitutiva
(Trib. Milano, 27.1.2009, in Pluris, con riferimento
all’azione revocatoria fallimentare; Trib. Catania,
11.7.2003, in www.judicium.it, con nota di Santangeli, in materia di divisione e condanna a corrispondere conguagli e rilascio dei beni; Trib. Cassino,
6.5.2002, in Foro it., 2004, I, 1913, che ha ritenuto
immediatamente esecutivo il capo della sentenza con
cui uno dei condividenti era stato condannato al rilascio del fondo; App. Bari, 19.6.2003 e App. Bari,
16.5.2003, entrambe ibidem, I, 1913, aventi ad oggetto la risoluzione e rescissione di contratti e conseguenti condanne alle spese; Trib. Monza,
13.5.2002, in Giur. merito, 2003, 50; Trib. Monza,
17.8.2001, in Giur. milanese, 2001, 10, 381).
A favore della provvisoria esecutività di tutti i tipi
di sentenza, quindi anche quelle di mero accertamento, cfr. Trib. Milano, 25.10.2010, in Pluris, che
ha riconosciuto l’immediata efficacia della sentenza
di mero accertamento sulla base del fatto che il principio espresso dalle sez. un. sarebbe limitato alla fattispecie dell’azione per l’adempimento del contratto
preliminare di compravendita poiché «in un contesto di interpretazione costituzionalmente orientata
(...) la negazione di qualsiasi efficacia “provvisoria”
per le pronunce di accertamento e/o costitutive si risolva in una deteriore diminuzione di tutela per la
NGCC 2015 - Parte prima
Sentenza, ordinanza e decreto
parte vittoriosa in primo grado»; Pret. Milano,
26.3.1997, in Lavoro nella giur., 1997, 686; Pret.
Napoli, 22.12.1995, in Riv. crit. dir. lav., 1996, 847,
con nota di Manna; Pret. Bologna, 4.5.1995, in
Gius, 1995, 2267; App. Firenze, 19.11.1995, in Toscana giur., 1996, 335, con nota di Sbaraglio.
2. La condanna accessoria a statuizione
costitutiva o dichiarativa. Un tentativo di apertura verso la provvisoria esecutività dei capi condannatori accessori ad una sentenza costitutiva è stato
realizzato dalla Supr. Corte nel 2007 (Cass.,
3.9.2007, n. 18512, in questa Rivista, 2008, I, 643 s.,
con nota adesiva di Zaffaroni; in Riv. dir. proc.,
2008, 1095, con nota parzialmente critica di Marelli; in Corr. giur., 2008, 353 s., con nota critica di
Guizzi; in Giur. it., 2008, 947, con nota adesiva di
Conte), in cui è stato affermato che, in caso di sentenza ex art. 2932 cod. civ., le statuizioni di condanna consequenziali sono da ritenere immediatamente
esecutive (cfr. anche Cass., 26.1.2005, n. 1619, in
Corr. giur., 2005, 1229, in materia di costituzione di
una servitù coattiva; Trib. Como, 22.5.2013, in
Giur. it., 2014, 2, 330, con nota critica di Trinchi,
che ha ritenuto immediatamente esecutivo il capo di
condanna del venditore alla restituzione degli acconti ricevuti in seguito ad una sentenza di risoluzione contrattuale non ancora passata in giudicato;
Trib. Milano, 13.9.2003, in Giur. it., 2003, 2257;
Trib. Catania, 10.7.2003, in Giur. merito, 2003,
2367 s., relativa al pagamento di un conguaglio disposto con la sentenza di scioglimento della comunione ereditaria; App. Bari, 19.6.2003 e 16.5.2003,
citt., relative al rilascio del fondo dipendente da risoluzione del contratto preliminare di compravendita dello stesso ed alla restituzione del bene e del
prezzo oggetto della compravendita rescissa; Trib.
Cassino, 6.5.2002, in Giur. romana, 2003, 27).
Altra parte della giurisprudenza, invece, nega l’esecutorietà provvisoria al capo consequenziale (Cass.,
6.4.2009, n. 8250, cit.; Cass., 21.2.2008, n. 4522, cit.;
Cass., 16.1.2006, n. 690, cit.; Cass., 2.12.2005, n.
26233, cit.; Cass., 10.3.1999, n. 2522, cit.; Cass.,
24.5.1993, n. 5837, in Giust. civ., 1994, I, 3248 s.).
Con riferimento al capo di condanna al pagamento delle spese di lite, l’orientamento prevalente è
quello dell’immediata esecutività (Cass., sez. un.,
22.2.2010, n. 4059, cit.; Cass., 20.4.2010, n. 9363, in
Resp. civ. e prev., 2010, 1389, anche qualora il capo
di condanna alle spese acceda a pronunce di accertamento o costitutive; Cass., 25.1.2010, n. 1283, in
Mass. Giust. civ., 2010; Cass., 31.3.2007, n. 8059, in
Mass. Giur. it., 2007, con riferimento ad un capo di
condanna contenuto nella sentenza di rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo; Cass., 3.8.2005,
n. 16262, in Giur. it., 2006, 85 s.; Cass., 10.11.2004,
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento
n. 21367, cit.; Trib. Bergamo, 20.10.2003, in Giur.
merito, 2004, 61; Trib. Treviso, 26.3.2003, in Giur.
it., 2003, 1381 s.; Trib. Napoli, 4.3.2003, in Giur. merito, 2003, 1654 s. Sul tema cfr. anche Corte cost.,
16.7.2004, n. 232, in Riv. dir. proc., 2005, con nota di
De Vita; in Giur. it., 2005, 319, secondo cui il capo
sulle spese non ha natura accessoria ed ha il suo «titolo» esclusivamente nel contenuto della decisione sul
merito della controversia, in applicazione del principio della soccombenza ex art. 91 cod. proc. civ.
Si noti comunque che, in un’isolata pronuncia
(Cass., 12.7.2000, n. 9236, in Foro it., 2001, I, 159,
con nota critica di Scarselli; in Corr. giur., 2000,
12, 1599, con nota critica di Consolo), la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la condanna al pagamento delle spese contenuta nella sentenza di prime cure può costituire titolo esecutivo solo
nel caso in cui risulti accessoria ad una sentenza di
condanna dichiarata provvisoriamente esecutiva, ma
non anche quando sia conseguente ad una sentenza
di accertamento negativo del diritto oggetto della
domanda.
IV. La dottrina
1. L’esecuzione provvisoria in relazione alle diverse tipologie di sentenze. La dottrina
prevalente è incline a riconoscere che l’anticipazione
dell’efficacia della sentenza di primo grado possa riferirsi alle sole sentenze di condanna. Cfr. per questa
tesi, senza pretesa di completezza, Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Jovene, 1956,
274; Attardi, Le nuove disposizioni sul processo civile, Cedam, 1991, 117; Balena, Elementi di diritto
processuale civile, Cacucci, 2006, 329; Id., La riforma
del processo di cognizione, Jovene, 1994, 329 s.; Calamandrei, La condanna, in Studio sul processo civile, III, Cedam, 1934, 188; Chiovenda, Sulla provvisoria esecuzione delle sentenze e sulle inibitorie, in
Saggi di diritto processuale civile, II, 1931, 323 s., il
quale tuttavia ritiene che, in casi di urgenza, sia possibile ordinare l’esecuzione immediata anche di una
sentenza costitutiva o dei relativi capi di condanna
dipendenti; Id., Istituzioni di diritto processuale civile, I, Jovene, rist. 1960, 219; Chiarloni, Provvedimenti urgenti per il processo civile, a cura di TarziaCipriani, Cedam, 1992, 158-159; Comoglio, Le riforme della giustizia civile, Giappichelli, 1993, 371;
Id., L’esecuzione provvisoria della sentenza di primo
grado, in La riforma della giustizia civile, a cura di Taruffo, Giappichelli, 2000, 339; Consolo, nel Codice di procedura civile, diretto da Consolo, Ipsoa,
2013, sub art. 282, 2816; Id., in Consolo-LuisoSassani, Commentario alla riforma del processo civile, Giuffrè, 1996, 263; Id., Una non condivisibile conseguenza (la non esecutorietà del capo sulle spese), di
556
Sentenza, ordinanza e decreto
una premessa fondata (la non esecutorietà delle statuizioni di accertamento), in Giur. it., 2000, 1600; Coniglio, Riflessioni in tema di esecuzione provvisoria
delle sentenze, in Scritti Carnelutti, II, Cedam, 1950,
271; Costa, Contributo allo studio dell’esecuzione
provvisoria della sentenza civile, Studi Sassaresi,
XVII, 1939, 244-253; De Stefano, voce «Esecuzione provvisoria della sentenza», in Enc. del dir., XV,
Giuffrè, 1966, 513; Lancellotti, voce «Esecuzione
provvisoria», nel Noviss. Digesto it., VI, Utet, 788,
792; Liebman, Manuale di diritto processuale civile,
II, Giuffrè, 1981, 244; Mandrioli, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in
Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, 1343 s.; Monteleone, voce «Esecuzione provvisoria», nel Digesto IV
ed., Disc. priv., sez. civ., agg. 2000, Utet, 366; Montesano, Condanna civile e tutela esecutiva, Jovene,
1965, 19; Id., voce «Esecuzione provvisoria» nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., VII, Utet, 1991, 645
s.; Robles, L’esecuzione provvisoria della sentenza di
primo grado e i suoi limiti, in Riv. dir. proc., 2001, II,
319; Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, 4a ed., Giuffrè, 2009, 315 s. (si segnala che
nella prima edizione dei Lineamenti, l’a. aderì alla tesi secondo cui la provvisoria esecutività ineriva anche alle sentenze costitutive); Vaccarella, Il processo civile dopo la riforma, Giappichelli, 1992, 281;
Zaffaroni, La provvisoria esecutorietà dei capi condannatori delle sentenze costitutive di primo grado, in
questa Rivista, 2008, I, 649 s.
Secondo altra parte della dottrina, invece, la
provvisoria esecutorietà della sentenza di primo grado si estende anche alla pronunce costitutive. Così
Carpi, voce «Esecutorietà (dir. proc. civ.)», in Enc.
giur. Treccani, XV, Ed. Enc. it., 1995, 1 s., sulla base
dell’interpretazione costituzionalmente orientata
degli artt. 282 cod. proc. civ. e 2908 cod. civ.; Id.,
La provvisoria esecutorietà della sentenza, Giuffrè,
1972, 59, 106, nel senso dell’esclusione dell’esecutorietà solo nel caso di sentenze di accertamento o costitutive che non necessitino di un’attività estrinseca
di attuazione; Comoglio-Ferri-Taruffo, Lezioni
sul processo civile, Cedam, 2006, 642 s.; Denti, Intorno ai concetti generali del processo di esecuzione,
in Riv. dir. proc., 1955, 117; Fabiani, La sentenza costitutiva in materia revocatoria e il problema della sua
esecutorietà, in Foro it., 2001, I, 1363 s.; certamente
con riferimento all’azione costitutiva non necessaria;
Ferri, Effetti costitutivi e dichiarativi della sentenza
condizionati da eventi successivi alla sua pronuncia,
in Riv. dir. proc., 2007, 1392 s., spec. 1400, che condiziona il prodursi degli effetti traslativi della sentenza ex art. 2932 cod. civ. al pagamento del prezzo;
Impagnatiello, Sentenze costitutive, condanne accessorie e provvisoria esecutorietà, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 2005, 3, 751 s.; Id., La provvisoria esecutoNGCC 2015 - Parte prima
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Trib. Genova, ord. 5.11.2014 - Commento
rietà delle sentenze costitutive, ivi, 1992, 47 s.; Marelli, Un passo indietro nella direzione della tutela
giurisdizionale effettiva: la condanna accessoria ad
una pronuncia costitutiva non è provvisoriamente esecutiva, in Riv. dir. proc., 2011, 180 s.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, 1, Giuffrè,
1960, 348; Tarzia, Lineamenti del nuovo processo civile di cognizione, Giuffrè, 1991, 187; Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, 1996,
200 s; Verde, Profili del processo civile, II, Jovene,
2000, 240 s., secondo cui la sentenza di primo grado
pronunciata ex art. 2932 cod. civ. può essere immediatamente trascritta e «l’attore vittorioso possa disporre dei diritti per quanto ancora sub iudice».
Secondo alcuni la provvisoria esecutorietà può
accedere a sentenze di condanna generica (Satta,
voce «Condanna generica», in Enc. del dir., VIII,
Giuffrè, 1961, 720), alla condanna in futuro (Carpi,
voce «Esecutorietà», cit., 5) e alla condanna implicita (Cass., 26.1.2005, n. 1619, cit.).
Vi è poi chi (Proto Pisani, La tutela giurisdizionale dei diritti, Jovene, 2003) ha sostenuto che l’azione di cui all’art. 2932 cod. civ. non sarebbe una vera
propria azione costitutiva, non essendo in essa ravvisabile un esercizio del diritto potestativo a necessario
esercizio giudiziale, ma semplice pretesa all’adempimento di un facere, con la conseguenza che la sentenza di accoglimento avrebbe natura di condanna, risolvendosi così la questione dell’esecutività.
2. La condanna accessoria a statuizione
costitutiva o dichiarativa. A favore della tesi
secondo cui i capi di condanna accessori alla sentenza costitutiva o a quella di mero accertamento sarebbero immediatamente esecutivi cfr. Balena, Elementi di diritto processuale civile, cit., 331; Consolo, Il cumulo condizionale di domande, I, Cedam,
1985, 291; Id., in Consolo-Luiso-Sassani, op. cit.,
263; Comoglio, Le riforme del processo civile, 2a
ed., Il Mulino, 2000, 442; Id., L’esecuzione provvisoria delle sentenze di primo grado, in Le riforme della
giustizia civile. Commento alla L. 353 del 1990 e alla
L. 374 del 1991, a cura di Taruffo, Giappichelli,
1993, 370; Ferri, La sentenza ex art. 2932 c.c., in
Riv. dir. proc., 1995, 59, 78; Luiso, Diritto processuale civile, II, 3a ed., 2000, 197; MontesanoArieta, Trattato di diritto processuale civile, I, 2,
2001, Cedam, 1606; Scarselli, La provvisoria esecuzione della condanna alle spese del giudizio (ovvero,
la parte che ha ragione non recupera le spese fino al
passaggio in giudicato della sentenza?), in Foro it.,
2001, I, 161 s.; Siracusano, nel Codice di procedura
civile commentato, II, a cura di Vaccarella e Verde, Giappichelli, 1997, sub art. 282, 519; Tavormina, Titolo esecutivo giudiziale e stragiudiziale. L’efficacia del titolo esecutivo e l’ammissibilità della sua soNGCC 2015 - Parte prima
Sentenza, ordinanza e decreto
spensione, in www.judicium.it; Verde, op. cit., II,
Jovene, 2000, 240 ss.
Secondo la dottrina minoritaria, invece, l’esecutività non può essere ammessa né con riguardo alla
statuizione costitutiva principale né con riguardo
alle condanne dipendenti. Cfr. D’Adamo, nel
Commentario del codice di procedura civile, a cura
di Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella,
Utet, 2012, sub art. 282, 251; Guizzi, Inadempimento a preliminare di compravendita ed effetti della sentenza di accoglimento della domanda ex art.
2932 c.c. non ancora coperta da giudicato: un equilibrio difficile, in Corr. giur., 2008, 353 s.; Monteleone, op. cit., 367; Tarzia, Lineamenti del processo civile di cognizione, 4a ed., 2009, 316.
Ha proposto l’applicazione alla fattispecie de qua
dell’art. 614 bis cod. proc. civ. Consolo, Spiegazioni
di diritto processuale civile, III, Giappichelli, 2010,
70; Id., Una buona «novella» al cod. proc. civ.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va
ben al di là della sola dimensione processuale, in Corr.
giur., 2009, 740 s., al fine di superare gli ostacoli determinati dall’impossibilità di dare esecuzione ai capi di condanna conseguenti alla sentenza di cui all’art. 2932 cod. civ.; in tema cfr. anche Ventura, La
misura coercitiva di cui all’art. 614 bis c.p.c. e l’esecuzione dell’obbligo di contrarre, in Giur. it., 2014, 3;
Consolo, nel Commentario al codice di procedura civile, a cura di Consolo, 2010, sub art. 614 bis, 2532
s. Secondo tale tesi sarebbe ipotizzabile un concorso
di domande in via cumulata (e non alternativa), ossia, accanto alla domanda ex art. 2932 cod. civ., anche una domanda di condanna all’obbligo infungibile di stipulare il contratto definitivo, assistista dalla
condanna al pagamento di una somma di denaro per
ogni giorno di ritardo di inadempimento, al fine di
indurre il contraente-convenuto soccombente alla
conclusione del definitivo. Contra: Carratta, Le
novità in materia di misure coercitive per le obbligazioni di fare infungibile o di non fare, in Rass. forense,
2009, 721 s.; Merlin, Prime note sul sistema delle
misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella l. 69/2009, in Riv. dir. proc.,
2009, 1548, nt. 6, sulla base del fatto che l’astreinte
sarebbe applicabile solo al provvedimento di condanna; Saletti, nel Commentario alla riforma del codice di procedura civile, a cura di Saletti e Sassani,
2009, sub art. 614 bis cod. proc. civ., 203; Balena,
La nuova pseudo-riforma della giustizia civile (un primo commento della l. 18 giugno 2009 n. 69), in
www.judicium.it, in ragione del fatto che l’obbligo di
concludere il contratto non ha carattere infungibile.
Con specifico riferimento alla condanna al pagamento delle spese del giudizio, la dottrina quasi unanime ne ha riconosciuto la provvisoria esecutività,
indipendentemente dalla natura e dal segno della de557
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010
Separazione dei coniugi
cisione principale cui si accompagna. Così Scarselli, La provvisoria esecuzione, cit., 161; Petrillo, Da
un’apprezzabile premessa (l’esecutività di tutti i capi
condannatorii) un benvenuto ripensamento sulla esecutività della condanna alle spese, in Corr. giur., 2005,
1235 s., escludendo, tuttavia, che il fondamento di
tale principio sia rinvenibile nell’art. 282 cod. proc.
civ. Una parte della dottrina, peraltro, ha ravvisato in
questa fattispecie un capo condannatorio autonomo
in quanto la condanna alle spese, più che un capo ac-
cessorio alla sentenza di merito, ne costituisce un corollario, avendo il suo «titolo» esclusivamente nel
contenuto della decisione, in applicazione del principio della soccombenza ex art. 91 cod. proc. civ. Cfr.
Mandrioli, Diritto processuale civile, II, 4a ed.,
2011, 326, nt. 43; Consolo, Una condivisibile conseguenza, cit., 1599; Cordopatri, voce «Spese giudiziali», in Enc. del dir., XLIII, Giuffrè, 1990, 334.
c CORTE EUR. DIR. UOMO, 20.1.2015,
ric. 107/2010
de Bussoleno, et ce dernier y emménagea avec
sa famille. Les requérants se rendaient régulièrement chez leur fils pour voir leur petite-fille
et pendant l’été M.C. passait beaucoup de
temps chez les grands-parents, où elle avait sa
propre chambre et ses jouets. Le 20 mai 2002,
Mme M.G.T. communiqua à M. D.N. sa volonté d’engager une procédure judiciaire en séparation de corps. En juin 2002, la directrice de
l’école maternelle fréquentée par M.C., soupçonnant des attouchements sexuels sur l’enfant
de la part de son père, porta plainte contre
D.N. Une procédure pénale fut ouverte contre
ce dernier, accusé du délit de violence sexuelle
à l’encontre de M.C et C. Le 16 juin 2006, le tribunal de Turin acquitta D.N. pour absence de
faits délictueux («perché il fatto non sussiste»).
Entre-temps, le 1er août 2002, M.G.T. avait demandé au tribunal pour enfants de Turin (ciaprès, «le tribunal») de retirer l’autorité parentale à D.N. et de l’empêcher de voir sa fille. Depuis cette date, les requérants n’ont plus vu
M.C. Le 9 octobre 2002, le tribunal chargea les
services sociaux et les psychologues de suivre
M.C., confia la garde de l’enfant aux grandsparents maternels, autorisa la mère à voir librement M.C. et autorisa le père à la voir selon les
modalités fixées par les services sociaux. Le 9
décembre 2002, les requérants demandèrent à
être consultés par le tribunal, à être autorisés à
voir M.C., et déclarèrent être disposés à avoir la
garde de l’enfant. Le 3 février 2003, le parquet
exprima un avis favorable à ce que les requérants puissent être entendus afin d’exercer leur
droit de visite. Il ressort du dossier qu’à partir
du 4 février 2003, des contacts réguliers entre
Separazione dei coniugi - Filiazione Affidamento - Diritto di visita degli
ascendenti - Art. 8 Conv. eur. dir. uomo - Ambito di applicazione (Cost., art.
29; Conv. eur. dir. uomo, art. 8; cod. civ., artt. 155,
317 bis, 333, 336)
In caso di separazione personale dei genitori, l’effettivo esercizio del diritto di visita ai figli minori deve essere riconosciuto
anche agli ascendenti, rientrando pure le
relazioni tra nonni e nipoti nell’ambito di
protezione dell’art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell’uomo. Ne discende l’obbligo degli Stati di adottare nel minor tempo possibile le misure necessarie a
riunire i parenti ed i minori.
dal testo:
Il fatto. Les requérants sont les grands-parents paternels de la mineure M.C., née le 7
août 1997 du mariage entre leur fils, D.N., et
M.G.T. Le fils des requérants et M.G.T. se marièrent le 6 juillet 1996. Ils habitèrent ensemble
avec leur fille, ainsi qu’avec C., fils de M.G.T.
issu d’un premier mariage, dans un appartement appartenant aux requérants et situé à
proximité de leur domicile. En mars 1998, les
requérants achetèrent un appartement plus
grand pour leur fils, sis à quelques kilomètres
558
Francesca Bossi
NGCC 2015 - Parte prima
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010
les requérants et les services sociaux eurent lieu
afin de préparer une reprise des contacts avec
l’enfant. Les requérants rencontraient régulièrement l’assistante sociale, par l’intermédiaire
de laquelle ils pouvaient avoir des nouvelles de
leur petite-fille et faire parvenir des lettres et
des cadeaux à l’enfant. Le 1er mars 2003 et le
22 avril 2004, les requérants saisirent le tribunal pour solliciter une décision concernant
l’autorisation de rencontres avec M.C. Au
cours de l’audience du 21 octobre 2004, le tribunal chargea des psychologues de suivre les
requérants et M.C. et de réglementer la reprise
des contacts entre eux. Le 1er mars 2005, les
requérants s’adressèrent à nouveau au tribunal
et alléguèrent que le parcours de soutien psychologique pour préparer les rencontres n’avait
pas encore été mis en place par les services sociaux et les psychologues. Ils demandèrent au
tribunal de solliciter la mise en place du parcours, conformément à ce qui avait été établi au
cours de l’audience du 21 octobre 2004. Le 1er
juillet 2005 et le 20 décembre 2005, le parquet
donna un avis favorable à ce que le tribunal accueille la demande des requérants de rencontrer M.C. Le 12 décembre 2005, la psychologue
chargée par le tribunal de suivre les requérants
déposa son rapport, dont il ressortait que les
requérants étaient bien disposés à collaborer
avec les services sociaux et à suivre un projet de
rapprochement avec leur petite-fille. La psychologue autorisa un échange de lettres entre
les requérants et M.C. afin de préparer cette
dernière aux rencontres avec ses grands-parents. Il ressort du dossier que des échanges réguliers de lettres entre les requérants et M.C.,
surveillés par les services sociaux, eurent lieu
dès le mois d’août 2003, et continuèrent au
moins jusqu’à février 2007. Le décembre 2005,
l’assistante sociale informa le tribunal qu’un
projet de rapprochement entre les requérants
et M.C. avait été mis en place. Par une décision
déposée au greffe le 16 février 2006, le tribunal
autorisa les requérants à rencontrer M.C. tous
les quinze jours en présence des assistants sociaux et chargea les services sociaux et la psychologue de poursuivre le suivi de M.C., en
leur demandant de déposer un rapport avant le
15 juin 2006. Il ressort du dossier que les rencontres autorisées par le tribunal n’ont jamais
eu lieu. Le 1er juin 2006, la psychologue deNGCC 2015 - Parte prima
Separazione dei coniugi
manda au tribunal de suspendre toute possibilité de rencontre entre les requérants et l’enfant. Selon la psychologue, M.C. manifestait un
sentiment de peur et d’angoisse vis-à-vis de son
père, elle associait les grands-parents à son père
et n’était par conséquent pas prête à les rencontrer. La psychologue souligna que l’enfant avait
expressément refusé de rencontrer ses grandsparents et estima que ces derniers, bien que disposés à collaborer avec les services sociaux,
montraient des difficultés à avoir une position
autonome par rapport à leur fils et à comprendre le malaise de M.C. vis-à-vis d’une rencontre
avec eux. Le 14 juin 2006, les services sociaux
sollicitèrent du tribunal la suspension des rencontres. Ils alléguèrent que les rencontres avec
les grands-parents n’étaient pas conformes à
l’intérêt de M.C. et étaient susceptibles de lui
causer des souffrances majeures, car les grandsparents n’arrivaient pas à avoir une position
autonome et indépendante de celle de leur fils.
Par une lettre du 13 février 2007, les requérants
dénoncèrent au tribunal les omissions graves
des services sociaux, qui en dépit de la décision
du tribunal n’avaient jamais organisé les rencontres autorisées. Ils sollicitèrent à nouveau
l’organisation de rencontres avec M.C., conformément à la décision du tribunal du 16 février
2006. Il ressort du dossier que les rencontres
entre les requérants et M.C. n’eurent jamais
lieu. Par une décision, déposée au greffe le 20
juin 2007, le tribunal rendit un non-lieu sur la
demande de déchéance de l’autorité parentale
du père de M.C., eu égard à son acquittement,
et ordonna la suspension des rencontres entre
les requérants et M.C., en se fondant sur le rapport des services sociaux. Les requérants interjetèrent appel de cette décision. Ils firent valoir
que la décision du tribunal de suspendre les
rencontres, fondée sur le prétendu malaise de
M.C. vis-à-vis de ses grands-parents à cause du
lien de ceux-ci avec son père, ne prenait pas en
compte le fait que D.N. avait été acquitté. Par
une décision déposée au greffe le 19 avril 2008,
la cour d’appel de Turin jugea que le fait que
D.N. avait été acquitté n’était pas un élément
suffisant pour exclure que le malaise de l’enfant
trouvât sa cause dans les attouchements sexuels
subis. S’appuyant sur les rapports des services
sociaux et des psychologues dénonçant le refus
de la mineure de rencontrer ses grands-parents
559
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010
et la difficulté pour ces derniers de comprendre
le refus de l’enfant, la cour d’appel confirma
l’interdiction pour les requérants de rencontrer
l’enfant. Les requérants se pourvurent en cassation. Par une décision déposée au greffe le 17
juin 2009, la Cour de cassation débouta les requérants de leur pourvoi.
I motivi. Sous l’angle de l’article 8 de la
Convention, les requérants se plaignent de la
violation de leur droit au respect de la vie familiale en raison de la durée excessive de la procédure aux fins de l’autorisation des rencontres avec l’enfant et en raison du fait que les
services sociaux n’ont pas mis en oeuvre la décision du tribunal autorisant les rencontres.
Sous l’angle de l’article 6 de la Convention, les
requérants se plaignent du manque d’équité de
la procédure et en particulier de la décision du
tribunal pour enfants de suspendre les rencontres. Maîtresse de la qualification juridique des
faits de la cause, la Cour estime approprié
d’examiner les griefs soulevés par les requérants uniquement sous l’angle de l’article 8, lequel exige que le processus décisionnel débouchant sur des mesures d’ingérence soit équitable et respecte, comme il se doit, les intérêts
protégés par cette disposition (Söderman c.
Suède [GC], no 5786/08, § 57, CEDH 2013,
Aksu c. Turquie [GC], nos 4149/04 et 41029/
04, § 43, CEDH 2012; Moretti et Benedetti c.
Italie, no 16318/07, § 27, 27 avril 2010).
(Omissis)
Le Gouvernement conteste cette thèse.
(Omissis)
Comme la Cour l’a rappelé à maintes reprises, si l’article 8 a essentiellement pour objet de
prémunir l’individu contre les ingérences arbitraires des pouvoirs publics, il ne se contente
pas de commander à l’État de s’abstenir de pareilles ingérences: à cet engagement plutôt négatif peuvent s’ajouter des obligations positives
inhérentes à un respect effectif de la vie privée
ou familiale. Elles peuvent impliquer l’adoption de mesures visant au respect de la vie familiale jusque dans les relations des individus entre eux, dont la mise en place d’un arsenal juridique adéquat et suffisant pour garantir les
droits légitimes des intéressés ainsi que le respect des décisions judiciaires, ou des mesures
spécifiques appropriées (voir, mutatis mutan560
Separazione dei coniugi
dis, Zawadka c. Pologne, no 48542/99, § 53, 23
juin 2005). Cet arsenal doit permettre à l’État
d’adopter des mesures propres à réunir le parent et son enfant, y compris en cas de conflit
opposant les deux parents (voir, mutatis mutandis, Ignaccolo-Zenide, précité, § 108, Sylvester c. Autriche, nos 36812/97 et 40104/98, §
68, 24 avril 2003, Zavřel c. République tchéque, no 14044/05, § 47, 18 janvier 2007, et Mihailova c. Bulgarie, no 35978/02, § 80, 12 janvier 2006). Il en va de même lorsqu’il s’agit,
comme en l’espèce, des relations entre l’enfant
et ses grands-parents (Nistor c. Roumanie, no
14565/05, § 71 2 novembre 2010; Bronda c.
Italie, 9 juin 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998-IV). Elle rappelle aussi que les obligations positives ne se limitent pas à veiller à ce
que l’enfant puisse rejoindre son parent ou
avoir un contact avec lui, mais qu’elles englobent également l’ensemble des mesures préparatoires permettant de parvenir à ce résultat
(voir, mutatis mutandis, Kosmopoulou c.
Grèce, n o 60457/00, § 45, 5 février 2004, Amanalachioai c. Roumanie, no 4023/04, § 95, 26
mai 2009, Ignaccolo-Zenide, précité, §§ 105 et
112, et Sylvester, précité, § 70). Pour être adéquates, les mesures visant à réunir le parent et
son enfant doivent être mises en place rapidement, car l’écoulement du temps peut avoir des
conséquences irrémédiables pour les relations
entre l’enfant et celui des parents qui ne vit pas
avec lui (Lombardo, § 81, précité; Nicolò Santilli c. Italie, no 51930/10, § 65 17 décembre
2013). La Cour rappelle que le fait que les efforts des autorités ont été vains ne mène pas
automatiquement à la conclusion que l’État a
manqué aux obligations positives qui découlent pour lui de l’article 8 de la Convention
(voir Lombardo, § 84, précité; Nicolò Santilli, §
67, précité). En effet, l’obligation pour les autorités nationales de prendre des mesures afin de
réunir l’enfant et le parent avec lequel il ne vit
pas n’est pas absolue, et la compréhension et la
coopération de l’ensemble des personnes
concernées constituent toujours un facteur important. Si les autorités nationales doivent s’efforcer de faciliter pareille collaboration, une
obligation pour elles de recourir à la coercition
en la matière ne saurait être que limitée: il leur
faut tenir compte des intérêts et des droits et libertés de ces mêmes personnes, et, notamment,
NGCC 2015 - Parte prima
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010
des intérêts supérieurs de l’enfant et des droits
que lui confère l’article 8 de la Convention (Voleský c. République tchéque, no 63267/00, §
118, 29 juin 2004). Comme la jurisprudence de
la Cour le reconnaît de manière constante, la
plus grande prudence s’impose lorsqu’il s’agit
de recourir à la coercition en ce domaine délicat (Reigado Ramos c. Portugal, n o 73229/01,
§ 53, 22 novembre 2005) et l’article 8 de la
Convention ne saurait autoriser un parent à
faire prendre des mesures préjudiciables à la
santé et au développement de l’enfant (Elsholz
c. Allemagne [GC], no 25735/94, §§ 49-50,
CEDH 2000-VIII). Le point décisif consiste
donc à savoir si les autorités nationales ont pris,
pour faciliter les visites, toutes les mesures nécessaires que l’on pouvait raisonnablement exiger d’elles (Nuutinen c. Finlande, no 32842/96,
§ 128, CEDH 2000-VIII).
La Cour note en premier lieu qu’il n’est pas
contesté en l’espèce que le lien entre les requérants et M.C. relève de la vie familiale au sens
de l’article 8 de la Convention (voir Nistor, §
93, et Bronda, §50 précités). 51. La Cour observe ensuite qu’il ressort clairement des documents en sa possession que la procédure interne concernant le droit de visite des requérants a débuté en 2002 devant le tribunal pour
enfants de Turin (RGNR n o 1469/02). Partant, la Cour ne partage pas la thèse du Gouvernement selon laquelle la procédure interne
devant le tribunal n’aurait commencé qu’en
2004 (voir paragraphe 42 ci-dessus). Se penchant sur la présente affaire, la Cour estime que
devant les circonstances qui lui sont soumises
sa tâche consiste à examiner si les autorités nationales ont pris toutes les mesures que l’on
pouvait raisonnablement exiger d’elles pour
maintenir les liens entre les requérants et leur
petite-fille et si elles ont ainsi respecté les obligations positives découlant de l’article 8 de la
Convention. La Cour remarque que les requérants n’ont plus vu leur petite-fille depuis 2002
et qu’à ce jour tout contact avec l’enfant leur
est interdit. À ce propos elle rappelle que, selon
les principes élaborés en la matière, des mesures aboutissant à briser les liens entre un enfant
et sa famille ne peuvent être appliquées que
dans des circonstances exceptionnelles (voir
Zhou c. Italie, no 33773/11, § 46, 21 janvier
2014; Clemeno et autres c. Italie, n 19537/03, §
NGCC 2015 - Parte prima
Separazione dei coniugi
60, 21 octobre 2008). La Cour estime que ces
principes s’appliquent également au cas d’espèce. À ce propos, elle rappelle avoir déjà jugé
que les liens entre les grands-parents et les petits-fils relèvent de liens familiaux au sens de
l’article 8 de la Convention (voir Kruškić c.
Croatia (déc.), n o 10140/13, 25 November
2014; Nistor c. Roumanie, n 14565/05, § 71, 2
novembre 2010; Bronda c. Italie, 9 juin 1998,
Recueil des arrêts et décisions 1998-IV). La
Cour note qu’en l’espèce l’impossibilité pour
les requérants de voir leur petite-fille a été la
conséquence, dans un premier temps, du manque de diligence des autorités compétentes et,
dans un deuxième temps, de la décision de suspendre les rencontres. Les requérants n’ont pu
ni obtenir la mise en oeuvre, dans un délai raisonnable, d’un parcours de rapprochement
avec leur petite-fille, ni faire respecter leur
droit de visite, tel qu’il avait été reconnu par la
décision du tribunal du 16 février 2006. 55. La
Cour observe que ce n’est qu’en décembre
2005, soit trois ans après la demande des requérants aux fins de rencontrer leur petite-fille,
que le tribunal des enfants de Turin est parvenu à une décision concernant l’autorisation
des rencontres. Elle souligne aussi qu’entre
2005 et 2007 les services sociaux n’ont pas
donné exécution à la décision du tribunal autorisant les rencontres et qu’aucune mesure visant à mettre en oeuvre le droit de visite des requérants n’a été prise en l’espèce. La Cour rappelle sa jurisprudence selon laquelle les obligations positives découlant de l’article 8 de la
Convention imposent à l’État d’adopter des
mesures propres à réunir les parents et l’enfant,
sachant par ailleurs que le caractère adéquat
d’une mesure se juge aussi à la rapidité de sa
mise en oeuvre (Nicolò Santilli, § 71, Lombardo, § 89, précités; Piazzi c. Italie, no 36168/
09, § 78, 2 novembre 2010). La Cour observe
que la décision de suspendre les rencontres entre les requérants et l’enfant fut fondée exclusivement sur les rapports des psychologues selon
lesquels l’enfant associait ses grands-parents à
son père et aux souffrances subies en raison des
prétendus attouchements sexuels. La Cour relève que l’interdiction des rencontres s’inscrit
dans les démarches que les autorités sont en
droit d’entreprendre dans les affaires de sévices
sexuels et rappelle que l’État a l’obligation de
561
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 107/2010
protéger les enfants de toute ingérence dans
des aspects essentiels de leur vie privée (Covezzi et Morselli c. Italie, no 52763/99, § 103, 9
mai 2003; Stubbings et autres c. Royaume-Uni,
22 octobre 1996, § 64, Recueil 1996-IV). Toutefois, la Cour constate en l’occurrence que la
procédure pénale à l’encontre du père était
pendante quand les juridictions internes ont
autorisé les rencontres et que c’est après l’acquittement du père en 2006 (voir paragraphe
10 ci-dessus) que les mêmes juridictions ont décidé d’interdire toute possibilité de rencontre.
La raison principale qui justifia la rupture presque totale des rapports entre les requérants et
l’enfant était le fait que l’enfant associait ses
grands-parents à son père et aux prétendus attouchements sexuels subis. Bien que la Cour
soit consciente du fait qu’une grande prudence
s’impose dans des situations de ce type et que
des mesures visant à protéger l’enfant peuvent
impliquer une limitation des contacts avec les
membres de la famille, elle estime que les autorités compétentes n’ont pas déployé les efforts
nécessaires pour sauvegarder le lien familiale et
n’ont pas réagi avec la diligence requise (Clemeno et autres, précité, §§ 59-61). La Cour remarque à cet égard que trois ans se sont écoulés
avant que le tribunal de Turin ne se prononce
sur la demande des requérants de rencontrer
leur petite-fille (voir paragraphe 55 ci-dessus)
et que la décision du tribunal accordant aux requérants le droit de visite n’a jamais été exécutée (voir paragraphe 54 ci-dessus). La Cour
rappelle qu’il ne lui revient pas de substituer
son appréciation à celle des autorités nationales
compétentes quant aux mesures qui auraient
dû être prises, car ces autorités sont en principe
mieux placées pour procéder à une telle évaluation, en particulier parce qu’elles sont en
contact direct avec le contexte de l’affaire et les
parties impliquées (Reigado Ramos, précité, §
53). Pour autant, elle ne peut en l’espèce passer
outre le fait que les requérants n’ont pu voir
leur petite-fille depuis douze ans environ, qu’à
plusieurs reprises ils ont sollicité la mise en
place d’un parcours de rapprochement avec
l’enfant, qu’ils ont suivi les prescriptions des
services sociaux et des psychologues, et qu’en
dépit de tout cela aucune mesure susceptible
de permettre le rétablissement du lien familial
entre eux et l’enfant n’a été prise en l’espèce.
562
Separazione dei coniugi
La rupture totale de tout rapport a eu des
conséquences très graves pour les relations entre les requérants et l’enfant et il n’a pas été suffisamment envisagé en l’espèce de maintenir
une forme de contact entre les requérants et
leur petite-fille. Eu égard à ce qui précède et
nonobstant la marge d’appréciation de l’État
défendeur en la matière, la Cour considère que
les autorités nationales n’ont pas déployé les efforts adéquats et suffisants pour préserver le
lien familial entre les requérants et leur petitefille et qu’elles ont méconnu le droit des intéressés au respect de leur vie familiale garanti
par l’article 8 de la Convention.
Partant la Cour conclut à la violation de
cette disposition.
(Omissis)
Les requérants réclament la réparation d’un
préjudice moral du fait de l’impossibilité pour
eux de nouer une relation avec leur petite-fille
et de l’angoisse éprouvée. Ils demandent la
somme de 30 000 euros (EUR). Le Gouvernement s’oppose à cette demande. En tenant
compte des circonstances de l’espèce et du
constat selon lequel les requérants se sont heurtés à l’impossibilité d’avoir des rapports avec
leur petite-fille, la Cour considère que les intéressés ont subi un préjudice moral qui ne saurait être réparé par le seul constat de violation
de l’article 8 de la Convention. Elle estime toutefois que la somme réclamée à ce titre est excessive. Eu égard à l’ensemble des éléments
dont elle dispose et statuant en équité, comme
le veut l’article 41 de la Convention, elle alloue
aux intéressés la somme de 16 000 EUR.
Les requérants demandent également 11
325,60 EUR pour les frais et dépens engagés
devant les juridictions internes et devant la
Cour. Le Gouvernement s’oppose à cette demande. Selon la jurisprudence de la Cour, un
requérant ne peut obtenir le remboursement
de ses frais et dépens que dans la mesure où se
trouvent établis leur réalité, leur nécessité et le
caractère raisonnable de leur taux. En l’espèce
et compte tenu des documents en sa possession et de sa jurisprudence, la Cour estime raisonnable d’allouer aux requérants la somme de
5 000 EUR. C.
La Cour juge approprié de calquer le taux
des intérêts moratoires sur le taux d’intérêt de
la facilité de prêt marginal de la Banque cenNGCC 2015 - Parte prima
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento
Separazione dei coniugi
trale européenne majoré de trois points de
pourcentage.
piena ed il conseguente provvedimento del Tribunale minorile favorevole al ricongiungimento, i servizi
sociali temporeggiarono: dapprima negarono l’indicazione di un percorso idoneo ad incontrare la nipote; successivamente formularono parere negativo: in
ottemperanza a tale indicazione, i giudici torinesi
modificarono la propria decisione e la Corte di Cassazione, diversi anni dopo, rigettò il ricorso dei nonni per vizi procedurali. Nel 2010, allora, essi si rivolsero alla Corte europea dei diritti dell’uomo assumendo che l’eccessiva durata della procedura volta a
stabilire le modalità di visita alla bambina avesse
violato il disposto dell’art. 8 Conv. eur. dir. uomo,
che tutela il rispetto alla vita privata familiare e stigmatizza l’intervento dello Stato laddove limiti arbitrariamente l’esercizio di tale diritto.
Con la sentenza che si commenta la Corte di Strasburgo affronta la problematica relativa ai legami familiari, soffermando l’attenzione non
già sul rapporto sussistente tra genitori e figli, bensì sull’esistenza del diritto dei nonni
ad una relazione affettiva con i nipoti; essa
indaga, inoltre, l’attività delle autorità statali allo scopo di accertare che siano state poste
in essere tutte le misure necessarie a garantire il diritto di visita.
Per comprendere i termini della questione occorre verificare se all’epoca dei fatti fosse ravvisabile un
autonomo diritto degli ascendenti, valutando poi il
reale apporto della pronuncia strasburghese: il contesto italiano è, infatti, mutato per effetto della Riforma della filiazione (l. n. 219/2012, e successivo d.
legis. n. 154/2013).
PAR CES MOTIFS, LA COUR,
À L’UNANIMITÉ,
1. Déclare la requête recevable;
2. Dit qu’il y a eu violation de l’article 8 de
la Convention;
3. Dit: a) que l’État défendeur doit verser
aux requérants, dans les trois mois à compter
du jour où l’arrêt sera devenu définitif en vertu
de l’article 44 § 2 de la Convention, les sommes
suivantes): i) 16 000 EUR (seize mille euros),
plus tout montant pouvant être dû à titre d’impôt, pour dommage moral; ii) 5 000 EUR (cinq
mille euros), plus tout montant pouvant être dû
à titre d’impôt par les requérants, pour frais et
dépens; b) qu’à compter de l’expiration de ce
délai et jusqu’au versement, ces montants seront à majorer d’un intérêt simple à un taux
égal à celui de la facilité de prêt marginal de la
Banque centrale européenne applicable pendant cette période, augmenté de trois points de
pourcentage.
4. Rejette la demande de satisfaction équitable pour le surplus. Fait en français, puis communiqué par écrit le 20 janvier 2015, en application de l’article 77 §§ 2 et 3 du règlement.
[Isil Karakas Presidente – F.M. E M.P.N. (avv.
Massano) – Italia (Agente Spatafora)]
Nota di commento: «Il lungo percorso per l’affermazione del diritto di visita dei nonni» [,]
I. Il caso
La vicenda trae origine dal decreto del Tribunale
per i minorenni di Torino che dispose la sospensione dei rapporti tra i nonni paterni e la nipotina in
conseguenza dell’apertura di un procedimento penale a carico del figlio, divorziato, accusato di violenza sessuale ai danni della minore: la decisione
muoveva dalla considerazione secondo cui il trauma
subito dalla bambina l’avesse portata a rifiutare incontri con il padre e, di riflesso, con gli ascendenti,
non riuscendo a scindere la loro figura da quella del
genitore.
Nonostante la successiva assoluzione con formula
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
NGCC 2015 - Parte prima
II. Le questioni
1. Il diritto dei nonni. La riflessione sulle relazioni tra nonni e nipoti si è sviluppata nel corso degli anni in ragione dei mutamenti sociali e del ruolo
da essi assunto nell’educazione dei minori (Sacco,
212, infra, sez. IV; Attias-Donfut, 15 s., infra, sez.
IV): il legislatore è, così, intervenuto stabilendo dapprima la necessità di garantire ai fanciulli la conservazione delle relazioni familiari e la possibilità di crescere all’interno della propria famiglia (l. n. 184/
1983); in seguito riconoscendo un vero e proprio diritto a conservare «rapporti significativi» con gli
ascendenti, indipendentemente dalla crisi coniugale
dei genitori (art. 155, comma 1o, cod. civ., come modificato dall’art. 1, comma 8o, l. n. 54/2006): sino al
2012 tale diritto non è mai stato confuso con quello –
corrispondente – dei nonni ad intrattenere rapporti
con i nipoti (Basini, 370, infra, sez. IV), cosicché anteriormente alla Riforma della filiazione difettava un
vero e proprio «diritto di visita» degli ascendenti.
L’impianto normativo, peraltro, attribuiva loro
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento
Separazione dei coniugi
un ruolo nelle relazioni familiari tutt’altro che marginale (Sacco, 212 s.): a titolo esemplificativo, risultavano sanciti il dovere di contribuire al sostentamento dei nipoti laddove i genitori fossero privi dei
mezzi necessari (art. 148 cod. civ.: Cass., 23.3.1995,
n. 3402; Trib. Milano, 30.6.2000, entrambi infra,
sez. III; Trabucchi, Famiglia e diritto nell’orizzonte
degli anni ’80, 253, infra, sez. IV; Cattaneo, 452,
infra, sez. IV); la facoltà di ricorrere al tribunale minorile per l’adozione di misure atte a tutelarli (art.
336 cod. civ.); veniva scelto preferibilmente tra i
nonni l’eventuale tutore (art. 348 cod. civ.); ad essi
erano riservate specifiche disposizioni in ambito
successorio ed in tema di disconoscimento della paternità, cosicché la dottrina aveva ripetutamente valorizzato il loro desiderio di far visita ai nipoti, riconoscendo in esso un valore primario da proteggere,
del tutto analogo a quello dei genitori: occorreva solo individuarne l’effettiva qualificazione giuridica
(C.M. Bianca, Commento all’art. 1 commi 1o, 2o, 4o
della L. 28.3.2001, n. 149; M. Bianca, 163; Cavallaro, 141; Sacco, 216 s.; Ruscello, 58; Salito,
451; Putti, 899, tutti infra, sez. IV).
Sul punto, però, si contrapponevano due orientamenti: muovendo dall’assenza di uno specifico riferimento normativo, il primo ravvisava in quelle
istanze un mero «interesse legittimo», da salvaguardare solo se coincidente con quello del minore (per
tutti, Bigliazzi Geri, 544; Trabucchi, Patria potestà e interventi del giudice, 227; Baviera, 629, tutti
infra, sez. IV); il secondo, invece, riconosceva l’esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo perfetto, il cui fondamento era ricondotto al disposto dell’art. 74 cod. civ. (De Cupis, 16; Dagnino, 1499,
entrambi infra, sez. IV; Putti, 897 s.; Manera, 572,
infra, sez. III): il limite risiedeva, anche in questo caso, nell’interesse del nipote ad intrattenere rapporti
con i parenti, cosicché questo costituiva, «per un
verso, presupposto per la tutela degli avi, per altro
limite alla loro stessa pretesa» (Cavallaro, 140 s.;
P. Stanzione, 758, infra, sez. IV).
La giurisprudenza ha rigettato la configurabilità
di un autonomo diritto degli ascendenti, peraltro
preoccupandosi di riservare sempre maggiore attenzione alla crescita del minore (Quadri, 276, infra, sez. IV) ed alla tutela dei vincoli di parentela
(Putti, 912 s.): a fronte di una posizione più restrittiva, volta a riconoscere solo un interesse morale ed affettivo, cui non corrispondeva il diritto di
intervenire nei giudizi ove era in gioco l’interesse
del minore (Cass., 17.10.1957, n. 39014; App. Milano, 21.6.1965; Trib. Perugia, 12.6.1979; Trib.
Roma, 7.2.1988; Trib. Bari, 10.1.1991; Cass.,
17.1.1996; Cass., 27.10.2011, n. 28902; Cass.,
11.8.2011, n. 17191, tutte infra, III), si trova pure
un orientamento che, sebbene non di senso oppo-
sto, fu comunque capace di sostenere e regolamentare le relazioni con i parenti: relazioni cui non è
stato conferito carattere «residuale», ma che anzi
sono state definite «vincoli che affondano le loro radici nella tradizione familiare, la quale trova il suo
riconoscimento anche nella costituzione (art. 29,
Cost.)» (Cass., 25.9.1998, n. 9606, infra, sez. III).
Pur continuando a negare la legittimazione dei parenti a far valere le proprie posizioni, l’accento è
stato vieppiù posto sul «precipuo interesse del minore» a conservare rapporti significativi – soprattutto
– con i nonni, ponendo in capo al giudice il compito di tutelare il diritto ad una crescita serena ed
equilibrata. Il titolare dell’interesse giuridicamente
protetto è rimasto, quindi, il minore e solo affrontando la problematica dal suo esclusivo punto di vista è aumentata la considerazione per la posizione
degli ascendenti (Cass., 5.3.2014, n. 5097; Cass.,
16.10.2009, n. 22081, entrambe infra, sez. III; Jemolo, 224; M. Bianca, 170 ss.; P. Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona
umana; Id., Interesse del minore e statuto dei suoi
diritti, 352; Alpa, 247; Dogliotti-Figone-Mazza-Galanti, 255; Sesta, 255, tutti infra, sez. IV).
La sentenza in commento, invero, non qualifica in
termini di diritto autonomo od interesse legittimo
l’aspirazione dei nonni: essa si limita a ricondurre
sotto la tutela dell’art. 8 Conv. eur. dir. uomo il desiderio dei parenti e dei minori di avere relazioni affettive, specie laddove siano coinvolti gli ascendenti
(conformemente a quanto già sancito nella sentenza
Corte eur. dir. uomo, 9.6.1998, Bronda c. Italia).
In proposito, la Corte ricorda brevemente che il diniego può essere giustificato esclusivamente in presenza di «circostanze eccezionali», ossia di situazioni
di evidente indegnità dei familiari, o nelle quali l’interesse del minore ad una crescita sana risulti fortemente compromesso (in questo senso già Corte
eur. dir. uomo, 21.1.2014, Zhou c. Italia). Fatte
salve queste ipotesi, occorre garantire ai fanciulli la
conduzione di una vita il più possibile normale, con
i genitori ed i parenti.
Trova, dunque, conferma l’orientamento europeo
che, facendo propria una nozione di famiglia più
ampia rispetto a quella tradizionale, ha esteso la tutela di cui all’art. 8 Conv. eur. dir. uomo anche ai legami fondati semplicemente su rapporti biologici
(Queirolo-Schiano-Di Pepe, 283, infra, sez. IV),
così contrastando «le più gravi forme di violazione
dei diritti della persona» perpetrati fra le mura domestiche (Cubeddu, 89, infra, sez. IV).
Dalla norma discende, altresì, una «obbligazione
positiva», ossia il dovere dello Stato di adottare rapidamente tutte le misure necessarie al ricongiungimento, posto che il trascorrere del tempo può determinare conseguenze anche irrimediabili nei rapporti
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NGCC 2015 - Parte prima
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento
Separazione dei coniugi
endofamiliari (Corte eur. dir. uomo, 9.6.1998,
Ignaccolo – Zeneide c. Romania; nonché Corte eur.
dir. uomo, 24.4.2003, Sylvester c. Austriche; Corte
eur. dir. uomo, 2.11.2010, Piazzi c. Italia; Corte
eur. dir. uomo, 17.12.2013, Santilli c. Italia, tutte
infra, sez. III).
sarcitoria di cui all’art. 2043 cod. civ. laddove l’esercizio del diritto di visita sia ingiustamente ostacolato
(Basini, 370 s.).
Altra parte della dottrina ha, invece, accolto con
più favore la novella legislativa, innanzitutto valorizzando il tanto auspicato riconoscimento in capo agli
avi del diritto a mantenere rapporti con i nipoti, ora
ritenuto perfetto ed autonomo ancorché strettamente collegato a quello dei minori, cosicché, in ultima
istanza, esso non può essere qualificato come assoluto ed incondizionato (Arceri, 812, infra, sez. III);
anche la tutela offerta dal comma 2o dell’art. 317 bis
cod. civ. è stata guardata positivamente, poiché consente al giudice un più ampio margine di intervento
rispetto a quanto prima previsto dal solo art. 336
cod. civ.; oggi, inoltre, non è più necessario che i
provvedimenti a favore del ripristino delle frequentazioni siano connessi a situazioni di crisi coniugale,
sebbene sia acquisito che le maggiori difficoltà sorgano quando i rapporti tra i genitori sono incrinati
(Danovi, 544 s.) ulteriori considerazioni positive
sono da ascriversi alla collocazione del nuovo diritto
all’interno del codice: esso è stato, infatti, introdotto
all’interno del Capo I del Titolo IX, a seguito delle
norme in tema di responsabilità genitoriale dedicate, in particolare, all’educazione ed alla crescita del
minore. Risulterebbe, insomma, chiara la scelta del
legislatore di riconoscere al rapporto coi nonni valenza fondamentale, prevedendone un limite solo
laddove sia in contrasto con il preminente interesse
del minore (da ultimo la recentissima Cass.,
19.1.2015, n. 725, infra, sez. III, la quale ha rigettato
il ricorso della nonna materna con motivazione appoggiata all’assunto che i giudici di merito avessero
attentamente valutato gli effetti di un ricongiungimento con la bambina, ritenendolo per quest’ultima
altamente negativo).
Rimane, invece, l’impossibilità per i nonni di far
valere i propri diritti non solo attraverso un procedimento di limitazione della responsabilità (art. 333
cod. civ.), ma pure intervenendo nei giudizi di affidamento dei minori in sede di separazione, divorzio
e nelle controversie tra genitori non uniti in matrimonio, come da tempo alcuni auspicavano, in ottemperanza a quanto sostenuto dalla giurisprudenza
di legittimità che in essi riservava pure al minore un
posto di mero «spettatore» (Cass., 11.8.2011, n.
17191, cit.; Cass., 27.12.2011, n. 28902; Cass.,
16.10.2009, n. 22081, tutte infra, sez. III; Dogliotti, 292 s.; Tommaseo, 632, infra, sez. IV; Arceri,
811 s.). Non è stato, peraltro, escluso un futuro
orientamento di segno opposto: il nuovo diritto dei
nonni dovrebbe, infatti, essere strettamente connesso a quelli «che costituiscono parte del thema decidendum del processo di separazione e divorzio», diversamente da quanto sostenuto dalla Cassazione si-
2. Le novità legislative. Ad esito di un lungo
percorso, il legislatore nel 2012 ha finalmente sancito in modo esplicito il diritto dei nonni a mantenere
rapporti significativi con i nipoti (art. 317 bis, comma 1o, cod. civ., come modificato dal d. legis. n.
154/2013), potendo ricorrere al giudice laddove siano ostacolati dai genitori o da terzi (comma 2o): si
tratta di una sorta di completamento ed estensione
di quanto già indicato a favore dei minori dall’art.
155 cod. civ., modificato dalla riforma del 2006
(Danovi, 535; Basini, 367 s.; Id., Violazione del c.d.
«diritto di visita» dei nonni e risarcimento del danno,
dopo l’entrata in vigore della L. 219/2012, 7 s.; Arceri, 810 s.; Tommaseo, 526; M.G. Stanzione;
Ferrando, La riforma della filiazione; Id., L’affidamento dei figli, 263; Id., Diritto di famiglia; Dogliotti, 290; Id., La nuova legge sulla filiazione.
Profili sostanziali, 529, tutti infra, sez. IV).
I nuovi provvedimenti non sono stati, tuttavia, accolti da unanime favore.
La delega racchiusa nella l. n. 219/2012, infatti,
demandava al Governo il compito di prevedere soltanto «la legittimazione degli ascendenti a far valere
rapporti significativi con i nipoti minori» [art. 2,
lett. p), l. n. 219/2012]: tale espressione è stata da alcuni intesa come volta ad introdurre non già un
nuovo diritto (di cui, forse, era erroneamente ritenuta pacifica l’esistenza), ma solo norme aventi ad oggetto le relative modalità di attuazione, cosicché si è
osservato che l’intervento del legislatore delegato
avrebbe (forse) dovuto essere più limitato (Basini,
368 s.); è stata, altresì, posta in dubbio la legittimità
costituzionale del novellato art. 38, comma 1o, disp.
att. cod. civ., che attribuisce al Tribunale Minorile la
competenza a conoscere dei ricorsi proposti dagli
ascendenti, sull’assunto che la delega al Governo
non ricomprendesse il potere di indicare l’autorità
preposta (Trib. min. Bologna, ord. 5.5.2014, infra, sez. III); altra criticità è stata ravvisata nella legittimazione ad agire in giudizio prevista all’art. 317
bis, comma 2o, cod. civ.: essa, infatti, non sembrerebbe contemplata nell’interesse dei nonni, bensì
(nuovamente) dei nipoti; a ciò si aggiunga la considerazione secondo cui agli ascendenti era già permesso di ricorrere al giudice ai sensi degli artt. 333 e
336 cod. civ. per l’adozione dei provvedimenti più
idonei per il minore: da qui le perplessità circa l’effettiva portata – pratica – della Riforma, da ultimo
identificata nella possibilità di ricorrere alla tutela riNGCC 2015 - Parte prima
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento
Separazione dei coniugi
no ad oggi a margine dei provvedimenti con cui ha
negato agli ascendenti la legittimazione ad intervenire (Danovi, 547 s.).
Poiché la vicenda all’esame della Corte eur. dir.
uomo è sorta prima della entrata in vigore della Riforma della filiazione, la sentenza non tiene conto
delle novità introdotte dal nostro legislatore. Sembra, tuttavia, che il riconoscimento del diritto degli
ascendenti contenuto all’art. 317 bis cod. civ. possa
incontrare il favore della giurisprudenza europea,
sia perché attribuisce anche ai nonni il diritto ad
avere relazioni familiari con i nipoti, sia perché – in
ultima istanza – pone l’interesse dei minori al di sopra di tutto, auspicando che siano adottate tutte le
misure necessarie a garantirne il reale benessere.
Circa il dovere dello Stato di adottare tutte le misure necessarie a garantire i rapporti tra i minori ed i
parenti: Corte eur. dir. uomo, 9.6.1998, Ignaccolo
– Zeneide c. Romania; ancora, Corte eur. dir. uomo, 24.4.2003, Sylvester c. Austriche; Corte eur.
dir. uomo, 2.11.2010, Piazzi c. Italia; Corte eur.
dir. uomo, 17.12.2013, Santilli c. Italia. Tutte in
www.hudoc.echr.coe.int.
III. I precedenti
1. Il diritto dei nonni. Circa l’obbligo – di natura sussidiaria – degli ascendenti a contribuire al
mantenimento dei nipoti, si vedano: Cass.,
23.3.1995, n. 3402, in Giust. civ., 1995, 1441; Trib.
Milano, 30.6.2000, in Fam. e dir., 2000, 534.
Hanno negato l’esistenza di un diritto di visita dei
nonni, riconoscendo in capo ad essi solo un «interesse» protetto attraverso il ricorso agli artt. 330 e
333 cod. civ. laddove coincidente con l’interesse del
fanciullo: Cass., 17.10.1957, n. 3904, in Rep. Foro
it., 1957, voce «Patria potestà», n. 7, pronunciatasi a
margine di una vicenda in cui il genitore aveva impedito ingiustificatamente le relazioni tra ascendenti
e nipoti; App. Milano, 21.6.1965, in Giust. civ.,
1965, 2121, a parere della quale il giudice deve conciliare la potestà dei genitori con le esigenze degli altri parenti, specie gli avi; nello stesso senso anche
Trib. Perugia, 12.6.1979, in Giur. merito, 1980, 6;
Trib. Roma 7.2.1987, in Dir. fam. e pers., 1987, 739;
Trib. Bari, 10.1.1991, in Giur. merito, 1992, 572,
con nota di Manera, Ancora sul c.d. «diritto di visita» dei nonni; Cass., 17.1.1996, in Fam. e dir., 1996,
227, con nota di Venchiarutti, Diritto di visita del
genitore non affidatario e dei nonni; Cass.,
27.10.2011, n. 28902, ivi, 2012, 348 ss., con nota di
Vullo, Inammissibile l’intervento degli ascendenti
nei giudizi di separazione e di divorzio e Cass.,
11.8.2011, n. 17191, in Giust. civ., 2012, 2669, con
nota di Chiaravallotti, le quali hanno precisato
che gli ascendenti non hanno il diritto di intervenire
nei giudizi ove è in gioco l’interesse del minore.
Un orientamento più attento all’interesse dei fanciulli è espresso da Cass., 5.3.2014, n. 5097, in Foro
it., 2014, I, 1067, con nota di Casaburi; Cass.,
16.10.2009, n. 22081, in Giust. civ., 2010, 2817, con
nota di Ingenito; Cass., 25.9.1998, n. 9606, in
Fam. e dir., 1999, 17, con nota di De Marzo, Diritto
di visita e interesse del minore.
566
2. Le novità legislative. Si erano pronunciate
sul possibile intervento nei nonni nel procedimento
di separazione o divorzio pendente tra i genitori
Cass., 11.8.2011, n. 17191 e Cass., 27.12.2011, n.
28902, entrambe citt., le quali avevano affermato
l’illegittimità della domanda, osservando che «posto
che le sole parti del giudizio di separazione giudiziale
sono i coniugi, non sono legittimati ad intervenirvi,
né in via principale, né in via litisconsortile, né adesiva, gli ascendenti, pur se a tutela dell’interesse dei minori, quanto al loro affidamento e al regime degli incontri con gli stessi ascendenti». Cass., 16.10.2009, n.
22081, cit., aveva precisato che la domanda dei nonni non mostra nessuna connessione per funzione ed
oggetto con la domanda proposta in via principale.
Trib. Bologna, 5.5.2014, in Dir. fam. e pers., 2014,
1033, con nota di Arceri, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1o, disp. att.
IV. La dottrina
1. Il diritto dei nonni. È indiscussa la rilevanza giuridica del rapporto con gli avi e la letteratura
in tema è sterminata: per tutti, si rinvia a C.M. Bianca, Commento all’art. 1 commi 1o, 2o, 4o della L.
28.3.2001, n. 149, Modifiche alla Legge 4.5.1983, n.
184, recante disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, in Nuove leggi civ. comm., 2002, 909
s., il quale auspicava l’abbandono di una visione «intimistica dei sentimenti» ed il riconoscimento di un
vero e proprio «diritto» dei nipoti all’amore dei
nonni. L’espressione, coniata dall’a., è stata successivamente ripresa da Id., La famiglia, Estratto per i
corsi universitari della quarta edizione del Diritto civile, II, Giuffrè, 2005, 325, nonché da M. Bianca, Il
diritto del minore all’«amore» dei nonni, in Riv. dir.
priv., 2006, 155 s.; l’importanza del rapporto con i
nonni è stata, altresì, evidenziata da Sacco, Considerazioni generali. Per un concetto più vasto di rapporto
familiare, in Aa.Vv., La riforma del diritto di famiglia. Atti del II Convegno svolto presso la Fondazione
Cini l’11-12.3.1972, Cedam, 1972, 212, il quale ha
osservato che il ruolo degli ascendenti è accresciuto
a seguito dell’adozione di un modello di famiglia
mononucleare e dell’aumento del lavoro femminile,
auspicando che all’obbligo di rispetto imposto al figlio sia abbinato «un dovere di venerazione, impoNGCC 2015 - Parte prima
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Corte eur. dir. uomo, 20.1.2015, ric. 10/2010 - Commento
Separazione dei coniugi
sto al nipote»; Cavallaro, Il c.d. diritto di visita dei
nonni: rilevanza e qualificazione degli interessi in gioco, in Il diritto privato nel prisma dell’interesse legittimo, a cura di Breccia-Bruscaglia-Busnelli,
Giappichelli, 2001, 139 s.; Putti, Il diritto di visita
degli avi: un sistema di relazioni affettive che cambia,
in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, 897 s.; Ruscello,
La potestà dei genitori. Rapporti personali, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 1996, 58 s.; Salito,
L’affidamento condiviso dei figli nella crisi della famiglia, in Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, diretto da Autorino Stanzione,
Giappichelli, 2011, 451 s.; P. Stanzione, «Minorità» e tutela della persona umana, in Dir. e fam., 2000,
758 s.; Jemolo, La famiglia e il diritto, in Pagine
sparse di diritto e storiografia, Giuffrè, 1957, 224 s.;
Attias-Donfut, Il secolo dei nonni, la rivalutazione
di un ruolo, Armando, 2005, 15 s.
In tema di obblighi derivanti dagli artt. 147 e 148
cod. civ., si vedano Trabucchi, Famiglia e diritto
nell’orizzonte degli anni ’80, in Riv. dir. civ., 1986,
253; Cattaneo, Il contributo dei nonni al mantenimento dei nipoti, in Fam. e dir., 1995, 452 s.
Circa la qualificazione della richiesta dei nonni ad
avere rapporti con i nipoti nei termini di «interesse
legittimo», si rinvia a Bigliazzi Geri, voce «Interesse legittimo (diritto privato)», nel Digesto IV ed.,
Disc. priv., sez. civ, IX, Utet, 1993, 544 s., a parere
della quale esso si rinviene qualora la realizzazione
di un interesse è assoggettata alla scelta di un terzo,
cui è attribuito un potere discrezionale; Trabucchi, Patria potestà e interventi del giudice, in Riv.
dir. civ., 1961, 223 s., secondo cui «nessuno (...) può
intervenire come portatore di propri giudizi o interessi nell’ambito dell’altrui famiglia regolarmente
costituita»; a favore, invece, della sussistenza di un
diritto soggettivo autonomo: De Cupis, Ancora in
tema di limiti alla patria potestà, in Foro it., 1963, I,
1494; Dagnino, Potestà parentale e diritto di visita,
in Dir. e fam., 1975, 1499. In tema si rinvia altresì a
Basini, Ascendenti, diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni e risarcimento del
danno. Il, così detto, «diritto di visita» degli avi dopo
il D. Lgs. N. 154/2013, in Resp. civ. e prev., 2014,
367.
Gli autori che hanno analizzato l’evoluzione giurisprudenziale in materia sono innumerevoli. Tra i
molti si ricordano: Quadri, Il diritto di famiglia:
evoluzione storica e prospettive di riforma, in Dir. e
giur., 2003, 276; M. Bianca, op. cit.; Putti, op. cit.
In tema di maggiore interesse del minore si rinvia,
tra gli altri, a: P. Stanzione, Capacità e minore età
nella problematica della persona umana, CamerinoNapoli, 1975; Id., Interesse del minore e statuto dei
suoi diritti, in Fam. e dir., 1994, 352 s.; Alpa, I principi generali, nel Trattato Iudica-Zatti, Giuffrè, 1993,
a parere del quale essa rappresenta una delle clausole generali più frequentemente richiamate in tema di
diritto di famiglia; M. Bianca, op. cit., 170; Putti,
op. cit., 918; Dogliotti-Figone-Mazza Galanti,
Codice dei minori, Utet, 1999, 255 s.; Sesta, Il controllo giudiziario sulla potestà, nel Trattato Bessone,
IV, Il diritto di famiglia, Utet, 1999.
L’analisi della giurisprudenza della Corte eur. dir.
uomo è stata effettuata, tra gli altri, da Queirolo-L.
Schiano Di Pepe, Lezioni di diritto dell’Unione europea e relazioni familiari, Giappichelli, 2010, 283;
Cubeddu, Il diritto europeo della famiglia, nel Trattato dir. fam., diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, a cura di Ferrando, Fortino e Ruscello,
Giuffrè, 2011, 89 s.
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2. Le novità legislative. Sulla delega al governo contenuta nella l. n. 219/2012, si rinvia a Danovi, Il d.lgs. 154/2013 e l’attuazione della delega sul
versante processuale: l’ascolto del minore e il diritto
dei nonni alla relazione affettiva, in Fam. e dir., 2014,
535 s.; Basini, op. cit., 367 s.; Id., Violazione del c.d.
«diritto di visita» dei nonni e risarcimento del danno,
dopo l’entrata in vigore della L. 219/2012, in Resp.
civ. e prev., 2013, 7 s.; Arceri, Il diritto dei nonni a
mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni al vaglio della Corte Costituzionale, in Fam. e dir.,
2014, 810 s., nota all’ordinanza del Trib. min. Bologna, 5.5.2014; Tommaseo, Profili processuali della riforma della filiazione, in Fam. e dir., 2014, 526;
M.G. Stanzione, Il diritto alla genitorialità ed alle
relazioni familiari, in Comparazione e diritto civile,
2013, consultabile al link www.comparazione
dirittocivile.it; Ferrando, L’affidamento dei figli,
nel Trattato Alpa-Patti, a cura di Ferrando e Lenti, Cedam, 2012, 263 s.; Id., Diritto di famiglia, Zanichelli, 2013; Id., La nuova legge sulla filiazione.
Profili sostanziali, in Fam. e dir., 2013, 525 s.; Dogliotti, Nuova filiazione: la delega al governo, ivi,
2014, 290. Le criticità sono state evidenziate da Basini, op. cit., 368; negano agli ascendenti la possibilità di intervenire nei procedimenti di separazione e
divorzio Tommaseo, Verso il decreto legislativo sulla filiazione: sulle norme in materia processuale proposte dalla Commissione ministeriale, in Fam. e dir.,
2013, 632; nello stesso senso anche Danovi, op. cit.,
547, il quale tuttavia ha auspicato l’intervento del legislatore. Arceri, op. cit., 810 s., ha osservato che la
normativa italiana, anche a seguito della Riforma del
2012, sembra riservare al minore ancora un posto da
spettatore nei procedimenti pendenti tra i genitori.
Infine, ha ipotizzato che in futuro possa essere riconosciuta la legittimazione per i nonni di intervenire
nei procedimenti di separazione e divorzio dei figli,
Danovi, op. cit., 547.
Giulia Spelta
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184
c CASS. CIV., II sez., ord. 22.1.2015, n. 1184
Rimette gli atti al Primo Presidente
Società - Società tra professionisti Esercizio di attività professionale
«protetta» e «non protetta» - Prescrizione presuntiva - Applicabilità Questione di massima di particolare
importanza - Rimessione degli atti al
primo Presidente (cod. civ., art. 2956, n. 2; d.
legis. 2.2.2001, n. 96, art. 16; l. 4.8.2006, n. 248, art.
2; l. 12.11.2011, n. 183, art. 10)
Deve vagliarsi la necessità che le sezioni
unite si pronuncino sul se e come la possibilità di esercizio di attività professionali,
protette e non protette, in forma societaria si riverberi sulla nozione stessa di professionista, di cui all’art. 2956, n. 2, cod.
civ., sicché possa applicarsi a quelle forme
di esercizio il principio, già enunciato dalla Supr. Corte, secondo il quale la prescrizione presuntiva triennale prevista dall’art. 2956, n. 2, cod. civ. può applicarsi
soltanto ai crediti nascenti dall’esercizio
di una professione intellettuale di antica o
di recente tradizione e non al credito nascente da mero contratto d’opera.
dal testo:
Il fatto. Con ricorso al Tribunale di Perugia,
sezione distaccata di Città di Castello, la A
s.n.c. esponeva che aveva provveduto alla tenuta della contabilità della B di E.R. per il periodo compreso tra il 1993 e il 31.12.1994; che il
saldo del corrispettivo, pari a lire 5.310.735,
era rimasto insoluto.
Chiedeva ingiungersi ad E.R. il pagamento
della complessiva somma di lire 5.390.735 – di
cui lire 80.000 per spese per estratti autentici –
oltre accessori.
Pronunciata con decreto in data 14.12.2000
l’ingiunzione, E.R. con atto di citazione notificato il 27.1.2001 proponeva opposizione.
Deduceva, “sostenendo l’avvenuta estinzione dell’obbligazione per intervenuto pagamento, (...) la prescrizione presuntiva del credito ex
art. 2956 n. 2 c.c.” (così ricorso pag. 1).
568
Società
Chiedeva pertanto la revoca del decreto opposto.
Costituitasi, la ricorrente instava per il rigetto dell’avversa domanda.
Adduceva “l’infondatezza della dedotta prescrizione per non essere, a suo dire, l’istituto richiamato applicabile al caso concreto in virtù
della qualità di società della creditrice” (così ricorso pag. 2); soggiungeva che la sua prestazione non aveva “carattere di prestazione professionale ma quello tipico del contratto d’opera
di cui all’art. 2222 c.c.” (così ricorso pag. 2).
Con sentenza n. 138/2003 il Tribunale di Perugia accoglieva l’opposizione, dichiarava e dava atto dell’intervenuta prescrizione dell’azionata pretesa, revocava l’ingiunzione e condannava la ricorrente-opposta a rimborsare a controparte le spese di lite.
Interponeva appello l’A s.n.c.
Resisteva E.R.
Con sentenza n. 411/2008 la corte d’appello
di Perugia accoglieva l’esperita impugnazione,
rigettava, in totale riforma della gravata sentenza, l’opposizione al decreto ingiuntivo proposta in prime cure e condannava E.R. a rimborsare a controparte le spese di ambedue i gradi
di giudizio. (Omissis)
Avverso tale sentenza E.R. ha proposto ricorso a questa Corte di legittimità; ne ha chiesto la cassazione sulla scorta di unico motivo.
La “B” di G.P.&C (già A s.n.c. di P e G) ha
depositato controricorso; ha chiesto rigettarsi
l’avversario ricorso con il favore delle spese del
grado si legittimità. (Omissis)
Con l’unico motivo il ricorrente deduce in
relazione all’art. 360, 1o co., n. 3), c.p.c. la violazione dell’art. 2956, n. 2), c.c.
Premette che nel caso di specie è necessario
stabilire unicamente se la disposizione di cui
all’art. 2956, n. 2), c.c. “sia o meno applicabile
(...) anche a quei professionisti costituiti in forma societaria e/o di associazione professionale” (così ricorso pag. 5) e soggiunge che la medesima disposizione “non pone alcuna restrizione nell’interpretazione del termine professionista né, ovviamente, ne specifica il significato” (così ricorso pag. 6).
Adduce che “non v’è dubbio che (...) l’attività dell’E.DA.CO. si fondi sul lavoro intellettuale dei soci e che questo sia elemento essenziale e prevalente rispetto all’organizzazione
NGCC 2015 - Parte prima
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184
dei fattori produttivi” (così ricorso pag. 6); che
“è consequenziale, dunque, che la prestazione
intellettuale resa al cliente è imputabile al professionista e non all’organizzazione, in virtù
della personalità del servizio reso dal socio
stesso nell’ambito dell’incarico ricevuto dalla
società” (così ricorso pag. 6); che “nel caso
concreto (...) l’attività dell’E.DA.CO. (o rectius
dei suoi soci) è un’attività intellettuale che è sicuramente prevalente rispetto a quella dell’elaborazione elettronica poiché nel suo espletamento vengono manifestate cognizioni specialistiche personali e professionali, attività in cui
l’elaborazione rappresenta solo lo strumento
materiale per l’ottenimento di maggiore velocità nell’esecuzione della prestazione stessa” (così ricorso pagg. 6-7); che del resto “i professionisti – soci sono iscritti in appositi albi professionali, iscrizione conseguente ad abilitazione”
(così ricorso pag. 7); che “in conclusione, (...) il
soggetto destinatario dell’art. 2956 n. 2 c.c.
possa essere il professionista, nell’accezione
più ampia del termine” (così ricorso pag. 8).
La quaestio iuris che la vicenda contenziosa
de qua agitur involge, si prospetta alla stregua
di una questione di massima di particolare importanza.
Il che suggerisce l’appello al Primo Presidente, perché valuti, ai sensi dell’art. 374, 2 co.,
c.p.c., se disporre che questa Corte di legittimità pronunci al riguardo a sezioni unite. (Omissis)
I motivi. Si premette che la medesima società personale controricorrente riconosce espressamente di aver “prestato alla ditta R.C.E. di
R.E. (...) i servizi di tenuta della contabilità fiscale, amministrativa e contabile” (così controricorso, pag. 2).
Siffatta attività risulta da ascrivere alle previsioni degli artt. 1 e 2 del dec. lgs. 28.6.2005, n.
139, intitolato “costituzione dell’ordine dei
dottori commercialisti e degli esperti contabili,
a norma dell’art. 2 della legge 24.2.2005, n.
24”.
Più esattamente, ai sensi dell’art. 1 del d. lgs.
n. 139/2005 agli iscritti nella sezione “B” –
esperti contabili – dell’albo è riconosciuta
competenza tecnica per l’espletamento, tra le
altre, dell’attività di tenuta e redazione dei libri
contabili, fiscali e del lavoro nonché dell’attiviNGCC 2015 - Parte prima
Società
tà di controllo della documentazione contabile.
Più esattamente, ai sensi dell’art. 2 del medesimo decreto legislativo, ai fini dell’esercizio
delle professioni di cui all’art. 1, è necessario
che il dottore commercialista, il ragioniere
commercialista e l’esperto contabile siano
iscritti nell’albo.
Nei termini esposti, dunque, non interferisce
nel caso di specie l’insegnamento di questa
Corte (citato dal controricorrente a pag. 15 del
controricorso) n. 15530 dell’11.6.2008 (alla cui
stregua nelle materie commerciali, economiche, finanziarie e di ragioneria, le prestazioni di
assistenza o consulenza aziendale non sono riservate per legge in via esclusiva ai dottori
commercialisti, ai ragionieri e ai periti commercialisti, non rientrando fra le attività che
possono essere svolte esclusivamente da soggetti iscritti ad apposito albo professionale o
provvisti di specifica abilitazione).
Si rileva, per altro verso, che la locuzione
“attività economica”, di cui all’art. 2247 c.c., è
nozione più ampia di “attività d’impresa”, ovvero dell’attività, qualificata in forma soggettiva, di cui all’art. 2082 c.c.
In tal guisa l’esercizio di un’attività professionale intellettuale, in quanto attività economica, ancorché ex art. 2238, 1 co., c.c. attività
non d’impresa, ben può in linea di principio
esser assunta ad oggetto di un organismo collettivo, segnatamente societario, ben può, cioè,
in linea di principio, essere esercitata in forma
collettiva, societaria.
L’insegnamento giurisprudenziale nondimeno ha in forma sostanzialmente unanime (beninteso con la significativa eccezione delle società diengineering: cfr. Cass. 29.11.2007, n.
24922, Cass. 1.10,1999, n. 10872; Cass.
21.3.1989, n. 1405) disconosciuto l’ammissibilità di siffatta tipologia di società “senza impresa”. (Omissis)
Lo scenario normativo, tuttavia, a decorrere
dall’inizio dello scorso decennio è significativamente mutato.
Va segnalato, in primo luogo, che l’art. 16,
1o co., del d. lgs. n. 96 del 2.2.2001 ha consentito espressamente l’esercizio in forma comune
dell’attività professionale di rappresentanza,
assistenza e difesa in giudizio seppur in via
esclusiva mercé il tipo di società tra professionisti denominata società tra avvocati (il 2o co.
569
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184
dell’art. 16 cit. dispone che la società tra avvocati è regolata dalle norme di cui al titolo II
dello stesso d. lgs. e, ove non diversamente disposto, dalle norme che regolano la società in
nome collettivo; statuisce, inoltre, che, ai fini
dell’iscrizione nel registro delle imprese, è istituita una sezione speciale relativa alle società
tra professionisti; il 3o co. del medesimo art.
16, a sua volta, puntualizza che la società tra
avvocati non è soggetta a fallimento).
Va segnalato, in secondo luogo, che l’art. 2,
1o co., lett. c), della legge n. 248 del 4.8.2006,
recante conversione in legge del decreto legge
n. 223 del 4.7.2006, ha abrogato le disposizioni
legislative e regolamentari che prevedono con
riferimento alle attività libero professionali e
intellettuali il divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte, tra l’altro, di società di persone (la previsione della lett. c) soggiunge che le anzidette società di persone devono assumere in via esclusiva
ad oggetto sociale la prestazione di attività libero-professionale, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e
che la specifica prestazione deve essere resa da
uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità).
Va segnalato, in terzo luogo, che l’art. 10
della legge n. 183 del 12.11.2011, al 3o co., ha
ammesso espressamente “la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i
modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V codice civile” (l’art. 10 della legge n.
183/2011 è stato modificato dall’art. 9 bis – rubricato “società tra professionisti” – della legge
24.3.2012, n. 27, che ha convertito con modificazioni il dec. leg. 24.1.2012, n. 1).
Più esattamente, in virtù dell’art. 10 cit. è
ben possibile l’esercizio in forma societaria di
una qualsivoglia attività professionale “protetta” mercé utilizzazione del tipo della società
semplice, della società in nome collettivo, della
società in accomandita semplice, della società
per azioni, della società in accomandita per
azioni, della società a responsabilità limitata e
della società cooperativa (l’art. 10 cit. prosegue
precisando, tra l’altro, al 4o co., lett. b), che
possono far parte della società anche soggetti
non professionisti per mere finalità di investimento, al 5o co., che la denominazione sociale
570
Società
deve contenere l’indicazione di società tra professionisti, al 6o co., che la partecipazione ad
una società è incompatibile con la partecipazione ad altra società tra professionisti, all’8o
co., che la società tra professionisti può essere
costituita anche per l’esercizio di più attività
professionali e, quindi, per attività interdisciplinari, al 9o co., che restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore
della medesima legge n. 183/2011).
Va segnalata, in quarto luogo, la legge
14.1.2013, n. 4, intitolata “disposizioni in materia di professioni non organizzate”, il cui art.
1 puntualizza, al 1o co., che la stessa legge è
volta alla disciplina delle professioni non organizzate in ordini o collegi, al 2o co., che per
“professione non organizzata in ordini o collegi” si intende l’attività economica, anche organizzata, volta alla prestazione di servizi o di
opere a favore di terzi, esercitata abitualmente
e prevalentemente mediante lavoro intellettuale, o comunque con il concorso di questo, con
esclusione delle attività riservate per legge a
soggetti iscritti in albi o elenchi ai sensi dell’art.
2229 c.c., delle professioni sanitarie e delle attività e dei mestieri artigianali, commerciali e di
pubblico esercizio disciplinati da specifiche
normative, al 5o co., che la professione è esercitata in forma individuale, in forma associata,
societaria, cooperativa o nella forma del lavoro
dipendente.
Non è fuor di luogo segnalare, da ultimo,
l’art. 28, 1o co., della “riformata” legge fallimentare, alla cui stregua possono essere chiamati a svolgere le funzioni di curatore “società
tra professionisti”.
Va rimarcato, sotto altro profilo, che R.E.
giammai ha inteso dubitare della validità dell’atto genetico dell’obbligazione de qua agitur
ed, ulteriormente, che l’eccezione di prescrizione presuntiva di certo non è incompatibile
con l’assunto secondo cui il debito sia stato
estinto per avvenuto pagamento (cfr. Cass. sez.
lav. 17.8.1977, n. 3774).
Al cospetto dunque del quadro normativo
dapprima tracciato si reputa opportuno che si
vagli la necessità che le sezioni unite riflettano
sul se e sui margini in cui la nuova figura di
professionista – siccome destinata a connotarsi
anche in forma societaria sia per le professioni
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento
“protette” sia per le professioni “non protette” – si riverberi sulla nozione di professionista di cui all’art. 2956, n. 2), c.c., sicché possa
dilatarsi anche a siffatte nuove tipologie di
professionista, qualora esercenti attività “protette”, l’insegnamento di questa Corte n. 3886
del 29.6.1985 (alla cui stregua nella categoria
dei professionisti, i cui diritti per il compenso
dell’opera prestata e per il rimborso delle spese correlative, sono assoggettati a prescrizione
presuntiva triennale dall’art. 2956, n. 2, c.c.,
sono compresi soltanto coloro che esercitano
una professione intellettuale di antica o di recente tradizione, nei cui confronti è ravvisabile il presupposto della prassi del pagamento
senza dilazione per l’agevole determinabilità
del credito ai sensi dell’art. 2233 c.c., sicché
detta prescrizione non è applicabile al credito
per il compenso nascente da un mero contratto d’opera) ovvero se, addirittura, si possano
trascendere i limiti dell’insegnamento n.
3886/1985, sì da estendere la prescrizione
presuntiva triennale di cui all’art. 2956, n. 2),
c.c. anche ai crediti di qualsivoglia soggetto,
pur costituito in forma societaria, esercente
attività professionale “non protetta”. (Omissis)
[Bursese Presidente – Abete Estensore. – E.DA.
CO. s.n.c. – R.E.]
Società
La società ricorrente, resistendo alla domanda di
revoca del decreto ingiuntivo, sosteneva invece per
parte sua la non applicabilità al caso della norma in
questione, in ragione sia della natura societaria della
creditrice sia del carattere non professionale della
prestazione resa, da ricondurre invece al contenuto
tipico del contratto d’opera.
L’opposizione del debitore veniva prima accolta
dal Tribunale e poi rigettata dalla Corte d’Appello,
la quale ultima, nel riformare la sentenza del giudice
di prime cure, argomentava sull’applicabilità della
prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod. civ. ai
crediti dei soli professionisti e non a quelli nascenti
da prestazioni intellettuali da chiunque rese, e in
particolare a quelle rese da una società commerciale
quale doveva ritenersi la s.n.c. opposta.
La II sezione della Corte di Cassazione, davanti
alla quale è stato incardinato il ricorso proposto dall’opponente, dispone con l’ordinanza interlocutoria
in commento la trasmissione degli atti al Primo Presidente, perché venga valutata l’opportunità di sottoporre alle sezioni unite una riflessione sugli effetti che le modifiche normative intervenute
nelle more del giudizio in materia di esercizio di
attività professionale in forma societaria
hanno prodotto sulla nozione stessa di professionista.
Ciò al fine di stabilire se e in quali termini
il disposto dell’articolo 2956, n. 2, possa applicarsi alle nuove forme collettive di esercizio delle attività «protette» e anche di quelle
«non protette».
II. Le questioni
Nota di commento: «Esercizio in forma societaria di attività professionale e prescrizione presuntiva» [,]
I. Il caso
Una società in nome collettivo, allegando di aver
tenuto per un periodo tra il 1993 e la fine del 1994 la
contabilità di una ditta individuale e di non aver ricevuto dal cliente il saldo del relativo corrispettivo,
chiedeva ed otteneva un decreto ingiuntivo per la
somma rimasta insoluta.
Il cliente proponeva opposizione, sostenendo
l’avvenuto pagamento della somma ingiunta ed invocando la prescrizione presuntiva del credito ai
sensi dell’art. 2956, n. 2, cod. civ. che, com’è noto,
riguarda il diritto dei professionisti al pagamento
del compenso per l’opera prestata e del rimborso
delle spese correlate.
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
NGCC 2015 - Parte prima
1. L’esercizio di attività professionale in
forma societaria. La questione di maggior interesse proposta dall’ordinanza attiene alla adottabilità dello strumento societario nell’esercizio delle professioni intellettuali.
Dopo aver ribadito la natura economica dell’attività professionale e quindi la sua astratta idoneità a
costituire oggetto di esercizio in forma societaria, il
Collegio, infatti, ripercorre la problematica della società tra professionisti (S.T.P.). La ricostruzione
prende le mosse dalla tradizionale posizione giurisprudenziale che, in maniera pressoché unanime e
costante, aveva ritenuto la nullità di società costituite per l’esercizio di professioni intellettuali quanto
meno con riguardo alle c.d. professioni «protette» e
cioè a quelle per il cui esercizio fosse necessaria
l’iscrizione in appositi albi o elenchi.
Schematizzando e riassumendo sommariamente
una materia che ha dato luogo ad un lungo e complesso dibattito, i motivi di quell’indirizzo giurisprudenziale, per altro non condiviso da parte della dot571
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento
trina, sono riconducibili a due fondamentali questioni: da una parte, l’esplicito divieto, contenuto
nell’art. 2 l. n. 1815/1939, di costituzione, esercizio e
direzione di «(...) società, istituti, uffici, agenzie od
enti (...)» che avessero come scopo quello di fornire
anche gratuitamente ai propri associati o ai terzi
prestazioni di consulenza o assistenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa contabile
o tributaria; dall’altra il carattere di personalità della
prestazione del professionista previsto dall’art. 2232
cod. civ. (Cass., 12.3.1987, n. 2555, infra, sez. III).
Quanto al primo aspetto sono noti i dubbi che
hanno travagliato la dottrina circa la portata della l.
n. 1815/1939, sia per quanto riguarda le forme associative colpite dal divieto (quali società e, più in genere, quali forme associative dovevano ritenersi vietate?), sia per quanto riguarda l’ambito oggettivo (a
quali attività si estendeva il divieto?).
Del resto anche l’abrogazione del ricordato art. 2
l. n. 1815/1939, avvenuta ad opera dell’art. 24 l. n.
266/1997, aveva lasciato sussistere i dubbi sulla liceità dell’esercizio in forma societaria delle attività
intellettuali, anche a causa della mancata emanazione del decreto ministeriale previsto dalla norma
abrogativa (sulla cui legittimità, per altro, non mancavano perplessità, legate alla violazione della gerarchia delle fonti normative).
Quanto al secondo aspetto, va ricordata la diffusa
convinzione che lo schema societario fosse inconciliabile con la disciplina del contratto d’opera intellettuale, che presuppone la identità tra chi riceve
l’incarico e chi esegue la prestazione, identità esclusa dalla natura «sociale» dell’assunzione della obbligazione.
Ricordata questa posizione consolidata della propria giurisprudenza, il S.C., nell’ordinanza in commento, dà però atto della successiva modificazione
del quadro normativo di riferimento, menzionando
taluni interventi del legislatore che in vario modo
hanno inciso sulla possibilità di esercizio societario
delle professioni intellettuali.
Nel provvedimento si fa quindi riferimento:
i) al d. legis. n. 96/2001 che prevede le società tra
avvocati, alle quali viene consentito espressamente
l’esercizio della attività di rappresentanza, assistenza
e difesa in giudizio. Si tratta, com’è noto, di una particolare categoria di società strutturate su base personale e caratterizzate dalla presenza di soli soci abilitati all’esercizio della professione di avvocato (art.
21, comma 1o), ai quali è riservata l’amministrazione
della società (art. 23, comma 1o) e dalla esclusività
dell’oggetto sociale, consistente, per l’appunto, nell’esercizio in comune della professione dei soci (art.
17, comma 2o);
ii) all’art. 2, comma 1o, lett. c), l. n. 248/2006 (recante la conversione del c.d. decreto Bersani) che
572
Società
prevede l’abrogazione del «divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare
da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l’oggetto sociale relativo all’attività libero-professionale deve essere
esclusivo, che il medesimo professionista non può
partecipare a più di una società e che la specifica
prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità»;
iii) all’art. 10 l. n. 183/2011, come modificato dall’art.
9 bis l. n. 27/2012, che consente la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali «protette»
utilizzando i tipi regolati dai titoli V e VI del libro V
del cod. civ., e cioè sia società di persone che di capitali che cooperative. La legge è stata accolta come il
definitivo superamento dei limiti posti dalla legislazione precedente, e quindi come la affermazione della
piena legalità dell’uso dello strumento societario, anche se non pochi sono i dubbi circa la organicità del sistema che risulta da quest’ultimo intervento;
iv) alla l. n. 4/2013 che reca disposizioni in materia
di professioni non organizzate in ordini o collegi. Si
tratta, secondo la definizione contenuta nell’art. 1,
comma 2o, della legge, di attività economiche anche
organizzate volte alla prestazione di servizi o di opere a favore di terzi, esercitate «abitualmente e prevalentemente mediante lavoro intellettuale o comunque con il concorso di questo (...)». Per tali attività
la legge prevede la possibilità di costituire associazioni professionali aventi funzione di valorizzare le
competenze degli associati e garantire il rispetto di
regole deontologiche, promuovendo la formazione
permanente degli iscritti e vigilando sulla relativa
condotta professionale. Ai fini del tema della ordinanza, rileva la previsione del comma 5o dell’art. 1
che prevede che le attività di cui alla legge possano
essere esercitate tanto in forma individuale quanto
in forma «associata, societaria, cooperativa (...)». Si
tratta in realtà di circostanza sulla quale non sono
mai esistiti particolari dubbi, trattandosi piuttosto di
valutare, in caso di esercizio collettivo, l’assunzione
da parte degli enti a tal fine costituiti della natura di
imprenditore;
v) infine al novellato art. 28, comma 1o, l. fall., che
prevede la possibilità che le funzioni di curatore possano essere affidate ad una «società di professionisti».
Per vero il quadro dei dati normativi relativi all’esercizio societario delle professioni intellettuali
potrebbe essere completato con il riferimento ad altre discipline di settore, nelle quali il legislatore ha
regolamentato società (siano esse o meno definite
S.T.P.) che svolgono attività professionali,
Così l’art. 90, comma 2o, d. legis. n. 163/2006 (codice degli appalti), nel quale si definiscono società di
professionisti quelle costituite esclusivamente tra
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professionisti iscritti negli appositi albi previsti dai
vigenti ordinamenti professionali, che eseguono studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o
direzioni dei lavori, valutazioni di congruità tecnicoeconomica o studi di impatto ambientale, purché costituite nella forma di società di persone di cui ai capi
II, III e IV del titolo V del libro quinto del codice civile, ovvero nella forma di società cooperativa di cui
al capo I del titolo VI del libro quinto del codice civile. Per tali società si prevede la possibilità di espletare prestazioni relative alla progettazione preliminare,
definitiva ed esecutiva di lavori, nonché alla direzione dei lavori e agli incarichi di supporto tecnico-amministrativo alle attività del responsabile del procedimento e del dirigente competente alla formazione
del programma triennale dei lavori pubblici.
Così anche la disciplina delle società di revisione
legale, regolate dall’art. 2 d. legis. n. 39/2010. In
realtà per tali società il legislatore non indica mai
esplicitamente la natura di S.T.P., ma esse sono autorizzate all’esercizio della attività di revisore (per la
quale sono richiesti requisiti di abilitazione professionale e di onorabilità) quale che sia il tipo sociale
adottato e anche con la presenza di soci non professionisti, a condizione che questi ultimi siano in minoranza sia nell’assemblea che nell’organo di gestione della società.
Così ancora la l. n. 247/2012, recante la nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense, che
all’art. 5 conteneva una delega al governo per la disciplina della professione in forma societaria, delega i cui
criteri direttivi prevedevano, tra l’altro, l’adottabilità
di qualsiasi tipo societario, comprese le società di capitali e quelle cooperative, ma confermavano il divieto di partecipazione di soci non professionisti. Per altro il Governo non ha dato esecuzione alla delega, sicché, scaduto il relativo termine, si sono creati ulteriori dubbi circa la applicabilità all’esercizio della professione forense della l. n. 183/2011.
Così, infine, il decreto ministeriale contenente il
regolamento di attuazione del già citato art. 10 l. n.
183/2011 (d.m. 8.2.2013, n. 34), il quale, in vero,
non ha aggiunto molto al quadro legislativo precedente relativo alle società di avvocati.
Siffatta molteplicità di interventi normativi, non
sempre coordinati, ed anzi spesso del tutto incoerenti, ha come conseguenza che la società tra professionisti finisce per risultare fattispecie di difficile
identificazione, a causa della profonda diversità dei
tratti identificativi ricavabili dalle diverse previsioni
del legislatore.
Il quadro legislativo attualmente vigente è caratterizzato, infatti, da profonde differenze di disciplina
attinenti tra l’altro: a) alla possibilità di utilizzo dei
diversi tipi societari, limitato in taluni casi (ad esempio il d. legis. n. 96/2001 o il d. legis. n. 163/2006)
NGCC 2015 - Parte prima
Società
alle società di impronta personalistica o cooperativa
(col trasparente intento di assicurare con ciò la
«personalità» della prestazione), ed esteso in altri
casi (l. n. 183/2011) a qualsiasi tipo di società, anche
capitalistico; b) alla possibilità di partecipazione alla
società di soci non professionisti, talora esplicitamente esclusa (ad esempio dall’art. 21 d. legis. n. 96/
2001) talaltra consentita, anche se solo per prestazioni tecniche o per finalità di investimento (art. 10,
comma 4o, l. n. 183/2011) e a condizione che i soci
professionisti mantengano la prevalenza nelle deliberazioni o decisioni dei soci. Previsione, quest’ultima, che non sembra però garantire necessariamente
che il governo della società permanga nelle mani dei
soci professionisti; c) alla esclusività della attività
professionale, esplicitamente prevista dall’art. 17,
comma 2o, d. legis. n. 96/2001 in materia di società
tra avvocati, e dall’art. 2, comma 1o, lett. c), l. n.
248/2006 abrogativa del divieto di fornitura di servizi professionali interdisciplinari, ma non dalla l. n.
183/2011, per la quale appare difficile affermare tale
principio anche in via di interpretazione.
Ma più che i problemi di identificazione della fattispecie, ciò che appare rilevante ai fini del quesito
posto dalla ordinanza in commento è la difficoltà che
la nozione di S.T.P. possa essere ridotta a quella di
«società senza impresa» alla quale sembra voler fare
riferimento il S.C. Come ha rilevato la più recente
dottrina, infatti, quella di Società tra professionisti è
definizione che, sulla base della l. n. 183/2011, si attaglia sia a società che offrano il risultato dell’attività
professionale svolta in comune dai soci, sia a società
nelle quali operano soggetti che, indipendentemente
dalla loro qualifica professionale e dalla loro posizione sociale, di fatto organizzino l’attività dei soci professionisti e persino a società il cui oggetto sociale
preveda l’esercizio di vere e proprie attività imprenditoriali, insieme con quelle professionali.
In questi ultimi casi, infatti, la natura professionale (di tutta o parte) dell’attività svolta e dei servizi
offerti non escluderebbe l’attribuibilità alla S.T.P.
della qualifica di imprenditore. Il che sembrerebbe
escludere che a tali società possano applicarsi norme
codicistiche che, come l’art. 2956, comma 2o, abbiano come presupposto soggettivo la qualità di professionista che per definizione è incompatibile con
quella di imprenditore.
2. Condizioni di applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod.
civ. Quanto alla prescrizione presuntiva per i crediti dei professionisti intellettuali, va ricordato che si
tratta di istituto che, secondo il costante indirizzo
della giurisprudenza di legittimità, trova origine e
ragione in rapporti che si svolgono senza formalità e
dove il pagamento suole avvenire senza dilazione,
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento
come per l’appunto in caso di prestazioni professionali, a prescindere dalla emissione della relativa fattura, che assume rilievo a soli fini fiscali (da ultimo
Cass., 4.7.2012, n. 11145, infra, sez. III).
L’ordinanza rimarca, altresì che sussistono, nel
caso di specie, tutte le altre condizioni che consentono l’applicazione della prescrizione presuntiva, non
avendo il cliente contestato l’esistenza e la validità
dell’obbligazione, limitandosi a dedurre soltanto
l’intervenuta estinzione della stessa per avvenuto pagamento. Com’è noto, infatti, ai sensi dell’art. 2959
cod. civ., l’eccezione di prescrizione presuntiva non
può essere utilmente sollevata dal debitore che abbia ammesso in giudizio che il credito non sia stato
estinto, circostanza che, secondo il risalente e costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi ricorrente anche quando il debitore neghi implicitamente l’esistenza, in tutto o in
parte, del credito oggetto della domanda, ovvero
quando egli eccepisca che il credito non è mai insorto (cfr. ex plurimis Cass., 14.6.1999, n. 5910; da ultimo Cass., 2.12.2013, n. 26986).
Conseguentemente il problema si riduce, nella argomentazione della Corte, alla valutazione della equiparabilità delle società legittimate, alla luce della nuova disciplina all’esercizio di attività professionali «protette», agli esercenti di una professione intellettuale
«di antica o di recente tradizione», nei confronti dei
quali può essere ravvisato il presupposto soggettivo
per l’applicazione della prescrizione ex art. 2956, n. 2,
ovvero alla ulteriore valutazione della possibilità di
estendere tale prescrizione a qualunque soggetto esercente una attività professionale, anche «non protetta»,
ancorché costituito in forma societaria.
Tuttavia la fattispecie concreta che ha determinato l’intervento del S.C., così come ricostruibile dall’ordinanza, desta qualche perplessità.
Sotto questo profilo appare non irrilevante il fatto
che il professionista sia esente dall’obbligo di tenuta
delle scritture contabili, mentre le società in forma
commerciale (e quindi anche le S.T.P.) sono certamente tenute a quell’obbligo, dal quale può derivare
un agevole mezzo di prova dei pagamenti effettuati
dai clienti con conseguente venir meno della ratio
dell’art. 2956 n. 2 cod. civ.
Dalle premesse in fatto dell’ordinanza stessa si
apprende, infatti, che l’attività professionale svolta
dalla società resistente risale ad un periodo compreso tra il 1993 e il 31.12.1994, epoca in cui era ancora
vigente la citata disciplina della l. n. 1815/1939.
Sempre dall’ordinanza, poi, si apprende essere pacifico che la prestazione dalla quale era sorto il credito
era consistita nei «servizi di tenuta della contabilità
fiscale, amministrativa e contabile». Tale attività
rientrava quindi, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 e 2 del d. legis. 28.6.2005, n. 139 (Costitu574
Società
zione dell’ordine dei dottori commercialisti e degli
esperti contabili, a norma dell’art. 2 della legge
24.2.2005, n. 24), tra le attività riservate ai dottori
commercialisti, ragionieri commercialisti ed esperti
contabili iscritti all’albo.
Sulla scorta di tali premesse, se intendiamo correttamente, risulterebbe quindi che la società in questione avrebbe concluso con il cliente un contratto
per l’esercizio di attività professionali protette.
Ora, applicando il costante insegnamento della
giurisprudenza di legittimità, al quale la stessa Supr.
Corte fa riferimento, si deve ritenere che, nel vigore
dell’art. 2 l. n. 1815/1939, i contratti di prestazione
di opera relativi ad attività professionali «protette»,
conclusi con studi associati tanto nella forma di società di capitali (Cass., 18.4.2007, n. 9237, infra, sez.
III) quanto in quella di società di persone (Cass.,
24.10.2008, n. 25735, infra, sez. III), fossero affetti
da nullità. Sembrerebbe, quindi, potersi pervenire
per questa via, anche in mancanza di una esplicita
eccezione di parte (stante la rilevabilità d’ufficio della nullità), alla conclusione della inesistenza del credito azionato con il decreto ingiuntivo. Conclusione
questa che renderebbe del tutto irrilevante, nel caso
concreto, il profilo della applicabilità della invocata
prescrizione presuntiva.
Ciò senza contare che la prescrizione in questione
si riferisce ad un credito sorto nel periodo 19941995, e quindi prima di tutte le modifiche legislative
ricordate dalla ordinanza in materia di S.T.P.
III. I precedenti
1. L’esercizio di attività professionale in
forma societaria. Sul divieto assoluto di costituzione di società fra esercenti di professioni protette,
per contrasto sia col precetto dell’esecuzione personale della prestazione sia col disposto degli artt. 1 e
2 l. n. 1815/1939 si veda Cass., 12.3.1987, n. 2555,
in Foro it., 1988, I, 554 con nota di Mantineo, e in
Giust. civ., 1987, I, 2296, con nota di Marinelli.
Sulla nullità del contratto d’opera professionale stipulato, sotto la vigenza dell’art. 2 l. n. 1815/1939, con
uno studio associato organizzato in forma di società di
persone, Cass., 24.10.2008, n. 25735, in Giur. it.,
2009, 1934. Per l’analoga conclusione, in caso di società di capitali avente ad oggetto l’espletamento di
professioni intellettuali protette, in applicazione di un
principio risalente e consolidato v. Cass., 18.4.2007,
n. 9236, in Mass. Giur. it., 2007; conf. Cass.,
18.4.2007, n. 9237, in Foro it., 2007, I, 2400, con nota
di Ubertazzi e in Notariato, 2007, 378.
2. Condizioni di applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod.
civ. Sulla ratio della prescrizione presuntiva, e sulla
conseguente inapplicabilità alla ipotesi di rapporto
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento
professionale concluso per iscritto, si veda da ultimo
Cass., 4.7.2012, n. 11145, in Mass. Giust. civ., 2012.
Per la conferma della rilevanza della (mancata)
contestazione del credito ai fini della ammissibilità
della eccezione di prescrizione presuntiva, Cass.,
ord. 14.6.2012, n. 9763, in DeJure, che dichiara la
manifesta infondatezza del motivo fondato su tale
mancata contestazione, costituendo essa «il presupposto per l’applicazione dell’istituto»; da ultimo
Cass., 2.12.2013, n. 26986, in CED Cassazione,
2013, nella quale, per altro, si nega la applicabilità
dell’art. 2956 cod. civ. all’attività di ricerca ed editoriale svolta su incarico di terzi da un team di ricercatori, non riconducibile all’esercizio di una «professione intellettuale di antica o di recente tradizione».
Sul tema centrale dell’ordinanza, relativo alla applicabilità della prescrizione presuntiva ai crediti derivati dall’esercizio di attività professionali in forma
societaria o comunque associato non risultano precedenti in termini. La giurisprudenza di legittimità
si è, invece, pronunciata più volte sulla applicabilità
del privilegio previsto dall’art. 2751 bis cod. civ. agli
studi associati: si veda Cass., 8.9.2012, n. 18455, in
questa Rivista, 2012, I, 341 ss., con nota di Giuliano, La scure della Cassazione sul riconoscimento del
privilegio al credito delle associazioni professionali. In
quella decisione il S.C. esclude l’ammissione al fallimento con privilegio del credito vantato da una associazione professionale, in quanto la proposizione
della domanda da parte di quest’ultima lascia presumere l’esclusione della personalità del rapporto
d’opera professionale. Sul punto si veda anche
Cass., 5.3.2015, n. 4485, Guida al dir., 2015, fasc.
14, 68, ove, nell’affermare l’ammissione in via privilegiata del credito di un avvocato, la Corte afferma
che «ciò che occorre accertare ai fini del riconoscimento del privilegio di cui all’art. 2751 bis c.c., n. 2, non è
se il professionista richiedente abbia o meno organizzato la propria attività in forma associativa, ma se il
cliente abbia conferito l’incarico dal quale deriva il
credito a lui personalmente ovvero all’entità collettiva». Nel primo caso, infatti, il privilegio dovrebbe
essere riconosciuto, indipendentemente dal fatto
che lo studio sia o meno associato; nel secondo, invece, il privilegio non potrebbe essere concesso in
quanto il credito sarebbe relativo ad un «corrispettivo riferibile al lavoro del professionista solo quale voce del costo complessivo di un’attività che è essenzialmente imprenditoriale».
IV. La dottrina
1. L’esercizio di attività professionale in
forma societaria. Per un’ampia e sistematica disamina delle problematiche legate all’esercizio in comune ed in particolare in forma societaria di una
NGCC 2015 - Parte prima
Società
professione intellettuale si veda Ibba, Professioni intellettuali e società, in Aa.Vv., Le professioni intellettuali, Utet, 1987, 385 ss. Nel vigore della l. n. 1815/
1939 ritenevano preclusa la utilizzabilità di qualsiasi
tipo di società Cottino, Diritto commerciale. Le società e le altre associazioni economiche, Cedam,
1994, 67 ss., Campobasso, Diritto delle società,
Utet, 1999, 20; erano, invece, di contrario avviso
Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, nel
Trattato Rescigno, 16, Utet, 1985, 18 ss., Di Sabato,
Manuale delle società, Utet, 1995, 14 ss., Schiano
Di Pepe, Le società di professionisti. Impresa professionale e società fra professionisti, Giuffrè, 1977; Ibba, La società tra professionisti dopo l’abrogazione
dell’art. 2, l. 1815/1939, in Riv. notar., 1997, II,
1360; Pavone La Rosa, Società tra professionisti e
artisti, in Riv. soc., 1998, 93.
Per la disamina dei diversi profili dell’esercizio in
forma associata della professione legale, si vedano
Ibba-Stella Richter-Marasà-Scognamiglio-Ficari, in Aa.Vv., Le società di avvocati (Commento al
d.lgs.2 febbraio 2001, n. 96), Giappichelli, 2002. In
particolare sulla natura professionale dell’attività
svolta da queste società, e sulla riferibilità alla società dei contratti d’opera professionale e dei relativi
crediti si veda Ibba, La società fra avvocati: profili generali, in Riv. dir. civ., 2002, II, 355 ss., Montalenti, La società tra avvocati, in Società, 2001, 1169 ss.
Per la natura professionale delle società di revisione legale si esprimeva Bussoletti, Le società di revisione, Giuffrè, 1985 e, più di recente, Pavone La
Rosa, op. cit., 97 ss.
Sulla utilizzabilità di tutti i tipi e gli schemi societari, ivi comprese le società unipersonali o le forme
di s.r.l. semplificata, per la S.T.P. regolata dalla l.
183/2011 si veda Marasà, Le società tra professionisti, in Riv. soc., 2014, 429 ss.; Ibba, Le società tra
professionisti: ancora una falsa partenza, in Riv. notar., 2012, I, 1 ss.; Cian, La nuova società tra professionisti. Primi interrogativi e prime riflessioni, in
Nuove leggi civ. comm., 2013, 3 ss.; Id., Gli assetti
proprietari nelle società tra professionisti, ibidem, 343
ss.; Cagnasso, Soggetti ed oggetto della società tra
professionisti, in Il Nuovo Diritto delle Società, 2012,
n. 3, 9 ss.
Sul tema del vincolo di esclusività che circoscriva
l’oggetto sociale delle S.T.P. al solo esercizio di attività professionale v. Marasà, op. ult. cit., 446 ss.;
Rossi-Codazzi, La società tra professionisti: l’oggetto sociale, in Società, 2012, 5 ss.
2. Condizioni di applicabilità della prescrizione presuntiva ex art. 2956, n. 2, cod.
civ. Sui presupposti della prescrizione presuntiva,
v. Bianca, Diritto civile, 7, Le garanzie reali. La prescrizione, Giuffrè, 2012. Pacifica risulta anche in
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Cass., ord. 22.1.2015, n. 1184 - Commento
dottrina la possibilità che l’ammissione di mancata
estinzione della obbligazione, prevista dall’art. 2959
cod. civ. come causa di inammissibilità della eccezione di prescrizione presuntiva, derivi implicitamente dal tenore delle eccezioni svolte dal debitore,
essendo sufficiente per la validità di tale ammissione
la volontarietà tipica dell’atto giuridico: Ferrucci,
voce «Prescrizione», nel Noviss. Digesto it., XIII,
Utet, 1966, 653. Sugli aspetti della applicabilità del-
576
Società
la prescrizione presuntiva da ultimo Costantini,
voce «Prescrizioni presuntive», nel Digesto IV ed.,
Disc. priv., sez. civ., VI agg., Utet, 2011, 680 ss.; Genovese, Prescrizioni presuntive e crediti professionali
nell’elaborazione della giurisprudenza, in Giust. civ.,
2010, II, 39 ss.
Carmine Macrì
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Saggi e Aggiornamenti
LA TUTELA CIVILE DEGLI ANZIANI ALLA LUCE
DELL’ART. 25 DELLA CARTA DI NIZZA [,]
di Edoardo Bacciardi
Sommario: 1. Premessa: la «terza età» nell’età dei
diritti. – 2. La condizione giuridica degli anziani
nel dibattito dottrinale. – 3. L’art. 25 della Carta
di Nizza. – 4. La tutela degli anziani in ambito
patrimoniale... – 5. Segue: e nella sfera dei rapporti personali. – 6. Le esigenze abitative ed assistenziali nell’età senile. – 7. L’anziano e il risarcimento del danno. – 8. Conclusioni.
1. Premessa: la «terza età» nell’età dei
diritti. L’esame delle condizioni di vita degli
anziani solleva interrogativi di ordine sociale,
economico ed etico destinati ad influenzare le
scelte di politica del diritto incidenti sulla fascia
(sempre più ampia) della popolazione riconducibile sotto l’etichetta della «terza età». Si tratta,
per la verità, di una categoria eterogenea e suscettibile di ulteriori sottoclassificazioni – tradotte, sul piano terminologico, in locuzioni quali
«giovani» e «grandi anziani» ( 1 ), «grandi vecchi» ( 2 ), «quarta» ( 3 ) e «quinta» ( 4 ) età – rivelatesi necessarie per esprimere la specificità della
condizione senile come «fase sempre più lunga e
di conseguenza articolata del ciclo di vita» ( 5 ).
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
( 1 ) Cfr., rispettivamente, Mirabile, Vita attiva?:
i «giovani anziani» fra insicurezza e partecipazione:
dieci anni di ricerche Ires, Ediesse, 2009 e Tognetti
Bordogna, I grandi anziani tra definizione sociale e
salute, Franco Angeli, 2007.
( 2 ) Senin-Bartorelli-Salvioli, I grandi vecchi.
Cura, assistenza e qualità della vita, Edizioni Carocci, 2013.
( 3 ) Sansone, La quarta età: inchiesta sul secolo
dai capelli bianchi, Editori Riuniti, 2000.
( 4 ) Lazzari-Merler, La sociologia della solidarietà, Franco Angeli, 2003, 161.
( 5 ) Tognetti Bordogna, I grandi anziani tra
definizione sociale e salute, cit., 143.
NGCC 2015 - Parte seconda
Con riguardo alla composizione anagrafica
del nostro paese, gli studi più recenti mostrano una tendenza che condurrà, poco prima
del 2030, al «sorpasso numerico della popolazione ultraottantenne (i bisnonni) su quella
con meno di dieci anni (i pronipoti)» ( 6 ), con
rilevanti effetti sui settori assistenziali e previdenziali ( 7 ). Nell’odierna congiuntura di recessione economica, peraltro, l’aumento delle
aspettative di vita contribuisce ad aggravare i
disagi e l’isolamento di una significativa componente della cittadinanza, acuendo così il rischio – alla luce del contestuale declino della
natalità – di un vero e proprio conflitto tra
classi anagrafiche nella ripartizione delle risorse afferenti ai sistemi di sicurezza sociale e del
welfare ( 8 ).
A fronte delle suddette evidenze demografiche e macroeconomiche, l’evoluzione che ha
posto a fondamento di ogni aggregazione politica la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo ha
lasciato ai margini, e per molti aspetti irrisolta,
la c.d. questione anziana. Ed è proprio l’autore
di una delle opere che meglio hanno sintetizzato il processo storico di affermazione dei diritti
fondamentali dell’individuo ( 9 ) ad aver denunciato la gravità del «problema sociale» connes( 6 ) Blangiardo, L’inverno demografico, in Famiglia Cristiana, 2012, 1, 87.
( 7 ) Si rinvia, sul punto, alle riflessioni di Monacelli, La protezione sociale degli anziani in Italia tra
previdenza e assistenza: un’analisi retrospettiva in
una prospettiva di riforma, in Politica economica,
2007, 289 ss.
( 8 ) Bertocchi, L’equità generazionale: la nascita
di un dibattito, in Piancastelli-Donati (a cura di),
L’equità fra le generazioni. Un dibattito internazionale, Franco Angeli, 2003, 137.
( 9 ) Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990.
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Saggi e Aggiornamenti
so al duplice aumento del «numero dei vecchi»
e degli «anni che si vivono da vecchi» ( 10 ), confutando così la tradizionale concezione – tramandatasi da Cicerone a Mantegazza – che
esalta la senescenza quale momento sereno,
virtuoso e, per alcuni aspetti, addirittura migliore della giovinezza ( 11 ).
Dall’angolo visuale del diritto civile, la complessità sociale e giuridica della condizione
anziana rende necessario valutare, anche alla
luce delle indicazioni offerte dall’art. 25 della
Carta di Nizza, se risulti o meno enucleabile
uno status connesso alla terza età. Dopo aver
sciolto detta alternativa ermeneutica, l’attenzione verrà concentrata sui rimedi codificati
dal legislatore – e/o elaborati da giurisprudenza e dottrina – al fine di tutelare l’anziano nelle sue decisioni affettive, esistenziali ed economiche.
Dovendo circoscrivere l’indagine ai rapporti
privatistici, saranno passate in rassegna le forme di protezione degli individui in età avanzata nella sfera patrimoniale, personale e nel settore della responsabilità extracontrattuale, con
alcune specifiche riflessioni sui temi della casa
e delle cure degli anziani, soprattutto in ragione della concorrenza fra strumenti pubblicistici e privatistici finalizzati al soddisfacimento
delle esigenze abitative ed assistenziali proprie
della senescenza. Soltanto alla luce di tale panoramica, si potrà cercare di dare risposta ai
quesiti afferenti al perché di una tutela civilistica dell’anziano, nonché – e soprattutto – al come detta tutela debba essere in concreto articolata e resa operante.
( 10 ) Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, Einaudi, 1996, 24.
( 11 ) Ad avviso del Bobbio queste opere – ascrivibili ad un «vero e proprio genere letterario» – devono essere considerate «apologetiche» e «stucchevoli», al pari della moderna retorica della vecchiaia diffusa «soprattutto attraverso i messaggi televisivi, con
una forma larvata e peraltro efficacissima di captatio
benevolentiae verso eventuali nuovi consumatori. In
questi messaggi non il vecchio, ma l’anziano, termine neutrale, appare ben portante, sorridente, felice
di essere al mondo, perché può finalmente godere di
un tonico particolarmente corroborante o di una vacanza particolarmente attraente»; cfr. Bobbio, op.
cit., 24 s.
294
2. La condizione giuridica degli anziani nel dibattito dottrinale. La questione
della configurabilità, nel nostro ordinamento,
di una categoria giuridica degli anziani – e la
conseguente attribuzione del relativo status alle
persone fisiche ivi riconducibili – ha suscitato
un acceso dibattito dottrinale. Il tradizionale
«agnosticismo dei codici per i problemi della
vita materiale» ( 12 ), in particolare, rende arduo
stabilire se, ed in quale misura, il progressivo
decadimento delle forze fisiche e mentali che
accompagna l’invecchiamento legittimi l’edificazione di uno statuto giuridico speciale e derogatorio rispetto al diritto comune. Ed infatti,
in un contesto normativo che declina l’età in
un’accezione esclusivamente anagrafica – affidandole il compito di discernere i soggetti legittimati a partecipare al traffico giuridico da
quelli che ne restano pretermessi ( 13 ) – le conseguenze biologiche del trascorrere degli anni
restano inevitabilmente sullo sfondo, così come la loro incidenza sulle abitudini di vita dei
consociati.
Sulla base di un primo orientamento, il silenzio del legislatore non osta alla riconducibilità
della senescenza nell’alveo di quelle condizioni
di fatto che legittimano l’attribuzione di c.d.
«diritti di categoria», concepiti in ragione della
circostanza che le situazioni in cui gli individui
si trovano ad operare «non solo uguali per tutti, di modo che gli interessi, i bisogni, e perciò i
diritti, delle persone variano in base al concreto determinarsi di ciascuno nella realtà economica e sociale». Secondo tale impostazione, i
diritti degli anziani si troverebbero nella fase
«del movimento di opinione, della elaborazio-
( 12 ) Mengoni, La tutela giuridica della vita materiale nelle varie età dell’uomo, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 1982, 1118, ove si evidenzia come le codificazioni ottocentesche, nonché «le loro propaggini»
del 1900, non si preoccupino «del nostro corpo e
dei bisogni della vita materiale se non allo scopo di
attivare, secondo un certo ordine, le solidarietà familiari in soccorso dei soggetti incapaci di provvedere a stessi». Tale disinteresse – a parere dell’a. – affonda le sue radici «nell’antropologia dei codici liberali», ove l’età opera solo come «criterio di capacità negoziale ai fini della circolazione dei beni»
(1119).
( 13 ) Cfr. Mengoni, op. loc. citt.
NGCC 2015 - Parte seconda
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Tutela degli anziani
ne ideologica e culturale cui non corrisponde
ancora il riconoscimento da parte dell’ordinamento» ( 14 ).
Sull’opposto versante interpretativo, la scelta di non definire lo status di persona in età
senile viene ritenuta «del tutto condivisibile»,
in quanto l’introduzione di una normativa
«particolare e specifica “per gli anziani” finirebbe probabilmente per creare nuove barriere di emarginazione» ( 15 ). La costruzione di
uno statuto giuridico della terza età – è stato
altresì osservato – assumerebbe connotati ingiustificatamente discriminatori, nella misura
in cui le «preclusioni, decadenze e divieti in
base a determinate età» opererebbero «a prescindere dalle reali condizioni psico-fisiche
della persona» ( 16 ). In questa prospettiva, la
«inesistenza di una categoria protetta di persone anziane» ( 17 ) diviene un corollario del
principio per cui la senescenza, in quanto
«espressione di un aspetto fisiologico della vita umana» ( 18 ), non può determinare – in assenza di ulteriori e diverse circostanze di natura medica, economica o sociale – un’alterazio( 14 ) Bessone-Ferrando, voce «Persona fisica
(diritto privato)», in Enc. del dir., XXXIII, Giuffrè,
1983, 214. Nella medesima prospettiva cfr. Saetta,
La condizione degli anziani alla luce dei principi costituzionali, in Riv. dir. lav., 1978, 162 ss., il quale riscontra «l’esistenza di un insieme di soggetti, valutabili in circa un decimo della popolazione, che pur
non potendo essere considerati vecchi, nella accezione tradizionale, presentano tuttavia esigenze esistenziali comuni, nonché concrete situazioni di bisogno non necessariamente materiali, alle quali non è
stata offerta da parte della società civile una soddisfacente risposta» (163).
( 15 ) Dogliotti, I diritti degli anziani, in Riv.
trim. dir. e proc. civ., 1987, 714. In tal senso v. anche
P. Perlingieri, Diritti della persona anziana, diritto
civile e stato sociale, in Stanzione (a cura di), Anziani e tutele giuridiche, Edizioni Scientifiche Italiane, 1991, 96-99.
( 16 ) C.M. Bianca, Senectus ipsa morbus?, in
Aa.Vv., Studi in onore di Pietro Rescigno, II, Giuffrè, 1998, 98.
( 17 ) Stanzione, voce «Anziani (assistenza agli)»,
in Enc. del dir., Aggiornamento III, Giuffrè, 1999
118; Id., Le età dell’uomo e la tutela della persona:
gli anziani, in Riv. dir. civ., 1989, I, 447 ss.
( 18 ) Stanzione, voce «Anziani (assistenza agli)»,
cit., 119.
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ne della soggettività e/o capacità facente capo
alla persona fisica ( 19 ).
Secondo un ulteriore approccio ermeneutico, l’impossibilità di ricavare dal diritto la nozione di anziano – stante la «ghettizzazione» e
gli «ingiustificati privilegi» ( 20 ) alternativamente discendenti dalla titolarità di un tale status –
non esime l’interprete dall’enucleare un concetto di senilità «che nasce e si definisce nel sociale» ma – al contempo – assurge alla sfera del
giuridicamente rilevante «in virtù degli artt. 2 e
3 Cost., alla luce dei quali (...) è funzione primaria dell’ordinamento la tutela dell’uomo durante l’intero arco della sua vita» ( 21 ). La nozione – nonché, implicitamente, la condizione
– di anziano divengono così un criterio «sociale ma giuridificato» ( 22 ) e, in quanto tale, idoneo a indirizzare la valutazione giudiziale in
questioni delicate come la liquidazione del
danno non patrimoniale, la «puntualizzazione»
del contenuto dell’obbligo di correttezza ex
art. 1337 cod. civ. o, ancora, la determinazione
del termine di proroga per il rilascio dell’immobile locato ad uso abitativo.
La proposta di ricondurre il concetto sociale
di anziano entro il bagaglio di strumenti che
concorrono alla formazione del convincimento
del giudice si rivela idonea a coniugare le due
opposte tesi sulla (ir)rilevanza giuridica della
condizione senile, in quanto consente, da un
lato, di modellare il contenuto della decisione
sul tipo (e grado) di incidenza che l’età abbia
concretamente assunto nella controversia devoluta all’Autorità Giudiziaria, lasciando – da
( 19 ) Sul punto, è stato evidenziato: «non è questione (...) di elaborare uno statuto degli anziani; si
tratta piuttosto di individuare adeguate soluzioni
per la protezione di soggetti non in quanto in età
avanzata, ma perché in una situazione di particolare
debolezza. Non una tutela dell’anziano in sé, dunque, ma una tutela dell’anziano effettivamente disabile»; cfr. Lisella, Rilevanza della «condizione di
anziano» nell’ordinamento giuridico, in Stanzione
(a cura di), Anziani e tutele giuridiche, cit., 74.
( 20 ) D’Arrigo-Parrinello, L’anziano nel sistema e nell’interpretazione giuridica, in Tommasini
(a cura di), Soggetti e ordinamento giuridico. Segmenti del corso di diritto civile, Giappichelli, 2000,
124.
( 21 ) Eid., op. cit., 128.
( 22 ) Eid., op. cit., 129.
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un altro lato – inalterata la conclusione per cui
la senescenza non può dare luogo, di per sé, ad
alcuno status normativamente rilevante.
3. L’art. 25 della Carta di Nizza. L’impossibilità di forgiare una categoria giuridica
della terza età su basi esclusivamente demografiche trova conferma sia nel tessuto costituzionale – ove la persona anziana riceve tutela soltanto sul piano assistenziale e socio-sanitario ( 23 ) – sia nella formulazione dell’art. 25 della Carta di Nizza, in forza del quale «l’Unione
riconosce e rispetta il diritto degli anziani di
condurre una vita dignitosa e indipendente e
di partecipare alla vita sociale e culturale».
Dalla collocazione della norma nel capo afferente alla «uguaglianza», in particolare, si evince la volontà delle istituzioni comunitarie di
escludere la legittimità di trattamenti giuridici
differenziati in ragione del mero dato anagrafico ( 24 ).
Nel quadro di valori accolto dai redattori
della Carta di Nizza – e divenuto giuridicamente vincolante a seguito del Trattato di Lisbona – l’invecchiamento biologico non legittima, pertanto, l’attribuzione di uno statuto giuridico speciale, potendo semmai costituire –
laddove accompagnato da ulteriori e specifiche
situazioni di debolezza – un ostacolo che impedisce il pieno sviluppo della persona umana
e/o la sua effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale ( 25 ). Il soggetto anzia( 23 ) Cfr., ex plurimis, Lisella, op. cit., 72 s., il
quale valorizza, oltre all’art. 38, comma 2o, Cost., il
disposto dell’art. 32 Cost. e dell’art. 2 l. 23.12.1978,
n. 833, ove si menziona, tra gli obiettivi del Servizio
Sanitario Nazionale, «la tutela della salute degli anziani, anche al fine di prevenire e di rimuovere le
condizioni che possono concorrere alla loro emarginazione».
( 24 ) È lo stesso art. 21 della Carta a stigmatizzare
ogni disparità di trattamento fondata sulla «età»,
stante l’inclusione di tale variabile nei divieti di discriminazione posti dal precetto di fonte sovranazionale.
( 25 ) Sulle ricadute «civilistiche» dell’art. 25 della
Carta scrive, recentemente, Falletti, voce «Carta
di Nizza (Carta europea dei diritti fondamentali)»,
nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., Aggiornamento, Utet, 2009, 26: «sotto il profilo privatistico,
questa disposizione assume importanza qualora letta
296
no – è stato all’uopo osservato – «non diviene
(...) titolare di diritti speciali, ma solamente beneficia di una particolare tutela, conseguenza
di una possibile compressione della propria
sfera di autodeterminazione, di modo che diviene compito primario del legislatore rimuovere ogni ostacolo al pieno svolgimento della
sua vita in società» ( 26 ). La stessa Corte di cassazione, nel qualificare l’art. 25 come «norma
precettiva e non solo programmatica e orientativa per i giudici nazionali», ha valorizzato l’ubicazione topografica e concettuale della disposizione «sotto il valore della uguaglianza», così da
rendere «i diritti degli anziani (...) fondamentali
ed inviolabili» ( 27 ).
Per quanto attiene al coordinamento sistematico tra gli artt. 21 e 25 della Carta, le due
norme sembrano rispettivamente riconducibili
entro la declinazione formale e sostanziale dell’uguaglianza. Mentre, infatti, il principio di
non discriminazione sancisce il divieto di trattamenti differenziati in ragione dell’età, la disposizione dedicata agli anziani, in quanto volta ad assicurare «una garanzia non solo formale, ma anche sostanziale dell’uguaglianza» ( 28 ),
prescrive al legislatore di assicurare a tutti soggetti in età avanzata una vita indipendente e dignitosa, nonché di favorirne l’inserimento nel
contesto sociale e culturale. Entro questo orizzonte interpretativo, i valori di dignità, indipendenza e partecipazione richiamano l’attenzione di tutti gli operatori del diritto su una
condizione anagrafica che, ove accompagnata
in combinato disposto con le disposizioni della Carta in tutela del principio di autodeterminazione e di
integrità fisica, considerate la particolare fragilità,
sensibilità e spesso incapacità dell’anziano di manifestare la propria volontà liberamente da impedimenti psichici ovvero fisici conseguenti alla senescenza».
( 26 ) Viglione, L’Europa del sociale e le nuove sfide normative: la situazione europea sull’affido dell’anziano e dell’adulto in difficoltà, in Vincenzoni
(a cura di), Anziani da slegare. Invecchiare a casa propria. Le garanzie dell’affido e della domiciliarità,
Maggioli Editore, 2011, 33.
( 27 ) Cass., 7.2.2011, n. 2945, in www.dejuregiuffre.it.
( 28 ) Polacchini, Il principio di eguaglianza, in
Mezzetti (a cura di), Diritti e doveri, Giappichelli,
2013, 264.
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Tutela degli anziani
da ulteriori circostanze – quali la malattia, l’indigenza o, semplicemente, la solitudine – rischia di compromettere l’effettivo godimento
dei diritti inviolabili della persona nell’ultima
fase della sua esistenza.
Con riguardo alla dignità, la volontà delle
istituzioni europee di ribadire tale principio –
cui è dedicato l’intero capo I della Carta – nell’ambito della tutela degli anziani esprime il ripudio di ogni concezione che faccia discendere
dalla senilità – e/o dai problemi psico-fisici ad
essa connessi – una capitis deminutio che si
identifica, negli orientamenti più estremi, con
la negazione della stessa soggettività giuridica.
Il riferimento è alla corrente di pensiero sviluppatasi nella bioetica nord-americana ( 29 ) e imperniata sulla distinzione tra persone in senso
stretto – costituite dagli agenti morali dotati di
autocoscienza e libertà del volere – e persone
in senso sociale, sprovviste dei predetti connotati e dunque frutto di una mera «creazione di
comunità particolari» ( 30 ). Alcuni degli esempi
menzionati dal principale fautore di tale approccio teorico – quali la demenza senile ed il
morbo di Alzheimer – evidenziano uno stretto
legame tra la condizione anziana e la (possibile) perdita della qualità di persona in senso
stretto ( 31 ).
Contro la suddetta impostazione – ritenuta
espressione di un «riduzionismo biologico (...)
scioccante» ( 32 ) – è stato obiettato che «si è
persona in virtù della natura razionale e, non
necessariamente, in virtù del possesso e dell’esercizio di certe proprietà e funzioni o della
possibilità effettiva di compiere determinate
( 29 ) Engelhardt Jr., Manuale di bioetica, trad.
it. di Stefano Rini, Il Saggiatore, 1999, 155 ss.
( 30 ) Id., op. cit., 173. In tale seconda categoria
rientrerebbero, oltre ai bambini ed ai soggetti gravemente ritardati e/o menomati, gli «individui che non
sono più persone, ma che lo sono state in passato e
restano ancora capaci di qualche interazione minimale».
( 31 ) Id., op. cit., 169.
( 32 ) Bauzon, Bioetica e persona, in Girolami (a
cura di), L’educazione alla bioetica in Europa, SEEd
Edizioni Scientifiche, 2008, 41, la quale ravvisa in
tale impostazione «uno scivolamento dell’essenza
verso l’esistenza, o, per meglio dire, dell’oblio della
densità ontologica della persona biogiuridica».
NGCC 2015 - Parte seconda
azioni» ( 33 ); conseguentemente, i «moribondi,
anziani dementi, handicappati, comatosi, nonostante la compromissione delle condizioni
fisico-psichiche, manifestano ancora la permanenza di quelle caratteristiche empirico-biologiche che le rendono riconoscibili come persone in atto» ( 34 ).
Orbene, il testo dell’art. 25 della Carta dei
diritti fondamentali recepisce le critiche mosse
all’idea engelhardtiana di persona (anziana),
proclamando la dignità di ogni individuo a
prescindere dal grado di decadimento fisico
e/o intellettuale che eventualmente lo affligga
in ragione dell’età anagrafica. Il valore della dignità costituisce, a sua volta, la base concettuale su cui si innestano gli altri diritti richiamati
dalla norma, ossia l’indipendenza – intesa quale conservazione di un minimo livello di autosufficienza economica e sociale – e la partecipazione, giacché «un’esistenza dignitosa costituisce il presupposto di una partecipazione –
non marginale ma – paritaria alla vita sociale e
alla sua dimensione culturale» ( 35 ).
Per quanto attiene, in particolare, all’inserimento sociale dei soggetti in età avanzata, è
stata rimarcata l’esigenza di «creare un’opinione diffusa a favore degli anziani, così che questi
possano partecipare in modo paritario alla costruzione delle nostre comunità di vita, aiutati
nelle loro debolezze, ma anche messi in grado
di contribuire allo sviluppo condiviso» ( 36 ).
Soltanto la valorizzazione della capacità di partecipazione dell’anziano – nonché delle sue
possibilità di re-inserimento a seguito un even-
( 33 ) Zeppegno, Bioetica. Ragione e fede, Effatà
Editrice, 2007, 112. «Tale procedimento logico –
prosegue l’a. – cancella le ipotizzate suddivisioni engelhardtiane tra persona in senso stretto (...) e persona in senso sociale (...). Si è persona dal momento
in cui si forma la sostanza. Si perdono le caratteristiche personali solo quando la stessa sostanza si dissolve».
( 34 ) Id., op. cit., 112-113.
( 35 ) Marella, Il fondamento sociale della dignità
umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, in Aa.Vv., Studi in onore di Nicolò
Lipari, I, Giuffrè, 2008, 1619.
( 36 ) Trabucchi, Introduzione a Cristini-Porro-Cesa Bianchi (a cura di), Le capacità di recupero
dell’anziano, Franco Angeli, 2011, 13 ss.
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tuale periodo di difficoltà – può favorire l’aumento degli individui che «anche da vecchi
esercitano la capacità di fare, per contribuire
sul piano economico, organizzativo ed affettivo
alla vita comune, oltre che alla loro personale
soddisfazione» ( 37 ).
Le scelte di politica del diritto condensate
nell’art. 25 della Carta di Nizza hanno trovato
diffusione e sviluppo durante l’anno europeo
dell’invecchiamento attivo e della solidarietà
tra le generazioni (2012), istituito con la decisione del Parlamento Europeo e del Consiglio
del 14 settembre 2011. L’obiettivo di fare dell’Europa una «società per tutte le età» (art. 1),
in particolare, è stato perseguito attraverso una
serie di campagne informative e promozionali,
conferenze, manifestazioni, scambi di informazioni ed altre iniziative dedicate ai temi della
dignità della condizione anziana e della solidarietà tra generazioni.
In definitiva, all’agnosticismo codicistico denunciato da Luigi Mengoni si contrappone,
nella dimensione europea, una «inattesa» apertura «verso la realtà della condizione umana»,
tesa a conferire dignità giuridica a figure – quali minori, portatori di handicap e, appunto, anziani – «a lungo appannate dal prevalere di
un’idea astratta di soggetto giuridico, per ciò
indifferente alla realtà delle condizioni materiali» ( 38 ).
4. La tutela degli anziani in ambito patrimoniale... Nella sfera dei rapporti patrimoniali, la tutela delle persone in età avanzata
si muove lungo due linee direttrici, rispettivamente afferenti alla gestione dei cespiti a queste facenti capo ed alla (corretta) formazione
del consenso nelle attività giuridiche suscettibili, anche se compiute in via episodica, di arrecare pregiudizio all’anziano.
Con riguardo al primo profilo, sotto l’impero del codice del 1865 la dottrina aveva collocato la «grande vecchiaia» ( 39 ) tra le fattispecie
in cui l’infermità del soggetto non risulta così
( 37 ) Id., op. loc. citt.
( 38 ) Così Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e
non diritto, Feltrinelli, 2006, 25.
( 39 ) Cattaneo-Borda, Il codice civile italiano
annotato, I, Camilla e Bertolero, 1873, 776.
298
grave da giustificare la pronuncia di interdizione, dovendosi disporre l’inabilitazione dell’anziano, quale forma di tutela contro il «pericolo
che [questi] abusi nelle obbligazioni, contratti
ed atti del suo stato» ( 40 ).
La rigidità dell’alternativa interdizione/inabilitazione – recepita dal legislatore del 1942 –
ha suscitato accese critiche, connesse sia alla
mortificazione sociale inevitabilmente sottesa
ai due istituti incapacitanti, sia alla «beffa, ancor più amara» per cui tali misure vengono
spesso strumentalizzate per la tutela di «interessi patrimoniali di terzi e in particolare di coloro che aspirano a godere l’eredità dell’anziano» ( 41 ).
Il presunto parallelismo tra età (avanzata) e
incapacità (legale di agire) è stato definitivamente superato con l’entrata in vigore della
legge sull’amministratore di sostegno, ritenuta
un utile «supporto» per le difficoltà materiali
ed i problemi psico-fisici propri della terza
età ( 42 ); se, infatti, per un verso deve respingersi la massima condensata nell’espressione senectus ipsa est morbum – con la conclusione
che «l’età da sola (...) non giustifica l’intervento di sostegno» ( 43 ) – per un altro verso è indubbio che il decadimento fisico e cognitivo
connesso all’invecchiamento possa, verosimilmente e statisticamente, rendere necessario un
ausilio per l’anziano che si trovi, anche solo
temporaneamente, in stato di difficoltà.
Una rassegna delle pronunce emesse a seguito della l. 9.1.2004, n. 6 mostra un utilizzo «disinvolto» della nuova misura, talvolta impiega( 40 ) Cattaneo-Borga, op. loc. citt.
( 41 ) Bianca, op. cit., 96.
( 42 ) Ciocia, Amministrazione di sostegno: un supporto per gli anziani, in Giur. it., 2005, 1626 ss.
( 43 ) Bonilini, Persone in età avanzata, e amministrazione di sostegno, in Fam., pers. e succ., 2005, 7
ss. Anche la giurisprudenza di merito ha evidenziato
che «l’amministrazione di sostegno non può essere
applicata a coloro che, pur essendo affetti da menomazione fisica o da altre limitazioni a causa dell’età,
mantengano integre le loro funzioni cognitive e siano,
pertanto, in grado di organizzare la propria quotidianità conferendo in piena autonomia a persone di loro
fiducia la gestione dei propri interessi»; cfr. Trib.
Roma, 26.5.2008, in Cendon-Rossi (a cura di),
L’amministrazione di sostegno. Motivi ispiratori e applicazioni pratiche, Utet, 2009, 475 s.
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Tutela degli anziani
ta per far fronte a situazioni di difficoltà fisica
trascurabili, con il conseguente disagio dello
stesso beneficiario ( 44 ). Non sono mancate,
inoltre, decisioni in cui l’istituto è stato utilizzato per assecondare scelte esistenziali e religiose – quali il rifiuto di trasfusioni di sangue
da parte di un testimone di Geova ( 45 ) – ovvero
per sostenere le ragioni dell’anziano in situazioni di conflitto con terzi ( 46 ).
A distanza di oltre un decennio dalla novella
del 2004, l’impatto della legge sull’amministrazione di sostegno può ritenersi complessivamente positivo. Oltre ad aver agevolato la conservazione e gestione del patrimonio di molti
anziani (in difficoltà), infatti, il nuovo istituto
ha consentito – in ragione della sua elasticità –
di dare rilievo ad una serie situazioni e rapporti
che, soprattutto nell’età senile, si rivelano essenziali per la cura della persona. Si segnala, a
titolo esemplificativo, una decisione del 2011
che ha assecondato la volontà della beneficiaria
– affetta da gravi patologie e ricoverata presso
una casa di assistenza e cura – di trascorrere
una parte del proprio tempo con il cane di sua
proprietà, «attesa la necessità di garantire il rispetto del (...) rapporto [con l’animale] anche
sotto il profilo riguardante la dignità della persona» ( 47 ).
Venendo al secondo aspetto connesso alla
tutela del patrimonio dell’anziano – ed afferente, come anticipato, alle attività negoziali da
questi compiute in via episodica – una siffatta
protezione può rendersi necessaria, in via complementare, non solo là dove venga adottata la
misura dell’amministrazione di sostegno (stante la piena capacità del beneficiario per gli atti
non contemplati nel decreto di nomina) ma an-
( 44 ) Il rilievo è di Bonilini, op. cit., 9, in relazione a Trib. Modena, 10.10.2005.
( 45 ) Trib. Modena, 16.9.2008, in Dir. fam. e
pers., 2009, 261.
( 46 ) Trib. Varese, 18.6.2010, ivi, 2011, 1254, il
quale ha nominato un amministratore di sostegno
per tutelare un condomino che, sebbene «nel pieno
possesso delle facoltà mentali e dotato anche di grande pazienza ed equilibrio», non riusciva ad ottenere
dai propri vicini la collaborazione per eliminare gli
impedimenti architettonici presenti nell’immobile.
( 47 ) Trib. Varese, 7.12.2011, in questa Rivista,
2012, I, 377 ss., con nota di Cendon-Rossi.
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che nell’ipotesi in cui il Giudice, contestualmente alla pronuncia di interdizione e/o inabilitazione, stabilisca – in ossequio alla lettera del
novellato art. 417 cod. civ. – che taluni atti di
ordinaria amministrazione possano essere
compiuti dall’interdetto senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore, ovvero che taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione
possano essere compiuti dall’inabilitato senza
l’assistenza del curatore.
Il problema del consenso dell’anziano in ambito negoziale muove dalla constatazione che
«la posizione di debolezza sociale e psicologica
associata all’età [può] sfociare in vizi del consenso prestato a stipule contrattuali, per azioni
circonventorie da parte dei partners negoziali o
anche per una non corretta comprensione delle
conseguenze dell’impegno assunto» ( 48 ).
Nelle norme dedicate alla invalidità del contratto, come noto, il dato anagrafico viene in rilievo soltanto nell’art. 1435 cod. civ., il cui riferimento all’età nella valutazione dell’impatto
della violenza morale è considerato «uno dei
pochi casi in cui il nostro codice prevede una
norma a tutela degli anziani» ( 49 ), in quanto –
si afferma – «una violenza che non dovrebbe
preoccupare un soggetto di media età, potrebbe suscitare più ampio timore nell’anziano» ( 50 ). Parte della dottrina ha contestato la
fondatezza di tale assunto, evidenziando che la
menzione dell’età e del sesso non sottende affatto la regola di esperienza per cui «gli anziani
e le donne sono più impressionabili dei giovani
e degli uomini» ( 51 ). La ratio della disposizione
dovrebbe piuttosto ascriversi alla volontà legislativa di «relativizzare» i criteri tramite cui valutare il requisito della gravità della minaccia,
«fermo restando che un pensionato potrebbe
avere meno da temere di un impiegato di servi( 48 ) Ianni, Il consenso dell’anziano in ambito negoziale, in Giur. merito, 2011, 2965 ss.
( 49 ) Giannotte, La violenza, in Fasano (a cura
di), I vizi del consenso, Giappichelli, 2013, 131.
( 50 ) Dogliotti, op. cit., 712.
( 51 ) E. Minervini, Esiste la categoria giuridica degli anziani?, in Giur. it., 1989, 319, ad avviso del
quale, ove la norma venisse interpretata in tal senso,
essa risulterebbe, «con ogni probabilità, costituzionalmente illegittima, per contrasto con l’art. 3, 1o
comma, della Costituzione».
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zio, un anziano professionista meno di un giovane alle prime armi, e così via» ( 52 ). La tesi secondo cui la condizione anziana non amplifica,
di per sé, la percezione soggettiva di ogni violenza si rivela preferibile, in quanto consente al
giudice di ponderare, assieme all’età, tutte le
variabili indicate dall’art. 1435 cod. civ., calando tale valutazione sinergica nella vicenda sottoposta alla sua cognizione e tenendo conto sia
del tipo di male minacciato, sia dei mezzi concretamente prospettati per la sua realizzazione.
Altra norma potenzialmente invocabile dall’anziano che voglia rendere inefficace l’attività
giuridica compiuta è l’art. 428 cod. civ., dettato in materia di incapacità naturale e ritenuto
applicabile a fronte del risconto di disturbi
quali la «demenza senile o altre malattie legate
all’insorgere dell’età» ( 53 ). In senso contrario,
peraltro, è stato autorevolmente osservato che
restano esclusi dallo spettro applicativo dell’art. 428 cod. civ. «gli stati di indebolimento
delle facoltà sensoriali o di giudizio dovuti all’età» ( 54 ), non potendo essi costituire indice
sintomatico dell’incapacità di intendere e di
volere.
Posta dunque l’assenza di una disposizione
di carattere generale che tuteli, de iure condito,
l’agire negoziale delle persone in età avanzata,
parte della dottrina ha ipotizzato – quale alternativa all’applicazione generalizzata dell’amministrazione di sostegno – l’introduzione di una
«presunzione di “debolezza del volere”» di coloro che abbiano «superato il settantacinquesimo anno di età» ( 55 ).
Il tentativo di presidiare l’attività contrattuale dei cc.dd. grandi vecchi dietro lo schermo di
( 52 ) E. Minervini, op. loc. citt.
( 53 ) Ianni, Il consenso dell’anziano in ambito negoziale, cit.
( 54 ) Mengoni, op. cit., 1134.
( 55 ) S. Patti, Senilità e autonomia negoziale della
persona, in Fam., pers. e succ., 2009, 263. A prescindere dalla soluzione che si intenda privilegiare – osserva l’autore – «appare evidente la necessità di una
specifica normativa di tutela per le persone molto
anziane che a causa della loro “debolezza” possono
porre in essere negozi svantaggiosi, soprattutto se
messi di fronte a complesse fattispecie contrattuali
delle quali in genere non sono ormai in grado di valutare tutti gli effetti e i rischi» (263).
300
una presunzione di debolezza cela, tuttavia, il
rischio di scoraggiare gli operatori economici
dall’intraprendere trattative e/o concludere affari con i soggetti «protetti», stante la possibile,
successiva, impugnazione del negozio in ragione di un’inferiorità cognitiva di cui il contraente (non anziano) si troverebbe onerato di dimostrare l’assenza. In tale prospettiva, la codificazione di una presunzione di «sfiducia» nelle capacità intellettive dei soggetti in età avanzata potrebbe comportare, quale costo macroeconomico e sociale della tutela apprestata,
l’estromissione dai traffici giuridici di una considerevole fascia della popolazione.
Onde evitare una ghettizzazione negoziale
degli anziani (e la conseguente violazione dell’art. 25 dalla Carta di Nizza) – occorre valorizzare i numerosi rimedi introdotti dal legislatore
a tutela del contraente debole – vista la tendenziale sussistenza, in capo all’anziano, dei requisiti di consumatore – rimettendo all’apprezzamento ed alla sensibilità del giudice la valutazione circa l’incidenza concretamente assunta
dall’età avanzata nelle fattispecie in cui essa
venga addotta quale motivo di impugnazione
del contratto.
5. Segue: e nella sfera dei rapporti personali. Volgendo lo sguardo dalla dimensione
patrimoniale a quella affettiva, vengono in considerazione sia l’istituto matrimoniale – statisticamente sempre più frequente nella fase della
senescenza – sia i rapporti dell’anziano con i
propri parenti e, segnatamente, con figli e nipoti.
Per quanto attiene al matrimonio, gli «aspetti del tutto peculiari» legati all’età avanzata ed
ai «connessi processi degenerativi» renderebbero, secondo una parte della dottrina, «il più
delle volte» applicabili le fattispecie di invalidità previste dagli artt. 85, 119 e 120 cod.
civ. ( 56 ). La trasposizione delle questioni afferenti alla formazione del consenso contrattuale
dell’anziano sul terreno del diritto di famiglia,
( 56 ) Scalera, L’annullamento del matrimonio
contratto dall’anziano, in Giur. merito, 2011, 2982;
Barbieri-Luzzago, L’affettività dell’anziano nell’ipotesi di circonvenzione di incapace: considerazioni
tecnico-valutative, in Riv. it. med. leg., 2006, 557.
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Tutela degli anziani
tuttavia, deve fare i conti con la qualificazione
dell’unione coniugale in termini di atto personalissimo e dotato di copertura costituzionale
ai sensi degli artt. 2 e 29 Cost.
Ed è proprio facendo leva sull’estraneità del
matrimonio alla sfera dei rapporti patrimoniali
che la giurisprudenza ha ritenuto che malattie
quali la sindrome di Down ( 57 ) – ovvero altri
disturbi che legittimano la nomina di un amministratore di sostegno ( 58 ) – non possano inficiare la validità dell’atto. Deve dunque escludersi, a fortiori, che il decadimento fisico e/o
psicologico connesso all’invecchiamento autorizzi un controllo «rafforzato» sulla genuinità
del consenso matrimoniale prestato in età
avanzata, né tanto meno dia luogo ad una presunzione di incapacità naturale del nubendo.
La particolare attenzione riservata alla genuinità del consenso dell’anziano in ambito
matrimoniale cela, in realtà, il timore che le
nozze costituiscano l’esito di un raggiro perpetrato nei suoi confronti per finalità estranee all’affectio maritalis e connesse, tendenzialmente,
ad interessi economici della sposa (o dello sposo) più giovane. Il crescente numero di matrimoni fra anziani e badanti ha amplificato la risonanza sociale della predetta questione, ingenerando un vero e proprio allarme – intriso,
talvolta, di sfumature penalistiche ( 59 ) – fondato sulla preoccupazione che un numero crescente di persone in età avanzata, «oppressi
dalla solitudine» e «spesso poco o punto autosufficienti, siano circonvenibili dalle badanti
(in specie se giovani e avvenenti)» ( 60 ).
Lo stereotipo dell’anziano sprovveduto e
raggirato da una ragazza interessata a condurre
una vita agiata, ad ottenere la cittadinanza italiana e/o ad assicurarsi una quota di eredità del
marito ( 61 ), tuttavia, non può giustificare un
( 57 ) Trib. Varese, 6.10.2009, in Giur. merito,
2010, 1004 s., con nota di D’Angelo.
( 58 ) Trib. Varese, 9.7.2012, in Dir. fam. e pers.,
2013, 161.
( 59 ) Cfr., sul punto, l’articolo comparso sul Corriere della Sera del 26.4.2008 dal titolo «Il pm blocca
nozze tra anziano e badante. Ma in Italia c’è un vero
boom».
( 60 ) Cipolla, L’anziano vittima dei reati patrimoniali, in Giur. merito, 2011, 3019 ss.
( 61 ) A testimonianza del fatto che la questione è
NGCC 2015 - Parte seconda
sindacato sulle scelte affettive di soggetti che,
ove non sottoposti alla misura dell’interdizione
giudiziale, conservano piena ed intatta la propria libertà matrimoniale. Del resto, i matrimoni di convenienza – reciproca ovvero unilaterale – vengono quotidianamente celebrati anche
fra coetanei, senza che ciò legittimi l’introduzione di un vaglio in ordine all’effettiva composizione di quel mix di sentimenti e interessi
che conduce gli sposi all’altare.
Per quanto concerne i rapporti personali
dell’anziano con i figli, il dovere di rispetto verso i genitori, sancito dall’art. 315 cod. civ., resta privo di un referente costituzionale e (soprattutto) di conseguenze atte a sanzionarne la
violazione. Parte della dottrina ha rintracciato,
in tale prospettiva, uno «spunto più consistente» ( 62 ) nella legge sugli ordini di protezione in
tema di abusi familiari, ritenuta idonea a conferire rilievo al «pregiudizio morale che può essere arrecato con varie condotte che non integrino necessariamente fattispecie criminose anche da un figlio adulto e convivente nei confronti di un genitore anziano» ( 63 ).
Oltre a non assolvere ai propri doveri morali
e giuridici nei confronti dei genitori, il figlio
maggiorenne potrebbe «abusare» del diritto al
mantenimento previsto in suo favore sino al
raggiungimento dell’autosufficienza economica. Ed infatti, come noto, il dovere di mantenimento cessa soltanto nel momento in cui i figli
acquisiscono una formazione culturale e scolastica che li garantisca un’adeguata capacità lavorativa, potendo estinguersi anticipatamente
soltanto laddove essi «versino in colpa per non
essersi messi in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante
l’esercizio di un’idonea attività lavorativa» ( 64 ).
Al fine di agevolare la prova dell’indipendenza
economica del figlio, la giurisprudenza ha ricotutt’altro che nuova cfr. le riflessioni di Venditti,
Del matrimonio quale atto giuridico dannoso nel delitto di circonvenzione di persone incapaci, in Giust.
pen., 1956, 773, relative al matrimonio fra un’apolide cecoslovacca e un ultranovantenne.
( 62 ) Longo, I diritti dei genitori anziani nei confronti dei figli, in Fam. e dir., 2003, 519.
( 63 ) Id., op. loc. citt.
( 64 ) Cass., 14.4.2010, n. 8954, in Dir. e giust.,
2010.
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nosciuto in capo ai genitori il diritto di accesso
alla documentazione comprovante la situazione reddituale dell’avente diritto al mantenimento, ritenendo l’interesse ad ottenere la revoca dell’assegno prevalente rispetto alla privacy del figlio ( 65 ).
Volgendo lo sguardo al rapporto dell’anziano coi nipoti, prima della riforma sull’affidamento condiviso tale legame affettivo veniva ritenuto giuridicamente tutelabile – in difetto di
una specifica indicazione legislativa – attraverso il richiamo alla «solida morale» ( 66 ) e/o ai
«principi etici» ( 67 ) cui deve ispirarsi l’esercizio
della potestà genitoriale, ovvero mediante
un’interpretazione evolutiva dell’art. 333 cod.
civ. ( 68 ), inteso quale momento di «risoluzione
delle controversie tra i vari membri del nucleo
familiare» ( 69 ).
A seguito dell’entrata in vigore della l.
8.2.2006, n. 54, l’art. 155, comma 1o, cod. civ.
sancisce il diritto del minore a conservare – anche in caso di separazione personale fra i coniugi – rapporti significativi con gli ascendenti
e con i parenti di ciascun genitore. La riforma
della filiazione del 2013 ha inoltre attribuito
agli ascendenti il «diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni» (art. 317
bis cod. civ.). Con l’introduzione di tale norma
– è stato osservato – il legislatore «ha per la prima volta preso in considerazione in via diretta
la prospettiva e il punto di vista degli ascendenti, elevando la relativa posizione soggettiva
a vero e proprio diritto [che] prescinde completamente dalla posizione dei genitori e dalla
( 65 ) T.A.R. Bari Puglia, 7.7.2003, n. 2782, in
Foro amm. TAR, 2003, 2375: «al diritto all’ostensione può contrapporsi il diritto alla privacy del figlio
maggiorenne in riferimento alla sua situazione reddituale, ma nel bilanciamento delle confliggenti posizioni va data prevalenza a quella del genitore che, provando una sufficiente situazione reddituale del figlio,
può vedersi dichiarata l’insussistenza del suo obbligo
al mantenimento».
( 66 ) Cass., 17.10.1957, n. 3904, in Rep. Foro it.,
1957.
( 67 ) App. Napoli, 21.6.1965, ivi, 1965.
( 68 ) Cass., 24.2.1981, n. 1115, in Foro it., 1982, I,
1144.
( 69 ) Così Giardina, I rapporti tra genitori e figli
alla luce del nuovo diritto di famiglia, in Riv. trim.
dir. e proc. civ., 1977, 1384.
302
loro relazione, e può quindi potenzialmente
emergere indipendentemente dai comportamenti di questi, dal loro stato di unione ovvero
separazione, e mediante richieste dirette (a seconda della fattispecie) nei confronti di uno di
essi, ovvero di entrambi» ( 70 ).
6. Le esigenze abitative ed assistenziali nell’età senile. L’individuazione e la tutela del luogo di residenza degli anziani – nonché
la predisposizione di misure che ivi possano
consentire la prestazione delle cure eventualmente necessarie – costituiscono questioni che
scandiscono, in modo spesso drammatico, gli
ultimi anni di vita di un’ampia fascia della popolazione.
La soddisfazione delle esigenze abitative ed
assistenziali della fase senile costituisce, del resto, un presupposto indefettibile per la realizzazione dei valori proclamati dall’art. 25 della
Carta di Nizza. In tale prospettiva, le questioni
della casa e della cura delle persone in età
avanzata divengono terreno di elezione di
quella sinergia fra stato e mercato – inteso, in
questa sede, come reticolo di iniziative imprenditoriali e/o non lucrative che gravitano intorno alla realtà degli anziani – su cui le istituzioni
comunitarie hanno gettato «le basi di una
“nuova” costituzione economica, capace di rispondere ad evoluzioni economiche e sociali
non più inquadrabili in una idealtipica dicotomia pubblico/privato» ( 71 ).
Con riguardo alla protezione della sfera abitativa dell’anziano, il primo referente normativo che codifica detta esigenza è costituito dall’art. 540 cod. civ., in forza del quale – come
noto – «al coniuge, anche quando concorra
con altri chiamati, sono riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare
e di uso sui mobili che la corredano, se di proprietà del defunto o comuni». Sebbene la tutela accordata dal legislatore resti circoscritta al
coniuge superstite – e dunque ad un soggetto
coniugato e solo statisticamente in età senile –
( 70 ) V. Danovi, Il d.lgs. n. 154/2013 e l’attuazione della delega sul versante processuale: l’ascolto del
minore e il diritto dei nonni alla relazione affettiva, in
Fam. e dir., 2014, 544.
( 71 ) Gallo, I servizi di interesse economico generale, Giuffrè, 2011, 9.
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Tutela degli anziani
un’autorevole dottrina ha ricondotto la ratio
della norma entro la «tutela della salute degli
anziani» ( 72 ), giacché i diritti ivi contemplati
assicurano al beneficiario, «al di là del semplice interesse a disporre di un alloggio, la conservazione del rapporto affettivo con l’ambiente
in cui è vissuto in comunione di vita col coniuge scomparso» ( 73 ). Tale interpretazione è stata
recentemente avallata dalle sezioni unite della
Cassazione, le quali – pur senza evocare esplicitamente la tutela del soggetto in età avanzata
– hanno assegnato all’art. 540 cod. civ. un significato non solo patrimoniale, ma anche «etico e sentimentale, sul presupposto che la ricerca
di un nuovo alloggio per il coniuge superstite potrebbe essere fonte di un grave danno psicologico e morale per la stabilità delle abitudini di vita
della persona» ( 74 ).
Oltre alla norma sul trattamento successorio
del coniuge, la conservazione dell’habitat dell’anziano viene tutelata mediante il c.d. prestito
vitalizio ipotecario, introdotto con il d.l.
30.9.2005, n. 203, e volto ad agevolare l’accesso al credito dei soggetti che abbiano compiuto
i 65 anni di età, postergando l’obbligo di rimborso della somma erogata – e garantita dall’immobile di residenza – dopo la morte del
beneficiario ( 75 ).
( 72 ) Mengoni, op. cit., 1129, ad avviso del quale
il concetto di salute deve essere inteso in senso ampio e «non semplicemente (...) negativo, come assenza di malattia» (1128).
( 73 ) Mengoni, op. loc. citt.
( 74 ) Cass., sez. un., 27.2.2013, n. 4847, in Riv. notar., 2013, 425, con nota di Tedesco.
( 75 ) «Nella primissima fase di utilizzazione dell’istituto – è stato osservato – la prassi sembra orientata ad accompagnare il contratto di finanziamento
con il conferimento, da parte dei mutuatari e a favore dell’ente mutuante, di un mandato, segnatamente
in rem propriam, a vendere l’immobile cauzionale,
dopo la morte di essi mutuatari, per il caso di inadempimento da parte dei di loro eredi obbligati al
rimborso»; cfr. Caccavale, Contratto e successioni,
nel Trattato del contratto, a cura di Roppo, VI, Interferenze, Giuffrè, 2006, 526.
In merito alle problematiche ed alle insidie connesse all’accesso al credito da parte dei soggetti in
età avanzata, si rinvia alle riflessioni di Agabitini,
Ordine pubblico di protezione e mercato del credito.
L’evoluzione del credito al consumo, in Riv. crit. dir.
NGCC 2015 - Parte seconda
Nell’ipotesi in cui il soggetto in età avanzata
si trovi sprovvisto, definitivamente o in via
temporanea, di un alloggio ove risiedere, si
apre la complessa tematica – al contempo giuridica e sociale – afferente alle case di riposo e,
più in generale, alle strutture di accoglienza
per gli anziani. Al fine di scongiurare la «angosciante decisione (...) di ritirarsi in collettività» ( 76 ), si sono sviluppate numerose iniziative
che, ispirandosi ai valori della domiciliarità e
della familiarità, promuovono l’introduzione
di misure di «affidamento» degli anziani, quale
alternativa alla loro istituzionalizzazione nelle
strutture di riposo. In uno dei progetti di legge
all’uopo elaborati, si prevede che «la persona
adulta in difficoltà, temporaneamente o permanentemente priva di un ambiente familiare
idoneo (...) può essere affidata ad una famiglia,
ad un gruppo parafamiliare o ad una persona
in grado di aiutarla a vivere nel modo più autonomo e integrale possibile. L’affido si basa sull’autodeterminazione dell’anziano e sulla reciproca fiducia con l’affidatario» ( 77 ).
Al tema della casa si intreccia, inevitabilmente, quello dell’assistenza delle persone in età
senile. Non solo, infatti, la residenza coincide –
almeno tendenzialmente – con il luogo in cui
vengono prestate le cure di cui l’anziano quotidianamente necessita, ma l’abitazione diviene
sempre più spesso un mezzo per conseguire le
risorse economiche necessarie a sostenere le
spese di assistenza.
Il trasferimento della proprietà di un immobile verso la corresponsione periodica di una
somma di denaro, in particolare, costituisce il
priv., 2010, 619, la quale evidenzia che «le varie forme di credito al consumo, operano generalmente
una discriminazione nei confronti delle persone anziane» mediante l’inserimento di limiti massimi di
età per l’erogazione dei prestiti.
( 76 ) Cfr. Oriard, La casa per gli anziani. Problemi tecnici ed umani (trad. it. di Velia Ottavi Armando), a cura di Vetere, Armando Editore, 1982, 13 e
22. Ad avviso dell’autore, in particolare, «la collettività di cui la Casa di riposo è costituita, è di fatto un
microcosmo la cui misura deve essere su scala umana, vale a dire che ciascuno deve essere capace di
percepire ogni individuo che lo compone, di conoscerlo e di conoscerne il ruolo» (117).
( 77 ) V. d.d.l. Senato 23.3.2013, n. 311.
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baricentro causale della rendita vitalizia (artt.
1872 ss. cod. civ.). Il ricorso a tale fattispecie
contrattuale consente agli individui cc.dd. house-rich and cash-poor di convertire il valore della casa in una prestazione di denaro «da utilizzare, ove necessario e secondo i tempi e i modi
che l’anziano ritenga opportuni, per garantirsi
l’assistenza presso il proprio domicilio o presso
una struttura residenziale» ( 78 ).
Il nesso sinallagmatico fra casa e cure diviene, invece, «senza filtri» nel modello atipico
del vitalizio assistenziale, imperniato sul paradigma del do ut facias e caratterizzato dall’assunzione, in capo al cessionario dell’immobile
o del capitale, dell’obbligo di assistenza nei
confronti del cedente. Alla luce della natura
della prestazione del vitaliziante – ed alla conseguente centralità dell’intuitus personae – la
dottrina e la giurisprudenza escludono l’applicabilità del divieto di risoluzione per inadempimento sancito dall’art. 1878 cod. civ., in
quanto – diversamente dalla rendita vitalizia,
ove l’esito vittorioso dell’azione potrebbe costituire «rimedio peggiore del male» ( 79 ) –
l’inadempimento del cessionario rispetto agli
obblighi di assistenza pattuiti legittimano il
creditore della prestazione infungibile a risolvere il contratto e recuperare il cespite conferito.
Altro settore del diritto contrattuale intimamente connesso al tema dell’assistenza agli anziani è quello assicurativo, ove sono riscontrabili appositi schemi negoziali – riconducibili
nell’alveo delle cc.dd. Long Term Care Insurances – che «garantiscono ai sottoscrittori una tutela per il momento in cui, anche a seguito del
( 78 ) Sul tema v. Long, La contrattualizzazione
dell’assistenza vitalizia agli anziani: dalla rendita vitalizia al contratto di mantenimento, in questa Rivista,
2010, II, 603.
( 79 ) Cfr. Rota, Il contratto di rendita mediante il
conferimento di bene immobile, in Imm. e propr.,
2009, 11, ove si evidenzia che, «se scopo del creditore è quello di assicurarsi (...) un reddito di un certo
ammontare per tutta la durata della vita contemplata», con la caducazione degli effetti del contratto
«verrebbe meno il reddito periodico con in più
l’onere del reimpiego del cespite conferito e successivamente recuperato». In giurisprudenza, cfr.
Cass., 1o.4.2004, n. 6395, in Mass. Giur. it., 2004.
304
semplice invecchiamento, la loro autosufficienza potrebbe venire meno» ( 80 ). L’esercizio dell’autonomia privata in tale peculiare ramo del
mercato assicurativo – volto a tutelare i futuri
anziani dai rischi della senescenza – non può,
ovviamente, pregiudicare i diritti fondamentali
(tra cui, a titolo esemplificativo, la privacy genetica) coinvolti nella determinazione del premio e delle altre condizioni contrattuali.
7. L’anziano e il risarcimento del danno. Nel settore dell’illecito extracontrattuale,
l’età anagrafica del danneggiante e del danneggiato può incidere sull’operatività delle regole
che governano il risarcimento, sia in ordine all’an della responsabilità, sia con riguardo alla
determinazione e liquidazione del pregiudizio
risarcibile.
Per quanto attiene alla posizione del danneggiante, l’età avanzata esclude – laddove concreti uno stato di incapacità di intendere e di volere – l’imputabilità dell’autore della condotta
antigiuridica. La condizione anziana non può
tuttavia dare luogo ad una presunzione di incapacità naturale, in quanto – è stato osservato –
«persino il ricorrere di un’eventuale patologia
degenerativa (quale la demenza senile) (...) non
sempre sottrae completamente la capacità al
soggetto» ( 81 ).
Laddove, per converso, venga riscontrata
un’effettiva e comprovata situazione di incapacità, potranno trovare applicazione gli artt.
2046 e 2047 cod. civ., soprattutto nell’ipotesi
in cui l’autore dell’illecito sia ospite di una
struttura residenziale idonea ad assumere la
qualifica di «sorvegliante».
Si segnala, sul punto, un’interessante pronuncia della Cassazione del 2007, avente ad
oggetto il ristoro del danno verificatosi all’interno di una casa di riposo nella quale, durante
il pranzo, un ospite aveva percosso violentemente un’altra pensionante. Confermando
l’esito dei primi due gradi di giudizio, la Supre( 80 ) Gremigni Francini, Tutela degli anziani ed
assicurazioni per l’assistenza di lungo periodo alla luce dei diritti fondamentali, in Comandé, Diritto privato europeo e diritti fondamentali, Giappichelli,
2004, 213 ss.
( 81 ) Così Bonomo, Infermità di mente e responsabilità civile, Giuffrè, 2012, 72.
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Tutela degli anziani
ma Corte ha ritenuto che il positivo riscontro
del difetto di imputabilità del danneggiante –
discendente, nel caso di specie, da una patologia accertata in sede medico legale – non determina l’automatica responsabilità del sorvegliante ove risultino assenti, in capo a quest’ultimo, comportamenti omissivi specifici e rimproverabili ( 82 ). La decisione del giudice di legittimità è stata oggetto di numerose censure,
principalmente afferenti alla mancata valutazione di parametri quali l’idoneità della struttura di riposo, le competenze del personale ivi
impiegato e l’effettuazione di terapie per fronteggiare la patologia riscontrata ( 83 ).
Sebbene le motivazioni poste a sostegno dell’esonero del sorvegliante suscitino, in effetti,
alcune perplessità – soprattutto per l’omessa
considerazione dei profili inerenti all’organizzazione della struttura di riposo ed alla concreta evitabilità del danno – non può essere condivisa la denuncia di una disparità di trattamento
fra case di riposo e strutture scolastiche, rispetto alle quali sarebbe riscontrabile, in giurisprudenza, una maggiore severità nella valutazione
degli estremi della prova liberatoria di «non
aver potuto impedire il fatto» ( 84 ). In realtà, il
parallelismo tra la sorveglianza di bambini e
anziani non sembra potersi spingere fino alla
standardizzazione delle relative misure di controllo. La maggiore sensibilità degli individui
in età avanzata rispetto a divieti e restrizioni –
nonché la convivenza, presso le case di cura,
tra soggetti in condizioni cliniche eterogenee –
costituiscono solo alcune delle variabili che
suggeriscono di differenziare i criteri di valutazione della responsabilità della struttura in ragione alla qualifica soggettiva dei «sorvegliati».
Volgendo lo sguardo alla sfera giuridica del
danneggiato – e concentrando l’attenzione sui
profili connessi al danno non patrimoniale –
l’età del soggetto leso incide, in primo luogo,
sulla quantificazione del danno biologico. Posto, infatti, che il principio di dignità della persona impone il riconoscimento di una posta
( 82 ) Cass., 19.10.2007, n. 21972, in questa Rivista, I, 506 ss., con nota di Venchiarutti, Invecchiando non si torna bambini? Ipotesi di responsabilità civile di una casa di riposo.
( 83 ) Venchiarutti, op. cit., 509.
( 84 ) Id., op. cit., 510.
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economica ineliminabile a chiunque abbia subito una lesione della propria integrità fisica
e/o psichica ( 85 ), il c.d. sistema tabellare orienta la monetizzazione di tale componente del
danno sulla base di un valore-punto crescente
rispetto al grado di menomazione, corretto da
un coefficiente di riduzione legato all’età e al
sesso del danneggiato.
La regola operativa per cui all’innalzamento
dell’età corrisponde una riduzione della posta
risarcibile – in ossequio alla massima di esperienza per cui l’invecchiamento assottiglia,
progressivamente, il periodo di presumibile sopravvivenza e, dunque, di percezione delle
conseguenze del danno ( 86 ) – è stata da alcuni
ritenuta fonte di una «ingiustificata sperequazione» a discapito dell’anziano, il quale dovrebbe essere considerato «come persona e
non come un’entità astratta composta di calcoli» ( 87 ). Quanto alla correlazione tra entità del
ristoro e aspettative di vita del soggetto leso,
viene replicato che «proprio perché il vecchio
ha meno anni avanti a sé – ognuno di questi assume per lui un significato diverso e forse maggiore di quanto non ne abbia per il giovane» ( 88 ).
Un ulteriore profilo di critica al sistema tabellare si fonda sulla constatazione che nei soggetti in età avanzata «una lesione di modesta
entità ha, generalmente, ripercussioni, non solo fisiche, ma anche psichiche, di maggiore entità», le quali «aggravano ulteriormente le sue
condizioni di vita ben oltre la modica percentuale invalidante riconosciuta e liquidata in misura irrisoria rispetto alla medesima lesione in
soggetto giovane» ( 89 ).
( 85 ) Busnelli, Il danno biologico. Dal «diritto vivente» al «diritto vigente», Giappichelli, 2001, 390:
«il principio della dignità della persona umana esige
che una posta ineliminabile del danno non economico venga risarcita a tutti gli esseri umani che abbiano subito una menomazione della loro integrità fisica e/o psichica: individui già nati o soltanto concepiti, bambini o anziani; capaci o incapaci di intendere
e di volere; ricchi o poveri».
( 86 ) Negro, Quantum debeatur. La liquidazione
del danno biologico, Giuffrè, 2003, 290.
( 87 ) D’Arrigo-Parrinello, op. cit., 89.
( 88 ) Eid., op. cit., 90.
( 89 ) Così Chindemi, Il danno alla persona in sog305
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Al fine di coniugare le esigenze di uniformità
e personalizzazione sottese alla quantificazione
del danno alla salute, si rende necessario confrontare – ed eventualmente correggere – l’esito risultante dall’impiego delle variabili tabellari con la situazione clinica generale dell’anziano, tenendo conto delle sue capacità di recupero e dei tempi necessari per il ripristino (totale
o parziale) delle funzionalità compromesse in
conseguenza dell’illecito ( 90 ).
Con riguardo alle altre componenti del danno non patrimoniale – nell’accezione unitaria
coniata dalle sezioni unite del 2008 – la giurisprudenza di merito ha individuato nell’età
anagrafica un possibile criterio di liquidazione
del pregiudizio esistenziale provocato dalla illegittima interruzione dell’utenza telefonica ( 91 ). Il disservizio subito da un soggetto anziano – e dunque, tendenzialmente, poco incline all’utilizzo di telefoni cellulari – può in effetti giustificare il ricorso alla figura del danno
getto anziano, in Resp. civ. e prev., 2009, II, 325, il
quale prosegue osservando che «stante la riduzione
dei valori monetari tabellari per le persone anziane,
anche l’aumento massimo tabellare del 20%, previsto dal codice delle assicurazioni per tale tipologia
di lesioni, appare, spesso, insufficiente a ristorare
l’effettivo danno subito dalla vittima, soprattutto
ove dovesse essere ritenuto comprensivo del danno
morale, in base alle sentenze delle SS.UU. del novembre 2008».
( 90 ) L’adozione del metodo casistico è suggerita
da Bonifacio-Neri, La valutazione del danno da
menomazione alla persona nell’anziano, in P. Stanzione (a cura di), Anziani e tutele giuridiche, cit.,
157 ss., ad avviso dei quali «gli esiti traumatici nel
soggetto anziano si prospettano sempre di difficile
apprezzamento e vanno analizzati caso per caso, tenendo conto di tutti gli aspetti del negativo risentimento delle lesioni, del loro trattamento e dei loro
esiti, sulla complessiva personalità di quel determinato soggetto, in relazione al suo stato anteriore» (p.
163).
( 91 ) Trib. Montepulciano, 20.2.2009, n. 74, in
www.personaedanno.it, ove si tiene conto, nella liquidazione del danno, «dell’età del danneggiato
(circa anni 90) e, dunque, dell’aggravamento dei
pregiudizi subiti». Nella medesima prospettiva cfr.
Trib. Benevento, 12.3.2010, ivi, il quale ha risarcito equitativamente il danno «anche (...) esistenziale»
per il «patema d’animo subito dalla persona anziana».
306
esistenziale, inteso quale componente descrittiva del danno idonea a conferire rilievo alle
«condizioni oggettive in cui si trovava il danneggiato, da cui desumere l’entità della ricaduta negativa sulla sua esistenza» ( 92 ).
Meno condivisibile si rivela il tentativo di
rendere risarcibili, attraverso la valorizzazione
della condizione senile, una serie di danni che
– in quanto non connessi alla lesione di un diritto inviolabile – resterebbero altrimenti
esclusi dal novero dei pregiudizi (potenzialmente) oggetto di ristoro. Le fattispecie invocate afferiscono, a titolo esemplificativo, all’anziano che «trova un senso alla propria vita solo
allorquando può andare a trovare i propri nipoti che abitano a qualche isolato di distanza» ( 93 ); alla «anziana signora, sola al mondo,
che affida il suo amato cagnolino al gestore di
una pensione per animali in occasione di un
breve viaggio» ( 94 ) o, ancora, all’«utente anzia( 92 ) Cfr. Navarretta, Il contenuto del danno
non patrimoniale e il problema della liquidazione, in
Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale,
Giuffrè, 2010, 83.
( 93 ) Negro, Il nuovo danno biologico, Giuffrè,
2011, 152, ad avviso del quale «l’essere costretto a
stare in casa, il non poter uscire, il non poter socializzare, non sono aspetti dinamici “standard” della
lesione fisica, ma costituiscono un pregiudizio diverso che non può essere misurato solo in base al dato
fisico applicando un aumento, in percentuale, rispetto alle somme risultanti dalle tabelle. In circostanze del genere il danno – prevalentemente esistenziale – deve essere provato, autonomamente valutato e, di conseguenza, equitativamente liquidato».
( 94 ) Amato, Nozione unitaria di danno non patrimoniale e autonomia negoziale, in Aa.Vv., Il danno
non patrimoniale, Giuffrè, 2009, 35, L’a. evidenzia
che, laddove la persona anziana specifichi alla controparte l’importanza della relazione affettiva con
l’animale – e dunque pattuisca un trattamento diversificato delle condizioni di accudimento del cane,
per un cifra complessiva superiore alle regolari tariffe giornaliere – il successivo e negligente inadempimento del debitore, a cui consegua la morte dell’amato animale, legittima il risarcimento dell’interesse non patrimoniale «entrato a far parte del contratto e rimasto inadempiuto insieme alla prestazione principale».
Alla suddetta tesi si può obiettare che, nel caso invocato, la risarcibilità del danno morale e/o esistenNGCC 2015 - Parte seconda
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Tutela degli anziani
no, sempre regolare nei pagamenti, e che si veda costretto a reclamare per non dover pagare
interessi di mora su addebiti mai notificati» ( 95 ).
Il riferimento alle suddette immagini – intrise, peraltro, di accentuate venature paternalistiche – cela un’indebita traslazione della rilevanza dell’età anagrafica dalla dimensione del
quantum liquidabile a quella dell’an del risarcimento. Sennonché, la condizione anziana non
può essere invocata al fine di «convertire» i
pregiudizi bagatellari in danni risarcibili, giacché una tale operazione ermeneutica eluderebbe quel vaglio di ingiustizia costituzionalmente
qualificata a cui le sezioni unite hanno affidato
il compito di selezionare gli interessi non patrimoniali «meritevoli» di tutela sul versante extracontrattuale.
8. Conclusioni. Le riflessioni svolte in merito all’incidenza dell’età avanzata in alcuni dei
principali settori del diritto privato – quali il
contratto, le relazioni familiari e la responsabilità civile – hanno evidenziato come la condizione anziana non possa essere elevata a categoria giuridica, né tanto meno dare luogo a
presunzioni di incapacità legale di agire e/o di
intendere e di volere. L’impossibilità di predicare l’esistenza di uno statuto giuridico speciale connesso alla senilità discende, oltre che dal
rispetto del principio di uguaglianza, dalla vaziale non discende dalla circostanza che l’anziana è
«sola al mondo» – e dunque, oltre che in età avanzata, priva di affetti diversi da quello che la lega all’animale di proprietà – bensì da un’interpretazione
secondo buona fede del contratto, la quale – è stato
osservato – «copre il “non detto” che è stato taciuto
dalle parti, ma oggettivamente “autoevidente”»; cfr.
Navarretta-Poletti, Il danno non patrimoniale e
la responsabilità contrattuale, in Navarretta (a cura di), Il danno non patrimoniale, cit., 64. Nel caso di
specie, in particolare, la pattuizione di un corrispettivo maggiore rispetto a quello standard rende palese la pregnanza dell’interesse (non patrimoniale) alla
conservazione del rapporto con l’animale, a prescindere dall’età anagrafica del danneggiato e/o dalla
sua vita di relazione.
( 95 ) Perciballi, Mancata o tardiva attivazione del
telefono, in Cendon (a cura di), La prova e il quantum nel risarcimento del danno non patrimoniale, I,
Utet, 2008, 1278.
NGCC 2015 - Parte seconda
riabilità del concetto sociale di anziano, risultante da una serie di parametri genetici ed ambientali che possono allargare o restringere –
spesso in modo significativo – la forbice tra età
biologica e anagrafica del soggetto di volta in
volta considerato.
In ossequio al principio di non discriminazione, pertanto, la tutela civilistica dell’anziano
costituisce – laddove questo versi in oggettive e
comprovate situazioni di difficoltà economica
o sociale – un corollario dell’uguaglianza sostanziale presidiata dall’art. 3, comma 2o, Cost.
e, con riguardo alle persone in età senile, dall’art. 25 Carta dir. UE.
Così risolto il problema relativo al perché
della tutela degli anziani, occorre soffermarsi
sulla seconda – e più complessa – questione accennata in apertura, afferente al come debbano
essere concepite e sviluppate le forme di protezione dell’individuo nella fase della senescenza. Dalla breve rassegna svolta emergono, in filigrana, due orientamenti (culturali prima ancora che giuridici) dalla cui alternativa è destinata a prendere corpo l’identità giuridica degli
anziani nei rapporti economici, nelle scelte affettive e, più in generale, nelle situazioni che rilevano per il diritto privato.
Sulla base di una prima tesi, l’anziano è un
soggetto debole, solo e – in quanto tale – esposto a condizionamenti esterni idonei a fargli assumere decisioni non pienamente consapevoli;
il legislatore dovrebbe prendere atto di tale circostanza e sancire una presunzione di incapacità di agire del soggetto in età particolarmente
avanzata, ponendolo così al riparo dalle conseguenze negative del proprio decadimento fisico e cognitivo.
A tale impostazione viene replicato che la
codificazione della regola biologica per cui età
e capacità costituiscono grandezze inversamente proporzionali consegnerebbe agli operatori
del diritto un’immagine fuorviante dell’anziano quale persona fragile ( 96 ) e non autosuffi-
( 96 ) Sull’associazione tra invecchiamento e «fragilità» – intesa come «sindrome clinica caratterizzata
da connotati multipli» quali «perdita di peso e/o
“debolezza”, facile stancabilità, ridotta performance
motoria, disturbi di equilibrio e di andatura» – dai
dati epidemiologici emerge una «notevole variabilità
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ciente, con il rischio di vedere sacrificate, sull’altare del paternalismo, proprio quei valori di
partecipazione, indipendenza e dignità su cui
la Carta di Nizza ha posto le basi della concezione europea di senescenza. Ed è proprio facendo leva sui principi affermatisi a livello sovranazionale che occorre promuovere una
nuova cultura della terza età, non limitata al
soddisfacimento delle esigenze di protezione
degli anziani, ma tesa a valorizzarne il ruolo ed
incoraggiarne la partecipazione nelle famiglie e
nella società civile. La nozione di «invecchiamento attivo» – vera e propria idea-guida dell’anno europeo 2012 – sintetizza le predette
istanze di politica del diritto, consentendo ai
soggetti in età senile di contribuire in prima
persona allo sviluppo economico e sociale delle
comunità di cui sono parte.
Nell’ambito della sfida demografica a cui
l’Europa è chiamata, il diritto privato assume
un duplice ed essenziale ruolo.
In primo luogo, l’impiego di alcuni strumenti civilistici – quali il vitalizio alimentare e le
cc.dd. Long Term Care Insurances – consente,
soprattutto ove ispirato ai principi di solidarietà e buona fede, di integrare e supportare il
welfare statale, assicurando un supporto economico e assistenziale agli anziani in difficoltà.
In secondo luogo, la diffusione della cultura
dell’invecchiamento attivo postula il superamento dell’archetipo del vecchio ingenuo e
sprovveduto, in favore di una nuova immagine
di anziano, inteso come soggetto in grado di
stipulare contratti, sposarsi, causare e/o riceve-
fra le persone», a testimonianza del fatto che «si può
invecchiare senza necessariamente diventare fragili,
e quando lo si dovesse diventare la disabilità non è,
di per sé, un destino obbligato»; cfr. Campedelli,
Invecchiamento tra capacità e disuguaglianze. Spunti
di riflessione, in Questione giustizia, 2011, 122.
308
re danni, facendosi carico delle conseguenze –
positive e negative – delle attività compiute. In
questa prospettiva, il diritto privato non deve
elidere bensì incoraggiare la capacità delle persone in età avanzata, rientrando nella sfera di
competenza di altri settori dell’ordinamento –
e, segnatamente, del diritto penale – la repressione delle condotte che possano integrare, in
danno degli anziani, reati quali la truffa e la circonvenzione di incapace.
Sul piano delle scelte di politica del diritto,
l’obiettivo delle istituzioni comunitarie di «superare gli stereotipi legati all’età» (art. 2, comma 2o, lett. d) Decisione n. 940/2011/UE) deve
trovare concreta attuazione nella realtà giuridica e sociale, stemperando così l’antitesi fra l’ottimismo ciceroniano – che eleva la vecchiaia a
«posizione (...) migliore di quella dell’adolescente» ( 97 ) – ed il pessimismo malinconico di
Bobbio, per il quale la senescenza costituisce
una «lunga e spesso sospirata, attesa della morte» ( 98 ). Ed infatti, prescindendo da tali opposte (e parimenti manicheistiche) concezioni,
l’ordinamento giuridico non è chiamato a partorire nuovi diritti della terza età – destinati,
peraltro, a finire sotto la scure dell’incostituzionalità – bensì ad assicurare, nell’auspicata
interazione tra intervento pubblico e iniziative
private, il godimento dei diritti nella terza età,
facendo emergere ed alimentando quell’istinto
al «coinvolgimento vitale» ( 99 ) che resta, troppo spesso, nascosto sotto le rughe degli anziani.
( 97 ) Cicerone, Saper invecchiare (De senectute),
a cura di Sevry, Armando Editore, 2002, 62.
( 98 ) Bobbio, De senectute e altri scritti autobiografici, cit., 24.
( 99 ) Cfr. E.H. Erikson-J.M. Erikson-H. Kivnick, Coinvolgimenti vitali nella terza età, trad. it. di
Chiari, Armando Editore, 1997.
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«DEGIURISDIZIONALIZZAZIONE»
E CONTROVERSIE AGRARIE
di Michele Tamponi
Sommario: 1. Il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito
con modificazioni in l. 10.11.2014, n. 162. – 2.
Trasferibilità alla sede arbitrale di procedimenti
pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria. – 3. Ricorribilità alla negoziazione assistita. – 4. Credito
nascente da rapporto agrario e negoziazione assistita. – 5. Rilievi conclusivi.
1. Il d.l. 12.9.2014, n. 132, convertito
con modificazioni in l. 10.11.2014, n. 162.
Nell’opera Il teatro comico di Carlo Goldoni
comparve, nell’anno del Signore 1750, l’avverbio precipitevolissimevolmente, fin d’allora riguardato (ma forse a torto) come la più lunga
parola della lingua italiana. Emulo del grande
veneziano, il legislatore nazionale si è recentemente cimentato nell’escogitazione di un neologismo che segue a ruota quel termine (venticinque lettere contro ventisei; dieci sillabe contro undici), e che è destinato a richiamare e
riassumere le nuove disposizioni dettate per
deflazionare il contenzioso civile. Con un orribile e quasi impronunciabile vocabolo si è inteso infatti compendiare gli strumenti di nuovo
conio – contemplati nel d.l. 12.9.2014, n. 132,
recante Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile, e convertito con modificazioni in l. 10.11.2014, n.
162 – volti a favorire la composizione delle
controversie in limine litis ovvero anche a processo già in atto.
L’obiettivo viene perseguito con varie misure, così sintetizzabili:
a) trasferibilità alla sede arbitrale – ad istanza congiunta delle parti – di procedimenti giudiziari pendenti in primo e secondo grado (art.
1);
b) possibilità per le parti di convenire la risoluzione della controversia in via amichevole
Scritto destinato agli Studi in onore di Alberto
Germanò.
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attraverso negoziazione assistita da uno o più
legali (art. 2);
c) necessità di esperire la procedura di negoziazione assistita prima dell’avvio di controversia in materia di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti ovvero diretta alla
proposizione di domanda di pagamento a
qualsiasi titolo di somme non eccedenti l’importo di cinquantamila euro (art. 3);
d) possibilità di soluzioni consensuali, tramite negoziazione assistita, in materia di separazione personale tra coniugi, cessazione degli
effetti civili o scioglimento del matrimonio,
modifica delle condizioni di separazione o divorzio (art. 6);
e) interruzione della prescrizione e impedimento della decadenza dal momento della comunicazione dell’invito a concludere una convenzione di negoziazione assistita ovvero dal
momento della sottoscrizione della convenzione stessa (art. 8);
f) possibilità di separazione e divorzio dinanzi al sindaco quale ufficiale dello stato civile (art. 12).
Tralasciando, in quanto non attinenti alla
«degiurisdizionalizzazione», le numerose altre
innovazioni introdotte dal provvedimento in
parola con finalità semplificativa dei procedimenti giudiziari (passaggio dal rito ordinario al
rito sommario di cognizione: art. 14; riduzione
del periodo feriale di sospensione dei termini
processuali: art. 16; rideterminazione del saggio degli interessi legali dal momento di proposizione della domanda giudiziale e di avvio del
procedimento arbitrale: art. 17; nuove regole
per il processo esecutivo: artt. 18-19; ecc.), ci si
deve chiedere se la specialità del processo agrario possa tollerare l’applicazione delle regole
deflattive del contenzioso contenute nel provvedimento in esame, ed a tal fine occorre prendere in considerazione le previsioni testé riassunte sotto le lettere a), b), e c).
Preliminarmente, ed in funzione delle rispo-
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ste da dare all’interrogativo affacciato, deve ricordarsi che le regole dettate per i giudizi in
materia di contratti agrari presentano plurime
peculiarità, prime fra tutte l’assoggettamento al
rito del lavoro disciplinato dagli artt. 409 ss.
cod. proc. civ. e la cognizione delle liti da parte
di un organo giudicante specializzato composto da tre giudici togati e da due membri laici
esperti della materia. A questi due rilevantissimi scostamenti dalla disciplina dell’ordinario
processo civile si affiancano ulteriori particolarità, vuoi stra- e pre- giudiziali, vuoi interne al
processo: tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi all’Ispettorato provinciale dell’agricoltura (o al diversamente denominato ufficio
regionale competente) ex art. 11, d. legis.
1o.9.2011, n. 150; contestazione dell’inadempimento con illustrazione delle motivate richieste
del concedente prima dell’avvio di un giudizio
di risoluzione per grave inadempimento del
concessionario (art. 5, comma 3o, l. 3.5.1982,
n. 203); termine di grazia a favore dell’affittuario moroso e rivalutazione dei canoni scaduti
dall’avvio del giudizio per morosità (art. 46,
comma 6o, l. n. 203/1982); ineseguibilità della
sentenza di rilascio in caso di grave e irreparabile danno per il concessionario (art. 46, comma 7o), ecc.
2. Trasferibilità alla sede arbitrale di
procedimenti pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria. Come si è accennato, l’art.
1, d.l. n. 132/2014, contempla la possibilità di
trasferimento alla sede arbitrale delle cause civili pendenti in sede di merito subordinandola
ad alcune condizioni negative: non deve trattarsi di controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili, né vertenti in materia di lavoro,
previdenza e assistenza sociale, né già assunte
in decisione. In sede di conversione, la trasferibilità è stata estesa alle cause di lavoro aventi
ad oggetto diritti che abbiano nel contratto
collettivo la propria fonte esclusiva, e sempre
che questo preveda e disciplini la soluzione arbitrale.
Sgombrando subito il campo da ogni possibile equivoco, giova anzitutto precisare che
non sarebbe consentito riguardare le controversie sui contratti agrari come «vertenti in materia di lavoro» sol perché assoggettate al relativo rito: è ben vero che per gli ora abrogati
310
artt. 47, l. n. 203/1982 e 9, l. 14.2.1990, n. 29 (i
cui contenuti sono stati trasfusi nell’art. 11, d.
legis. 1o.9.2011, n. 150) in tutte le controversie
in materia di contratti agrari si osservano le disposizioni di cui agli artt. 409 ss. cod. proc.
civ., ma è anche di tutta evidenza che questo
rinvio non consente alcuna assimilazione sotto
il profilo sostanziale ( 1 ). Basterebbe osservare,
del resto, che il richiamato d. legis. n. 150/
2011, nel disporre la semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ha assoggettato
al rito del lavoro una vasta pluralità di controversie (eloquentemente qualificate non già «di
lavoro», bensì «regolate dal rito del lavoro»)
che nulla hanno a che vedere con tale ambito:
opposizione ad ordinanza-ingiunzione, opposizione al verbale che accerta una violazione al
codice della strada, controversie in materia di
protezione dei dati personali, ecc.
È però anche da considerare, al contempo,
che le controversie in materia di contratti agrari sono espressamente ricomprese nell’art. 409
cod. proc. civ., sotto la rubrica «Controversie
individuali di lavoro», accanto a quelle relative
ai rapporti di lavoro privato e pubblico e ai
rapporti di agenzia. Fin dall’ormai lontana introduzione di quel rito, risalente al 1973, il legislatore ha dunque assimilato le vertenze in tema di contratti agrari a quelle di lavoro, con il
palese intento di riconoscere a mezzadri, coloni, compartecipanti e affittuari di fondo rustico
la stessa tutela accordata al lavoratore subordinato o parasubordinato, così valorizzandone la
(presunta) posizione di inferiorità rispetto alla
parte concedente ( 2 ).
( 1 ) In tema, per tutti, Luiso, Il rito delle controversie agrarie e l’art. 409, n. 2, c.p.c., in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 1994, 499 ss.; Germanò, Controversie in
materia agraria, nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez.
civ., IV, Utet, 1989, 300 ss.; Nappi, Tutela giurisdizionale e contratti agrari, Giuffrè, 1994, specie 324
ss.; Id., Il processo agrario davanti alle sezioni specializzate agrarie: la disciplina processuale, in Aa.Vv.,
Trattato di diritto agrario, diretto da Costato-Germanò e Rook Basile, I, Utet, 2011, 844 ss.
( 2 ) Riserve su questa scelta già in Garbagnati, Il
nuovo processo del lavoro e le controversie agrarie, in
Riv. dir. proc., 1974, 570 ss. Sull’applicazione del rito
del lavoro alle controversie agrarie, e sui problemi di
coordinamento con la preesistente disciplina contenuNGCC 2015 - Parte seconda
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Controversie agrarie
Questa circostanza potrebbe indurre a concludere che le controversie sui contratti agrari,
quantunque non collocabili nel novero delle
controversie «vertenti in materia di lavoro» in
ragione della mera comunanza del rito, lo divengano tuttavia alla luce della scelta legislativa
di assimilare le varie categorie di concessionari
di fondi rustici ai lavoratori dipendenti ( 3 ).
In realtà, neppure siffatta conclusione si rivela appagante, come emerge chiaramente dalla considerazione che l’iniziale ratio legislativa
della «equiparazione» di mezzadri, coloni
compartecipanti e affittuari al lavoratore subordinato o parasubordinato è comunque superata dalla l. n. 203/1982, che con l’ora abrogato art. 47 estese il rito in questione anche alle
controversie in materia di contratti agrari stipulati da soggetti non coltivatori diretti. Tale
scelta legislativa, poi consolidata sia dall’art. 9,
l. n. 29/1990 sia dal d. legis. n. 150/2011, consente di osservare che l’accostamento attiene in
ogni caso esclusivamente al rito e non determina alcuna equiparazione di diversa natura. Resta quindi confermato che le controversie agrarie non possono tout court essere riguardate
quali «cause di lavoro».
Tutto ciò premesso, ci si deve porre il ben
più delicato problema dell’assoggettabilità a
procedimento arbitrale, stante la competenza
funzionale e inderogabile delle sezioni specializzate di cui alla l. 2.3.1963, n. 320.
La questione sfocia, dunque, nell’interrogativo sull’idoneità dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, a
derogare non solo al rito del lavoro, ma anche
alla competenza funzionale delle dette sezioni.
ta nella l. 2.3.1963, n. 320, per tutti Germanò, Il processo agrario, in Aa.Vv., Manuale di diritto agrario italiano, a cura di Irti, Utet, 1978, 627 ss., spec. 656-663.
Sul ruolo del lavoro nei contratti agrari, ex multis,
Graziani, Accordi in deroga e natura dei contratti
agrari, in Aa.Vv., Autonomia privata assistita e autonomia collettiva nei contratti agrari. Art. 45 legge 3 maggio 1982, n. 203. Atti del Convegno di Firenze 22-24
novembre 1990, Giuffrè, 1992, 39 ss.
( 3 ) Corte cost., 27.7.1972, n. 155, in Foro it.,
1972, I, 2345, in Giust. civ., 1972, III, 271, in Giur.
it., 1972, I, 1841, ha riconosciuto all’affittuario coltivatore diretto la «situazione privilegiata che gli artt.
36 e segg. Cost. assicurano alla posizione dei lavoratori».
NGCC 2015 - Parte seconda
Sul primo aspetto non si rinvengono ostacoli
insormontabili, sia perché è stato lo stesso legislatore, in sede di conversione, ad ammettere il
trasferimento alla sede arbitrale anche per le
cause di lavoro, quantunque con precisi limiti ( 4 ); sia perché, in ogni caso, la transizione alla fase arbitrale avrebbe luogo quando ormai i
passaggi essenziali propri del rito del lavoro sono stati espletati (proposizione del ricorso e
produzioni documentali; costituzione del convenuto con svolgimento di tutte le sue difese,
indicazione specifica dei mezzi di prova e deposito documenti, eventuale formulazione della domanda riconvenzionale).
Remore di maggior peso si frappongono invece alla possibilità che un arbitro o un collegio arbitrale si surroghi alla sezione specializzata agraria, contrassegnata dalla presenza, a latere dei giudici di carriera, di due esperti in materia agraria nominati dalla Corte d’Appello.
Il tenore dell’art. 11, comma 2o, del già menzionato d. legis. 1o.9.2011, n. 150 («Sono competenti le sezioni specializzate agrarie di cui alla legge 2 marzo 1963, n. 320»), pur non precludendo in termini diretti ed espliciti il ricorso all’arbitrato, indurrebbe a dubitare che la
facoltà di derogare alla disciplina in materia di
contratti agrari, riconosciuta ai privati dall’art.
45, l. n. 203/1982, possa spingersi anche all’ambito processuale e quindi alla compromettibilità in arbitri delle relative controversie. Già
si è avuto modo di prospettare al riguardo, sia
pure in chiave soltanto ipotetica, la sussistenza
di tale possibilità sino al 1990 e il suo venir meno con l’entrata in vigore della richiamata l. n.
29/1990, posto che la deroga assentita dall’art.
45, l. n. 203/1982, poteva essere riguardata come concernente le sole norme in tema di contratti agrari a quel momento vigenti, e non anche le disposizioni di legge di futura emanazione in materia ( 5 ).
In altre parole, se fino all’avvento della l. n.
( 4 ) Sugli intensi limiti al trasferimento alla sede
arbitrale dei procedimenti in materia di lavoro, per
tutti Sordi, Il decreto-legge n. 132 del 2014 e le controversie in materia di lavoro, in giustiziacivile.com,
12.3.2015.
( 5 ) In argomento ci permettiamo di rinviare al
nostro L’arbitrato in agricoltura, in Riv. dir. agr.,
1999, I, 488.
311
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29/1990 ben poteva ipotizzarsi che in sede di
accordi in deroga ex art. 45, l. n. 203/1982,
concedente e concessionario pattuissero la
compromettibilità in arbitri delle loro controversie future ed eventuali ( 6 ), posto che ciò poteva effettivamente aver luogo attraverso una
deroga all’art. 47, l. n. 203/1982 ( 7 ), più problematica potrebbe risultare una deroga pattizia dopo l’entrata in vigore della l. n. 29/1990
(cui ha ora fatto seguito, quanto a rito e competenza, il già menzionato art. 11, commi 1o e
2o, d. legis. 1o.9.2011, n. 150), atteso che nessuna norma accorda ai contraenti il potere di discostarsi, sia pure con l’assistenza delle organizzazioni di categoria, dalle prescrizioni inderogabili – quali certamente sono quelle sul rito
e soprattutto quelle sulla competenza funzionale delle sezioni specializzate agrarie – contenute in provvedimenti diversi dalla l. n. 203/
1982 e successivi ad essa. Non riteniamo, tuttavia, di poter fornire in proposito un’indicazione conclusiva, posto che la genericità dell’enunciato di cui all’art. 45, l. n. 203/1982
(«deroga alle norme vigenti in materia di contratti agrari») lascerebbe spazio – sempre, s’intende, con l’assistenza delle organizzazioni di
categoria – anche alla derogabilità di disposizioni entrate in vigore in momenti successivi. A
( 6 ) La dottrina ha pacificamente riconosciuto che
la derogabilità ai sensi dell’art. 45, l. n. 203/1982, si
rivolga anche alle norme processuali, e non solo a
quelle sostanziali: per tutti Olivieri, Norme processuali e patti in deroga, in Aa.Vv., Diritto agrario e
processo: problemi attuali, Atti del Convegno nazionale, Cremona, 12-13 novembre 1993, Cremona,
1994, 69. Nello stesso senso, Cass., 6.11.1991, n.
1181, in Foro it., 1992, I, 2765, con nota di Bellantuono, Il grimaldello, il mercato, l’affitto dei fondi
rustici. In argomento altresì Cecchella, L’arbitrato,
in Giurisprudenza sistematica di diritto processuale
civile, diretta da Proto Pisani, Utet, 1991, 6 ss.;
Id., L’arbitrato nel diritto agrario, in Riv. dir. agr.,
1991, I, 12 ss.; Cialli, L’ammissibilità della clausola
compromissoria in materia di contratti agrari (nota a
App. Roma, 2.4.1990), in Giur. agr. it., 1991, 35.
( 7 ) Giova richiamare il tenore dell’art. 58, comma
1o, l. n. 203/1982: «Tutte le norme previste nella
presente legge sono inderogabili. Le convenzioni in
contrasto con esse sono nulle di pieno diritto e la loro nullità può essere rilevata anche d’ufficio, salvo il
disposto degli artt. 45 e 51».
312
ben vedere, il problema si risolve nell’interrogativo sulla portata della deroga, e finisce per
evocare distinzioni formulate da gran tempo a
proposito del rinvio di una disposizione ad altra regola o complesso di regole: talvolta il rinvio è statico (o che dir si voglia materiale, recettizio o fisso), ed altre volte esso è invece riguardato come dinamico (o formale, non recettizio, o mobile).
Nella prima ipotesi, il richiamo si intende effettuato a una determinata disposizione (o, il
che è lo stesso, a una determinata normativa)
nel testo vigente al momento dell’entrata in vigore della norma rinviante, con la conseguenza
che le modificazioni successivamente apportate alla regola richiamata non assumono rilevanza ( 8 ). Nel secondo caso, invece, il richiamo è
esposto alle sue vicende modificative ed estintive.
Orbene, applicando – mutatis mutandis – la
medesima distinzione alla previsione di derogabilità contenuta all’art. 45, l. n. 203/1982, la
questione si risolve nel dubbio se le «norme vigenti in materia di contratti agrari» suscettibili
di deroga siano soltanto quelle in essere nel
momento in cui la legge in parola è entrata in
vigore, o se la derogabilità sia estensibile ad
ogni disposizione in materia di contratti agrari
tempo per tempo vigente, e quindi anche ove
introdotta successivamente.
Fin qui si è discorso di deroga meramente
pattizia. La trasferibilità dalla sede giurisdizionale a quella arbitrale contemplata dall’art. 1,
d.l. n. 132/2014, per contro, non si fonda puramente e semplicemente su un accordo delle
( 8 ) Per tutti Pagano, Introduzione alla legistica.
L’arte di preparare le leggi, 3a ed., Giuffrè, 2004,
156. Il tema della staticità o dinamicità del rinvio è
stato affrontato soprattutto dagli internazionalisti:
per tutti Monaco, voce «Rinvio nel diritto internazionale privato», in Enc. giur. Treccani, XXVII, Ed.
Enc. it., 1991; Ballarino, voce «Rinvio (diritto internazionale privato)», in Enc. del dir., XL, Giuffrè,
1989, 1005 ss. Ma non mancano i contributi di costituzionalisti e civilisti: Barile, Costituzione e rinvio
mobile a diritto straniero, diritto canonico, diritto comunitario, diritto internazionale. Alcune considerazioni in tema, Cedam, 1987; Grassetti, voce «Rinvio (teoria del)», Diritto internazionale privato, nel
Noviss. dig. it., XV, Utet, 1978, 1177 ss.
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Controversie agrarie
parti, e poggia su basi ben diverse: da un lato
l’espressa attribuzione legislativa della facoltà
di richiedere il trasferimento («le parti, con
istanza congiunta, possono richiedere di promuovere un procedimento arbitrale»), e dall’altro il controllo del giudice della controversia, il quale «rilevata la sussistenza delle condizioni (...) dispone la trasmissione del fascicolo
al presidente del Consiglio dell’ordine».
Non si pone più, dunque, un problema di
derogabilità o meno, da parte dei privati, alle
regole processuali: chiedendo il trasferimento
della controversia in sede arbitrale esse non
fanno che invocare, alla luce di una facoltà loro
espressamente attribuita dalla legge, l’applicazione di un’altra regola processuale, ed anzi di
una nuova regola cui il legislatore guarda con
particolare favore, proprio nella logica deflattiva che ne costituisce la ratio.
Tale favor emerge con forza ancor maggiore,
se si considera che in sede di conversione in
legge dell’originario decreto legge il trasferimento della controversia alla sede arbitrale è
stato contemplato, sia pure entro precisi limiti,
anche per le cause di lavoro: segno inequivocabile di un’apertura che sarebbe illogico disconoscere per le sole controversie agrarie, tanto
più che indici univoci nello stesso senso sono
emersi già dalla legislazione degli anni precedenti. Basterebbe ricordare al riguardo: a) che
l’art. 806 cod. proc. civ., nel testo scaturito dal
d. legis. 2.2.2006, n. 40, ammette la possibilità
che le controversie «di cui all’art. 409» (e,
quindi, anche le controversie agrarie) siano decise da arbitri, sia pure subordinatamente a
previsione di legge o dei contratti o accordi
collettivi; b) che ex art. 412 ter cod. proc. civ.,
introdotto dall’art. 31, comma 6o, l. 4.11.2010,
n. 183, «nelle materie di cui all’art. 409» (e,
quindi, anche in materia di contratti agrari) la
conciliazione e l’arbitrato possono aver luogo
presso le sedi e con le modalità previste dai
contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni
sindacali maggiormente rappresentative; c) che
rimedi arbitrali sono contemplati in materia
agraria (pur se non strettamente contrattuale):
l’art. 11, comma 4o, lett. b), d. legis. 27.5.2005,
n. 102, prevede l’arbitrabilità delle controversie in tema di accordi-quadro e di contratti
agro-industriali; l’art. 2, l. 29.12.1993, n. 580
attribuisce alle Camere di commercio il potere
NGCC 2015 - Parte seconda
di promuovere la costituzione di commissioni
arbitrali e conciliative per la risoluzione di controversie tra imprese (e, quindi, anche tra imprese agricole) e tra imprese e consumatori o
utenti; l’art. 5 bis, comma 7o, d. legis.
18.5.2001, n. 228 sancisce l’accesso all’arbitrato per la soluzione delle controversie sul valore
da assegnare al compendio unico e per quelle
relative ai diritti agli aiuti comunitari e nazionali concernenti lo stesso compendio; l’art. 16,
d. legis. 29.3.2004, n. 99 accorda agli imprenditori agricoli il ricorso alla camera arbitrale
per l’esazione dei crediti vantati verso l’AGEA.
Sembra dunque di potersi concludere per
l’applicabilità dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, anche alle controversie agrarie. Conseguentemente dovrà essere riconosciuta alle parti la facoltà di chiedere congiuntamente alla sezione
specializzata il trasferimento della controversia
alla sede arbitrale. Non pare di ostacolo a questa possibilità la circostanza che solo la detta
sezione fruisce della particolare competenza
apportata dai due componenti tecnici: starà alle parti stesse nel loro diretto interesse, ovvero
al presidente del consiglio dell’ordine, individuare un arbitro o un collegio arbitrale munito
di adeguate competenze. Né, del resto, può
escludersi che il Ministro della Giustizia, nell’adottare il decreto regolamentare previsto dal
comma 5o dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, stabilisca specifici criteri in ordine alle competenze
professionali dell’arbitro, come il comma 5o bis
espressamente prevede con diretto riferimento
«alla materia oggetto della controversia», fermo però in ogni caso il principio che il ruolo
arbitrale potrà essere svolto esclusivamente da
avvocati nominati congiuntamente dalle parti
ovvero dal presidente del consiglio dell’ordine
del circondario in cui ha sede l’ufficio giudiziario competente per la causa.
Risolto affermativamente l’interrogativo circa la trasferibilità del processo agrario alla sede
arbitrale, non vi è dubbio che dovranno trovare applicazione anche in tale procedimento le
peculiari regole che contrassegnano il processo
agrario: termine di grazia a favore dell’affittuario moroso, rivalutazione dei canoni scaduti
dall’avvio del giudizio per morosità, ineseguibilità della sentenza di rilascio impugnata in sede di legittimità in caso di grave e irreparabile
danno per il concessionario, ecc. Tutto ciò, nel
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quadro di un iter improntato a ritualità, come
si desume dalla previsione, contenuta all’art. 1,
comma 7o, del provvedimento in esame, che il
lodo «ha gli stessi effetti della sentenza».
3. Ricorribilità alla negoziazione assistita. Risolto affermativamente il quesito circa
la trasferibilità del processo agrario alla sede arbitrale ed ammessa quindi l’applicabilità ad esso dell’art. 1, d.l. n. 132/2014, deve darsi risposta positiva anche all’interrogativo sull’utilizzabilità, a fini compositivi di un’insorgenda controversia agraria, della convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati a tenore
degli artt. 3-5 del provvedimento in esame.
Essa – recita l’art. 2 – «è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in
buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di
avvocati iscritti all’albo». Si tratta, dunque, di
un tentativo compositivo che non confligge in
alcun modo con le rigide regole del processo
agrario, ponendosi a monte della controversia
giudiziale e precedendone ogni e qualsiasi passo anche preliminare e preparatorio.
Non avrebbe neppure ragione di porsi, dunque, il dubbio se questa convenzione risulti o
meno compatibile con le regole del processo
agrario, ove solo si tenga presente che il favor
verso soluzioni extragiudiziarie costituisce ormai il leit motiv della più recente legislazione
sia in riferimento alle controversie affidate alle
regole del processo ordinario, sia nella materia
propriamente laburistica, sia in ambito agrario:
in via generale, basterebbe richiamare il d. legis. 4.3.2010, n. 28, sulla mediazione finalizzata
alla conciliazione delle controversie civili e
commerciali, e con riguardo alla materia del lavoro i nuovi artt. 410-412 quater cod. proc. civ.
relativi al tentativo di composizione nonché alla risoluzione delle controversie attraverso l’investitura arbitrale in capo alle commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro
ovvero attraverso i collegi di conciliazione e arbitrato. Ma deve anche ribadirsi che l’art. 806
cod. proc. civ., nel testo scaturito dal d. legis.
2.2.2006, n. 40, consente la soluzione arbitrale
delle controversie di cui all’art. 409 cod. proc.
civ. (e, quindi, anche di quelle in materia agraria), sia pure subordinatamente ad apposita
previsione di legge o di contratto.
314
In riferimento, infine, all’ambito contrattuale agrario, possono essere richiamati – oltre che
i già menzionati artt. 412 ter e 806 cod. proc.
civ. – gli artt. 23, l. 11.2.1971, n. 1 e 45, l. n.
203/1982, che prevedono la composizione delle controversie agrarie attraverso soluzioni
transattive raggiunte con l’assistenza delle organizzazioni di categoria, l’art. 17, l. n. 203/
1982, che demanda all’Ispettorato provinciale
per l’agricoltura la determinazione dell’indennità per i miglioramenti, l’art. 11, commi 3o-7o,
d. legis. n. 150/2011, che contempla il tentativo stragiudiziale di conciliazione presso l’ispettorato provinciale dell’agricoltura competente
per territorio ( 9 ).
Si è al cospetto, dunque, di un ampio spettro
di previsioni legislative rivolte a comprimere il
contenzioso giudiziale, ed in tale chiave di lettura non si ravvisano ragioni di principio per
escludere la stipulabilità di convenzioni di negoziazione volte all’amichevole composizione
delle controversie in materia di contratti agrari.
In particolare, non pare di ostacolo la previsione di cui al comma 2o dell’art. 2, secondo il
quale la controversia non deve vertere «in materia di lavoro»: introdotto dalla legge di conversione, questo limite ha solo la finalità di impedire l’elusione del tentativo di conciliazione
affidato alle commissioni di conciliazione istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro.
Si tratta, dunque, di una regola concernente la
( 9 ) Si prescinde qui dagli ulteriori procedimenti
arbitrali previsti in materia agraria, ma in ambiti diversi da quello contrattuale per la concessione del
fondo rustico, quali l’arbitrato per la soluzione delle
controversie in materia di contratti quadro e di contratti agroindustriali [art. 11, comma 4o, lett. b), d.
legis. 27.5.2005, n. 2] e quello per la soluzione di
controversie di cui è parte l’AGEA – Agenzia per le
erogazioni in agricoltura (d.m. pol. agr. alim. e for.
20.12.2006, recante Disciplina della Camera nazionale arbitrale in agricoltura). In tema Raccosta, Ripristinata la camera arbitrale in agricoltura, in Agricoltura, 2007, 81 ss.; Giudice, L’arbitrato in agricoltura:
istituzione della Camera arbitrale. Brevi riflessioni, in
Dir. agr., 2006, 95; Poggiani, La procedura arbitrale
applicata al settore agricolo, in Agricoltura, 2003,
379; Bonfiglio-Ferrelli, Arbitrato e conciliazione
in agricoltura. Guida alla camera nazionale arbitrale
ed allo sportello di conciliazione istituti presso Agea,
Giuffrè, 2003.
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Controversie agrarie
materia laburistica in senso proprio, come è reso evidente sia dalla circostanza che le commissioni in parola sono formate, oltre che da un
magistrato a riposo, dal direttore dell’Ufficio
provinciale del lavoro nonché da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, sia
dal fatto che il decreto legge, prima della conversione, sottraeva l’accordo al regime di impugnativa previsto dall’art. 2113 cod. civ., cioè
da una disposizione di stretta matrice laburistica.
Nulla quaestio, dunque, allorché le parti prevengano una controversia ricorrendo a una
convenzione di negoziazione assistita da uno o
più legali. Si deve soltanto aggiungere che la
cooperazione «in buona fede e con lealtà per
risolvere in via amichevole la controversia»
non può in alcun caso sfociare in un accordo –
abbia o meno natura transattiva – derogatorio
delle previsioni di cui alla l. n. 203/1982 sui
contratti agrari.
Stabilisce infatti l’art. 5, comma 2o, d.l. n.
132/2014 che gli avvocati chiamati ad assistere
le parti in caso di composizione della controversia «certificano (...) la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico». Ciò significa che il legislatore non ha attribuito alla negoziazione in parola il ruolo che
è invece riconosciuto agli accordi in deroga ex
art. 45, l. n. 203/1982, e trova quindi applicazione in tutto il suo rigore il già ricordato art.
58, secondo il quale «Tutte le norme previste
nella presente legge sono inderogabili. Le convenzioni in contrasto con esse sono nulle di
pieno diritto (...) salvo il disposto degli artt. 45
e 51». Per paradossale che possa apparire,
dunque, l’assistenza di «uno o più avvocati»,
non è idonea a consentire quella derogabilità a
norme imperative che è invece rimessa, ex art.
45, l. n. 203/1982, al controllo delle organizzazioni di categoria, e che ha costituito per decenni un’utilissima valvola di sfogo delle rigidità proprie della normativa contrattuale agraria.
Sul piano pratico, questo limite costituirà probabilmente un forte ostacolo all’utile ricorso
alla convenzione di negoziazione: l’accordo
compositivo della controversia raggiunto con
l’assistenza dei legali potrà contenere valide regole derogative alla disciplina legale solo se a
sua volta sottoposto all’assistenza delle organizzazioni professionali agricole maggiormente
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rappresentative, come prescrive l’art. 45, l. n.
203/1982. È fin troppo facile prevedere che la
macchinosità di siffatta «assistenza al quadrato» sia destinata a svolgere un’intensa funzione
dissuasiva.
4. Credito nascente da rapporto agrario e negoziazione assistita. Il d.l. n. 132/
2014 dispone altresì, all’art. 3, che chi intende
proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti l’importo di euro cinquantamila ha l’onere di invitare l’altra parte a stipulare una convenzione di negoziazione assistita, costituente
condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciò significa che in questo tipo di controversie (così come in quelle di risarcimento
danno da circolazione di veicoli e natanti) la
negoziazione assume un connotato di doverosità, a differenza di quella su base volontaria
disciplinata nell’art. 2.
Si è al cospetto di una regola operante anche
in materia di contratti agrari? E dunque l’invito alla stipula di una convenzione per la negoziazione assistita dovrà essere rivolto – se la
pretesa non supera il predetto importo – dal
concedente all’affittuario moroso, dal concessionario al concedente per il pagamento dell’indennità per miglioramenti, addizioni e trasformazioni, ovvero per anticipata risoluzione
incolpevole del contratto?
Il tenore letterale del comma 5o dell’art. 3
non lascia adito a dubbio: se «restano ferme»
le disposizioni che prevedono speciali procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, ciò sta a significare
che la nuova condizione di procedibilità si affianca alle altre già in essere (nella specie: tentativo di conciliazione dinanzi all’Ispettorato
provinciale per l’agricoltura), come è confermato non solo dal fatto che le esclusioni sono
espressamente enumerate (procedimenti monitori e relative opposizioni, procedimenti di
consulenza tecnica preventiva, opposizioni all’esecuzione forzata, procedimenti in camera di
consiglio, azione civile nel processo penale),
bensì anche dalla precisazione, apposta in sede
di conversione nello stesso comma 5o dell’art.
3, per cui «Il termine di cui ai commi 1o e 2o,
per materie soggette ad altri termini di procedibilità, decorre unitamente ai medesimi». Il
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legislatore, con questa statuizione, ha voluto
scongiurare l’appesantimento temporale che
sarebbe derivato dalla sequenza di plurimi
adempimenti costituenti ciascuno condizione
di procedibilità, ed ha quindi inteso accordare
in maniera inequivoca la facoltà di avviarli in
contemporanea. Invito a stipulare la convenzione di negoziazione e attivazione del tentativo di conciliazione dinanzi all’Ispettorato provinciale dell’agricoltura (o ufficio regionale
corrispondente) potranno pertanto procedere
di pari passo, e non occorrerà subordinare l’avvio di uno dei due incombenti al preventivo
esaurimento dell’altro.
5. Rilievi conclusivi. Possono trarsi a
questo punto le fila dei rilievi svolti ai paragrafi
precedenti, per concludere che le misure deflattive di cui al recente provvedimento sulla
«degiurisdizionalizzazione» trovano applicazione anche alle controversie in materia di contratti agrari.
Se la breve indagine che precede ha consentito di constatare l’assenza di reali ostacoli, occorre anche osservare che già l’ampiezza delle
formule adoperate nel provvedimento commentato lasciava presagire questa conclusione
(«Nelle cause civili (...) che non hanno ad oggetto diritti indisponibili e che non vertono in
materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale»: art. 1; «La convenzione di negoziazione
deve precisare (...) b) l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro»: art. 2; «(...)
chi intende proporre in giudizio una domanda
di pagamento a qualsiasi titolo di somme non
eccedenti cinquantamila euro»: art. 3). Non
era consentito, tuttavia, adagiarsi sul solo tenore letterale, e si rendeva necessario il più approfondito vaglio compiuto in queste pagine,
vaglio da cui è risultata confermata l’assenza di
316
reali ostacoli all’applicazione delle nuove disposizioni anche alle controversie in parola.
Deve infine ribadirsi, con riferimento alla negoziazione assistita contemplata all’art. 2, d.l.
esaminato, che l’assenza, in capo ai legali-negoziatori, di prerogative derogatorie analoghe a
quelle riconosciute dall’art. 45, l. n. 203/1982,
alle organizzazioni professionali viene a costituire un forte deterrente al ricorso alla loro
opera. Non varrebbe osservare che l’autonomia
privata assistita ex art. 45, l. n. 203/1982, recita
un ruolo differente, in quanto destinata ad operare in sede di instaurazione di un rapporto
agrario, laddove invece la negoziazione assistita
da uno o più legali mira a definire la controversia insorta in ordine ad un rapporto agrario già
in essere: non può dimenticarsi, infatti, che il
legislatore del 1982 ha conferito all’assistenza
delle organizzazioni professionali agricole l’attitudine a derogare validamente a disposizioni
che l’art. 58 stessa legge definisce «inderogabili», e che tale importante possibilità opera anche in sede transattiva, ovverosia in funzione
della composizione di una controversia.
In altre parole, mentre l’assistenza delle organizzazioni di categoria in sede compositiva
assicura ai paciscenti la possibilità di derogare
validamente a disposizioni di legge in via generale proclamate inderogabili con espressa statuizione, nulla di simile è accordato agli avvocati-negoziatori, cioè a soggetti che – in ragione della specifica competenza e della istituzionale funzione di tutela dei soggetti che ne invocano l’opera – dovrebbero più di chiunque altro essere in grado di orientare l’autonomia
privata dei loro assistiti. Può così amaramente
concludersi che è negata ad essi quella prerogativa che da oltre un trentennio è stata accordata alle organizzazioni sindacali: un segno, e
non l’unico, della declinante considerazione
del professionista da parte del legislatore.
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LE ASIMMETRIE DELL’ART. 1662 COD. CIV.
di Giovanni Iudica
Sommario: 1. Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ.
– 2. Il diritto potestativo del committente di controllo e verifica. – 3. Il diritto potestativo del
committente di risolvere il contratto. – 4. Limiti
al potere del committente.
1. Le asimmetrie dell’art. 1662 cod. civ.
Nella parte generale del contratto, l’inadempimento dei contratti sinallagmatici è regolato da
un’unica disciplina che vale per entrambi i contraenti. Ciascuno di essi può avvalersi delle regole di cui agli artt. 1453 ss. I contraenti, in caso di patologia del rapporto, di vizio funzionale
della causa, hanno a disposizione gli stessi strumenti: combattono ad armi pari.
Viceversa nell’appalto è prevista una disciplina più articolata e comunque asimmetrica,
in ragione del fatto peculiare che il contratto è
di durata, a esecuzione prolungata, e che la natura dell’interesse alla realizzazione dell’opera
o del servizio secondo le regole dell’arte e secondo i modi e i tempi concordati, di cui è portatore soprattutto il committente, pretende
una considerazione particolare. È ragionevole
ritenere che il legislatore del 1942, pur scrivendo norme riguardanti l’appalto privato, fosse
consapevole che quella disciplina sarebbe stata
considerata come base operante anche per regolare i rapporti tra le parti pure negli appalti
pubblici, ed è lecito supporre che, consciamente o inconsciamente, avesse comunque l’idea di
un committente (ente pubblico territoriale, ente pubblico economico, ecc.) portatore di un
interesse in qualche modo dominante rispetto
a quello di controparte ( 1 ).
( 1 ) Già nella Prefazione alla prima edizione del
commentario breve Carullo-Iudica, Appalti pubblici e privati, Cedam, 2012, scrivevamo: «L’appalto, un
po’ come il Dangling Man di Saul Bellow, alla perenne
ricerca di se stesso, è in bilico tra la fondamentale vocazione privatistica del contratto e l’altrettanto fondamentale necessità che la disciplina del rapporto negoziale sia declinata in modo coerente con la natura pubblica del committente negli appalti pubblici».
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Una prima asimmetria si nota tra la disciplina speciale di risoluzione riguardante il momento finale e conclusivo del rapporto e cioè
l’ipotesi di opera finita (art. 1668 cod. civ.) ( 2 )
e quella che riguarda invece il caso in cui l’opera sia ancora in progress (art. 1662 cod. civ.).
Ma anche in quest’ultima ipotesi, cioè nella fase dell’esecuzione del contratto, l’inadempimento è disciplinato, appunto, come si diceva,
in maniera asimmetrica.
Questa seconda asimmetria consiste nel fatto
che durante l’attuazione del rapporto gli inadempimenti delle parti sono regolati da disci( 2 ) L’art. 1668 cod. civ., limita drasticamente il potere del committente di chiedere la risoluzione del
contratto d’appalto per inadempimento dell’appaltatore. Presupposto dell’art. 1668 è, infatti, non già
l’inadempimento di non scarsa importanza come previsto dal combinato disposto degli artt. 1453-1455,
bensì un inadempimento tale per cui l’opera risulti
«del tutto inadatta alla sua destinazione». Sia la dottrina che la giurisprudenza (si veda, in proposito, Rubino-Iudica, Appalto, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 2007, sub art. 1655, 429; Lapertosa, La garanzia per vizi nella vendita e nell’appalto, in Giust. civ., 1998, II, 53; Lipari, La garanzia per i
vizi e le difformità dell’opera appaltata: risoluzione del
contratto, mancanza di qualità e aliud pro alio, in
Giust. civ., 1986, I, 2942; Lucchini Guastalla, Le
risoluzioni di diritto per inadempimento dell’appaltatore, Giuffrè, 2002, 110) concordano nel ritenere che la
valutazione di tale presupposto debba avvenire secondo criteri oggettivi, potendosi ricorrere a considerazioni soggettive solo qualora la possibilità di una particolare destinazione sia espressamente dedotta nel
contratto. La ratio di questa norma si coglie mettendola in relazione con quella di cui all’art. 1662. E cioè la
ragione della drastica riduzione (rispetto al diritto comune) del potere del committente di chiedere la risoluzione del contratto d’appalto in sede di verifica e
collaudo finale, appare compensata dalla presenza di
un potere quanto mai incisivo e invasivo del committente di controllare lo svolgimento dei lavori lungo
tutto il percorso della loro esecuzione e di chiedere la
risoluzione del contratto per inadempimenti dell’appaltatore in corso d’opera ai sensi dell’art. 1662.
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pline diverse. Gli inadempimenti del committente sono assoggettati alle regole di parte generale del contratto, e precisamente agli artt.
1453 ss. cod. civ. ( 3 ), mentre quelli dell’appaltatore alla disciplina speciale predisposta dall’art. 1662 cod. civ. Se il committente non abbia versato all’appaltatore la rata del prezzo
pattuito alla scadenza concordata, oppure non
abbia consegnato tempestivamente i materiali
necessari a compiere l’opera o il servizio, secondo espressa convenzione in deroga alla regola di cui all’art. 1658, l’appaltatore potrà agire secondo il diritto comune: potrà cioè chiedere, a norma dell’art. 1453, l’adempimento
dell’obbligazione inadempiuta, ovvero, se ricorre il presupposto della gravità (la «non scarsa importanza», ex art. 1455) ( 4 ), la risoluzione
giudiziale del contratto d’appalto insieme alla
richiesta di risarcimento del danno, ovvero utilizzare lo strumento della diffida ad adempiere
ex art. 1454, ovvero ancora l’eccezione d’inadempimento e così via. Viceversa, con riguardo all’inadempimento dell’appaltatore, il legislatore ha ritenuto opportuno introdurre una
disciplina speciale e comunque diversa rispetto
a quella operante nei riguardi di controparte.
2. Il diritto potestativo del committente di controllo e verifica. In proposito, innanzitutto, va ricordato che il comma 1o
( 3 ) Sulla disciplina della risoluzione del contratto
in generale, di cui all’art. 1453 cod. civ., e specialmente sul presupposto dell’inadempimento, si veda,
nell’ambito di una letteratura assai ampia, sia trattatistica che monografica, Trimarchi, Il contratto:
inadempimento e rimedi, Giuffrè, 2010, 80 ss.
( 4 ) Il presupposto della gravità dell’inadempimento («la non scarsa importanza») ha suscitato
ampio interesse in dottrina. Si veda, per tutti, Gallo, Trattato del contratto, Utet, 2010, III, 2113 ss.;
Nanni, Risoluzione per inadempimento, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it., 2007,
sub art. 1455, 8; Cubeddu, L’importanza dell’inadempimento, Giappichelli, 1995, passim; Collura,
L’importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Giuffrè, 1992; Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, nel Trattato del contratto, diretto
da Roppo, Giuffrè, 2006, 123 ss.; Sicchiero, La risoluzione per inadempimento, nel Commentario Schlesinger, 2007, sub art. 1455; Roppo, Il contratto, nel
Trattato Iudica-Zatti, Giuffrè, 2011, 2a ed., 875 ss.
318
dell’art. 1662 attribuisce al committente un penetrante potere di controllo dell’andamento
dei lavori e di verifica che l’esecuzione proceda
nel rispetto del contratto e secondo le regole
dell’arte. Il committente ha facoltà di ispezionare, di visionare sia le attrezzature sia i materiali utilizzati dall’appaltatore nel processo di
costruzione, sia il processo stesso e la costruzione che ne risulta e, soprattutto, quando, dove e come effettuare il suo controllo. Si tratta
di un potere del committente che ha la natura
tipica del diritto potestativo, nei confronti del
quale l’appaltatore si trova in una condizione
di sostanziale soggezione. È appena il caso di
dire che si tratta di un potere, di una facoltà,
non di un obbligo del committente verso l’appaltatore. Quest’ultimo non può pretendere
che la controparte eserciti il suo potere, né tanto meno potrà imporre al committente i tempi
e i modi per realizzare il controllo e la verifica.
Tuttavia è normale che l’appaltatore, posto dinanzi alla necessità di compiere scelte importanti, possa chiedere al committente una preventiva approvazione e per contro può essere il
committente stesso a chiedere all’imprenditore
di sottoporre alla sua approvazione preventiva
taluni input di particolare momento nel processo di costruzione. Lo scopo della norma in
esame è di consentire al committente di intervenire in tempo, costringendo l’appaltatore a
porre rimedio subito, durante l’esecuzione, a
errori o a violazioni del capitolato o delle regole dell’arte, onde evitare che al momento del
collaudo finale possano verificarsi sorprese, alle quali sarebbe magari impossibile o troppo
costoso porvi rimedio. Si tratta di un potere il
cui esercizio svolge una funzione preventiva di
tutela della stazione appaltante contro il «semplice pericolo attuale di un inadempimento futuro» ( 5 ).
Il diritto di controllo del committente appare in rapporto dialettico con il potere decisio( 5 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 304. In tema si
veda, altresì, Marinelli, La verifica dell’opera e la
garanzia per vizi e difetti, in Costanza (a cura di),
L’appalto privato, Utet, 2000, 106 ss.; Musso, Commento all’art. 1662, in Carullo-Iudica, Appalti
pubblici e privati, cit., 64 ss.; Perreca, Commento
all’art. 1662, in Luminoso (a cura di), Codice dell’appalto privato, Giuffrè, 2010, 445 ss.
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Appalto
nale dell’appaltatore, posto che quest’ultimo
ha pur sempre interesse a eseguire in piena autonomia il lavoro commissionato, essendo suoi
i mezzi, i fattori della produzione, ed essendo
suo il rischio d’impresa ( 6 ). Il diritto del committente al controllo e alla verifica in corso
d’opera dovrà allora conciliarsi con le esigenze
economiche e tecniche dell’imprenditore. Il
committente non potrà esercitare il suo diritto
in maniera vessatoria, abusando della sua posizione di supremazia, con la conseguenza di
creare fastidi, turbative o disagi, non giustificati o non ragionevoli, nell’esecuzione dei lavori.
Il potere di controllo e verifica, per quanto ampio ed esteso, per quanto cioè di natura potestativa, non potrà non essere esercitato secondo la regola della lealtà e della collaborazione
verso la controparte, e cioè secondo la regola
della buona fede e della correttezza. È insomma normale, ed è ciò che accade nella stragrande maggioranza dei casi, che tra committente e
appaltatore s’instauri un rapporto di operosa e
costruttiva collaborazione. E se il controllo dovesse produrre l’effetto oggettivo di determinare un ritardo nell’adempimento, il fatto non
potrà essere ignorato o restare senza conseguenze e l’appaltatore avrà diritto a una corrispondente proroga del termine finale ( 7 ).
I rapporti tra diritto potestativo di controllo
del committente e potere dell’appaltatore di
realizzare l’opera esercitando la sua autonomia
imprenditoriale, nonché il loro ambito, la loro
circonferenza e, insomma, i loro limiti, potranno anche essere opportunamente precisati in
maniera analitica nel contratto. E così le parti,
di comune accordo, potranno prevedere modalità più penetranti di verifica per maggior sicurezza della stazione appaltante man mano
che l’opera o il servizio procede nella sua esecuzione, oppure viceversa potranno limitare, in
misura più o meno ampia, il potere del committente a tutto vantaggio dell’autonomia del( 6 ) L’appaltatore è un imprenditore, la cui autonomia si esercita nell’organizzare i fattori della produzione in maniera da governare il rischio d’impresa, in vista di ottenere un profitto (Rubino-Iudica,
Appalto, cit., 14 ss.).
( 7 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 309; Lucchini
Guastalla, Le risoluzioni di diritto, cit., 167; Musso, Commento, cit., 68.
NGCC 2015 - Parte seconda
l’appaltatore. Il committente potrà anche validamente concordare di ridurre al minimo il
suo potere d’ingerenza e di verifica dei lavori
in corso, ritenendo di poter riporre la massima
fiducia nell’onestà, nella bravura, nelle capacità tecniche e imprenditoriali dell’appaltatore e
dei suoi collaboratori. Oppure perché il committente, in ipotesi, non ha forza contrattuale
sufficiente per resistere o per opporsi alla pretesa dell’imprenditore di eseguire l’appalto
senza le ingerenze, più o meno invasive, di controparte. Se da un lato l’appaltatore si trova in
una situazione di soggezione nei confronti del
diritto potestativo del committente, dall’altro
lato il titolare di questo diritto potrà esercitarlo
o meno secondo le sue convenienze. Pertanto
non sembra, a rigore, potersi escludere di considerare valida pure una clausola con la quale il
committente rinuncia, per un periodo più o
meno lungo, durante i lavori, oppure addirittura sino al collaudo finale, di esercitare il suo
potere di verifica ( 8 ). In tal caso il committente
si assumerà per intero un rischio che avrebbe
potuto evitare esercitando il controllo in corso
d’opera: imputet sibi.
È appena il caso di notare che la verifica ex
art. 1662 va tenuta ben distinta dalla verifica finale e liberatoria effettuata al momento conclusivo del collaudo ai sensi dell’art. 1665. Il
( 8 ) Secondo Rubino-Iudica, Appalto, cit., 301,
tuttavia, «Una eventuale clausola del contratto che
escluda il diritto del committente di controllare e
verificare i lavori in corso di esecuzione sarebbe nulla, perché contraria alla natura del rapporto». Nel
senso del testo si era espressa, peraltro, una risalente
giurisprudenza (App. Catania, 29.1.1955, in Mass.
Giust. civ., 1955). Ora, a ben vedere, appare una petizione di principio invocare la «natura del rapporto», cioè il fatto che il contratto sia di durata, ad esecuzione prolungata, per sostenere la tesi della nullità
del patto che limiti il potere del committente. Il fatto che il contratto abbia natura di durata non costituisce un ostacolo alla autonomia delle parti, alle
quali non sembra potersi precludere la possibilità di
disciplinare i loro rapporti come meglio credono
pure durante la fase della esecuzione, senza che «la
natura» di durata del contratto venga in alcun modo
in questione o addirittura pregiudicata. Il diritto potestativo non è un diritto irrinunciabile e a maggior
ragione dovrà ritenersi un diritto che potrà essere
modellato dalle parti secondo le rispettive esigenze.
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controllo in corso d’opera consente bensì al
committente di verificare l’andamento dei lavori nella loro progressione, ma non gli preclude, in sede di collaudo finale, di far valere vizi
o difformità anche riguardanti parti già verificate in corso dei lavori. E anche nel caso in cui
il committente avesse rinunciato, per espresso
accordo con l’imprenditore oppure per sua decisione unilaterale, a eseguire le verifiche ex
art. 1662, ciò non significa rinuncia alla verifica
finale e neppure significa accettazione aprioristica dell’opera senza riserve con conseguente
liberazione dell’appaltatore da ogni responsabilità ( 9 ).
L’imprenditore, avvalendosi degli strumenti
del diritto comune, potrà sempre opporsi a
violazioni, a ingerenze, a invasioni nella sua
sfera giuridica di autonomia, qualora queste ultime fossero ingiustificate o intollerabili o irragionevoli, Nel caso estremo, l’appaltatore non
potrà recedere dal contratto (essendo tale potere riservato solo al committente ex art. 1671),
né potrà avvalersi del rimedio risolutorio previsto dall’art. 1662 (anch’esso riservato al solo
committente), ma potrà chiedere la risoluzione
del contratto ex art. 1453, per fatto e colpa della controparte, oltre al risarcimento del danno,
per avere il committente superato, in maniera
non trascurabile, i limiti del suo potere ( 10 ).
3. Il diritto potestativo del committente di risolvere il contratto. Il potere
del committente di controllo e di verifica dei
lavori in corso d’esecuzione è accompagnato
dalla possibilità di avvalersi di una sanzione
quanto mai energica ed estrema nei confronti
dell’appaltatore inadempiente: la risoluzione
del contratto d’appalto.
Va detto, tuttavia, che nella stragrande maggioranza dei casi, direi nella normalità dei casi,
il committente che accerta, nel corso della sua
verifica, la presenza di un vizio o di un difetto
o di una difformità dell’opera rispetto al capi( 9 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 302; Perreca,
Commento all’art. 1662, 447; Musso, Commento,
cit., 65.
( 10 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 315; Musolino, I poteri di verifica del committente durante l’esecuzione del contratto d’appalto, in Riv. giur. edil.,
2002, I, 81.
320
tolato o alle regole dell’arte inviterà in maniera
amichevole l’appaltatore a porre rimedio alla
sua difettosa esecuzione e di solito l’appaltatore, in spirito di reciproca e leale collaborazione
con la stazione appaltante, provvederà spontaneamente a risolvere l’incaglio. In questi casi
nulla quaestio.
Può tuttavia accadere che l’appaltatore non
dia attuazione all’invito del committente, oppure che provveda sì a rimediare ai difetti di
esecuzione, ma controvoglia, oppure di malavoglia, sollevando contestazioni e adducendo
pretesti, e può pure accadere che non provveda affatto ad adeguarsi alle direttive del committente e magari che tali difficoltà si ripetano
più volte o addirittura in continuazione. Ciò
comporta una crisi dello spirito d’intesa e di
collaborazione reciproca che dovrebbe regnare
tra le parti, e magari anche una perdita di fiducia del committente nei confronti dell’impesa
appaltatrice.
In questi casi il committente ha a disposizione due possibilità.
La prima è di recedere dal contratto, a norma dell’art. 1671. Si tratta di una strada drammatica e ultimativa e oltretutto piuttosto costosa per il recedente. In caso di recesso unilaterale del committente, infatti, questi dovrà tenere
indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei
lavori eseguiti e del mancato guadagno ( 11 ).
La seconda è di avvalersi della sanzione prevista dall’art. 1662, comma 2o. Si tratta di un
rimedio che ha una struttura analoga a quella
della diffida ad adempiere, ma diversi sono i
presupposti e differente il modo con cui opera.
L’art. 1454 sanziona la «parte inadempiente» e dunque è destinato a operare sul presupposto di un inadempimento in senso tecnico,
( 11 ) Sul potere del committente di recedere dal
contratto, ex art. 1671, si veda Tessera, Commento
all’art. 1671, in Carullo-Iudica, Appalti pubblici e
privati, cit., 142 ss.; Giannattasio, Appalto, nel
Trattato Cicu-Messineo, Giuffrè, 1967, 300 ss.; Rubino Sammartano, Appalti di opere e contratti di
servizi, Cedam, 1996, 533; De Tilla, L’appalto privato, Giuffrè, 2007, 289 ss. È da notare che, trattandosi di un diritto potestativo del committente, non
occorre un accertamento sulla «giusta causa» del recesso (Cass., 2.5.2011, n. 9645, in Mass. Giust. civ.,
2011).
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di un’inesatta realizzazione della prestazione
dovuta ( 12 ). Il comma 2o dell’art. 1662, invece,
ha riguardo non già a un appaltatore che non
ha realizzato esattamente la prestazione dovuta, l’opus o il servizio oggetto del negozio, bensì a un appaltatore che non procede, a parere
del committente, secondo le norme contrattuali o secondo le regole dell’arte. L’opera è in itinere, i lavori sono ancora in progress: la prestazione è ancora in fase di esecuzione, di gestazione, di costruzione. Durante questa fase, che
si protrae per un tempo più o meno lungo, non
si può dire, a rigore, se alla scadenza contrattuale la prestazione giungerà a buon fine, alla
sua completa e perfetta realizzazione, se l’opus
sarà finita a regola d’arte, ovvero se, al momento del termine finale, l’obbligazione principale
(quella dell’appaltatore) potrà dirsi, oppure
no, tecnicamente «adempiuta».
L’art. 1662 non sanziona l’inadempimento
del contratto, ma l’atteggiamento dell’appaltatore che si rifiuta di eseguire, o comunque che
non esegue, le direttive del committente e che
non pone rimedio a quei difetti o a quelle deviazioni, rispetto alle regole del capitolato o
dell’arte, che il committente ha riscontrato nelle sue verifiche e nei suoi controlli in corso
d’opera.
L’appaltatore che assume un atteggiamento
ostile di questo genere entra in conflitto con il
committente e questi, se ritiene di non riuscire
a riportare l’imprenditore sui binari dai quali, a
suo avviso, aveva deragliato o se perde la fiducia nella controparte, può usare le maniere forti: può assegnare all’imprenditore un «congruo
termine» entro il quale questi dovrà adeguarsi
alle sue direttive ( 13 ). Se il termine trascorrerà
( 12 ) Dellacasa, Le risoluzioni di diritto: la diffida
ad adempiere, nel Trattato dei contratti, diretto da
Roppo, Giuffrè, 2014, V, 2, 276 ss.; C.M. Bianca,
Diritto civile, 5, La responsabilità, Giuffrè, 1994, 305
ss.; Gallo, Trattato del contratto, cit., III, 2159 ss.
( 13 ) Non è previsto il termine minimo dei quindici giorni indicato dall’art. 1454 in tema di diffida ad
adempiere. La congruità del termine che il committente assegna all’imprenditore dipende, dunque, caso per caso, dalla natura, dalle circostanze e dalle
condizioni dell’opera in corso di esecuzione. Si veda, in proposito, Giannattasio, Appalto, cit., 168;
Perreca, Commento, cit., 452. Si ritiene che il terNGCC 2015 - Parte seconda
inutilmente, il committente potrà anche cercare con l’imprenditore un accomodamento, una
nuova intesa, e se questo tentativo non dovesse
riuscire, ovvero se il committente dovesse considerare il congruo termine concesso come l’ultima possibilità per l’appaltatore di rimediare
alle sue mancanze, il committente potrà esercitare il suo diritto potestativo, la sua formidabile arma di autotutela privata, di provocare la risoluzione dell’intero contratto di appalto ( 14 ).
E mentre nel caso di recesso il committente
dovrà rendere indenne l’appaltatore dai danni
patiti quale conseguenza del recesso, nel caso
in esame, tutt’all’opposto, sarà l’appaltatore a
dover risarcire il committente di tutti i danni
da quest’ultimo subiti.
Perché l’effetto della risoluzione possa verificarsi non basta che il committente abbia concesso all’appaltatore un congruo termine per
rimediare ai riscontrati difetti di esecuzione.
Occorre che l’appaltatore sia messo in grado di
conoscere preventivamente le conseguenze di
una sua eventuale inadempienza alle direttive
del committente ( 15 ). È del tutto normale che
in seguito alle verifiche e ai controlli il committente assegni all’appaltatore un congruo termine per correggere i suoi errori. Ma perché si
produca il drammatico effetto della risoluzione
è indispensabile che il committente avverta
l’appaltatore della conseguenza grave che fatalmente si produrrà in caso di sua inadempienza:
bisogna cioè che la dichiarazione di concessione del termine sia espressamente accompagnata dalla minaccia della risoluzione. Questo è
detto espressamente nell’art. 1454, ma non nell’art. 1662. Tuttavia, se la esplicita minaccia è
indispensabile nel caso d’inadempimento di
non trascurabile importanza del contratto, a
maggior ragione tale dichiarazione appare
coessenziale al diritto potestativo, e indispensabile perché questo produca il suo effetto, nel
caso di semplici inadempienze nella fase di esecuzione in corso d’opera dell’obbligazione
mine assegnato dal committente ex art. 1662 sia di
decadenza (Rubino-Iudica, Appalto, cit., 307).
( 14 ) Eid., op. cit., 305.
( 15 ) Il committente potrà pretendere la restituzione del prezzo o degli acconti già versati all’appaltatore, oltre i danni emergenti ed eventualmente pure
il lucro cessante.
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quando si è ancora lontani dalla possibilità di
parlare di inadempimento vero e proprio del
contratto ( 16 ).
L’appaltatore potrà opporsi alla risoluzione
rivolgendosi al giudice, adducendo il motivo
della non congruità del termine assegnato, oppure dei vizi formali della diffida, o comunque
la non idoneità della medesima di produrre
l’effetto drammatico della risoluzione. Il giudice non potrà andare più in là del semplice accertamento dell’esistenza dei presupposti in
fatto del diritto del committente e la sentenza
avrà natura meramente dichiarativa ( 17 ).
Più delicato è il problema se il giudice debba
valutare, come nel caso dell’art. 1454, la «gravità» dell’irregolarità dell’esecuzione dell’appaltatore e, qualora tale gravità non sussista,
accertare che la iniziativa del committente non
ha prodotto l’effetto della risoluzione. In proposito, innanzitutto, occorre notare che non
sembra possibile valutare la «gravità» dell’inadempimento del contratto (ex art. 1455), prima ancora che sia scaduto il termine finale e
finché l’obbligazione sia ancora in fase di attuazione, in perfetta simmetria con la norma
della diffida ad adempiere. Si tratta di due situazioni, in fatto, del tutto differenti: l’art.
1454 si occupa di un inadempimento, in senso
tecnico, dell’obbligazione alla quale l’inadempiente era tenuto; viceversa l’art. 1662 non si
occupa dell’inadempimento dell’appalto, bensì
del fatto che l’imprenditore non rispetta o non
segue in concreto le direttive del committente
in fase di esecuzione. Sicché a me pare che non
si possa trasferire tutto il bagaglio di letture e
d’interpretazioni sulla gravità di cui agli artt.
1454 e 1455, alla disposizione in esame, come
se gli artt. 1454 e 1662 fossero sovrapponibili
senza residui, come se fossero la stessa cosa.
Entrambi i commi dell’art. 1662 esprimono un
manifesto favor verso il committente e verso il
suo interesse a che l’opera sia realizzata secondo i suoi piani e la sua volontà, della quale l’appaltatore appare come un mero strumento, un
mezzo per poterla attuare.
( 16 ) Rubino-Iudica, Appalto, cit., 308.
( 17 ) Marinelli, La verifica dell’opera, cit., 113
ss.; Rubino-Iudica, Appalto, cit., 305.
322
4. Limiti al potere del committente.
D’altra parte sembra ragionevole ritenere che
anche il diritto potestativo del committente,
per quanto incisivo e formidabile, non possa
essere esercitato ad nutum, senza incontrare alcun limite. Anche l’appaltatore, invero, ha riposto, nel contratto che ha stipulato, un disegno economico, una speranza di convenienze e
di utilità, un’iniziativa imprenditoriale, magari
anche di grande impegno per i mezzi, il capitale e il lavoro coinvolti, e ha tutto l’interesse a
portare a felice compimento la sua intrapresa ( 18 ). Sicché, ancora una volta, si tratta di
conciliare, con prudenza ed equilibrio, l’interesse, pur prevalente, del committente con
quello della sua controparte.
Al riguardo non sembra persuasivo affermare che il criterio della buona fede sia adeguato
per limitare l’esercizio del diritto potestativo
del committente. La clausola generale di buona fede, infatti, ha contenuti troppo generici
ed elastici per costituire un criterio in grado di
fornire una sufficiente certezza circa il suo contenuto e il suo ambito ( 19 ). Anzi, la clausola generale di buona fede appare uno strumento
che, per sua natura, offre una gamma di possibilità interpretative molto estesa, a fisarmonica, e troppo spesso, nelle decisioni di giudici
poco accorti o poco sensibili nei riguardi della
«certezza del diritto», si è rivelata uno strumento impiegato in modo non appropriato e a
volte in maniera addirittura devastante ( 20 ).
( 18 ) Lucchini Guastalla, Le risoluzioni di diritto, cit., 167; Polidori, La responsabilità dell’appaltatore. I rapporti fra disciplina generale e norme speciali nell’appalto, Esi, 2004, 76 ss.
( 19 ) Sulla clausola di buona fede (oggettiva) la letteratura, come noto, è assai vasta. Per tutti si veda
Villanacci, La buona fede oggettiva, Esi, 2013, passim.
( 20 ) Monateri, Ripensare il contratto: verso una
visione antagonista del contratto, in Riv. dir. civ.,
2003, I, 411 ss. In questo scritto l’a. contrappone efficacemente la figura del «contratto rugiadoso» (infarcito di buona fede, di renseignements, di cooperazione, di «giustizia contrattuale»), proprio della tradizione tedesca, a quella del contratto «rude» (autonomo, atipico, sfuggente alle qualificazioni, importanza estrema del testo) propria della cultura di
common law e dominante nelle transazioni sul mercato globalizzato.
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Appalto
Eppure proprio il bene della «certezza del diritto» rappresenta uno degli elementi fondamentali sui quali le imprese misurano il rischio
economico dell’operazione intrapresa e calcolano i costi e i benefici connessi al contratto
che hanno stipulato. E va aggiunta una notazione da non trascurare in un’economia sempre più transnazionale e globalizzata: la clausola generale di buona fede, che tanta e spropositata fortuna ha avuto in Italia in questi ultimi
decenni, è guardata con estrema diffidenza se
non addirittura con manifesta sfiducia nei paesi nordici e in quelli, che abbracciano la maggior parte del pianeta, di common law. Le imprese che operano sul piano internazionale,
specialmente nel settore dei grandi appalti, diffidano giustamente di una clausola il cui impiego potrebbe alterare in maniera rilevante il calcolo economico divisato nel contratto ( 21 ).
Occorre allora individuare un criterio meno
volatile e più preciso e comunque più coerente
con la struttura specifica dell’appalto e con
l’equilibrio asimmetrico in esso contemplato.
Al riguardo si può dire che se il vizio è eliminabile e l’appaltatore lo elimina tempestivamente, entro il congruo termine a lui concesso dal
committente, nulla quaestio: il rimedio tempestivo paralizzerà l’efficacia del diritto potestativo del committente. Se invece l’imprenditore
non provvede a eliminare il difetto di esecuzione riscontrato dal committente, i casi sono due.
Nel primo caso, se il difetto non è eliminabile,
è ragionevole ritenere che esso sia causalmente
preordinato, in maniera sinistra e ineluttabile,
a un inadempimento grave e definitivo quando
il termine finale sarà scaduto. Un esempio: se
l’appaltatore incaricato di costruire un palazzo
non ha inserito la colonna dell’ascensore, violando l’esplicita previsione contenuta nel contratto, non avrebbe senso l’eventuale pretesa
dell’appaltatore di rinviare la soluzione del
problema più in là, e di continuare la costruzione e arrivare al tetto. E allora non pare potersi dubitare che in questi casi il diritto potestativo esercitato dal committente produrrà in
pieno il suo effetto risolutorio.
Se invece il difetto è eliminabile (ad esempio:
le maniglie degli infissi non sono corrispondenti al modello contemplato nel capitolato), e
l’appaltatore si riserva di porvi rimedio più in
là, quando avrà tempo e modo nell’ambito della sua autonomia imprenditoriale, sembra poco
persuasivo ritenere che la disponibilità dell’impresa possa essere frustrata dalla pretesa del
committente, che suonerebbe arrogante e forse
pretestuosa, di un intervento dell’appaltatore
illico et immediate pena la risoluzione dell’intero appalto.
Sicché, in conclusione, sembra doversi ritenere che il criterio più persuasivo sia di riconoscere che il diritto potestativo del committente
possa paralizzare l’efficacia dell’intero contratto solo quando l’appaltatore non possa o non
voglia porre rimedio alle irregolarità eliminabili da lui compiute. E cioè quando il vizio (e non
importa quanto grave in rapporto all’economia
complessiva del contratto) non sia tecnicamente rimediabile, oppure quando l’appaltatore si
rifiuta, senza ragione, di adeguarsi alle legittime direttive del committente.
( 21 ) De Nova, Il contratto alieno, 2a ed., Giappichelli, 2010; Iudica, L’influenza della globalizzazione sul diritto italiano dei contratti, in questa Rivista,
2014, II, 145.
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IL SINDACATO SUI TERMINI DELLO SCAMBIO
NEI CONTRATTI DI CONSUMO: NUOVI SCENARI [,]
di Matteo Dellacasa
Sommario: 1. L’esclusione dell’equilibrio economico dello scambio dal sindacato giudiziale: struttura e funzione del limite. – 2. Il limite nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: controllo
procedimentale (nel diritto comunitario) vs. controllo sostanziale (eventualmente, nel diritto interno). – 3. La portata del limite: le clausole
esenti dal controllo giudiziale. – 4. La trasparenza «presa sul serio»: chiarezza della clausola e
comprensibilità delle sue implicazioni economiche. – 5. Le conseguenze del difetto di chiarezza
e comprensibilità. – 6. Come evitare un paradosso: l’integrazione legislativa della clausola essenziale ritenuta abusiva .
1. L’esclusione dell’equilibrio economico dello scambio dal sindacato giudiziale: struttura e funzione del limite. In
base all’art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE, il
giudizio relativo al carattere abusivo di una
clausola non verte sull’oggetto principale del
contratto, né sul rapporto tra il prezzo e i beni
o i servizi forniti al consumatore, purché tali
elementi siano definiti in modo chiaro e comprensibile. La disposizione è stata recepita senza significative variazioni dal legislatore italiano nel contesto del codice del consumo (art.
34, comma 2o).
Il limite è subordinato alla sussistenza di
due requisiti: l’attinenza della clausola all’oggetto principale del contratto o al rapporto
tra prezzo e prestazione e la formulazione
chiara e trasparente. In relazione ad entrambi,
il dettato normativo è caratterizzato da una
notevole indeterminatezza semantica: una
conseguenza inevitabile del carattere compromissorio della direttiva, che persegue il tentativo di conciliare la protezione del consumatore con il rispetto della logica dell’economia
di mercato. Diviene allora particolarmente
importante identificare la funzione della disposizione: essa offre indicazioni rilevanti per
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
324
individuare le clausole immuni dal sindacato
giudiziale ( 1 ).
Come è noto, nella proposta elaborata dalla
Commissione europea all’inizio degli anni ’90
non era previsto alcun limite al controllo giurisdizionale sulle clausole abusive; la norma oggi
espressa dall’art. 4, comma 2o, (art. 34, comma
2o, cod. cons.) è stata invece introdotta per iniziativa del Consiglio, sulla base del suggerimento dei due autori tedeschi Brandner ed Ulmer. Commentando la proposta della Commissione, essi osservarono che la soggezione dei
termini dello scambio al controllo giudiziale
sarebbe stata incompatibile con i postulati dell’economia di mercato ( 2 ). In un sistema economico e giuridico basato sul mercato e sulla
concorrenza tra operatori economici spetta alle
parti, e non al giudice, definire il prezzo e l’oggetto principale del contratto. La definizione
dei lineamenti dell’operazione economica è
dunque riservata all’autonomia privata. Se non
fosse così, la concorrenza su cui è basato il
mercato comune europeo risulterebbe compromessa: il consumatore non cercherebbe di
contrarre con l’imprenditore che formula l’offerta più vantaggiosa, in quanto rivolgendosi al
giudice potrebbe ottenere in un secondo tempo l’eliminazione delle condizioni economiche
sfavorevoli e la loro sostituzione con termini
più vantaggiosi.
Se allora deve essere escluso un sindacato sul
merito dell’operazione economica, il consumatore può essere tutelato più efficacemente assi( 1 ) Cfr. M. Schillig, Directive 93/13 and the
«Price Term Exemption»: a Comparative Analysis in
the Light of the «Market for Lemons» Rationale, 60
International and Comparative Law Quarterly, 933,
935 (2011).
( 2 ) H.E. Brandner-P. Ulmer, The Community
Directive on Unfair Terms in Consumer Contracts:
Some Critical Remarks on the Proposal Submitted by
the EC Commission, 28 Common Market Law Review, 656 (1991).
NGCC 2015 - Parte seconda
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Contratti di consumo
curando la trasparenza delle condizioni contrattuali ( 3 ). Non è opportuno che il giudice
valuti l’equilibrio economico del contratto; è
invece auspicabile che egli verifichi la comprensibilità del termini contrattuali e l’adeguatezza delle informazioni fornite al consumatore
nella fase che precede la conclusione dell’accordo ( 4 ).
Nella riflessione dottrinale che segue all’entrata in vigore della dir. n. 93/2013 UE ed alla
sua recezione da parte dei legislatori nazionali,
il limite previsto dall’art. 4, comma 2o, viene
giustificato in sintonia con l’opinione dei due
autori tedeschi ( 5 ). Siccome il consumatore
non presta attenzione alle clausole accessorie –
che non definiscono la prestazione principale
( 3 ) Eid., The Community Directive, cit., 656.
( 4 ) Per ulteriori informazioni sulla genesi della
direttiva, con particolare riferimento all’esenzione
prevista dall’art. 4, comma 2o, cfr. H.W. MicklitzN. Reich, The Court and Sleeping Beauty: the Revival of the Unfair Contract Terms Directive, 51 Common Market Law Review, 771, 774 (2014); H.W.
Micklitz, Unfair Terms in Consumer Contracts, in
N. Reich-H.W. Micklitz-P. Rott-K. Tonner
(eds.), European Consumer Law, Intersentia, 2014,
127-133; M.W. Hesselink, Unfair Prices in the
Common European Sales Law, in S. Vogenauer-L.
Gullifer (eds.), English and European Perspectives
on Contract and Commercial Law: Essays in Honour
of Hugh Beale, Hart, 2014, 231; M. Schillig, Directive 93/13 and the «price term exemption», cit., 937
s.
( 5 ) Cfr. H.W. Micklitz, Unfair Terms in Consumer Contracts, cit., 145; S. Weatherill, EU Consumer Law and Policy, 2nd ed., Edward Elgar, 2013,
153-156; M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 937-945; P. Nebbia, Unfair Contract Terms, in C. Twigg-Flesner (ed.),
The Cambridge Companion to European Union Private Law, Cambridge University Press, 2010, 219.
V. anche The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer
Contracts: Advice to the Department for Business, Innovation and Skills, marzo 2013, 8-15; The Law
Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: a New
Approach?, Issues Paper, luglio 2012, 23-26, 30-32
(entrambi i documenti sono reperibili su http://
lawcommission.justice.gov.uk/); Principles of the Existing EC Contract Law, Sellier, 2009, Article
6:303(2), Comment by T. Pfeiffer and M. Ebers,
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del contratto e il prezzo dovuto, ma altri aspetti del rapporto – non effettua rispetto ad esse
una scelta consapevole, sicché non è protetto
dal meccanismo della libera concorrenza. In
relazione alle clausole che non definiscono il
nucleo dell’operazione economica, è dunque
necessario tutelare il consumatore mediante un
meccanismo esterno alla dinamica del mercato
qual è il sindacato giudiziale volto ad accertare
il carattere abusivo delle condizioni contrattuali. Il medesimo consumatore, invece, presta attenzione alle clausole che definiscono i beni e i
servizi fornitigli dal professionista e il prezzo
dovuto in relazione ad essi. Egli effettua la sua
scelta considerando tali condizioni contrattuali, sicché in relazione ad esse è protetto dal
meccanismo della libera concorrenza; siccome
la scelta cade sugli operatori che offrono le
condizioni economiche più vantaggiose, quelli
che forniscono beni o servizi a condizioni meno favorevoli tendono ad essere esclusi dal
mercato.
Ora, se le clausole essenziali potessero essere
sindacate dal giudice – ed eventualmente sostituite con condizioni economiche più favorevoli
al consumatore – il meccanismo della libera
concorrenza non funzionerebbe correttamente. Confidando nella rideterminazione giudiziale delle condizioni contrattuali, il consumatore non sarebbe indotto a individuare l’offerta
più vantaggiosa; la selezione degli operatori efficienti e l’esclusione dal mercato di quelli inefficienti sarebbe assai più lenta e complessa,
perché anziché essere realizzata in modo spontaneo e diretto dipenderebbe dal funzionamento di un congegno legale.
D’altra parte, il controllo sulle clausole «accessorie» previsto dalla direttiva consente al
consumatore di concentrare l’attenzione sulle
condizioni economiche offerte dal professionista favorendo lo sviluppo di un mercato realmente concorrenziale ( 6 ). Il sindacato di vessatorietà, infatti, permette di escludere dal mercato gli operatori che offrono solo in apparen-
327; Draft Common Frame of Reference (d’ora in
avanti, DCFR), II - 9:406, Comment, A (Sellier,
2009, 646).
( 6 ) Sul punto v., in particolare, H.W. Micklitz,
Unfair Terms in Consumer Contracts, cit., 129.
325
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za condizioni economiche concorrenziali, perché la convenienza del prezzo è dovuta al fatto
che le altre clausole favoriscono i loro interessi
pregiudicando quelli del consumatore.
Sulla base di un noto studio di analisi economica del diritto ( 7 ) si fornisce, poi, una giustificazione basata sulla dinamica delle contrattazioni in una situazione di asimmetria informativa ( 8 ). Come l’acquirente di un’automobile usata non è generalmente consapevole
delle sue reali condizioni, così il consumatore
non è probabilmente a conoscenza dell’esatto
contenuto delle condizioni generali di contratto: per risparmiare costi transattivi e minimizzare lo sforzo cognitivo relativo alla conclusione del contratto, egli considera solo alcune
clausole, ed in particolare quelle che definiscono l’oggetto principale e il prezzo. Gli operatori economici, consapevoli di questo fatto,
sono indotti ad offrire beni e servizi a prezzi
vantaggiosi per il consumatore, redigendo correlativamente clausole a lui sfavorevoli in relazione agli aspetti del rapporto contrattuale
che non sollecitano la sua attenzione. Per recuperare competitività rispetto ai concorrenti
che operano in questo modo, anche altri imprenditori seguiranno il loro esempio: se non
lo facessero perderebbero clienti, in quanto
non potrebbero offrire condizioni economiche
ugualmente favorevoli. Si instaura, così, una
gara al ribasso che porta al progressivo deterioramento delle condizioni contrattuali a cui
il consumatore non presta attenzione al momento della scelta dell’interlocutore che gli
fornisce beni o servizi. Per effetto di tale meccanismo, può verificarsi la scomparsa di un
mercato, o almeno di un suo settore rilevante:
vengono infatti emarginati dal mercato gli imprenditori che offrono condizioni economiche
meno favorevoli di altri, redigendo tuttavia
clausole che regolano in modo più equilibrato
( 7 ) Cfr. G. Akerlof, The Market for Lemons:
Quality Uncertainty and the Market Mechanism, 84
Quarterly Journal of Economics, 488 (1970).
( 8 ) Cfr. M. Schillig, Directive 93/13 and the
«Price Term Exemption», cit., 940-945. Sulla stessa
linea, v. H.B. Schäfer-P.C. Leyens, Judicial Control of Standard Terms and European Private Law, in
P. Larouche-F. Chirico (eds.), Economic Analysis
of the DCFR, Sellier, 2010, 104 s.
326
e vantaggioso per il consumatore altri aspetti
del rapporto.
Per evitare un simile fallimento del mercato
è necessario un intervento esterno, qual è il sindacato sulle clausole che la generalità dei consumatori non prende in considerazione al momento della conclusione del contratto. In quest’ottica, invece, meritano di essere escluse dal
controllo giudiziale le clausole che la generalità
dei consumatori prende in considerazione
quando si tratta di scegliere il professionista
con cui conclude il contratto ( 9 ). Ebbene, siccome per risparmiare tempo e costi transattivi i
consumatori tendono a considerare solo le
clausole la cui applicazione si rende necessaria
ai fini dell’esecuzione del contratto, solo tali
clausole dovrebbero essere escluse dal sindacato di vessatorietà: come è evidente, esse si identificano con quelle che definiscono i beni o i
servizi forniti dal professionista e il prezzo dovuto dal consumatore.
Se tuttavia la clausola, pur sollecitando l’attenzione della generalità dei consumatori, non
è stata redatta chiaramente, viene meno la ragione giustificativa della sua esenzione dal controllo giudiziale. Il consumatore non è stato
posto in condizione di scegliere consapevolmente, sicché non è tutelato dal meccanismo
della concorrenza tra operatori economici: di
qui l’estensione del sindacato alle clausole che
pur determinando l’oggetto principale del contratto e il prezzo non sono trasparenti.
A fondamento del limite può essere indicata
anche una ragione di carattere strettamente
giuridico. Una volta affermata la nullità di una
clausola che verte sull’oggetto principale o sul
prezzo, il contratto non può essere attuato: la
nullità si estende dunque all’intero contratto, a
meno che la clausola non possa essere sostituita da una regola legale o giudiziale. È appena il
caso di osservare, a questo proposito, che la
nullità totale rischia di pregiudicare il consumatore, il quale non ha più titolo per fruire dei
beni o dei servizi fornitigli e può vedersi obbligato a restituirli. Ora, escludendo le clausole
essenziali (purché trasparenti) dal sindacato
giudiziale il legislatore evita il verificarsi di una
( 9 ) Cfr. M. Schillig, Directive 93/13 and the
«Price Term Exemption», cit., 960.
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situazione che metterebbe l’interprete di fronte a una scomoda alternativa: affermare la nullità dell’intero contratto, con la conseguenza
paradossale di pregiudicare il consumatore, o
provvedere ad integrare la lacuna mediante
una norma legale o giudiziale. Nella seconda
ipotesi, siccome difficilmente la legge determina l’oggetto principale del contratto o il prezzo, il giudice nazionale può vedersi costretto
ad elaborare una nuova regola volta ad integrare la lacuna.
Una conferma dell’attendibilità di tale ulteriore giustificazione si ricava dall’analisi del
modo in cui l’art. 4, comma 2o, è stato recepito
nell’ordinamento tedesco. A differenza di
quanto è accaduto in molti altri stati, che hanno riprodotto pedissequamente il testo della
direttiva, in Germania la limitazione è stata introdotta in modo originale. Possono essere sindacate dal giudice solo le clausole delle condizioni generali di contratto che derogano a disposizioni di legge o le integrano (§ 307, comma 3o, BGB); e siccome non esistono norme
che definiscono l’oggetto principale del contratto o regolano il rapporto tra il prezzo e la
prestazione, le corrispondenti clausole non
possono essere sindacate dal giudice. Se, dunque, sono assoggettate a controllo giudiziale
solo le clausole che – qualora ritenute abusive
– verrebbero sostituite da norme di legge,
l’inefficacia non può mai estendersi all’intero
contratto.
In primo luogo, la soluzione adottata dal legislatore tedesco risponde all’esigenza di offrire al giudice un valido parametro sulla base del
quale valutare il carattere vessatorio delle clausole unilateralmente predisposte: quello offerto dal diritto dispositivo, derogato dalle condizioni generali di contratto adottate dal professionista. Secondariamente, si intende evitare
che l’inefficacia di una clausola possa estendersi all’intero contratto. La lacuna che consegue
all’inefficacia della clausola viene integrata da
una norma dispositiva; se non può essere integrata, la clausola è esente dal controllo giudiziale.
2. Il limite nella giurisprudenza della
Corte di Giustizia: controllo procedimentale (nel diritto comunitario) vs.
controllo sostanziale (eventualmente,
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nel diritto interno). Nella giurisprudenza
della Corte di Giustizia è ricorrente l’affermazione in base alla quale la finalità della dir. n.
93/2013 UE è quella di proteggere il consumatore, quale soggetto che si trova in una condizione di inferiorità economica e informativa rispetto al professionista ( 10 ). In relazione alle
clausole che definiscono l’oggetto principale
del contratto e il prezzo, il consumatore viene
tuttavia protetto in una prospettiva di carattere
non sostanziale, ma procedimentale. La direttiva – e così il codice del consumo – prescrive
che le clausole essenziali debbano essere chiare
e comprensibili (artt. 4, comma 2o, e, rispettivamente, 34, comma 2o): se tale requisito viene
osservato la volontà del consumatore si esprime correttamente, ed anche una clausola che
per ipotesi preveda un prezzo molto superiore
a quello di mercato non può essere sindacata
dal giudice. Ad ulteriore giustificazione di tale
conclusione, si afferma che il giudice non disporrebbe di parametri affidabili sulla base dei
quali valutare l’equilibrio dello scambio ( 11 ).
Tanto nella dottrina, quanto nelle istituzioni
europee non sono mancate opinioni volte a superare il limite previsto dall’art. 4, comma 2o, e
ad ammettere un controllo sull’equilibrio economico del contratto benché la clausola sia redatta in modo chiaro e comprensibile. Il giudice, in altri termini, non dovrebbe limitarsi ad
accertare che sussistano le condizioni perché il
consumatore concluda il contratto in modo
( 10 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa
C-26/13, par. 39, in Contratti, 2014, 853, con nota
di Pagliantini, L’equilibrio soggettivo dello scambio (e l’integrazione) tra Corte di Giustizia, Corte costituzionale ed ABF: il «mondo di ieri» o un trompe
l’oeil concettuale?; Corte giust. UE, 16.1.2014,
causa C-226/12, § 20; Corte giust. UE, 14.3.2013,
causa C-415/11, § 44; Corte giust. UE, 14.6.2012,
causa C-618/10, § 39; Corte giust. UE, 3.6.2010,
causa C-484/08, § 27; Corte giust. UE, 6.10.2009,
causa C-40/08, § 29; Corte giust. UE, 26.10.2006,
causa C-168/05, § 25; Corte giust. UE, 27.6.2000,
cause C-240/98 a C-244/98, § 25.
( 11 ) V., negli stessi termini, la Relazione dell’Avv.
Gen. Wahl del 12.2.2014 nella causa C-26/13, cit.
(§ 69); Principles of the Existing EC Contract Law,
cit., Art. 6:303(2), Comment by T. Pfeiffer and M.
Ebers, 327; Draft Common Frame of Reference, II 9:406, Comment, A.
327
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consapevole e informato, ma sarebbe tenuto a
verificare che il contenuto della clausola non
comporti un eccessivo squilibrio del rapporto
a vantaggio del professionista e a detrimento
del consumatore.
In quest’ottica va considerata la recente deliberazione del Parlamento Europeo favorevole
all’eliminazione del limite dalla proposta di regolamento per un diritto comune europeo della vendita (CESL) ( 12 ). Nella medesima prospettiva va ricordata l’opinione di chi osserva
che in presenza di uno squilibrio che interessa
le clausole essenziali il consumatore viene maggiormente pregiudicato – e merita, dunque, di
essere maggiormente tutelato – di quanto non
sia in presenza di uno squilibrio che caratterizza le clausole accessorie. Lo squilibrio che riguarda le clausole relative al prezzo e all’oggetto principale del contratto potrebbe, inoltre,
essere accertato più facilmente di quello attinente alle altre clausole del contratto: mentre
in relazione alle seconde occorre verificare se
esse non sono compensate da altre clausole favorevoli al consumatore, le prime possono essere valutate effettuando un confronto con i
prezzi praticati sul mercato per analoghi beni e
servizi ( 13 ).
Sempre nella medesima prospettiva, occorre
ricordare che molti stati hanno scelto di non
recepire l’art. 4, comma 2o, della direttiva ( 14 ).
Se in relazione a quelli dell’area mediterranea
la scelta di non esplicitare il limite in sede legislativa può prestarsi ad interpretazioni diver-
( 12 ) Cfr. Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 26 febbraio 2014 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a un
diritto comune europeo della vendita (COM(2011)0635 - C7-0329/2011 - 2011/0284(COD). Per un’analisi dettagliata, v. M.W. Hesselink, Unfair Prices in the
Common European Sales Law, cit., 225-236.
( 13 ) Cfr. M.W. Hesselink, Unfair Prices, cit.,
227-236; Id., Unfair Terms in Contracts Between Businesses, in R. Schulze and J. Stuyck (eds.), Towards a European Contract Law, Sellier, 2011, 133.
( 14 ) Si tratta di Austria, Danimarca, Grecia, Lettonia, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Spagna e
Svezia. Cfr. M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, in Schulte-Nölke-C. Twigg-Flesner-M.
Ebers (eds.), EC Consumer Law Compendium, Sellier, 2008, 232; DCFR, Article II - 9:406, Notes, 6.
328
se ( 15 ), con riferimento ai paesi dell’area scandinava essa esprime con ogni probabilità la volontà di avallare un controllo sostanziale sulle
condizioni economiche dello scambio ( 16 ). In
Europa, in definitiva, non mancano opinioni e
proposte volte a superare il limite espresso dall’art. 4, comma 2o, e ad ammettere un sindacato sul contenuto delle clausole essenziali anche
se redatte chiaramente.
Non è questa, tuttavia, la posizione assunta
dalla Corte di giustizia, che nel contesto di una
recente pronuncia (Kasler) ha interpretato la
direttiva in chiave procedimentale: se sono
soddisfatte le condizioni necessarie perché il
consumatore concluda il contratto in modo
consapevole e informato, le clausole che determinano l’oggetto principale e il prezzo sono
esenti dal controllo giudiziale ( 17 ). In quest’ot-
( 15 ) È questo il caso della Spagna: mentre secondo alcune opinioni la scelta di non recepire il limite
previsto dall’art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE
manifesta la scelta di ammettere il sindacato giudiziale sulle clausole essenziali – ancorché redatte in
modo chiaro e comprensibile – altri ritengono che
una regola analoga, sebbene non espressa in sede legislativa, sia ugualmente vigente, in quanto coerente
con la tutela costituzionale dell’autonomia privata.
Cfr. M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, cit.,
232; DCFR, Article II - 9:406, Notes, 6.
( 16 ) Cfr. T. Wilhelmsson, Standard Forms Conditions, in A.S. Hartkamp-M.W. Hesselink-E.H.
Hondius-C. Mak-C. Edgar du Perron (eds.),
Towards a European Civil Code, Kluwer, 2011, 583584, testo e nt. 53.
( 17 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa
C-26/13, cit. La controversia portata all’attenzione
della Corte verte su un contratto di mutuo espresso
in valuta straniera intercorrente tra una banca ungherese e una coppia di coniugi della medesima nazionalità. Il capitale erogato dalla banca, le rate in
cui viene frazionato il rimborso e gli interessi corrispettivi vengono tutti corrisposti in valuta ungherese
(fiorino); il loro importo, tuttavia, viene rapportato
alla somma di denaro corrispondente espressa in
franchi svizzeri in base al tasso di cambio applicabile nei diversi momenti in cui si articola il rapporto.
L’ammontare del capitale che i mutuatari sono obbligati a restituire si determina in un importo di
franchi svizzeri corrispondente alla somma in valuta
nazionale ad essi trasferita sulla base del corso di acquisto della valuta straniera praticato dalla banca in
un preciso momento: quello dell’erogazione del muNGCC 2015 - Parte seconda
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tica, la dir. n. 93/2013 UE si limita ad assicurare le condizioni necessarie perché il consumatuo. La misura delle rate in cui viene frazionato il
rimborso dovuto dai mutuatari viene invece determinata sulla base del corso di vendita della valuta
straniera praticato dalla banca il giorno immediatamente precedente quello della scadenza: esso si
identifica con il tasso di cambio applicabile, nel corso del rapporto, nei giorni immediatamente precedenti quelli della scadenza delle rate di volta in volta
dovute dai mutuatari.
Come è evidente, l’attuazione del contratto risulta
rischiosa per il mutuatario, in quanto la misura del
capitale che egli è obbligato a restituire dipende dall’andamento del tasso di cambio: se il differenziale
tra il tasso di cambio mediamente praticato nel corso del rapporto e il tasso di cambio applicato all’atto
dell’erogazione del capitale premia la valuta straniera, che si apprezza rispetto a quella nazionale, l’attuazione del rapporto può divenire estremamente
svantaggiosa per il mutuatario, e corrispondentemente vantaggiosa per la banca.
Nel caso di specie, è probabile che tale eventualità si fosse effettivamente realizzata, in quanto la
quotazione del franco svizzero rispetto al fiorino ungherese era notevolmente aumentata, nel corso del
rapporto, rispetto a quella registrata quando la banca aveva erogato il capitale. I mutuatari, allora, chiedono che venga accertato il carattere abusivo della
clausola ai termini della quale le rate, destinate ad
essere pagate in valuta nazionale, sarebbero state determinate sulla base del corso di vendita della valuta
straniera praticato dalla banca il giorno prima della
scadenza. Essi sostengono che una volta riconosciuta l’invalidità di tale clausola il capitale da restituire
sia da determinare nella misura della somma in valuta nazionale erogata dall’istituto di credito, sicché
dovrebbero essere rimborsati alla banca tanti fiorini
ungheresi quanti la stessa ha erogato a seguito della
conclusione del contratto. Il mutuo espresso in valuta straniera, dunque, sarebbe da convertire in un
mutuo (non solo erogato e restituito, ma) interamente determinato in valuta nazionale, con il probabile vantaggio di un più conveniente tasso di interesse.
Accolta in primo e in secondo grado, la domanda
viene portata all’attenzione della Suprema Corte ungherese (Kúria). Quest’ultima ritiene opportuno ricorrere all’interpretazione pregiudiziale della Corte
di Giustizia. Tutte le questioni sollevate riguardano
la clausola che determina l’oggetto delle singole rate
in considerazione del corso di vendita della valuta
straniera applicato dalla banca il giorno prima della
scadenza. Le soluzioni adottate dalla Corte sono ilNGCC 2015 - Parte seconda
tore concluda consapevolmente il contratto:
come si è ritenuto in altra occasione (Caja de
Ahorros), una volta assicurate tali condizioni
un eventuale controllo del giudice sull’equilibrio economico della clausola può avvenire solo in base al diritto nazionale ( 18 ).
D’altra parte, anche in relazione alle clausole
che non definiscono il prezzo o l’oggetto principale del contratto la Corte di giustizia si
astiene, allo stato attuale, dall’elaborare una
nozione uniforme di «significativo squilibrio»,
rinviando la sua identificazione alla legislazione nazionale; si è infatti ritenuto che il giudice
debba accertare la sussistenza di tale requisito
sulla base di un confronto tra la clausola predisposta dal professionista e la disciplina interna.
Si trattava, in un caso, di una clausola inserita
in un contratto di mutuo che prevedeva a carico del mutuatario interessi di mora molto elevati e legittimava la banca ad esigere immediatamente la restituzione del capitale a seguito
del mancato pagamento di alcune rate
(Aziz) ( 19 ); nell’altro, di una clausola che poneva a carico dell’acquirente di un edificio di
nuova costruzione l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili: imposta che
in base alla legge nazionale avrebbe dovuto essere assolta dal costruttore-venditore (Constructora Principado) ( 20 ).
Allo stato attuale dell’evoluzione giurisprudenziale, dunque, la direttiva detta una disciplina autosufficiente quando si tratta di verificare, in un’ottica di carattere procedimentale,
se il consumatore ha espresso correttamente la
sua volontà. Quando invece si tratta di valutare
il contenuto della clausola sottoscritta dal consumatore, per identificare una situazione di significativo squilibrio, il giudice deve fare riferimento alla legislazione nazionale, sebbene quest’ultima assuma una diversa valenza in dipendenza delle caratteristiche della clausola.
lustrate, nel corso del saggio, in relazione ai diversi
aspetti del sindacato sulle condizioni economiche
dello scambio: v., infra, §§ 3-6.
( 18 ) Cfr. Corte giust. UE, 3.6.2010, causa
C-484/08, cit., §§ 45-49.
( 19 ) Cfr. Corte giust. UE, 14.3.2013, causa
C-415/11, cit., §§ 68-76.
( 20 ) Cfr. Corte giust. UE, 16.1.2014, causa
C-226/12, cit., §§ 28-30.
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Infatti, se la clausola verte sull’oggetto principale del contratto o sul prezzo la legge nazionale – in deroga all’art. 4, comma 2o, della direttiva – può legittimare il giudice ad effettuare
un controllo sul suo contenuto, sebbene il testo sia stato redatto in modo chiaro e comprensibile: la conclusione è giustificata dall’art. 8
della medesima direttiva, che ammette l’elaborazione di discipline nazionali più favorevoli al
consumatore (Caja de Ahorros) ( 21 ). Va ricordato, a questo proposito, che in base alla direttiva sui diritti dei consumatori e degli utenti il
sindacato sulle clausole essenziali redatte in
modo chiaro e comprensibile – previsto dalle
legislazioni nazionali in deroga all’art. 4, comma 2o, – deve essere comunicato alla Commissione, che lo rende noto a tutti i paesi dell’Unione ( 22 ): il legislatore comunitario avalla,
così, l’approdo della Corte di giustizia.
Se invece la clausola non verte sul prezzo o
sull’oggetto principale del contratto, la stessa
direttiva ammette che sia assoggettata a controllo giudiziale sebbene sia stata redatta in
modo trasparente. In base alla giurisprudenza
della Corte di giustizia, peraltro, il giudice nazionale accerta la sussistenza del significativo
squilibrio confrontando la clausola con la disciplina interna. In ogni caso, dunque, la legge
nazionale applicabile alla controversia assume
un ruolo molto rilevante quando il sindacato
verte sul contenuto della clausola.
In una precedente occasione, si è osservato
che la funzione nomofilattica della Corte di
giustizia non è omogenea, ma varia in dipendenza delle disposizioni che il giudice è chiamato a interpretare ( 23 ).
Il ruolo della Corte appare molto significativo quando si tratta di identificare le fattispecie
regolamentate dalla direttiva. Rispetto alle disposizioni che individuano l’ambito di applicazione della disciplina – quali sono, a titolo
esemplificativo, quelle che definiscono i termini «professionista» e «consumatore» – l’inte-
grazione si approssima all’unificazione, in
quanto un testo normativo sostanzialmente
uniforme viene applicato sulla base dei criteri
formulati da un interprete egemone.
Il sistema, invece, perde coesione quando si
tratta di applicare le disposizioni che presuppongono stabilita l’applicabilità dell’atto normativo in cui sono inserite e contengono clausole generali: ne costituisce un esempio paradigmatico la definizione di clausola abusiva
(art. 3, dir. n. 93/2013 UE). In relazione ad esse, il processo di integrazione si arresta allo stadio dell’armonizzazione. Da un lato, assumono
notevole rilevanza le scelte effettuate dai legislatori nazionali tanto all’atto della recezione
della direttiva, quanto in sede di elaborazione
di altre disposizioni che il giudice può assumere a riferimento quando applica le norme di
derivazione comunitaria. Dall’altro, la Corte di
Lussemburgo è riluttante a promuovere l’interpretazione uniforme delle clausole generali
contenute nella normativa comunitaria.
Quando è stata formulata tale ipotesi, la
Corte non aveva ancora avuto occasione di
pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni che identificano le clausole abusive, ed in
particolare sull’art. 3, dir. n. 93/2013 UE. Nel
momento in cui si scrive, più di dieci anni dopo, si possono invece annoverare sul punto diverse pronunce, che testimoniano la tensione
dei giudici nazionali verso l’elaborazione di
una nozione uniforme. Risultano tuttavia confermate le resistenze al processo di integrazione, che precludono la formulazione di criteri
idonei a governare il sindacato sul contenuto
delle clausole contrattuali e inducono la Corte
di giustizia ad indicare ai giudici nazionali la
via del confronto con il diritto interno. Se tale
orientamento verrà perseguito, la nozione di
clausola vessatoria non sarà uniforme, ma risulterà variabile in dipendenza dei contenuti
delle legislazioni nazionali e dei criteri interpretativi adottati in relazione ad esse.
( 21 ) V., supra, nt. 18.
( 22 ) Cfr. art. 8 bis, dir. n. 93/2013 UE, introdotto
dall’art. 32, dir. 83/2011 UE.
( 23 ) V., volendo, Dellacasa, Sulle definizioni legislative nel diritto privato. Tra codice e nuove leggi
civili, Giappichelli, 2004, 398-405, a cui si rinvia per
ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali.
3. La portata del limite: le clausole
esenti dal controllo giudiziale. Escludendo dal controllo giudiziale l’oggetto principale del contratto e il prezzo – sempre sul presupposto della trasparenza delle relative clausole – l’art. 4, comma 2o, dir. n. 93/2013 UE
realizza un compromesso tra la tutela dei diritti
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del consumatore e il rispetto di valori fondanti
dell’economia di mercato quali sono l’autonomia privata e la libera concorrenza.
Il carattere compromissorio della disposizione contribuisce a spiegare l’indeterminatezza
delle espressioni usate e i conseguenti dubbi
interpretativi. Se certamente la clausola che definisce il prezzo della prestazione caratteristica
è esente dal controllo giudiziale, è dubbio che
possa essere sindacata una clausola che quantifica il corrispettivo di determinati servizi eseguiti, nel corso del rapporto, in dipendenza del
verificarsi di circostanze contingenti.
Non stupisce, allora, che sul punto specifico
la giurisprudenza europea approdi a soluzioni
diverse. Nel 2009, la Suprema Corte inglese ha
interpretato estensivamente l’esenzione in relazione a una clausola che prevedeva a carico dei
clienti di una banca l’obbligo di pagare determinate somme di denaro al verificarsi di uno
scoperto non preventivamente autorizzato ( 24 ).
In contrasto con l’opinione dei giudici di grado
inferiore e con alcuni importanti precedenti
giurisprudenziali ( 25 ), la Suprema Corte ha ritenuto «inerente al prezzo» ogni clausola che
prevede a carico del consumatore l’obbligo di
pagare una somma di denaro al verificarsi di
determinate circostanze; sebbene tali circostanze siano contingenti – cioè, non si verifichino necessariamente nel corso del rapporto – la
( 24 ) Cfr. Office of Fair Trading v Abbey National
plc [2008] EWHC 875 (Comm) (Andrew Smith J);
[2009] EWCA Civ 116; [2009] 2 WLR 1286; [2009]
UKSC 6; [2009] 3 WLR 1215. Per una valutazione
critica, cfr. S. Whittaker, Unfair Contract Terms,
Unfair Prices and Bank Charges, 74 Modern Law Review, 106 (2011); S. Weatherill, EU Consumer
Law and Policy, cit., 155; C. Willet, General Clauses and the Competing Ethics of European Consumer
Law in the UK, 71 Cambridge Law Journal, 412
(2012). V. anche The Law Commission and the
Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice, cit., 9-10; Id., Unfair Terms
in Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit., 3-6, 42-52.
( 25 ) Director General of Fair Trading v First National Bank [2001] UKHL 52, [2002] 1 AC 481; Office of Fair Trading v Foxton Ltd, [2009] EWHC
1681 (Ch), [2009] 3 EGLR 133; Bairstow Eves London Central Limited v Smith, Stacy Hill and Darlingtons [2004] ECHC 263 (QB).
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clausola che addebita al consumatore la somma deve ritenersi ugualmente sottratta al controllo giudiziale.
Diversamente orientata la giurisprudenza del
BGH tedesco. Si è infatti ritenuto che non definiscano il prezzo né l’oggetto principale del
contratto – e non siano, dunque, esenti dal
controllo giudiziale – clausole contenute nei
contratti di conto corrente bancario che addebitano al consumatore somme di denaro in dipendenza di circostanze che richiedono l’intervento della banca ( 26 ). In quest’ottica non determina il prezzo, ed è dunque assoggettata a
controllo giudiziale, una clausola che addebita
al cliente una somma di denaro in dipendenza
di un’attività che non costituisce un servizio reso al cliente, in quanto la banca la svolge nel
proprio interesse: è quanto accade quando
l’istituto di credito rifiuta il pagamento di una
somma di denaro a causa della mancata disponibilità di fondi sul conto del correntista ( 27 ).
Si ritiene invece esente dal controllo giudiziale
una clausola che addebita al consumatore una
somma di denaro quale corrispettivo di un servizio prestato nell’interesse di quest’ultimo: è il
caso della clausola che imputa al cliente un addebito supplementare per l’uso della carta di
credito all’estero ( 28 ).
A parziale giustificazione di tale divergenza,
si osserva che mentre le banche tedesche esigono dal correntista un corrispettivo che remunera i servizi prestati, quelle inglesi forniscono il
servizio gratuitamente, salvo addebitare ai
clienti somme piuttosto elevate al verificarsi di
particolari circostanze, quali, appunto, lo scoperto non autorizzato. Tali somme costituiscono dunque, dal punto di vista economico, le
entrate della banca che finanziano la prestazione del servizio; il medesimo servizio fornito da
un istituto di credito tedesco viene invece finanziato con il corrispettivo pagato dai clienti ( 29 ).
( 26 ) Per un’analisi dettagliata, si rinvia a M.
Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term
Exemption», cit., 950-958.
( 27 ) BGH, 21.10.1997-XI ZR 5/97, [1998] Neue
Juristische Wochenschrift, 309, 310.
( 28 ) BGH, 14.10.1997-XI ZR 167/96, [1998]
Neue Juristische Wochenschrift, 383.
( 29 ) Cfr. The Law Commission and the Scot331
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Per superare le divergenze determinate dalla
vaghezza del testo normativo, è inevitabile considerare la ragione giustificativa del limite previsto dall’art. 4, comma 2o. Sono esenti dal
controllo giudiziale le clausole alle quali il consumatore presta attenzione quando sceglie il
professionista che gli fornisce beni e servizi. La
rilevanza della clausola non deve essere considerata nella prospettiva del singolo consumatore, ma in un’ottica di carattere generale, sensibile alle dinamiche di mercato ( 30 ). La clausola non è esente dal sindacato se un professionista può inserirla nel regolamento contrattuale
senza conseguenze, in quanto i suoi clienti non
prestano attenzione ad essa: al verificarsi di
queste condizioni, la clausola non è assoggettata a pressione competitiva, sicché il consumatore deve essere tutelato mediante un meccanismo esterno al mercato qual è il sindacato giudiziale. La clausola, invece, è esente dal controllo del giudice se il consumatore presta attenzione ad essa quando effettua la propria
scelta. In questa ipotesi, il professionista non
può adottare una clausola abusiva senza perdere clienti: il consumatore, dunque, è tutelato
dal meccanismo della concorrenza.
Sulla base di questo criterio, una clausola
che obbliga il consumatore a pagare una somma di denaro non è esente dal controllo giudiziale quando la sua applicazione è contingente,
in quanto è subordinata al verificarsi di determinate circostanze nel corso del rapporto. La
grande maggioranza dei consumatori, infatti,
opera la sua scelta considerando esclusivamente il prezzo dovuto a fronte del bene o del servizio atteso; non viene invece dedicata attenzione alle clausole che prevedono l’obbligo di
pagare somme di denaro in dipendenza del verificarsi di circostanze contingenti.
Tale presunzione – incentrata sul comportamento della generalità dei consumatori – può
essere tuttavia superata se nella fase che precede la formazione dell’accordo e nello stesso testo contrattuale il professionista ha evidenziato
tish Law Commission, Unfair Terms in Consumer
Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit., 85.
( 30 ) In questo senso v., incisivamente, M. Schillig, Directive 93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 960.
332
la clausola, distaccandola dal resto delle condizioni generali di contratto e segnalandola all’attenzione del consumatore. Sollecitato dal professionista, che rende evidente la clausola, il
consumatore presta attenzione ad essa nel momento in cui sceglie di concludere il contratto
ed effettua un confronto con le condizioni
adottate da altri operatori economici. La clausola che addebita al consumatore somme di denaro viene così assoggettata a pressione competitiva; essa è esente dal controllo giudiziale
in quanto il consumatore è protetto dalla dinamica concorrenziale.
In questa prospettiva – basata da un lato sull’elaborazione dottrinale, dall’altro su una proposta della Law Commission inglese e scozzese ( 31 ) – assumono rilevanza tanto le caratteristiche oggettive della clausola, quanto il modo
in cui il professionista la evidenzia, segnalandola all’attenzione del consumatore.
La Corte di giustizia si è recentemente pronunciata sul punto, sostenendo l’opportunità
di intendere restrittivamente la portata dell’esenzione ( 32 ). La questione pregiudiziale
concerne un contratto di mutuo espresso in valuta straniera: la Corte viene sollecitata a chiarire se la clausola che determina l’oggetto delle
rate con riferimento al tasso di cambio registrato in prossimità della loro scadenza sia esente
dal sindacato giudiziale o se, al contrario, possa
essere valutata dal giudice ed eventualmente
qualificata abusiva ( 33 ).
L’analisi della questione è preceduta da alcune premesse ricorrenti nella giurisprudenza
comunitaria. Si ricorda che non spetta alla
Corte qualificare una determinata clausola come abusiva, in quanto solo il giudice nazionale
può pervenire a tale conclusione alla luce della formulazione della clausola, del tenore del
contratto e del contesto in cui esso è inseri( 31 ) V., rispettivamente, M. Schillig, Directive
93/13 and the «Price Term Exemption», cit., 958961 e The Law Commission and the Scottish
Law Commission, Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice, cit., 18-45; Id., Unfair Terms in Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper, cit.,
93-97.
( 32 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa
C-26/13, cit.
( 33 ) Per una sintesi della vicenda v., supra, nt. 17.
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to ( 34 ); se questo è vero, è compito del giudice
europeo interpretare la direttiva indicando a
quello nazionale i criteri che dovrà applicare
nella qualificazione della clausola ( 35 ). Si afferma, inoltre, che la dir. n. 93/2013 UE è finalizzata a proteggere il consumatore quale soggetto che si trova in una situazione di inferiorità economica e informativa nei confronti del
professionista; il sindacato giudiziale, dunque,
è orientato a sostituire l’equilibrio formale fissato dal contratto con un equilibrio sostanziale, elaborato assumendo a riferimento la differenza di conoscenze e forza contrattuale che
intercorre tra le parti ( 36 ).
Sulla base di tali premesse, si ritiene che i limiti al controllo giudiziale previsti dall’art. 4,
comma 2o, debbano essere interpretati restrittivamente, in quanto solo restringendo l’area
delle clausole immuni è possibile assecondare
la finalità di riequilibrare il rapporto contrattuale perseguita dalla direttiva.
Le clausole che definiscono «l’oggetto principale del contratto» vengono dunque identificate con quelle che prevedono le prestazioni
essenziali dei contratti intercorrenti tra un professionista e un consumatore. In osservanza del
criterio di ripartizione delle competenze appena indicato, la Corte non opera la qualificazione nel caso di specie; spetta infatti al giudice
nazionale valutare se la clausola che determina
l’ammontare delle rate in relazione al corso di
vendita della valuta straniera definisca una prestazione essenziale.
Molto probabilmente, ci sembra, la risposta
sarà positiva. Il rimborso del mutuo costituisce
una prestazione essenziale del contratto, e la
clausola impugnata ne determina la misura:
per ricordare la nota distinzione di Hart ( 37 ),
( 34 ) Cfr. Corte giust. UE, 21.3.2013, causa
C-92/11, §§ 42-48; Corte giust. UE, 26.4.2012,
causa C-472/10, § 22.
( 35 ) Cfr. Corte giust. UE, 14.3.2013, causa
C-415/11, cit., § 66; Corte giust. UE, 21.3.2013,
causa C-92/11, cit., § 48; Corte giust. UE,
26.4.2012, causa C-472/10, § 22; Corte giust. UE,
9.11.2010, causa C-137/08, § 44.
( 36 ) V., supra, nt. 10.
( 37 ) Cfr. H.L.A. Hart, Positivism and the Separation of Law and Morals, 71 Harvard Law Review,
593, 607 (1958).
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tale clausola non si colloca nella zona di penombra, ma rientra nel nucleo di significato sicuro dell’espressione usata dal legislatore ( 38 ).
4. La trasparenza «presa sul serio»:
chiarezza della clausola e comprensibilità delle sue implicazioni economiche.
Anche quando una clausola definisce l’oggetto
principale del contratto, il giudice può astenersi dal valutarne il carattere abusivo solo a condizione che essa sia stata formulata in modo
chiaro e comprensibile (art. 4, comma 2o, dir.
n. 93/2013 UE; art. 34, comma 2o, cod. cons.).
In una recente pronuncia (Kasler) ( 39 ), la
Corte di giustizia ha ricondotto tale requisito
all’obbligo di redazione chiara e comprensibile
che i termini dell’art. 5 (art. 35 cod. cons.) si
impone al professionista in relazione a tutte le
clausole contrattuali redatte per iscritto. Anziché essere intesi in senso grammaticale e testuale, inoltre, gli attributi della chiarezza e
comprensibilità vengono riferiti alle implicazioni economiche della clausola, nei suoi rapporti con gli altri termini contrattuali. Non è
sufficiente che il significato della clausola sia
( 38 ) La stessa Corte di giustizia, invece, perviene
ad una conclusione autosufficiente con riferimento
alla seconda limitazione espressa dall’art. 4, comma
2o: afferma, infatti, che la clausola impugnata non
determina il rapporto tra il prezzo e la prestazione
caratteristica in quanto l’istituto di credito non aveva acquistato la valuta straniera per conto del cliente. Il riferimento ai corsi di acquisto e di vendita della valuta estera effettuato dal contratto aveva esclusivamente la funzione di determinare per relationem
l’importo del capitale erogato e delle rate di rimborso; a tale riferimento non corrispondeva alcuna attività svolta dalla banca a beneficio del cliente sul
mercato valutario. Le somme che il cliente era obbligato a restituire alla banca in aggiunta al capitale
erogato, in altri termini, non remunerano alcun servizio, ma costituiscono la realizzazione del rischio
da lui assunto con la conclusione del contratto. Sulla
base di tale considerazione, si conclude senz’altro
che la clausola impugnata non ha la funzione di determinare il rapporto tra il prezzo dovuto dal cliente
e le prestazioni eseguite dalla banca, sicché sotto
questo specifico profilo tale clausola non merita di
essere esclusa dal sindacato giudiziale.
( 39 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa
C-26/13, cit.
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chiaro sotto il profilo grammaticale e sintattico; è invece necessario che il consumatore sia
in grado di comprendere le conseguenze economiche che derivano dalla sottoscrizione della clausola, nelle sue relazioni con le altre condizioni contrattuali.
Nel caso di specie – relativo a un mutuo
espresso in valuta straniera – il giudice nazionale è tenuto a verificare se i mutuatari fossero
in grado di comprendere che qualora nel corso
del rapporto la valuta straniera si fosse apprezzata rispetto a quella nazionale il rimborso del
capitale sarebbe divenuto più oneroso. L’accertamento deve essere effettuato alla luce di
tutte le circostanze del caso concreto, ed in
particolare delle informazioni comunicate al
consumatore nella fase che precede la formazione del contratto. La comprensibilità e la
chiarezza, dunque, sono riferibili non solo al
testo della clausola, ma al complesso delle informazioni fornite al consumatore. Il contenuto di tali informazioni deve essere tale da consentirgli di comprendere le conseguenze economiche che derivano dalla sottoscrizione della clausola e di effettuare su questa base una
scelta consapevole.
Tale interpretazione è da condividere, in
quanto coerente con la ragione che giustifica
l’esclusione delle clausole «essenziali» dal sindacato giudiziale. Se l’esenzione è dovuta al
fatto che il consumatore presta attenzione alla
clausola – e su questa base effettua un confronto con le offerte disponibili sul mercato – non è
sufficiente che il testo sia grammaticalmente
chiaro; occorre che grazie alle informazioni che
gli sono state comunicate il consumatore sia in
grado di comprendere le conseguenze economiche della clausola ed effettuare, così, una
scelta consapevole.
La medesima nozione si riscontra, sia pure in
modo meno evidente, in Invitel ( 40 ) e RWE
Vertrieb ( 41 ). Le due sentenze hanno ad oggetto, rispettivamente, una clausola che attribuiva
ad un operatore telefonico il diritto di variare i
costi addebitati al consumatore per il recapito
( 40 ) Corte giust. UE, 26.4.2012, causa C-472/
10, §§ 23-31.
( 41 ) Corte giust. UE, 21.3.2013, causa C-92/11,
§§ 42-55.
334
della fattura ed una clausola che consentiva ad
un’impresa somministrante gas naturale di modificare il prezzo del combustibile. Essendo
certo che tali condizioni contrattuali, contemplate dalla lista grigia [lett. j) ed l)], potessero
essere assoggettate a controllo giudiziale, si ritiene che la trasparenza e l’adeguatezza delle
informazioni fornite al consumatore possano
escluderne il carattere abusivo: a tale conclusione si perviene interpretando evolutivamente
le lettere j) ed l) dell’allegato, che disciplinano
le clausole per mezzo delle quali il professionista si riserva uno ius variandi. Occorre, allora,
che il consumatore sia informato sulle ragioni
che determinano la variazione dei costi a lui
addebitati e del prezzo dei beni e dei servizi
forniti, sulle modalità della variazione e sulla
legittimazione a recedere che acquisisce in conseguenza di essa: ne risulta che egli deve essere
posto in grado di prevedere la modificazione
delle condizioni contrattuali che il professionista può effettuare grazie alla clausola. Anche in
questo ambito, la trasparenza non si esaurisce
nella chiarezza grammaticale e sintattica, essendo invece necessario che il consumatore sia
in grado di comprendere effettivamente a quali
conseguenze si espone concludendo il contratto.
Una recente proposta della Law Commission
inglese e scozzese si orienta nella medesima direzione. Anche in base ad essa, non è sufficiente che le clausole «essenziali» abbiano un significato chiaro: è invece necessario che il professionista le abbia segnalate all’attenzione del
consumatore, in modo tale da consentirgli di
effettuare una comparazione con le altre offerte disponibili sul mercato. Per essere esclusa
dal controllo giudiziale, infatti, una clausola
che definisce l’oggetto principale del contratto
o il prezzo deve essere trasparente (transparent) ed evidente (prominent). In questo ambito, la trasparenza si identifica con la chiarezza
tipografica, grammaticale e sintattica della
clausola: essa costituisce, dunque, un requisito
testuale, applicabile a tutte le condizioni generali di contratto. L’evidenza interessa invece
solo le clausole essenziali, e giustifica la loro
esenzione dal controllo giudiziale; una clausola
è evidente se alla luce della sua collocazione
nel documento contrattuale e delle informazioni complessivamente fornite dal professionista
NGCC 2015 - Parte seconda
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un consumatore mediamente diligente presta
attenzione ad essa nel momento in cui conclude il contratto ( 42 ).
I componenti della Law Commission sono
consapevoli del fatto che raramente i consumatori prestano attenzione al testo del contratto:
spesso, è sufficiente includere una clausola nelle condizioni generali di contratto, senza segnalarla all’attenzione del consumatore, perché
quest’ultimo non ne sia affatto consapevole.
Perché l’esenzione dal controllo giudiziale sia
giustificata occorre, allora, che nella fase precedente la formazione del contratto la clausola
sia portata all’attenzione del consumatore in
modo tale da differenziarla dagli altri termini
contrattuali, che generalmente non vengono
presi in considerazione. È dunque evidente
una clausola di cui il consumatore è consapevole anche se non ha letto le condizioni generali di contratto ( 43 ).
È da valutare, ora, se gli attributi della trasparenza ed evidenza individuati dalla Law
Commission coincidano con i requisiti della
chiarezza e comprensibilità in senso economico richiesti dalla Corte di giustizia per l’esenzione dal controllo giudiziale. Nella maggior
parte dei casi, una clausola trasparente ed evidente è anche comprensibile nelle sue implicazioni economiche. Quando la clausola ha un significato chiaro ed è stata adeguatamente segnalata all’attenzione del consumatore, è altamente probabile che quest’ultimo abbia compreso quali conseguenze la sua accettazione
comporta. Non si può escludere, tuttavia, che
sebbene la clausola sia trasparente ed evidente
il consumatore non sia in grado di comprenderne correttamente le conseguenze economiche. Così, nella fattispecie considerata dalla
Corte di giustizia è possibile che la clausola che
determinava le rate del mutuo in relazione al
corso di vendita della valuta straniera fosse stata redatta in modo chiaro e segnalata all’attenzione dei mutuatari. Ciononostante, è ipotizzabile che i mutuatari non siano stati in condizio( 42 ) Cfr. The Law Commission and the Scottish Law Commission, Unfair Terms in Consumer
Contracts: Advice, cit., 37-45; Id., Unfair Terms in
Consumer Contracts: a New Approach? Issues Paper,
cit., 90-96.
( 43 ) Cfr. Id., op. ult. cit., 95.
NGCC 2015 - Parte seconda
ne di comprenderne le implicazioni economiche, non essendo stato esplicitato che qualora
la valuta straniera si fosse apprezzata rispetto a
quella nazionale il rimborso del capitale sarebbe divenuto più oneroso. Perché la clausola
impugnata sia comprensibile in senso economico occorre, dunque, che le conseguenze della variazione del tasso di interesse siano state
chiaramente illustrate.
Per concludere sul punto, il criterio della
chiarezza e comprensibilità in senso economico adottato dalla Corte di giustizia in Kasler
appare ancor più selettivo del criterio della trasparenza ed evidenza proposto dalla Law Commission. Perché una clausola sia comprensibile
in senso economico è a nostro avviso necessario, ma non sufficiente che sia evidente. Certamente, la clausola relativa all’oggetto principale e al prezzo deve essere segnalata all’attenzione del consumatore, per evitare che egli la confonda con le altre condizioni generali di contratto. È tuttavia necessario che le sue conseguenze economiche siano state chiaramente
illustrate, in modo tale da rendere il consumatore realmente consapevole dell’impatto della
clausola sui suoi interessi patrimoniali.
L’approdo a cui perviene la Corte di giustizia è pienamente condivisibile, oltre che coerente con le premesse più volte esplicitate dalla
sua stessa giurisprudenza. La finalità della dir.
n. 93/2013 UE è quella di tutelare il consumatore quale soggetto dotato di forza contrattuale
e conoscenze inferiori rispetto a quelle del professionista. Perché una clausola «essenziale»
sia esente dal controllo giudiziale, è allora necessario che l’informazione fornita al consumatore sia in grado di neutralizzare, per quanto
possibile, l’asimmetria informativa che caratterizza il suo rapporto con il professionista.
5. Le conseguenze del difetto di chiarezza e comprensibilità. Secondo una diffusa opinione, uno dei maggiori difetti della dir.
n. 93/2013 UE è quello di non esplicitare le
conseguenze che derivano dalla violazione dell’obbligo di redigere le clausole in modo chiaro
e comprensibile ( 44 ).
( 44 ) Cfr. P. Nebbia, Unfair Contract Terms, in C.
Twigg-Flesner (ed.), The Cambridge Companion
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Adottando una regola rinvenibile in diverse
legislazioni nazionali, tra cui quella italiana
(art. 1370 cod. civ.), l’art. 5, dir. n. 93/2013
UE, prevede che se una clausola non è chiara e
comprensibile deve essere interpretata in senso
contrario agli interessi del predisponente (interpretatio contra proferentem) ( 45 ). La disposizione è applicabile quando una clausola è ambigua, nel senso che possono esserle attribuiti
due significati diversi di cui uno favorevole al
professionista, l’altro vantaggioso per il consumatore: prevale, allora, il significato più favorevole al consumatore, in base al quale la clausola non può essere ritenuta abusiva. Il controllo
giudiziale sulle clausole abusive presuppone,
infatti, che le stesse siano state interpretate ( 46 ):
il giudice non considera il testo della clausola,
ma il significato che le viene attribuito anche
alla luce della regola che prescrive l’interpretazione sfavorevole al predisponente.
Talvolta, tuttavia, alla clausola che difetta di
chiarezza e comprensibilità non è possibile attribuire un significato univoco e favorevole al
consumatore. Questo accade quando il testo,
anziché essere ambiguo, è vago, sicché non è
possibile attribuire ad esso un significato sicuro. Questo accade, ancora, quando il testo è
chiaro dal punto di vista grammaticale e sintattico, ma non comprensibile nelle sue implicazioni economiche, e l’unico significato plausibile è favorevole al professionista. Occorre allora valutare se il difetto di trasparenza della
clausola sia sufficiente perché essa sia qualificata abusiva o se, invece, si limiti ad escludere
che la stessa sia esente dal controllo giudiziale:
in questa seconda ipotesi, il giudice potrebbe
ritenere la clausola abusiva solo se determina
un significativo squilibrio che avvantaggia il
professionista e penalizza il consumatore.
to European Union Private Law, Cambridge University Press, 2010, 226; M. Ebers, Unfair Contract
Terms Directive, cit., 201-203; DCFR, Article
II-9:402, Notes, 5; Di Giovanni, La regola di trasparenza, nel Trattato Rescigno-Gabrielli, I, I contratti
dei consumatori, Utet, 2005, 309.
( 45 ) V., negli stessi termini, art. 35, comma 2o,
cod. cons.
( 46 ) Cfr. Principles of the Existing EC Contract
Law, cit., Article 6:203, Comment by T. Pfeiffer
and M. Ebers, cit., 315.
336
La prima opzione viene adottata dal DCFR e
dal BGB: entrambi prevedono che la violazione dell’obbligo di trasparenza imputabile al
professionista è sufficiente perché la clausola
venga ritenuta abusiva (art. 9:402, comma 2o,
DCFR; § 307, comma 1o, BGB ( 47 )). La soluzione è condivisibile. Se il testo non è chiaro e
comprensibile per il consumatore, egli non ha
acconsentito alla conclusione del contratto sulla base di una reale consapevolezza, e questo
appare sufficiente a giustificare l’inefficacia
della clausola. Ritenendo diversamente, inoltre, il giudice dovrebbe valutare se la clausola
che difetta di chiarezza e comprensibilità determina un significativo squilibrio nel rapporto
tra professionista e consumatore: operazione
molto difficile non solo perché la clausola non
è trasparente, ma anche perché il giudice dovrebbe ricostruire a posteriori il contesto economico in cui il contratto è stato concluso.
Purtroppo, in Kasler, la Corte di giustizia
non ha offerto indicazioni utili a risolvere la
questione, in quanto non ha assunto il punto di
vista del giudice nazionale chiamato a valutare
la clausola, ma – adottando una prospettiva
strettamente esegetica – si è limitata a indicare
come l’art. 4, comma 2o, deve essere interpretato ( 48 ). In motivazione, si legge che se una
clausola non è chiara e comprensibile può essere valutata dal giudice nazionale: sembra che
spetti a quest’ultimo decidere se il difetto di
chiarezza e comprensibilità è sufficiente per ritenere che la clausola sia abusiva o se, invece,
occorre accertare la sussistenza di un significativo squilibrio.
Il self restraint della Corte di giustizia conferma che in questa fase la normativa comunitaria, come ricostruita dal suo interprete «egemone», si limita ad assicurare le condizioni necessarie perché la volontà del consumatore sia
consapevolmente espressa: egli viene dunque
tutelato in una prospettiva di carattere prevalentemente procedimentale. L’individuazione
delle fattispecie in presenza delle quali sussiste
un significativo squilibrio viene invece affidata
( 47 ) Cfr. M. Ebers, Unfair Contract Terms Directive, cit., 210 s.
( 48 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.4.2014, causa
C-26/13, cit.
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al giudice nazionale e all’applicazione del diritto interno.
6. Come evitare un paradosso: l’integrazione legislativa della clausola essenziale ritenuta abusiva. Recentemente, la
Corte di giustizia ha considerato per la prima
volta le conseguenze che derivano dall’inefficacia di una clausola essenziale, ritenuta abusiva.
In due precedenti occasioni (Banco
Español ( 49 ) ed Asbeek Brusse ( 50 )), la Corte ha
escluso che una clausola abusiva possa essere
sostituita da una regola elaborata dal giudice.
La conclusione è stata giustificata in primo
luogo sulla base di un argomento letterale:
l’art. 6, comma 1o, dir. n. 93/2013 UE si limita
a prevedere che l’inefficacia della clausola abusiva non si estenda all’intero contratto – sempre che senza la clausola esso possa sussistere –
senza accordare al giudice il potere di integrare
la lacuna. Si osserva, poi, che la sostituzione
della clausola abusiva con una regola di creazione giudiziale rischia di pregiudicare l’efficacia deterrente della direttiva nei confronti dei
professionisti scorretti. Questi ultimi non sarebbero indotti a rettificare le condizioni generali di contratto in quanto confidano nel fatto
che nelle rare ipotesi in cui viene impugnata la
clausola è destinata ad essere sostituita con una
regola probabilmente meno favorevole, ma pur
sempre coerente con i propri interessi.
Le due sentenze non chiariscono se la lacuna
che consegue all’accertamento del carattere abusivo della clausola possa essere colmata mediante l’applicazione di una regola legislativa: sul
punto, si riscontrano tra i commentatori opinioni diverse ( 51 ). A nostro avviso, la Corte di giusti-
( 49 ) Cfr. Corte giust. UE, 14.6.2012, causa
C-618/10, cit., §§ 58-73.
( 50 ) Cfr. Corte giust. UE, 30.5.2013, causa
C-488/11, §§ 54-60.
( 51 ) Nel contesto italiano, per esempio, D’Adda
ritiene che entrambe le sentenze escludano l’integrazione della clausola vessatoria con una norma dispositiva di fonte legislativa [cfr. D’Adda, Il giudice nazionale può rideterminare il contenuto della clausola
abusiva essenziale applicando una disposizione di diritto nazionale di natura suppletiva, in www.dirittocivilecontemporaneo.com]. D’Amico, invece, afferma
che le due pronunce non escludono la sostituzione
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zia non ha inteso precludere la sostituzione della clausola abusiva con una norma legale: tanto
Banco Español, quanto Asbeek Brusse escludono
espressamente solo l’integrazione del contratto
con una regola di creazione giudiziale coerente
con l’operazione economica, dunque sensibile
agli interessi del professionista.
In entrambi i casi, la clausola considerata
abusiva non definiva il prezzo né l’oggetto
principale del contratto, che, dunque, avrebbe
potuto essere attuato anche senza di essa. In
questa ipotesi, la mancata sostituzione della
clausola è effettivamente giustificata dall’esigenza di preservare l’efficacia deterrente della
direttiva: sebbene il contratto possa risultare
alterato, la soluzione ha un impatto positivo sul
mercato dei consumi, in quanto induce i professionisti scorretti a rimuovere la clausola dalle condizioni generali di contratto. Uno studio
approfondito condotto da un autore statunitense supporta tale conclusione ( 52 ). Quando
una clausola abusiva viene intenzionalmente
adottata, l’esigenza di indurre il predisponente
a rimuoverla dalle condizioni generali di contratto prevale su altre considerazioni, che potrebbero indurre a preferire opzioni diverse. È
allora giustificato adottare la soluzione più favorevole al consumatore, qual è, nel caso di
specie, l’inefficacia della clausola senza la contestuale sostituzione con una norma di creazione giudiziale.
In Kasler, invece, è possibile che – in applicazione dei criteri indicati dalla Corte di giustizia – il giudice nazionale ritenga abusiva una
clausola che determina l’oggetto principale del
contratto intercorrente tra i mutuatari e la banca: in assenza di essa, il contratto non potrebbe
essere attuato. Come si è anticipato, tuttavia,
l’inefficacia totale del contratto rischia di produrre un effetto paradossale: anziché tutelare il
consumatore, pregiudica i suoi interessi, in
quanto elimina il titolo sulla base del quale egli
fruisce dei beni e dei servizi fornitigli dal prodella clausola vessatoria con una norma legislativa
[cfr. D’Amico, L’integrazione (cogente) del contratto
mediante diritto dispositivo, in D’Amico-Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del contratto,
Giappichelli, 2013, 243].
( 52 ) Cfr. O. Ben-Shahar, Fixing Unfair Contracts, 73 Stanford Law Review, 869, 901-904 (2011).
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fessionista. Rispetto alla situazione considerata
da Banco Español ed Asbeek Brusse, la prospettiva risulta ribaltata: in questa ipotesi, l’inefficacia totale del contratto che conseguirebbe alla mancata sostituzione della clausola essenziale riduce la capacità di pressione della direttiva
nei confronti del professionista. Sapendo che
l’inefficacia totale del contratto pregiudica gli
interessi del consumatore, il professionista non
è indotto a rimuovere la clausola abusiva dalle
condizioni generali di contratto. È improbabile
che il consumatore impugni la clausola, e anche se lo facesse le conseguenze non sarebbero
eccessivamente penalizzanti: il professionista,
infatti, potrebbe esigere immediatamente la restituzione dei beni e dei servizi che costituiscono l’oggetto principale del contratto.
Sulla base di queste considerazioni, la Corte
ritiene che la clausola che determina le rate del
mutuo sulla base del corso di vendita della valuta straniera possa essere sostituita dalla regola legislativa in base alla quale il mutuatario è
obbligato a restituire il medesimo capitale che
gli è stato erogato ( 53 ).
Grazie alla sostituzione della clausola invalida con la norma nazionale, il mutuo in valuta
straniera si converte in un mutuo in valuta nazionale: il capitale di cui l’istituto di credito
può esigere la restituzione è il medesimo che
ha erogato contestualmente alla conclusione
del contratto.
La sostituzione della clausola che definisce
l’oggetto principale del contratto con la norma
nazionale altera la fisionomia dell’operazione
economica, in quanto i mutuatari non sono più
esposti ai rischi inerenti alla variazione del tasso di cambio. Se l’art. 4, comma 2o, risponde
all’esigenza di rispettare la logica dell’economia di mercato, l’integrazione legale delle clausole essenziali ammessa da Kasler la sacrifica
apertamente. Nel delicato meccanismo di pesi
e contrappesi che caratterizza la dir. n.
93/2013 UE, tanto è necessario per evitare un
effetto paradossale: al massimo livello di tutela,
corrispondente all’inefficacia totale del contratto, conseguirebbe un esito pregiudizievole
per il consumatore.
( 53 ) La motivazione della sentenza non identifica
espressamente la norma nazionale idonea a sostituire la clausola abusiva. Nelle premesse, tuttavia, si fa
riferimento all’art. 523, comma 1o, del codice civile
ungherese, ai termini del quale «in un contratto di
mutuo il mutuante è obbligato a trasferire al debitore una determinata somma di denaro, mentre il debitore assume l’obbligo di restituire la somma ricevuta». La disposizione trova riscontro nell’art. 1813
del codice civile italiano.
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Rassegne di giurisprudenza
DANNO NON PATRIMONIALE
E PERSONA GIURIDICA PRIVATA [,]
di Sofia Nobile de Santis
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Danno non patrimoniale e persona giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. – 3. La vexata quaestio del danno
non patrimoniale subito da società commerciali.
– 4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del
pregiudizio. – 5. Le pronunce delle sezioni unite
del 2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno
non patrimoniale. – 6. Segue: danno non patrimoniale da reato. – 7. Segue: danno non patrimoniale in ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattamento dei dati personali.
– 8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. – 9. Segue: danno non patrimoniale per lesione di un diritto inviolabile ai
sensi dell’art. 2 Cost. – 10. Il quantum del danno
non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica .
1. Introduzione. Ormai da tempo si è assistito al superamento dell’assunto per cui alla
persona giuridica non sarebbe risarcibile il
danno non patrimoniale, come sostenuto dalla
giurisprudenza più risalente, che negava agli
enti collettivi il diritto di agire per il risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ., considerata l’incapacità della persona giuridica di
provare «sentimenti e sensazioni» (Trib. Roma, 17.12.1976, in Giur. it., 1978, II, 26 ss.,
con nota di De Matteo; conforme Trib. Milano, 18.9.1989, in Dir. inf., 1990, 144 ss.).
All’affermazione del principio per cui il danno non patrimoniale è riferibile anche a soggetti privi di fisicità (espressione di tale revirement
sono le note Cass., 10.7.1991, n. 7642, in
Giust. civ., 1991, I, 1955 ss. e in Resp. civ. e
prev., 1992, 89 ss., con nota di Guiotto;
Cass., 5.12.1992, n. 12951, in Foro it., 1994, I,
561 ss., con nota di Salerno) è seguita una co[,] Contributo pubblicato in base a referee.
NGCC 2015 - Parte seconda
piosa casistica giurisprudenziale, alimentata da
provvedimenti legislativi rilevanti anche per le
persone giuridiche, che hanno espressamente
riconosciuto la risarcibilità di tale tipologia di
danno.
Da qui l’opportunità di indagare quali siano
stati i risultati di tale evoluzione giurisprudenziale, con particolare riguardo alle fattispecie
nelle quali il danno non patrimoniale viene ritenuto configurabile in capo alla persona giuridica privata, non mancando di soffermarsi sull’influenza che, in tale contesto, hanno avuto i
principi fatti propri dalle sentenze a sezioni
unite del 2008 (Cass., sez. un., 11.11.2008, nn.
26972-26975, in Mass. Giust. civ., 2009).
2. Danno non patrimoniale e persona
giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. L’attuale orientamento, che pacificamente
riconosce agli enti collettivi il diritto di agire
per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale, è l’esito di una duplice propulsione
innovatrice.
Da un lato la giurisprudenza, seguendo le tesi sostenute della pressoché unanime dottrina,
ha esteso agli enti collettivi alcuni dei diritti
della personalità tradizionalmente riconosciuti
alle persone fisiche, tenendo in considerazione
le peculiarità e l’essenza delle persone giuridiche; dall’altro, ruolo cruciale ha rivestito l’interpretazione evolutiva, costituzionalmente
orientata, dell’art. 2059 cod. civ.
A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, infatti, si riscontrano pronunce in cui si afferma la titolarità, in capo alla persona giuridica:
(i) del diritto al nome, la cui disciplina positiva viene ricavata dagli artt. 6-7 cod. civ.
(Cass., 26.2.1981, n. 1185, in Giust. civ., 1981,
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Rassegne di giurisprudenza
I, 1329 ss.; in Giur. it., 1981, I, 1025 ss.; Cass.,
12.7.1991, n. 7780, in Foro it., I, 3346 ss., con
nota di Caso; Trib. Roma, 24.1.1994, in Dir.
inf., 1994, 725 ss.; Trib. Napoli, 6.6.1995, in
Foro it., 1996, I, 2199 ss., con nota di Montaruli);
(ii) del diritto all’identità personale (Cass.,
22.6.1985, n. 3769, in questa Rivista, 1985, I,
647 ss., con nota di Zeno Zencovich, in Foro
it., 1985, I, 2211 ss. e in Dir. inf., 1985, 965 ss.,
con nota di Figone; Trib. Milano, 9.11.1992,
in Riv. dir. ind., 1993, II, 45 ss., con nota di
Guglielmetti; in Giur. it., 1993, I, 2, 747 ss.;
Trib. Roma, 28.2.2001, in Dir. inf., 2001, 464
ss., con nota di Pino);
(iii) dei diritti all’onore e alla reputazione
(Trib. Roma, 10.6.1986, in questa Rivista,
1987, 45 ss., con nota di Zeno Zencovich; in
Resp. civ. e prev., 1986, 673 ss., con nota di Bonilini; Cass., 5.12.1992, n. 12951, cit.; Cass.,
3.3.2000, n. 2367, in Danno e resp., 2000, 490
ss., con nota di Carbone).
Tale affermazione ha tratto fondamento da
una lettura costituzionalmente orientata dei diritti della personalità, alla stregua dell’art. 2
Cost., che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità»; conseguentemente si è sostenuto che «gli
enti pubblici e privati, dotati o meno di personalità giuridica (...) sono legittimati ad agire per ottenerne tutela in via risarcitoria» (così, testualmente, Trib. Roma, 28.2.2001, cit.; sul ruolo
dell’art. 2 Cost. nel riconoscimento dei diritti
della personalità che non trovano espressa tutela in disposizioni legislative, v. Corte Cost.,
3.2.1994, n. 13, in Foro it., 1994, I, 1668 ss.;
Cass., 7.2.1996, n. 978, in Foro it., 1996, I,
1253 ss. e in Giust. civ., 1996, I, 1317 ss.).
Pacifico era che la violazione dei suddetti diritti della personalità, ascrivibili agli enti collettivi, potesse produrre un danno patrimoniale
risarcibile ex art. 2043 cod. civ., ma non, invece, che potesse legittimare il ristoro di un pregiudizio di natura non patrimoniale, in presenza del limite di cui all’art. 2059 cod. civ., la cui
lettera restringe l’alveo del danno non patrimoniale risarcibile ai casi previsti dalla legge.
Sicché, l’interpretazione tradizionale riteneva che tale danno potesse essere risarcito quasi
esclusivamente nell’ipotesi in cui l’illecito civile
340
integrasse gli estremi di un reato, per effetto
della previsione di cui all’art. 185, comma 2o,
cod. pen. In tale contesto, il danno ex art. 2059
cod. civ. veniva identificato unicamente nel
danno morale soggettivo (c.d. pretium doloris),
ossia nel patema d’animo sofferto dalla vittima
dell’illecito in termini di sofferenza psichica.
Nella materia de qua, ostacolo principale al
riconoscimento dell’esistenza di un danno morale era rappresentato dalla difficoltà di imputare, ad una entità giuridica spiritualmente insensibile, patimenti e sofferenze. Si ricorreva
allora ad una fictio, in virtù della quale il danno
non patrimoniale da reato veniva riconosciuto
in ragione dei turbamenti di carattere psicologico sofferti dalle persone preposte alla gestione dell’ente (v. App. L’Aquila, 3.10.1970, in
Giur. it., 1972, II, 177 ss.).
Con due importanti pronunce, risalenti ai
primi anni Novanta, la Supr. Corte liquidava il
danno non patrimoniale «da reato» ponendosi
in una nuova prospettiva, ossia superando
l’equazione tra danno morale soggettivo e danno non patrimoniale e affermando che «ove anche gli enti personificati siano titolari di diritti
non patrimoniali – come quelli alla tutela dell’onore, della reputazione, dell’identità personale – poss[o]no allora anch’essi subire un pregiudizio non patrimoniale» (Cass., 10.7.1991, n.
7642, cit., relativa al cosiddetto Affare
Lockheed. La sentenza resa nel giudizio di primo grado, Trib. Roma, 10.6.1986, cit., è pubblicata in questa Rivista, con nota di Zeno
Zencovich, cit.). Sulla base di argomentazioni analoghe, l’anno successivo veniva riconosciuto, ad uno Stato straniero considerato vittima del delitto di diffamazione, il risarcimento
del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod.
civ., non coincidente con il danno morale soggettivo (la c.d. pecunia doloris), ma in considerazione di «effetti lesivi che prescindono dalla
personalità psicologica del danneggiato» (Cass.,
5.12.1992, n. 12951, cit.).
In tali fattispecie, però, soggetti lesi erano
entità statali, in presenza di un’offesa penalmente rilevante: solo in un secondo momento
veniva affermata la risarcibilità, a persone giuridiche private, del danno non patrimoniale,
per violazione di un diritto della personalità
ascrivibile all’ente ed a prescindere dall’esistenza di un reato.
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Danno non patrimoniale
Tale consacrazione avveniva in Cass.,
2.8.2002, n. 11573, in Giust. civ., 2002, I, 3063
ss., resa in una fattispecie di irragionevole durata del processo, in cui veniva riconosciuta la
configurabilità di un danno non patrimoniale
alla persona giuridica, a condizione che risultasse pregiudicato uno dei diritti della personalità ascrivibili all’ente, individuati nei «diritti
all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine
ed alla reputazione» (si veda, amplius, infra, §§
4 e 8).
3. La vexata quaestio del danno non
patrimoniale subito da società commerciali. Tra le persone giuridiche private, discorso a sé stante deve essere intrapreso per le
società commerciali: questione particolarmente controversa è, infatti, quella relativa alla possibilità di riconoscere, ad enti con scopo di lucro, il risarcimento del danno non patrimoniale.
La prevalente dottrina esclude che le società
commerciali possano subire un danno di natura non patrimoniale per lesione di un diritto
della personalità. Si afferma infatti che per esse
viene in rilievo esclusivamente «lo svolgimento
di attività economiche, e beni della personalità
come il nome, l’identità personale e la reputazione assumono anch’essi una diretta rilevanza
economica» (così Zeno Zencovich, voce
«Personalità (diritti della)», 440, infra, Nota bibl.). In quest’ottica, non sarebbe concepibile
una tutela non patrimoniale (ex art. 2059 cod.
civ.) di diritti volti al conseguimento di una
funzione di profitto.
Nell’attuale panorama giurisprudenziale, le
sentenze che riconoscono a società commerciali il danno non patrimoniale per lesione del
«diritto all’immagine» (in accezione lata e non
riconducibile all’art. 10 cod. civ., infra, § 9) sono tutt’altro che rare.
In particolare, si segnalano pronunce nelle
quali, accertata la lesione del «diritto all’immagine» e alla reputazione dell’ente, i giudici riconoscono unicamente un danno di natura
non patrimoniale (inter alia, Cass., 30.5.2005,
n. 6732, in Corr. giur., 2005, 1707 ss., con nota
di De Marzo; Trib. Bari, 29.5.2004; Trib.
Milano, 16.10.2008; Trib. Bari, 5.1.2011, reperibili nella banca dati Leggi d’Italia – Corti di
merito, e rese perlopiù in casi di illegittima seNGCC 2015 - Parte seconda
gnalazione alla Centrale Rischi della Banca
d’Italia e di pubblicazione di protesti illegittimi). Tale giurisprudenza tende ad apprestare
tutela alle società quando queste non offrano
prova di avere subito una perdita economica
derivante dalla lesione del proprio «diritto all’immagine», provvedendo a riconoscere il risarcimento del danno ex art. 2059 cod. civ., ritenuto invece in re ipsa. Si tratta di un orientamento che non nasconde l’influenza di Corte
Cost., 14.7.1986, n. 184, che aveva affermato
la risarcibilità del danno non patrimoniale
(biologico) per effetto della mera violazione
del diritto alla salute, senza far seguire l’accertamento delle relative conseguenze dannose
(nel solco di tale orientamento, in tema di danno alla reputazione personale, si pongono
Cass., 3.4.2001, n. 4881, in Giur. it., 2001,
1657 ss.; Cass., 10.5.2001, n. 6507, in Giust.
civ., 2001, I, 2644 ss.).
Nell’attuale contesto, alle enunciazioni di
principio («il danno non patrimoniale costituito
dalla diminuzione della considerazione della
persona giuridica è risarcibile come danno-conseguenza» – Trib. Bari, 5.1.2011, cit.) non si
accompagna un’effettiva indagine dei riflessi
pregiudizievoli per l’ente, e ciò a testimonianza
delle difficoltà che sorgono, in tale ambito, nell’offrire la prova delle conseguenze non patrimoniali del fatto lesivo.
Vengono poi in rilievo pronunce nelle quali
la lesione del diritto all’immagine della società
commerciale conduce, contestualmente, al risarcimento del danno patrimoniale e del danno
non patrimoniale (si segnalano, inter alia,
Cass., 4.6.2007, n. 12929, in questa Rivista,
2008, I, 1 ss., con nota di Oliari; in Studium
Iuris, 2007, 1144 ss., con nota di De Giorgi;
in La resp. civ., 2008, 117 ss., con nota di Iurilli; in Giur. it., 2008, 876 ss., con nota di
Angiuli; in Danno e resp., 2007, 1236 ss., con
nota di Foffa; Trib. Torino, 20.2.2012, in
questa Rivista, 2012, I, 648 ss., con nota di Ar.
Fusaro; in Corr. giur., 2012, 798 ss., con nota
di Amendolagine; in Danno e resp., 2012,
635 ss., con nota di Mauceri; Cass., 9.7.2014,
n. 15609, in Rep. Foro it., 2014, voce «Banca,
credito e risparmio», n. 93).
Tale orientamento è stato inaugurato da
Cass., n. 12929/2007, cit., avente ad oggetto
un caso di illegittima segnalazione di una posi341
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Rassegne di giurisprudenza
zione di sofferenza alla Centrale Rischi della
Banca d’Italia. È in tale occasione che viene affermata, anche con riguardo alla persona giuridica, la distinzione tra danno alla reputazione
commerciale, come danno di natura economica, e danno alla reputazione personale, intesa
quest’ultima nel senso di «reputazione goduta
come persona giuridica appartenente ad una determinata tipologia consentita dall’ordinamento
nell’ambito del consesso sociale in genere». In
sostanza, si riconosce la possibilità che il medesimo atto lesivo determini, a danno dell’ente
con scopo di lucro, sia un’offesa alla reputazione «personale» (avente natura non patrimoniale, rientrante nella sfera di inviolabilità dell’art.
2 Cost. e risarcibile ex art. 2059 cod. civ.) sia
un’offesa alla reputazione «commerciale» (riferibile al disposto dell’art. 41 Cost. e risarcibile
ex art. 2043 cod. civ.).
La risarcibilità del danno non patrimoniale a
società commerciali viene a fortiori riconosciuta quando queste siano vittime di reato (tra le
altre, di recente, Trib. Roma, 14.5.2013, in
banca dati Leggi d’Italia – Corti di merito) e negli altri casi in cui il legislatore espressamente
la preveda (infra, §§ 7-8).
4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio. Se è ormai pacifica la legittimazione dell’ente collettivo ad agire per ottenere il risarcimento del danno non
patrimoniale, questione dibattuta è invece se
tale risarcimento sia relativo a un pregiudizio
all’ente collettivo in sé e per sé considerato, oppure a un pregiudizio subito dai suoi componenti. Profilo non esclusivamente teorico in
quanto, a seconda della soluzione adottata, differenti sono le conseguenze in termini di onere
probatorio gravante sull’ente danneggiato.
Il tema è inscindibilmente legato a quello
dell’ascrizione di diritti ad un soggetto collettivo e, più in generale, del riconoscimento, alla
persona giuridica, di una soggettività autonoma rispetto a quella delle persone fisiche che la
compongono.
Come è noto, in dottrina si ritrovano diverse
opzioni ricostruttive del concetto di persona
giuridica: le teorie «organiche o realiste» adottano una concezione antropomorfica dell’ente
collettivo, che viene inteso come soggetto titolare, al pari della persona fisica, di diritti. Se342
condo le teorie «finzionistiche», invece, nella
realtà non esisterebbero soggetti di diritto diversi dall’uomo; di conseguenza, i diritti riconosciuti alla persona giuridica non sarebbero
altro che diritti riferiti ai componenti di essa.
Dopo la codificazione, autorevole dottrina
(per tutti, Galgano, Delle persone giuridiche,
infra, Nota bibl.) ha rielaborato tali opzioni interpretative, adottando una «soluzione intermedia» che riconosce alla persona giuridica
piena capacità giuridica, ma che ricollega i diritti dell’ente agli individui che lo compongono
o che agiscono per esso.
Si è affermato, ad esempio, che la lesione del
diritto alla reputazione di un ente collettivo
consisterebbe in un’offesa ai suoi componenti
non uti singuli, ma uti universi, cioè nella qualità di membri dell’ente ed in virtù delle norme
speciali che regolano il funzionamento interno
e l’esterna rappresentanza del gruppo (così
Galgano, 73).
Le dottrine che ricollegano i diritti degli enti
ai propri componenti sono state impiegate al
fine di imputare, alla persona giuridica, stati
emotivi propri delle persone fisiche che lo
compongono (per tutte, Cass., 30.8.2005, n.
17500, in questa Rivista, 2006, I, 505 ss., con
nota di Morese; in Danno e resp., 2006, 153
ss., con nota di De Giorgi; in Giust. civ.,
2006, I, 1247 ss.).
Per quanto riguarda le ipotesi di danno non
patrimoniale «da reato», si riscontrano pronunce di merito, relativamente recenti, che
correlano il danno non patrimoniale a «turbamenti di carattere psicologico cagionati alle persone preposte alla gestione dell’ente o ai suoi
membri» (v. Trib. Treviso, 20.2.2011, in
Fam., pers. e succ., 2012, 517 ss., con nota di
Bonamini).
La tendenza ad identificare il danno non patrimoniale con il pretium doloris, o comunque
con le sofferenze subite dai componenti dell’ente, si riscontra anche in assenza di un fatto
illecito penalmente rilevante: in una pronuncia
avente ad oggetto un caso di illegittima segnalazione alla Centrale dei Rischi di una persona
giuridica privata, il danno non patrimoniale veniva riconosciuto in virtù «del patema e dello
stress di reperire, in breve tempo, fonti alternative di finanziamento» (Trib. Roma, 20.2.2011,
a quanto consta inedita, ma della quale si legNGCC 2015 - Parte seconda
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Danno non patrimoniale
gono stralci nella motivazione di Cass.,
9.7.2014, n. 15609, cit.). Allo stesso modo, in
Trib. Torino, 20.2.2012, cit., il danno non
patrimoniale per lesione del diritto alla reputazione di una nota società per azioni veniva individuato nella «frustrazione e patema d’animo
subito dai lavoratori, a qualunque titolo operanti all’interno della società».
Così facendo la giurisprudenza pare, da un
lato, escludere in toto una soggettività all’ente
e, dall’altro lato, discostarsi dall’orientamento
che riconosce il risarcimento del danno non
patrimoniale nella sua versione più estesa, non
limitata al danno morale soggettivo.
Una sentenza rilevante ai fini dell’individuazione dell’oggetto del pregiudizio è la succitata
Cass., n. 12929/2007. In tale pronuncia il danno non patrimoniale non veniva individuato
come danno morale soggettivo dei componenti
della persona giuridica, e neppure come compromissione dell’autonomo sentire dell’ente.
La Corte riconosceva, infatti, il danno alla diminuzione di considerazione della persona giuridica «sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della
persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire
dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione
della considerazione da parte dei consociati in
genere o di settori o categorie di essi con le quali
la persona giuridica o l’ente interagisca». Alla
stregua di tale orientamento, il danno all’immagine e alla reputazione della persona giuridica assume una duplice connotazione, che si
concretizza sia nell’incidenza negativa presso i
terzi (per la diminuita credibilità dell’ente e
per l’offesa alla reputazione di cui l’ente gode
tra i consociati), sia nella diminuita considerazione che i componenti stessi hanno dell’ente,
con conseguente necessità di «dover agire per
superare la negatività» prodotta dalla lesione.
Si tratta di una soluzione che offre l’evidente
vantaggio di «salvare» la soggettività dell’ente,
ma che si risolve in una difficile combinazione
di elementi obiettivi e soggettivi, di non agevole accertamento nell’applicazione concreta.
La formula fatta propria da Cass., n. 12929/
2007, seppur ambigua, è stata accolta dalla più
recente giurisprudenza che ha affrontato il tema della risarcibilità del danno non patrimoniale agli enti collettivi [v. Trib. Roma,
NGCC 2015 - Parte seconda
14.5.2013, cit.; Cass., 25.7.2013, n. 18082
(s.m.), in Riv. dir. ind., 2014, II, 283 ss.; Cass.,
1o.10.2013, n. 22396, in Danno e resp., 2014,
896 ss., con nota di Treccani].
Le pronunce che riconoscono agli enti collettivi il risarcimento del danno morale soggettivo, in considerazione dei patimenti dei loro
componenti, sono ancora numerose, ma perlopiù riferite ad ipotesi di violazione del termine
di durata ragionevole del processo ex legge
Pinto (l. 24.3.2001, n. 89): tra le più recenti, si
segnalano Cass., 28.1.2013, n. 1923; Cass.,
20.6.2013, n. 15479; Cass., 21.6.2013, n.
15692, tutte reperibili nella banca dati DeJure.
L’evoluzione giurisprudenziale ha, in tale ambito, seguito un percorso autonomo, allontanandosi dagli arresti della giurisprudenza che
si è pronunciata sulle altre ipotesi di risarcimento, alla persona giuridica, di danno non
patrimoniale.
In una prima fase, immediatamente successiva all’entrata in vigore della l. n. 89/2001, la
giurisprudenza riteneva irrilevante l’eventuale
disagio psichico subito dai componenti l’ente:
la riparazione del danno non patrimoniale ex
art. 2 l. n. 89/2001 veniva riconosciuta solo
quando fosse provata la compromissione di
«diritti della personalità, ove compatibili con
l’assenza di fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione» (Cass., 2.8.2002, n. 11592, in
Guida al dir., 2002, fasc. 38, 46 ss., con nota di
De Paola; Cass., 13.2.2003, n. 2130, in Foro
it., 2003, I, 2398 ss.; Cass., 10.4.2003, n. 5664,
ivi, 2005, I, 191 ss.; Cass., 2.7.2004, n. 12110,
in Danno e resp., 2005, 977 ss., con nota di
Venturelli; Cass., 30.9.2004, n. 19647, in
Giust. civ., 2005, I, 59 ss., con nota di Giordano; Cass., 16.2.2005, n. 3118, in Rep. Foro it.,
2005, voce «Diritti politici e civili», n. 225). La
conseguenza era quella di imporre un onere
probatorio particolarmente gravoso in capo alla persona giuridica, che doveva provare sia
l’effettiva lesione di un diritto della personalità, sia i correlativi riflessi pregiudizievoli.
Al fine di allinearsi con la giurisprudenza
della Corte di Strasburgo, che ritiene l’insorgenza di turbamenti di carattere psicologico
imputabili alla persona giuridica «conseguenza
normale» della durata eccessiva del processo
(inter alia, Corte eur. dir. uomo, 17.6.2003,
343
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Affaire S.C.I. Boumois c. France; Corte eur.
dir. uomo, 8.6.2004, Clinique Mozart Sarl c.
France, entrambe reperibili nella banca dati
HUDOC), la Supr. Corte ha mutato il proprio
orientamento, affermando che l’esistenza di un
danno non patrimoniale può essere ravvisata
nei «disagi o turbamenti di carattere psicologico
che la lesione di tale diritto [il riferimento è all’art. 6 Conv. eur. dir. uomo, n.d.r.] solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell’ente (...). Sicché, pur dovendo escludersi
la configurabilità di un danno non patrimoniale
automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento dalla violazione, una volta accertatane e determinatane l’entità, il giudice deve
ritenere tale danno esistente, sempreché l’altra
parte non dimostri che sussistono nel caso concreto circostanze particolari, la quali facciano positivamente escludere che tale danno sia stato
subito dal ricorrente» (Cass., 18.2.2005, n.
3396, in Giust. civ., 2006, I, 2913 ss., con nota
di Morozzo della Rocca; in senso conforme
anche Cass., 16.7.2004, n. 13163, in Giust. civ.,
2005, I, 1579 ss., con nota di Della Rocca;
Cass., 8.6.2005, n. 12015, in Rep. Foro it.,
2005, voce «Diritti politici e civili», n. 270;
Cass., 30.8.2005, n. 17500, cit.; Cass.,
29.3.2006, n. 7145, in Rep. Foro it., 2006, voce
«Diritti politici e civili», n. 253; Cass.,
2.2.2007, n. 2246, in Rep. Foro it., 2007, voce
cit., n. 236; Cass., 5.4.2007, n. 8604, in Giust.
civ., 2007, I, 1589 ss.; Cass., 1o.12.2011, n.
25730, in Rep. Foro it., 2012, voce «Diritti politici e civili», n. 236).
Tale revirement è stato, in dottrina, oggetto
di critiche, poiché si risolverebbe nel «dar di
spugna alla separazione tra soggetto collettivo
e soci» (così, testualmente, De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle
persone giuridiche per le sofferenze patite dai
componenti, 157, infra, Nota bibl.); l’orientamento in esame, inoltre, appare in contrasto
con le più recenti enunciazioni giurisprudenziali relative all’art. 2059 cod. civ., che richiedono che il danno debba sempre essere allegato e provato.
5. Le pronunce delle sezioni unite del
2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale. Come è noto, la sentenza n. 26972/2008, unitamente alle coeve de344
cisioni n. 26973, n. 26974, n. 26975, ha segnato
un’importante tappa nell’evoluzione giurisprudenziale in materia di risarcibilità del danno
non patrimoniale.
In particolare, le sentenze delle sezioni unite
del 2008, ponendosi nel solco dell’intervento
della Supr. Corte del 2003 (Cass., 31.5.2003,
nn. 8827-8828, in questa Rivista, 2004, 238 ss.,
con nota di Scarpello; in Foro it., 2003, I,
2273 ss., con note di L. La Battaglia e Navarretta; in senso conforme Corte Cost.,
11.7.2003, n. 233, in Foro it., 2003, I, 2201 ss.,
con nota di Navarretta) chiariscono che il
danno non patrimoniale è risarcibile in tre distinte tipologie di fattispecie, ossia:
i) nell’ipotesi di «illecito penale», ossia
quando il fatto illecito sia configurabile (anche
solo astrattamente: Cass., sez. un., 6.12.1982,
n. 6651, in Rep. Foro it., 1982, voce «Danni civili», n. 40) come reato;
ii) nelle «ipotesi legislativamente previste»,
ossia quando ricorra una delle fattispecie in cui
la legge espressamente consente il ristoro del
danno non patrimoniale anche al di fuori di
una ipotesi di reato;
iii) nel caso di «lesione di diritti inviolabili»:
al di fuori dei casi espressamente previsti dalla
legge è data tutela solo quando il fatto illecito
abbia leso in modo grave diritti inviolabili della
persona, come tali oggetto di tutela costituzionale ex art. 2 Cost.
Le sezioni unite del 2008 hanno poi ribadito
il principio, già enunciato dalla Supr. Corte nel
2003, per cui il danno non patrimoniale non
può mai considerarsi in re ipsa (v. anche Cass.,
14.5.2012, n. 7471, in Riv. it. dir. lav., 2013, II,
81 ss., con nota di Grivet Fetà), e hanno ulteriormente aggravato l’onere probatorio gravante sul danneggiato, attraverso l’introduzione del «doppio filtro» della gravità della lesione del diritto e della serietà del danno, nell’ottica del bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la persona danneggiata e quello di
tolleranza.
Ancorché tale intervento non sia stato risolutivo nel risolvere le complesse questioni relative al risarcimento del danno non patrimoniale
(si vedano, da ultimo, le considerazioni di Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile, 1269 s., infra, Nota bibl.), non può non apprezzarsi il tenNGCC 2015 - Parte seconda
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Danno non patrimoniale
tativo di rendere maggiormente organico il sistema del risarcimento del danno ex art. 2059
cod. civ.
6. Segue: danno non patrimoniale da
reato. Il reato che più frequentemente viene
in rilievo, come fonte di risarcimento del danno non patrimoniale ad una persona giuridica,
è quello della diffamazione ex art. 595 cod.
pen., commesso attraverso l’utilizzo di mezzi di
comunicazione di massa, quali la stampa (tra le
più recenti pronunce di merito, Trib. Cassino, 25.3.2014, in Gazz. forense, 2014, 3, 77 ss.;
Trib. Roma, 13.11.2012 e Trib. Roma,
28.11.2013, reperibili nella banca dati Leggi
d’Italia – Corti di Merito; v. altresì Cass.,
3.3.2000, n. 2367, cit.) e la rete Internet (Trib.
Roma, 14.5.2013, reperibile nella banca dati
Leggi d’Italia – Corti di Merito).
Bene giuridico protetto da tale fattispecie
criminosa è la reputazione (anche indicata come «onore in senso oggettivo»), consistente,
secondo l’interpretazione prevalente, nella stima e considerazione di cui un soggetto, anche
collettivo, gode nell’ambito sociale di appartenenza (v. Cass., 20.10.2009, n. 22190, in Rep.
Foro it., 2009, voce «Danni civili», n. 337).
L’ascrivibilità al soggetto collettivo del diritto all’onore è confermata dall’unanime orientamento della Cassazione penale, che riconosce a
persone giuridiche, associazioni non riconosciute ed enti di fatto la veste di soggetti passivi
del delitto di diffamazione (Cass. pen.,
25.11.1980, n. 6265 e Cass. pen., 24.1.1992, n.
2886, reperibili entrambe in CED Cassazione;
Trib. Roma, 19.1.1984, in Cass. pen., 1984,
1265 ss., con note di Bertoni e Fortuna;
Cass. pen., 30.1.1998 n. 4982, in banca dati
Leggi d’Italia – Cassazione Penale), richiedendo
che l’offesa assuma carattere diffusivo, nel senso che venga ad incidere sulla considerazione
di cui l’ente gode nella collettività (Cass. pen.,
14.1.2002, n. 1188, in CED Cassazione; Cass.
pen., 17.10.2011, n. 37383, in Giust. pen.,
2012, II, 345 ss.).
Un’isolata pronuncia (Cass. pen., 22.3.1988,
n. 3756, in CED Cassazione) sembra ammettere
la possibilità che la persona giuridica assuma la
qualità di soggetto passivo del reato di ingiuria
ex art. 594 cod. pen., che si distingue dal reato
di diffamazione, in quanto la vittima è presente
NGCC 2015 - Parte seconda
al momento dell’azione criminosa e «viene offeso prevalentemente il sentimento del [suo]
onore» (così Antolisei, 195, infra, Nota bibl.).
La prevalente dottrina civilistica ritiene, al
contrario, che l’«onore in senso soggettivo»,
inteso come il sentimento che ciascun soggetto
ha del proprio valore sociale, non sia configurabile rispetto alla persona giuridica, non potendo distinguersi dall’onore individuale dei
singoli partecipanti (la considerazione è di Pino, 476, infra, Nota bibl.).
Laddove non vengano ritenuti sussistenti gli
estremi del reato di diffamazione (ad esempio,
in caso di mancata sussistenza del dolo), l’illecito è rilevante unicamente sotto il profilo civilistico, ex art. 2043 cod. civ., e può giustificare
il risarcimento del danno non patrimoniale, essendo il diritto alla reputazione considerato diritto inviolabile ex art. 2 Cost. In ogni caso,
l’accertamento circa la sussistenza degli elementi costitutivi del reato può essere compiuto, in via incidentale, anche dal giudice civile
(Cass., 22.7.1996, n. 6527, in Rep. Foro it.,
1996, voce «Danni civili», n. 119; Cass.,
10.11.1997, n. 11038, in Arch. civ., 1998, 428
ss.; Cass., 3.3.2000, n. 2367, cit.).
Nell’ottica del bilanciamento tra tutela della
persona (anche giuridica) e garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, i giudici
applicano, anche in tale contesto, i consueti
criteri fissati dalla giurisprudenza di legittimità
(la «verità oggettiva dei fatti»; l’«interesse pubblico della notizia»; la «correttezza formale
dell’esposizione»: sui criteri per la determinazione dell’esercizio legittimo di critica, cfr., da
ultimo, Cass., 20.1.2015, n. 839; v. altresì
Cass., 10.11.2013, n. 22600, entrambe in CED
Cassazione).
Rispetto alle fattispecie in cui il danno non
patrimoniale scaturisce dall’accertamento di
un mero illecito civile, giova segnalare una differenza di notevole rilievo: in presenza di un
reato è risarcibile, infatti, qualsiasi pregiudizio
non patrimoniale, senza che sia necessaria la lesione di un diritto inviolabile ex art. 2 Cost.
(così come sancito, espressamente, dalle sezioni unite nel 2008). Rilevante è, in questa prospettiva, Cass. pen., 8.11.2012, n. 43184, in
Riv. pen., 2013, 186 ss., che, in presenza di una
condotta diffamatoria, ha riconosciuto ad una
società commerciale il risarcimento del danno
345
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Rassegne di giurisprudenza
non patrimoniale da «lesione del diritto alla reputazione commerciale», escludendo, nella fattispecie, la lesione del diritto alla reputazione
come diritto della personalità, in quanto l’articolo pubblicato non era in grado di «incidere
direttamente sulle qualità e sul valore sociale
della persona in sé». La Supr. Corte fa derivare
un danno non patrimoniale dalla violazione di
un diritto tutelato dalla Costituzione, ma che
non assurge a rango di diritto inviolabile.
Quanto all’onere probatorio, nell’ipotesi di
illecito penale il danno non patrimoniale, di
cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa e,
quindi, deve essere provato, anche a mezzo di
presunzioni semplici (Cass., 12.4.2011, n.
8421, in Rep. Foro it., 2011, voce «Danni civili», n. 296; più recentemente, Cass.,
18.11.2014, n. 24474, in CED Cassazione, relativa ad un caso di diffamazione a mezzo stampa; contra Trib. Palermo, 7.2.2011, in banca
dati Leggi d’Italia – Corti di Merito, in cui si è
affermato che il danno morale soggettivo è risarcibile in re ipsa quando la lesione derivi da
una fattispecie di reato).
Infine, si segnala come il reato previsto e punito dall’art. 595 cod. pen. non sia l’unico a venire in rilievo. Si riscontrano fattispecie in cui il
danno non patrimoniale viene liquidato a persone giuridiche vittime dei reati di furto (Trib.
Treviso, 20.2.2011, cit.), insolvenza fraudolenta (Cass., 12.12.2008, n. 29185, in Danno e
resp., 2009, 937 ss., con nota di Plebani) e appropriazione indebita (App. Firenze,
2.2.2012, in banca dati Leggi d’Italia – Corti di
Merito).
7. Segue: danno non patrimoniale in
ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattamento dei dati
personali. Prima dell’entrata in vigore della
legge sulla protezione dei dati personali, la giurisprudenza si era espressa in senso favorevole
all’estensione del diritto alla riservatezza alla
persona giuridica, affermando che «la tutela
della riservatezza (...) è accordata dalla legge –
senza che al riguardo rilevi il divieto di costituzione di associazioni segrete – anche in favore
delle persone giuridiche e non soffre limitazioni
per il fatto che l’art. 21 Cost. sancisca la libertà
di manifestazione del proprio pensiero, atteso
che la stessa Costituzione, mentre non contiene
346
norme che tutelino un ipotetico interesse all’acquisizione di informazioni appartenenti all’altrui sfera privata, preclude (...) ingerenze rivolte
all’acquisizione di informazioni relative ad altri
soggetti» così Cass., 2.3.1993, n. 2560, in Rep.
Foro it., 1993, voce «Lavoro (rapporto)», n.
804.
Si era tuttavia affermata la necessità che il diritto alla riservatezza per l’organizzazione collettiva si atteggiasse in modo difforme rispetto
all’analogo diritto riconosciuto in capo a persone fisiche, per l’esigenza di garantire i doveri
di trasparenza delle persone giuridiche, soprattutto con riferimento ai dati economici relativi
a società commerciali (Zoppini, 852, infra, Nota bibl.).
La «legge sulla tutela delle persone e di altri
soggetti rispetto al trattamento dei dati personali» (l. 31.12.1996, n. 675), poi confluita nel
«Codice in materia di protezione dei dati personali» (d. legis. 30.6.2003, n. 196), includeva
espressamente, tra i soggetti interessati in relazione al trattamento dei dati personali, le «persone giuridiche e ogni altro ente o associazione». Per effetto delle modifiche apportate dal
d.l. 6.12.2011, n. 201, alcune disposizioni contenute nella prima parte del Codice sono state
abrogate, con il risultato che gli articoli ora
modificati fanno esclusivo riferimento alle persone fisiche. Nondimeno, con provvedimento
datato 20.9.2012, n. 262, il Garante per la protezione dei dati personali si è espresso nel senso che le disposizioni del Codice continuino a
trovare applicazione a persone giuridiche, enti
ed associazioni, anche a seguito delle modifiche del suddetto d.l. n. 201/2011.
Alla persona giuridica trova quindi applicazione, nel quadro attuale, la medesima disciplina rimediale che si rivolge alla persona fisica,
ed in particolare l’art. 15 del Codice, che prevede espressamente la risarcibilità del danno
non patrimoniale cagionato per effetto del trattamento dei dati personali contenuti in una
banca dati.
Non è agevole individuare sentenze edite in
materia di risarcimento del danno non patrimoniale, ex art. 15 del Codice in materia di
protezione dei dati personali, a persone giuridiche. Particolare rilevanza assume, dunque,
App. Milano, 27.1.2013, in Foro it., 2014, I,
2612 ss. e in Dir. inf., 2013, 831 ss., con nota di
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Danno non patrimoniale
Bassini, in cui veniva richiesto, dalla società
appellante, di condannare al risarcimento dei
danni patrimoniali e non patrimoniali una nota
testata giornalistica, per violazione del disposto
dell’art. 7, d. legis. n. 196/2003. Tale domanda
veniva rigettata e, con riguardo al danno non
patrimoniale, si affermava che esso «anche nei
casi di lesione di diritti inviolabili, non può ritenersi in re ipsa, ma deve essere debitamente allegato e provato, anche con il ricorso a presunzioni».
Anche in relazione all’illecito trattamento di
dati personali, vale dunque il principio per cui
il danno non può ritenersi in re ipsa (Cass.,
5.9.2014, n. 18812, in Foro it., 2015, I, 119 ss.;
Cass., 9.1.2014, n. 194, in Foro it., 2015, I, 121
ss.; Cass., 14.8.2014, n. 17974, in CED Cassazione; Cass., 26.9.2013, n. 22100, in Rep. Foro
it., 2013, voce «Persona fisica», n. 93; Trib.
Milano, 3.9.2012, in Danno e resp., 2013, 51
ss., con nota di Foffa; in Foro it., 2012, I, 2850
ss.). Ciò, contrariamente ad un più risalente
orientamento, secondo cui la prova del danno
non patrimoniale poteva invece ritenersi individuabile di per sé nel fatto lesivo (cfr. Trib.
Milano, 13.4.2000, in Foro it., 2000, I, 3004
ss., in cui il danno veniva identificato nel fatto
dell’illecito trattamento di dati anagrafici).
La più recente giurisprudenza si dimostra rigorosa anche per quanto riguarda un altro
aspetto di rilievo, ossia la necessità che il diritto alla riservatezza sia inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio.
In Cass., 15.7.2014, n. 16133, in Foro it., 2015,
I, 120 ss., si è infatti espressamente affermato
che, nel caso di illecito trattamento di dati personali, il risarcimento del danno non patrimoniale non si sottrae all’accertamento dei profili
della gravità della lesione e della serietà del
danno, in quanto «anche nella fattispecie di
danno non patrimoniale di cui al citato art. 15,
opera il bilanciamento (...) del diritto tutelato da
detta disposizione con il principio di solidarietà».
Alla luce di tali orientamenti, la tutela della
persona (anche giuridica) che abbia subito un
illecito trattamento dei dati personali appare
affievolita, non potendo limitarsi ad allegare
l’attività di illecito trattamento, ma dovendo
dimostrare che il proprio diritto alla riservatezza sia stato leso oltre una certa soglia minima.
NGCC 2015 - Parte seconda
Con particolare riguardo al caso della persona
giuridica, la prova si presenta particolarmente
ardua perché, alla generale difficoltà di dimostrare un danno derivante dalla lesione di un
bene immateriale, si aggiunge quella costituita
dalla riferibilità del pregiudizio ad un’entità sovraindividuale.
8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. Un’altra ipotesi nella quale il risarcimento del danno non
patrimoniale è espressamente previsto dalla
legge è quella dell’equa riparazione per il caso
di illegittima durata del processo, in virtù dell’art. 2, l. n. 89/2001 (Legge Pinto), che riconosce il diritto ad un’equa riparazione a chiunque
abbia subito un danno patrimoniale o non patrimoniale «sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par.
1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali».
In tale casistica si è affermata definitivamente la compatibilità dei diritti della personalità
con l’assenza di fisicità (tra le prime pronunce
sul punto, Cass., 2.8.2002, n. 11573, in Giust.
civ., 2002, I, 3063 ss., in cui si è espressamente
affermato che «la persona giuridica (...) è portatrice di quei diritti della personalità, ove compatibili con l’assenza di fisicità, e, quindi, dei diritti all’esistenza, all’identità, al nome, all’immagine ed alla reputazione»).
Come già accennato supra (§ 4), la giurisprudenza di legittimità ha seguito, al fine di uniformarsi all’orientamento della Corte di Strasburgo, un percorso autonomo che diverge
dalle soluzioni che la medesima giurisprudenza
ha invece adottato nelle altre ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale. Una volta
accertata la violazione del termine ragionevole
di durata, infatti, il giudice deve presumere
sussistente il danno non patrimoniale, salvo
che circostanze particolari portino ad escluderlo (in tal senso, inter alia, Cass., 1o.12.2011, n.
25730, in Rep. Foro it., 2012, voce «Diritti politici e civili», n. 236; Cass., 2.2.2007, n. 2246,
in Rep. Foro it., 2007, voce cit., n. 236).
Tra le pronunce che, a fronte di circostanze
particolari, escludono il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2, l. n. 89/2001, si
segnala App. Potenza, 6.7.2010 (a quanto
consta inedita, ma della quale si leggono stralci
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Rassegne di giurisprudenza
nella motivazione di Cass., 20.6.2013, n.
15479, cit.), in cui si negava ad una società di
capitali il diritto all’equa riparazione, per non
avere dimostrato in concreto la prova del pregiudizio subito dai propri amministratori e soci. La peculiarità della fattispecie sottoposta all’attenzione della Corte d’Appello – ed, in seguito, della Supr. Corte (Cass., n. 15479/2013,
cit.), che confermava la decisione, pur correggendo la motivazione ex art. 384, ult. comma,
cod. proc. civ. – si poteva ravvisare, tra l’altro,
nel fatto che la società fosse di medio-grandi
dimensioni, con conseguente difficoltà di ipotizzare un effettivo patimento dei soci per l’eccessiva durata della controversia, diversamente
da quanto si potrebbe ritenere per il caso di
una società di persone avente dimensioni ridotte.
9. Segue: danno non patrimoniale per
lesione di un diritto inviolabile ai sensi
dell’art. 2 Cost. Le Sezioni Unite del 2008
affermano espressamente la risarcibilità del
danno non patrimoniale conseguente alla violazione dei diritti alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, ritenuti diritti inviolabili della persona (anche giuridica) ai sensi
dell’art. 2 Cost. (conforme anche Cass.,
14.8.2008, n. 25157, in Rep. Foro it., 2008, voce «Danni civili», n. 193). Diritti che, contrariamente a quanto ritenuto in dottrina, la giurisprudenza riconosce pacificamente anche in
capo ad enti con scopo di lucro.
Nella maggior parte dei casi, il danno non
patrimoniale subito dalla persona giuridica viene ricondotto alla lesione del c.d. «diritto all’immagine», cui viene riconosciuta la natura di
diritto inviolabile ex art. 2 Cost. Non immediata è la ricostruzione del contenuto di tale diritto, poiché la giurisprudenza utilizza l’espressione «immagine» con significati non univoci e
non riferibili alla nozione impiegata all’art. 10
cod. civ.
Talora il termine viene ad indicare un diritto
«speculare» rispetto alla reputazione della persona fisica, inquadrabile come interesse della
persona giuridica all’integrità della propria immagine sociale e credibilità; in altri casi viene
utilizzato in un’ottica più ampia, comprendente diversi aspetti della personalità, tra cui il diritto all’identità personale (in tal senso v. Trib.
348
Palermo, 7.2.2011, cit., che individua il «danno all’immagine» della persona giuridica in diverse lesioni di diritti inerenti alla personalità,
tra cui «il diritto all’identità personale, all’onore, alla reputazione»).
Il «danno all’immagine» della persona giuridica è riconducibile alla lesione del diritto alla
reputazione quando siano divulgate notizie denigratorie attraverso l’utilizzo di mezzi di diffusione di massa (stampa, televisione, rete Internet), senza che siano integrati, tuttavia, gli
estremi del reato di diffamazione (altrimenti, si
ricadrebbe nell’ipotesi di danno da reato già illustrato al § 6). Tra le numerose pronunce sul
punto, può ricordarsi Trib. Torino,
20.2.2012, cit.), in cui la denigrazione di un
prodotto, a mezzo televisione, veniva considerata fonte di lesione del diritto all’onore e alla
reputazione di una nota società per azioni, risarcibile «anche in assenza di reato».
L’ampio utilizzo dell’espressione «danno all’immagine» dimostra le difficoltà che la giurisprudenza incontra nell’individuazione del diritto della personalità concretamente violato,
anche perché spesso il medesimo fatto lesivo è
in grado di incidere su diversi aspetti della personalità dell’ente. Così, ad esempio, in Trib.
Bergamo, 5.12.2013, in Resp. civ. e prev.,
2014, 1667 ss., con nota di Citarella, l’illecito
accostamento del nominativo di un ente non
profit ad un sito di dating veniva considerato
lesivo non soltanto del diritto alla reputazione,
ma anche del diritto al nome, ex artt. 6-7 cod.
civ., e all’identità personale, con conseguente
risarcimento del danno non patrimoniale.
Di recente, la Supr. Corte sembra avere avallato l’orientamento che ritiene non configurabile un diritto all’onore dell’ente nella sua «dimensione soggettiva», inteso come considerazione e percezione che ha di se stesso. In particolare, si è ritenuto che le affermazioni offensive rivolte ad una società commerciale e comunicate al legale rappresentante della stessa non
siano idonee a ledere il «diritto all’immagine»
dell’ente, quando siano confinate nell’ambito
aziendale e non siano immediatamente percepibili dalla collettività o da terzi (v. Cass.,
21.5.2013, n. 22396, cit.). Sulla base di analoghe argomentazioni, Cass., n. 18082/2013, cit.,
affermava che gli atti di concorrenza sleale subiti da una società sono idonei a cagionare un
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Danno non patrimoniale
«danno all’immagine», con conseguente riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale, solo quando siano immediatamente percepibili da terzi estranei all’ente
e determinino un effetto negativo sulla reputazione della persona giuridica. Effetto negativo
che invece era stato accertato in Trib. Milano, 19.4.2010, in Danno e resp., 2010, 825 ss.,
con nota di Afferni, in cui veniva riconosciuto, ad una persona giuridica, il danno non patrimoniale derivante da un atto di concorrenza
sleale per denigrazione, avendo la denigrazione
commerciale «causato una grave lesione del diritto all’immagine dell’impresa».
La lesione del «diritto all’immagine» dell’ente ha un ruolo di particolare rilievo, poi, nella
copiosa casistica relativa alla illegittima segnalazione di una posizione di sofferenza alla Centrale dei Rischi. Come già accennato, la più recente giurisprudenza ritiene che l’illegittima
segnalazione di una posizione di sofferenza
può condurre sia alla risarcibilità del danno
patrimoniale per peggioramento dell’affidabilità commerciale, sia alla risarcibilità del danno
non patrimoniale con riguardo alla lesione del
diritto all’immagine dell’ente, «incidendo su di
una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione» (Cass.,
9.7.2014, n. 15609, cit.; Cass., 4.6.2007, n.
12929, cit.; Trib. Bari, 5.1.2011, cit.). Anche
in tale ambito, la giurisprudenza ha mostrato
incertezza nell’individuazione dell’interesse
giuridico violato: ad esempio in Trib. Milano,
17.3.2004, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II,
528 ss., il danno non patrimoniale veniva riconosciuto in virtù della lesione del diritto alla
«reputazione commerciale», la cui violazione
condurrebbe, più propriamente, al risarcimento di un danno avente carattere patrimoniale.
Nella giurisprudenza più risalente il danno
non patrimoniale subito dalla persona giuridica veniva considerato in re ipsa, seguendo l’influenza dell’insegnamento di Corte Cost. n.
184/1986, mentre, secondo l’attuale orientamento, deve trattarsi di un danno-conseguenza, che deve sempre essere allegato e provato
[«(...) il danno non deriva dalla mera inserzione
nella banca dati, ma dall’effetto che tale inserzione produce sul pubblico»: così, testualmente,
Cass., 4.6.2007, n. 12929, cit.].
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Nel filone della lesione del «diritto all’immagine» dell’ente, si annoverano anche le numerose pronunce in tema di pubblicazione di protesti illegittimi. A partire dagli anni Novanta
del secolo scorso, l’evoluzione giurisprudenziale ha cominciato a dare rilievo, anche nel caso
di illegittimo protesto, al profilo della lesione
della reputazione personale dell’ente (Trib.
Milano, 28.9.1989, in Banca, borsa, tit. cred.,
1991, II, 497 ss.; Cass., 3.4.2001, n. 4881, in
Giur. it., 2001, 1657 ss.; Cass., 5.11.1998, n.
11103, ivi, 1999, 770 ss., con nota di Sanzo; in
Corr. giur., 1999, 998 ss., con nota di Sciso;
Cass., 23.3.1996, n. 2576, cit.).
Quanto all’onere probatorio, solo di recente
si è giunti ad affermare che il danno non patrimoniale da illegittima levata del protesto deve
essere provato (v. Cass., 14.1.2015, n. 483, in
CED Cassazione; Cass., 11.10.2013, n. 23194,
in Vita not., 2014, 406 ss.; contra, per tutte,
Cass., 20.6.2006, n. 14977, in Resp. civ. e prev.,
2007, 545 ss., con nota di Scognamiglio).
Deve, infine, essere preso in considerazione,
come diritto la cui lesione può dare origine ad
un danno non patrimoniale, quello all’immagine «in senso proprio», come forma di tutela
contro le forme di esposizione o pubblicazione
dell’immagine della persona giuridica. Rilevante è, al riguardo, Cass., 11.8.2009, n. 18218, in
Danno e resp., 2010, 471 ss., con nota di Resta,
che ha ritenuto estensibile alla persona giuridica (una società commerciale) la tutela civilistica dell’immagine ex art. 10 cod. civ., contrariamente a quell’orientamento secondo cui «la tutela del diritto all’immagine di cui agli artt. 10
c.c. e 96 seg., legge sul diritto d’autore, non è
nemmeno astrattamente invocabile per le persone giuridiche» (Trib. Milano, 28.1.1993, in
AIDA, 1994, 325 ss., con nota di Mayr). In
particolare, i giudici hanno riconosciuto il diritto all’immagine «fotografica» di un oggetto
sulla quale la persona giuridica esercitava il diritto di godimento e sfruttamento materiale, ritenendola tutelabile ai sensi dell’art. 10 cod.
civ. Il danno non patrimoniale, causato dall’illecito comportamento, veniva considerato risarcibile ex art. 2059 cod. civ. sotto il profilo
del «c.d. annacquamento della denominazione»
e dello «svilimento dell’immagine, ove soggetta
ad una diffusione non controllata».
349
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Rassegne di giurisprudenza
10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica. Tra le questioni più controverse e di maggiore complessità vi è quella dell’individuazione di univoci criteri per la quantificazione del
danno non patrimoniale subito da una persona
giuridica privata. Come è noto, ruolo privilegiato assume, in tale contesto, la liquidazione
del danno in via equitativa, ai sensi dell’art.
1226 cod. civ., norma applicabile alla responsabilità extracontrattuale grazie all’esplicito
rinvio contenuto nell’art. 2056 cod. civ.
Per quanto riguarda le ipotesi di condotte
diffamatorie attraverso mass media, i giudici
prendono in considerazione l’ambito territoriale di diffusione del mezzo utilizzato, il grado
di visibilità e notorietà pubblica dell’ente danneggiato, l’entità del fatto, valutando positivamente il comportamento post actum dell’offensore, come l’eventuale pubblicazione di note a
chiarimento (Trib. Cassino, 17.3.2014, cit.;
Trib. Roma, 28.11.2013, cit.; Trib. Roma,
13.11.2012, cit.). In una fattispecie in cui la diffamazione veniva realizzata attraverso un commento pubblicato su un blog, si considerava
come elemento idoneo a limitare la gravità del
pregiudizio la circostanza che l’autore del reato
si fosse limitato ad associarsi ad altri commenti
(Trib. Roma, 14.5.2013, cit.).
Gli indici adottati sono sostanzialmente
analoghi a quelli elaborati dalla giurisprudenza per la determinazione del quantum del danno non patrimoniale alla personalità dell’individuo, ossia la gravità del fatto lesivo, la diffusione dell’addebito diffamatorio, la qualità del
soggetto leso (al riguardo si segnalano Trib.
Roma, 5.10.1987, in Dir. inf., 1988, 435 ss.;
Trib. Roma, 14.7.1989, ivi, 1989, 952 ss.;
Trib. Roma, 16.2.1990, ivi, 1990, 539 ss.;
Trib. Roma, 2.5.1995, in Foro it., 1996, 658
ss.; Trib. Napoli, 22.3.1996, in Dir. inf.,
1996, 583 ss.) e, talora, l’intensità dell’elemento psicologico del danneggiante (Trib. Venezia, 29.2.2000, in Danno e resp., 2001, 536 ss.,
con nota di Pino; Trib. Venezia, 5.6.2002,
in Dir. eccl., 2003, II, 64 ss.; Trib. Roma,
18.2.2013, nella banca dati Leggi d’Italia-Corti
di Merito).
Particolarmente rilevanti sono, poi, due pronunce di merito, rese in fattispecie nelle quali
non venivano ritenuti integrati gli estremi del
350
reato: la prima è Trib. Milano, 19.4.2010,
cit., in cui si è tenuto conto della gravità degli
apprezzamenti denigratori, della loro diffusione (mediante libro, campagna stampa ed Internet) e della notorietà della persona offesa. La
seconda è Trib. Torino, 20.2.2012, cit., in cui
venivano specificati, con insolito dettaglio, i
parametri presi in considerazione per la liquidazione del danno non patrimoniale, ossia il
numero di persone offese, lo strumento utilizzato (la televisione, con largo bacino di utenza), la gravità dell’offesa, la notorietà e posizione personale e sociale del soggetto leso, il comportamento post actum dell’offensore.
Deve rilevarsi come vengano in rilievo elementi che, prima facie, difficilmente si conciliano con la tradizionale funzione riparatoria della responsabilità civile: il riferimento è, in particolare, al profilo della gravità della condotta
dell’offensore. In dottrina, infatti, si può riscontrare l’opinione che individua una funzione satisfattivo-deterrente della tutela risarcitoria, quando ad essere violato sia un diritto della
personalità (così Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale, una missione impossibile, 1280, infra, Nota bibl.).
Non pienamente condivisibili sono infine
quelle sentenze che valorizzano, ai fini della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale, elementi ai quali sarebbe più corretto attribuire una natura patrimoniale (la somma
non corrisposta da un istituto di credito all’ente, per effetto della illegittima segnalazione alla
Centrale Rischi della Banca d’Italia – Trib. Bari, 5.1.2011, cit. –; i dati relativi alla diminuzione di reddito seguita ad un provvedimento di
sequestro ingiustificato – Trib. Ivrea,
22.8.2002, in Gius, 2001, 2662 ss.).
Nota bibliografica
1. Introduzione.
2. Danno non patrimoniale e persona
giuridica: l’evoluzione giurisprudenziale. Sul tema dell’estensione di diritti della personalità agli enti collettivi cfr. De Cupis, I diritti della personalità, nel Trattato Cicu-Messineo, IV, Giuffrè, 1982, 45 ss.; Assanti, Protezione della personalità, onore e libertà d’azione
negli enti collettivi, in Giur. it., 1985, 252 ss.;
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Danno non patrimoniale
Rescigno, voce «Personalità (diritti della)», in
Enc. giur. Treccani, XXIII, Ed. Enc. it., 1990, 7
s.; Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti della)», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez.
civ., XIII, Utet, 1995, 430 ss.; Alpa-Ansaldo,
Le persone fisiche, nel Commentario Schlesinger, Giuffrè, 1996, sub artt. 1-10, 165 s.
Per la dottrina più recente si vedano i contributi monografici di Ar. Fusaro, I diritti della
personalità dei soggetti collettivi, Cedam, 2002,
spec. 1-43; C. Perlingieri, Enti e diritti della
persona, Esi, 2008; v. altresì Zoppini, I diritti
della personalità delle persone giuridiche (e dei
gruppi organizzati), in Riv. dir. civ., 2002, I, 851
ss., cui si fa rinvio per i riferimenti ivi forniti,
con particolare riguardo alla dottrina tedesca
(nt. 22); Zeno Zencovich, I diritti della personalità, in Diritto Civile, diretto da Lipari e Rescigno, I, 1, Giuffrè, 2009, 513 s.
In tema di diritto al nome e all’identità personale si segnalano, inter alia, Aa. Vv., La lesione dell’identità personale e il danno non patrimoniale, Giuffrè, 1985 e, in particolare, il contributo di De Cupis, Bilancio di un’esperienza:
l’identità personale, 187-197; sul terreno del diritto comparato Gambaro, Falsa luce agli occhi
del pubblico (False light in the public eye), in
Riv. dir. civ., 1981, I, 84 ss. Per quanto riguarda l’identità degli enti collettivi v. G. Giacobbe, Il diritto all’identità personale dei gruppi organizzati, in Giust. civ., 1980, II, 266, ove è fatto ampio riferimento alla giurisprudenza meno
recente, e Ar. Fusaro, Nome e identità personale degli enti collettivi. Dal «diritto» all’identità uti singuli al «diritto» all’identità uti universi, in questa Rivista, 2002, II, 51 ss.
Nell’ambito della vasta letteratura in tema di
diritto all’onore e alla reputazione, si segnalano
Zeno Zencovich, Onore e reputazione nel sistema del diritto civile, Jovene, 1985; Garutti,
Il diritto all’onore e la sua tutela civilistica, Cedam, 1985; De Vita, Persone fisiche, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it.,
1988, sub artt. 1-10; quanto all’onore e alla reputazione della persona giuridica v. Ar. Fusaro, I diritti della personalità dei soggetti collettivi, cit., 45 ss.
Sul ruolo dell’art. 2 Cost. come fondamento
costituzionale dell’estensione dei diritti della
personalità alla persona giuridica, v. P. Rescigno, voce «Personalità (diritti della)», cit., 7 s.;
NGCC 2015 - Parte seconda
Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti
della)», cit.
Sul ruolo della dottrina nell’auspicare una lettura estensiva dell’art. 2059 cod. civ., che consentisse la risarcibilità del danno non patrimoniale nelle ipotesi di lesione dei diritti della personalità, si vedano, senza alcuna pretesa di completezza: De Cupis, I diritti della personalità, cit.,
57 ss.; Tommasini, Diritto alla identità personale e risarcibilità dei danni morali, in La lesione
dell’identità personale e il danno non patrimoniale, cit.; Macioce-Garutti, Il danno da lesione
dei diritti della personalità, in Rass. dir. civ., 1984,
63 ss.; Salvi, La responsabilità civile, nel Trattato Iudica-Zatti, 2a ed., Giuffrè, 2005, 99 s.
Per una recente ricostruzione dell’interpretazione tradizionale dell’art. 2059 cod. civ. e
dell’evoluzione in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale, Navarretta, Il danno
non patrimoniale, nel Trattato della Responsabilità civile, diretto da Patti, IV, Il danno non
patrimoniale, a cura di Delle Monache, Utet,
2010, 1 ss.; Lucchini Guastalla, Il contratto
e il fatto illecito, Giuffrè, 2012, 490 ss.
3. La vexata quaestio del danno non
patrimoniale subito da società commerciali. Univoco è, in dottrina, l’orientamento
secondo cui la lesione di un diritto della personalità può essere fonte tanto di un pregiudizio
di natura patrimoniale quanto di un pregiudizio di natura non patrimoniale: v., inter alia, D.
Messinetti, voce «Personalità (diritti della)»,
in Enc. del dir., XXIII, 1983, Giuffrè, 393 ss.;
Macioce-Garutti, cit., 49 ss. Ritengono però
che non possano essere titolari di diritti della
personalità, e dunque non possano subire un
danno non patrimoniale, al di fuori dei casi di
«danno da reato» e di ipotesi previste dalla legge, Nuzzo, voce «Nome (diritto vigente)», in
Enc. del dir., XXVII, Giuffrè, 1978, 310 ss.; Zeno Zencovich, voce «Personalità (diritti della)», cit., 440; Pino, Sul diritto all’identità personale degli enti collettivi (nota a Trib. Roma,
28.2.2001), in Dir. inf., 2001, 475; Ar. Fusaro,
I diritti della personalità degli enti collettivi, cit.,
257; Fici-Resta, La tutela dei dati degli enti collettivi: aspetti problematici, in Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati personali, a cura
di Pardolesi, II, Giuffrè, 2003, 405 ss.; Ar.
Fusaro, Discredito dell’impresa mediante prove
351
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Rassegne di giurisprudenza
comparative tra prodotti: il caso Fiat contro Annozero (nota a Trib. Torino, 20.2.2012) in
questa Rivista, 2012, I, 670 s. Sul tema specifico dell’identità personale, v. Panuccio, La lesione della c.d. identità commerciale e la tutela
non patrimoniale, in La lesione dell’identità personale e il danno non patrimoniale, cit., 115, secondo cui l’identità commerciale non può considerarsi come specificazione dell’identità personale, non potendo parlarsi di diritti della personalità nell’ambito dello svolgimento di un’attività imprenditoriale.
Non contrari all’estensione di diritti della
personalità ad enti con scopo di lucro parrebbero invece Ranieri Bianchi, Danno da lesione dei diritti della personalità degli enti collettivi, in Il danno non patrimoniale: principi, regole
e tabelle per la liquidazione, a cura di Navarretta, cit., 363; Delli Priscoli, Diritti della
personalità, persone giuridiche e società di persone, in Giust. civ., I, 2008, 2004 s.
Per un’analisi critica della giurisprudenza sul
«duplice volto» della reputazione, personale e
patrimoniale, nello svolgimento di un’attività
imprenditoriale, v. Ar. Fusaro, Informazioni
economiche e «reputazione d’impresa» nell’orizzonte dell’illecito civile, Giappichelli, 2010, 86
ss., ove ampi richiami giurisprudenziali in tema
di protesto illegittimo e segnalazione di una
posizione di sofferenza alla Centrale Rischi della Banca d’Italia.
4. I contrastanti orientamenti sull’oggetto del pregiudizio. Per una completa ricostruzione delle dottrine sull’ascrizione di diritti alle persone giuridiche, v. BasileFalzea, voce «Persona giuridica (dir. priv.)»,
in Enc. del dir., XXIII, Giuffrè, 1983, 250 ss.;
Galgano, Delle persone giuridiche, nel Commentario Scialoja-Branca, Zanichelli-Foro it.,
2006, sub artt. 11-35, 1-27; Basile, Le persone
giuridiche, nel Trattato Iudica-Zatti, 2a ed.,
Giuffrè, 2014, 165 ss.
Sottolinea le criticità insite in Cass., n.
12929/2007, Foffa, La lesione dell’immagine
di una persona giuridica (nota a Cass.,
4.6.2007, n. 12929), in Danno e resp., 2007,
1236; evidenzia la presenza di contraddizioni
nella motivazione De Giorgi, Persona giuridica e danno non patrimoniale, in Persona e soggetto, a cura di Tescione, Esi, 2010, 198.
352
Esprime perplessità nei confronti dell’orientamento che riconosce il danno morale soggettivo correlato ai turbamenti dell’ente, in presenza di un reato, Bonamini, Gli enti, e il danno non patrimoniale (nota a Trib. Treviso,
27.10.2011), in Fam., pers. e succ., 2012, 517
ss.; gli aspetti problematici insiti nel revirement
della Supr. Corte in tema di irragionevole durata del processo sono evidenziati da De Giorgi, Risarcimento del danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite
dai componenti (nota a Cass., 30.8.2005, n.
17500), in Danno e resp., 2006, 153 ss.; Ead.,
Persona giuridica e danno non patrimoniale,
cit., 197 ss. Contra Vittoria, Il danno non patrimoniale agli enti collettivi, in Riv. dir. civ.,
2007, I, 539 ss., che si dichiara favorevole all’imputazione all’ente degli stati soggettivi dei
suoi componenti.
5. Le pronunce delle sezioni unite del
2008 e le ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale. Le sentenze delle sezioni unite del 2008 sono commentate in tutte
le principali riviste. Si vedano, ex multis, Bargelli, Danno non patrimoniale: la messa a punto delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2009,
I, 102 ss.; Monateri, Il pregiudizio esistenziale
come voce di danno non patrimoniale; Navarretta, Il valore della persona nei diritti inviolabili e la complessità dei danni non patrimoniali;
Poletti, La dualità del sistema risarcitorio e
l’unicità delle categorie dei danni non patrimoniali; Ziviz, Il danno non patrimoniale: istruzioni per l’uso, tutti in Resp. civ. e prev., 2009,
38 ss.; Busnelli, Le sezioni unite e il danno
non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, II, 97
ss.
Sulle questioni lasciate irrisolte dall’intervento delle sezioni unite del 2008, v. Busnelli,
Non c’è quiete dopo la tempesta, in Riv. dir. civ.,
2012, I, 129 ss. e, da ultimo, Salvi, Il risarcimento integrale del danno non patrimoniale,
una missione impossibile, in Studi in onore di
Giovanni Iudica, Egea, 2014, 1269 ss.
6. Segue: danno non patrimoniale da
reato. La dottrina più risalente negava che gli
enti diversi da quelli individuati dall’art. 595,
ult. comma, cod. pen., potessero essere soggetti passivi dei delitti di ingiuria e diffamazione:
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Danno non patrimoniale
v. Manzini, Trattato di diritto penale italiano,
VIII, Delitti contro la persona, 5a ed., Utet,
1985, 408.
Sulla distinzione tra i delitti di ingiuria e diffamazione, v. Antolisei, Manuale di diritto penale, I, Parte speciale, 14a ed., Giuffrè, 2002,
194 s.
Riconoscono pacificamente il diritto all’onore in capo alla persona giuridica, senza distinzioni tra componente «oggettiva» e «soggettiva», Ar. Fusaro, I diritti della personalità dei
soggetti collettivi, cit., 68; Delli Priscoli, cit.,
2005; di contrario avviso De Cupis, I diritti
della personalità, nel Trattato Cicu-Messineo,
IV, Giuffrè, 1982, 254; Pino, Sul diritto all’identità personale degli enti collettivi, cit.,
476; secondo cui la nozione di onore non appare correttamente riferibile ad enti collettivi,
se riferita al sentimento che ciascuno soggetto
ha della propria dignità personale.
Sul tema della diffamazione da mass media,
la letteratura è sterminata. Si vedano, a titolo
meramente esemplificativo, Ricciuto-Zeno
Zencovich, Il danno da mass-media, Cedam,
1990; Chindemi, Diffamazione a mezzo stampa, Giuffrè, 2006, spec. 247 ss., con riguardo al
risarcimento del danno da diffamazione.
Sulla necessità di provare il danno non patrimoniale in presenza da reato, si segnala la posizione critica di Rizzieri, Il danno non patrimoniale da reato, nel Trattato della Responsabilità
civile, diretto da Patti, IV, Il danno non patrimoniale, a cura di Delle Monache, cit., 444
ss.
7. Segue: danno non patrimoniale in
ipotesi legislativamente previste: a) persone giuridiche e trattamento dei dati
personali. Per un’analisi della disciplina sul
trattamento dei dati personali v., per tutti, Rodotà, Persona, riservatezza, identità. Prime note sistematiche sulla protezione dei dati personali, in Riv. crit. dir. priv., 1997, 583 ss.
Sulle novità legislative relative alla tutela dei
dati delle persone giuridiche v. Montesano, I
dati personali relativi alle imprese e la circolazione di informazioni aziendali dopo il «decreto
salva Italia», in Il dir. ind., 2012, 70 ss.; Basile,
Le persone giuridiche, nel Trattato Iudica-Zatti,
2a ed., Giuffrè, 2014, 191 s.
In tema di danno da illecito trattamento dei
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dati personali v. Lucchini Guastalla, Trattamento dei dati personali e danno alla riservatezza, in Resp. civ. e prev., 2003, spec. 650 ss.,
relativamente al profilo del danno non patrimoniale; v. altresì Finessi, Il danno non patrimoniale da illecito trattamento dei dati personali, nel Trattato della Responsabilità civile, diretto da Patti, IV, Il danno non patrimoniale, a
cura di Delle Monache, cit., 481 ss.
Circa i possibili effetti negativi della protezione dei dati personali delle società sulla trasparenza del mercato, v. Fici-Resta, La tutela
dei dati degli enti collettivi: aspetti problematici,
in Diritto alla riservatezza e circolazione dei dati
personali, Giuffrè, 2003, 416 ss.; Zoppini, I diritti della personalità delle persone giuridiche (e
dei gruppi organizzati), cit., 851 s.
8. Segue: b) la riparazione per irragionevole durata del processo. Sulla tematica
del danno non patrimoniale da irragionevole
durata del processo v. l’ampio contributo di
Girolami, Il danno non patrimoniale da irragionevole durata del processo, in Trattato della
Responsabilità civile, cit., 535 ss.; quanto al
danno non patrimoniale subito in tale contesto
da persone giuridiche v. Didone, Il danno non
patrimoniale da irragionevole durata del processo per le persone giuridiche (nota a Cass.,
2.8.2002, n. 11573), in Giur. it., 26 ss.; Venturelli, Legge Pinto: per le persone giuridiche la
prova del danno non è in re ipsa (nota a Cass.,
2.7.2004, n. 12110), in Danno e resp., 2005, 10,
977; V. Giorgianni, Il risarcimento del danno
non patrimoniale a persone giuridiche (nota a
Cass., 10.3.2004, n. 12110), in La resp. civ.,
2005, 624 ss.; De Giorgi, Risarcimento del
danno morale ex legge Pinto alle persone giuridiche per le sofferenze patite dai componenti,
cit.; Toschi Vespasiani, La risarcibilità del
danno da irragionevole durata del processo in favore delle società, in Resp. civ. e prev., 2008,
1006 ss.
Facendo proprio un ragionamento analogo
a quello di Cass., n. 15479/2013, cit., rileva le
criticità dell’orientamento che riferisce i patimenti dei soci all’ente, tanto più quando si
tratti di una società per azioni, De Giorgi,
Persona giuridica e danno non patrimoniale,
cit., 199.
353
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Rassegne di giurisprudenza
9. Segue: il danno da lesione di un diritto inviolabile rilevante ai sensi dell’art. 2 Cost. Per un’elencazione di tipologie
di diritti inviolabili rilevanti ex art. 2 Cost., v.
Navarretta, Il danno non patrimoniale e la
responsabilità extracontrattuale, in Il danno non
patrimoniale: principi, regole e tabelle per la valutazione, cit., spec. 30 ss.
Sulle differenze tra accezione «estensiva» e
accezione «tecnica» del diritto all’immagine v.
Ar. Fusaro, I diritti della personalità degli enti
collettivi, cit., 165 ss.; Ranieri Bianchi, Il
danno non patrimoniale da lesione dei diritti
della personalità degli enti collettivi, cit., 361 s.
Sul riconoscimento del «diritto all’immagine» in senso tecnico, ex art. 10 cod. civ., alla
persona giuridica, v. sempre Ar. Fusaro, I diritti della personalità degli enti collettivi, cit.,
170; esprime forti perplessità in merito alla succitata Cass., n. 18218/2009, Resta, Diritti della
personalità e tutela dell’immagine dei beni, cit.
10. Il quantum del danno non patrimoniale sofferto dalla persona giuridica. Per una rassegna relativa ai criteri utilizzati
dalla giurisprudenza per la determinazione del
danno non patrimoniale da mass-media, anche
se relativa a pronunce risalenti agli anni Ottan-
354
ta del secolo scorso, Zeno Zencovich, Il danno da mass-media, cit., 90 ss.
Con riguardo a pronunce più recenti v. Peron-Galbiati, La diffamazione a mezzo stampa nelle sentenze del Tribunale civile e penale di
Milano nel quadriennio 2001-2004, in Dir. inf.,
2006, 57 ss.; Eid., La giurisprudenza della Corte
d’Appello civile di Milano in materia di diffamazione nel triennio 2003-2005, in Resp. civ. e
prev., 2007, 2254 ss.; Zeno Zencovich, La
quantificazione del danno alla reputazione e ai
dati personali: ricognizione degli orientamenti
2013 del Tribunale civile di Roma, in Dir. inf.,
2014, 405 ss.
Per una rassegna in tema di liquidazione del
danno non patrimoniale a persone giuridiche
v. Palmerini-Ranieri Bianchi, Il danno non
patrimoniale da lesione dei diritti della personalità agli enti collettivi, cit., 671 ss.
Per alcune considerazioni sulla possibilità di
ammettere una funzione deterrente alla responsabilità civile, v. C. Scognamiglio, Danno morale e funzione deterrente della responsabilità civile, in Resp. civ. e prev., 2007, 2496 ss.;
Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi, in Eur. e dir. priv.,
2009, 909 ss.
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VENDITA DI PARTECIPAZIONI SOCIALI DI «CONTROLLO»
E GARANZIE PATRIMONIALI: RASSEGNA CRITICA [,]
di Giacomo Buset
Sommario: 1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni sociali di
«controllo». – 2. Oggetto del contratto di vendita di partecipazioni sociali: le quote o azioni e
non il patrimonio. – 3. Segue: le eccezioni... – 4.
Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le
cc.dd. garanzie implicite. – 5. Natura delle garanzie patrimoniali: primi tentativi di inquadramento (App. Genova, 6.11.1946 e Cass., n. 338/
1967). Le reazioni della dottrina. – 6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. – 7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza sistematica con la disciplina
delle garanzie convenzionali nella vendita. – 8.
Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle garanzie: pronunce di
merito... – 9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/2014. – 10.
Considerazioni conclusive .
1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni sociali di «controllo». Come noto, i contratti
di vendita di partecipazioni sociali totalitarie o di
«controllo» contengono usualmente, da circa
mezzo secolo (cfr. Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, 294, infra, Nota bibl.), pattuizioni con cui l’alienante «garantisce» l’acquirente in ordine all’attuale sussistenza o al verificarsi futuro di una serie di circostanze, assunte
come rilevanti nell’economia dell’affare.
Si tratta di clausole convenzionali che la
prassi definisce, appunto, di garanzia (ovvero,
utilizzando un’endiadi diffusa nei formulari di
derivazione anglosassone, representations and
warranties: v. Pistorelli, 159, infra, Nota bibl.) e che si suddividono tipicamente in due
macro-categorie, secondo che l’impegno abbia
ad oggetto, in particolare, situazioni relative:
(i) alla partecipazione sociale; (ii) al patrimonio
della società la cui partecipazione è alienata.
[,] Contributo pubblicato in base a referee.
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Alle prime ci si riferisce con il sintagma garanzie legali (legal warranties): sono tali le clausole con cui il venditore presta garanzia riguardo alla proprietà e alla libera trasferibilità della
quote o azioni alienate, nonché ad individuate
qualità delle medesime (ad es., percentuale del
capitale sociale rappresentato, assenza di vincoli o gravami, categoria delle azioni ove si
tratti di partecipazione azionaria).
Integrano invece la seconda fattispecie le
cc.dd. garanzie patrimoniali (business warranties): vale a dire, pattuizioni in forza delle quali
l’alienante assicura all’acquirente che il patrimonio della società cui le partecipazioni si riferiscono abbia, o mantenga entro un dato periodo di tempo, una certa consistenza quantitativa
e qualitativa. Nel corso degli anni, i regolamenti negoziali hanno riservato a quest’ultime uno
spazio ed un dettaglio sempre maggiori, tanto
che non appare eccessivo considerarle ormai
«corpo centrale» dei contratti in esame (Speranzin, Le clausole relative all’oggetto «indiretto» (il patrimonio sociale); garanzie sintetiche
e garanzie analitiche, 193, infra, Nota bibl.).
Possono avere portata generale (garanzie
cc.dd. sintetiche: ad es., su veridicità del bilancio allegato al contratto, assenza di sopravvenienze passive) oppure inerire a singole voci
della situazione di riferimento (garanzie cc.dd.
analitiche: ad es., su crediti, diritti di proprietà
intellettuale, rimanenze di magazzino), e la loro previsione assume per l’acquirente di partecipazioni sociali totalitarie o di «controllo» una
valenza affatto fondamentale.
Da un lato, in tali ipotesi la determinazione
negoziale del compratore muove infatti dalla
volontà di conseguire – più che la titolarità delle quote o azioni in sé considerata, cioè a dire i
diritti patrimoniali ed amministrativi collegati
alla qualifica di socio – anzitutto la gestione diretta dell’impresa sociale e la disponibilità del
complesso aziendale, verificandosi un fenomeno di «tendenziale identificazione economica»
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Rassegne di giurisprudenza
tra partecipazione ed azienda (E. Panzarini,
252, infra, Nota bibl.): sicché, massimamente
avvertita è proprio l’esigenza di tutelarsi contro
il rischio specifico di eventuali mancanze o difformità del patrimonio sociale rispetto alle
aspettative.
Da altro lato, se sul piano del diritto positivo
le legal warranties, riguardando l’oggetto del
contratto traslativo, si inquadrano senza difficoltà nell’ambito delle garanzie già in ogni caso
previste, appunto, «ex lege» per la vendita agli
artt. 1479-1497 cod. civ., pur senza sovrapporvisi del tutto (v. Tersilla, 126, infra, Nota bibl.), le business warranties, afferendo a qualcosa di distinto dalla «cosa venduta», non sono
invece in predicato di «doppiare» alcun presidio legale predisposto in detta sede. Ne consegue che, laddove il compratore risulta comunque protetto rispetto ad evizione, vizi occulti e
mancanza di qualità essenziali delle quote o
azioni acquistate anche in assenza di esplicite
pattuizioni, altrettanto non può affermarsi con
riferimento ai beni sociali, e più in generale all’ipotesi in cui la consistenza patrimoniale della
società risulti in certa misura diversa (in peius)
da quella attesa: l’inserimento nel contratto
delle clausole di garanzia rappresenta in tal caso, salvo circostanze particolari, l’unica possibile fonte di tutela del compratore di partecipazioni rilevanti deluso.
L’opera di qualificazione delle business warranties, essendo funzionale a ricostruire la disciplina ad esse applicabile e fissare così i confini di tale tutela, costituisce pertanto questione di notevole rilevanza pratica: si pensi, in
particolare, ai profili dell’individuazione dei rimedi esperibili dal compratore in caso di «violazione» delle garanzie; della prescrizione; degli eventuali limiti imposti da norme imperative; delle modalità d’integrazione delle convenzioni incomplete.
Negli ultimi due decenni, molti contributi
monografici e saggistici si sono occupati in modo analitico della questione, attribuendovi ampio risalto; cionondimeno, per le ragioni che
subito si diranno, il tema rimane oggi di stretta
attualità. Da tempo, la posizione assunta dalla
prevalente giurisprudenza ordinaria – ma contestata da dottrina e giurisprudenza arbitrale
dominanti (per una rassegna di lodi inediti, v.
Bonelli, Acquisizioni di società, 318, n. 43; e
356
in precedenza Id., Giurisprudenza e dottrina su
acquisizioni di società e di pacchetti azionari di
riferimento, 49 ss., infra, Nota bibl.) – sulla natura delle garanzie patrimoniali, comportando
quale corollario l’applicazione di un relativo
regime prescrizionale e decadenziale assai sfavorevole all’acquirente, si traduce in una condizione di forte incertezza in ordine all’effettività delle clausole pattizie; incertezza che, a
propria volta, rischia di incidere negativamente
sull’appetibilità degli investimenti economici –
specie stranieri – nel settore mergers and acquisitions, disincentivandoli.
Ebbene, siffatta consapevolezza ha suscitato,
di recente, un primo interessamento da parte
del Parlamento: il 20.9.2013 è stata infatti
avanzata alla Camera, al fine di farvi fronte,
una proposta di legge (n. 1610) che prospetta
l’introduzione, nel codice civile, di una disciplina espressa della prescrizione dei «diritti derivanti dai patti relativi alla consistenza, alle caratteristiche del patrimonio, alle prospettive reddituali e alla situazione economica e finanziaria
della società» inseriti nei contratti di vendita di
partecipazioni sociali (v. Speranzin-Tina, 261
ss., infra, Nota bibl.; in ispecie, il termine è stato fissato in 5 anni).
D’altra parte, le argomentazioni tradizionalmente elaborate dalla dottrina a contrasto dell’indirizzo interpretativo poc’anzi ricordato
sembrano aver cominciato a far breccia, proprio da ultimo, nella stessa giurisprudenza ordinaria: risale invero a pochi mesi fa una pronuncia con cui la Corte di cassazione ha operato un primo, significativo revirement del proprio consolidato orientamento in materia
(Cass., 24.7.2014, n. 16963, in Giur. it., 2014,
11, 1406 ss.).
Quest’ultime osservazioni, e il rinnovato interesse verso il tema che ne discende, forniscono lo spunto per svolgere una rassegna delle
principali sentenze intervenute negli ultimi decenni in tema di qualificazione delle business
warranties e tutela del compratore di partecipazioni rilevanti rappresentanti una situazione
patrimoniale non conforme alle aspettative, al
fine di fare il punto sull’evoluzione del pensiero pretorio e capire se, sotto la spinta di dottrina e legislatore, il recente mutamento d’opinione del S.C. possa essere suscettivo di consolidarsi nel prossimo futuro.
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Vendita di partecipazioni sociali
2. Oggetto del contratto di vendita
di partecipazioni sociali: le quote o
azioni e non il patrimonio. La prima tappa
del percorso intrapreso non può che essere costituita da una breve indagine circa l’atteggiamento della giurisprudenza sulla questione
della conformazione oggettiva del contratto di
vendita di partecipazioni rilevanti, giacché essa, come è agevole intuire, risulta intimamente
correlata a quella esaminanda.
Si è detto che quando un soggetto acquista
l’intera quota di partecipazione in una società,
od una quota di «controllo», tramite il negozio
egli vuole ottenere in primo luogo – e di fatto
ottiene, sul piano economico – il dominio sui
beni sociali e sull’impresa. Ci si potrebbe allora
chiedere se, in queste ipotesi, esista o no un
fondato motivo per ritenere che l’interesse subiettivo perseguito dal compratore sia in grado
di riverberarsi, modificandolo od ampliandolo,
anche sull’oggetto del contratto di vendita, il
quale verrebbe in tal modo costituito non più
(soltanto) dalla partecipazione, bensì (anche)
dal patrimonio sociale o da una quota ideale
sul medesimo: con la significativa conseguenza,
per quanto interessa in questa sede, che le business warranties finirebbero in tal caso per essere assimilate, relativamente a qualificazione e
disciplina applicabile, alle legal warranties.
Al quesito la giurisprudenza largamente prevalente risponde, da sempre (tra le pronunce
più risalenti, v. Cass., 29.3.1935, in Riv. dir.
comm., 1935, II, 411 ss.; Id., 6.8.1935, n. 3297,
in Foro it., 1936, 207 ss.; Id., 10.5.1946, n. 559,
ivi, 1944-46, 931 ss.; App. Bologna,
21.9.1935, in Riv. dir. comm., 1936, II, 113 ss.),
in modo negativo: la vendita ha per oggetto
esclusivo le quote od azioni, che esprimono
non già il diritto di proprietà su di una frazione
dei beni sociali, bensì il fascio di diritti (ad es.,
agli utili, di intervento e voto in assemblea) ed
obblighi (ad es., di conferimento) che qualificano il c.d. status socii.
Vale per tutte, al riguardo, la constatazione
che la società, sia essa di capitali o di persone,
gode di un’autonomia patrimoniale più o meno marcata rispetto ai soci (artt. 2268, 2304,
2325, comma 1o, 2462, comma 1o, cod. civ.),
che si rafforza e giustifica in virtù del concetto
di personalità (art. 2331 cod. civ.) o di soggettività giuridica (arg. ex art. 2266, comma 1o,
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cod. civ.: cfr., di recente, Cass., ord. 4.12.2012,
n. 21754, in Società, 2013, 82 ss.). Il socio sarebbe pertanto legittimato a disporre bensì
delle quote o azioni, in quanto di sua proprietà; ma non anche del patrimonio sociale, poiché questo appartiene al «soggetto di diritto distinto e autonomo» rappresentato, appunto,
dalla società (v. già App. Roma, 27.8.1936, in
Riv. dir. comm., 1937, II, 161 ss.).
Coerenti con tale assunto sono le conclusioni
cui la giurisprudenza è pervenuta, anche in
tempi recenti, al fine di giustificare le decisioni
assunte in una serie disparata di controversie.
A titolo esemplificativo, è stato statuito: (i) che
in relazione a società cooperative edilizie aventi come scopo la costruzione, assegnazione in
godimento e successivamente il trasferimento
della proprietà di alloggi ai soci, l’alienazione
della partecipazione non comporta il passaggio
della proprietà dell’alloggio costruito ma non
ancora assegnato, bensì solo di un diritto di
credito verso la società (Cass., 23.9.2013, n.
21745, in Banca dati Leggi d’Italia; Id.,
3.5.2010, n. 10648, in Società, 2010, 905); (ii)
che qualora nel patrimonio sociale siano ricompresi beni immobili, al fine di concludere
un valido contratto di vendita di partecipazioni
non è per ciò solo necessaria la forma scritta
(App. Roma, 16.4.2009, in Banca dati Leggi
d’Italia;
indirettamente,
Trib.
Roma,
26.10.2012, ivi); (iii) che anche qualora il patrimonio sociale sia costituito da soli immobili, la
cessione dell’intera partecipazione non può essere considerata alla stregua di una vendita immobiliare (ma contra, sul presupposto della simulazione assoluta del contratto sociale: Trib.
Milano, 8.3.2006, in Giur. it., 2006, 2325 ss.),
sicché, qualora questi risultino locati, ai conduttori non spetterebbe la prelazione urbana
di cui all’art. 38, l. 27.7.1978, n. 392 (Disciplina
della locazione di immobili urbani) (Cass.,
23.7.1998, n. 7209, in Arch. loc., 2004, 373).
In proposito merita solo aggiungere che, a
partire dagli anni ’90 del secolo scorso (Cass.,
21.6.1996, n. 5773, in Società, 1997, 33 ss.), il
lessico giudiziale ha cominciato a contrapporre
un oggetto «immediato» (o «diretto») della
vendita, riferito alle quote o azioni, ad uno
«mediato» (o «indiretto»), rappresentato dalla
quota ideale del patrimonio sociale da queste
rappresentata (da ultimo, v. Cass., 6.11.2014,
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Rassegne di giurisprudenza
n. 23649, in Banca dati Leggi d’Italia; Id.,
19.10.2012, n. 17948, in Giur. it., 2013, 1835
ss.; Trib. Milano, 4.8.2014, in Contratti,
2014, 1035 ss.; Trib. Torino, ord. 3.3.2014, in
Banca dati Leggi d’Italia); tuttavia, salvo alcune
anomalie che saranno esaminate nel prossimo
paragrafo, tutte le sentenze che operano la distinzione sanciscono poi che soltanto l’oggetto
«immediato» costituisce oggetto in senso tecnico del contratto, confermando con ciò l’indirizzo dominante. Di fatto, il sintagma «oggetto
mediato», mutuato in modo improprio da una
dottrina (Galgano, voce «Vendita (dir.
priv.)», 485, infra, Nota bibl.; ma per il significato tipico della dicotomia, con riferimento alla compravendita in genere, v. Romano, 61, e
Rubino, 75, entrambi infra, Nota bibl.), deve
ritenersi entrato nel gergo dei giudici in un’accezione atecnica, strumentale a descrivere la
funzione economica dell’acquisto di partecipazioni alla luce degli interessi e delle valutazioni
personali del compratore.
3. Segue: le eccezioni... Al menzionato
orientamento prevalente facevano eccezione,
fino a quindici anni fa, solo alcune pronunce
isolate. Si tratta di sentenze piuttosto risalenti,
accomunate dal rilievo trasversale, contenuto
in motivazione, in accordo al quale le società
cc.dd. di comodo o «familiari» (i cui soci siano
pochi e tutti legati da un rapporto di parentela)
non sarebbero soggetti giuridici autonomi, dovendosi ritenere piuttosto che fra i loro soci si
instauri un rapporto di comunione avente ad
oggetto l’azienda sociale. In tal guisa, la cessione della partecipazione ad opera del socio risulterebbe soltanto apparente, un «mero strumento di smobilizzazione dei beni sociali» (App.
Milano, 24.10.1933, in Riv. dir. comm., 1935,
II, 122; Id., 5.7.1935, in Banca, borsa, tit. cred.,
1937, II, 86; similmente, richiamando la teoretica del negozio indiretto: Cass., 4.8.1941, n.
2736, in Foro it., 1942, 197 ss., e, di recente,
Trib. Brindisi, 15.12.2009, in Banca dati
DeJure), configurandosi, nella sostanza, «una
vendita di quota di azienda gestita in sociale»
(Cass., 27.7.1933, in Riv. dir. comm., 1935, II,
121 ss.; App. Milano, 1o.5.1934, ibidem, 122
ss.).
A partire dal 2000, peraltro, in seno alla giurisprudenza di merito e di legittimità si è venu358
to formando, su altre basi, un vero e proprio
nuovo filone, sia pur anch’esso di gran lunga
minoritario. Abbandonato ogni riferimento a
società strumentali o fittizie, nel leading case di
questo indirizzo si afferma che ove l’acquisto
della partecipazione sia «chiaramente finalizzato», secondo «correttezza e buona fede», all’acquisizione «non di un generico “status socii”,
ma della disponibilità del patrimonio sociale, allo scopo di utilizzarlo secondo la sua destinazione economica e trarne un adeguato reddito», le
caratteristiche dei beni sociali debbano essere
considerate parte del «contenuto essenziale»
del contratto (Cass., 23.2.2000, n. 2059, in
questa Rivista, 2002, I, 209 ss.). Per vero, la
sentenza non dimostra, se non mediante un
confuso richiamo alla buona fede, né in che
modo le finalità dell’acquirente siano in grado
di transitare dal piano dei motivi individuali a
quello della struttura del negozio, né come il
venditore possa legittimamente disporre di beni che non gli appartengono: la conclusione,
pertanto, deve reputarsi apodittica.
Ad ogni modo, diverse decisioni si sono in
seguito conformate al medesimo principio di
diritto, pur adoperando un maggior rigore metodologico nell’elaborare le relative motivazioni (Cass., 9.9.2004, n. 18181, in Mass. Giur. it.,
2004; Id., 20.2.2004, n. 3370, in Foro it., 2004,
I, 2142; App. Milano, 28.1.2009, in Società,
2010, 339 ss.; Trib. Bologna, 26.11.2012, in
Banca dati Leggi d’Italia; Trib. Roma,
3.2.2010, ivi; Id., 12.11.2009, ivi; Trib. Milano, 25.8.2006, in Giur. it., 2007, 913).
L’argomento più significativo adoperato da
queste pronunce per giustificare l’asserita idoneità della vendita di partecipazioni a trasferire
la titolarità del patrimonio sociale è – oltre al
riferimento alla tesi scolare che qualifica quote
sociali ed azioni come «beni di secondo grado»
(beni, cioè, meramente rappresentativi di diritti sui beni sociali: v. Ascarelli, 240, infra, Nota bibl.; già conformi: Trib. Milano,
27.6.1988, in Società, 1988, 1164 ss.; App. Milano, 5.7.1935, in Banca, borsa, tit. cred., 1937,
II, 86 ss.) – quello che fa leva sulla c.d. concezione riduzionistica (o non dogmatica) della
persona giuridica.
Secondo detta teoria, il concetto di persona
giuridica designerebbe non già una sorta di
«macroantropo», soggetto di diritto ulteriore riNGCC 2015 - Parte seconda
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Vendita di partecipazioni sociali
spetto alle persone fisiche e a queste del tutto
parificato sul piano dei rapporti giuridici; bensì soltanto un regime speciale di disciplina dei
rapporti intercorrenti tra i suoi membri, sintetizzato in una formula ellittica (cfr. F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, 241 ss., e Galgano, Struttura logica e
contenuto normativo del concetto di persona
giuridica, 533 ss., entrambi infra, Nota bibl.).
Negata all’ente una propria soggettività giuridica, la quota di partecipazione sociale diverrebbe nient’altro che una misura dell’adesione
del singolo ad un rapporto tra uomini governato da un peculiare regime giuridico, e titolari
effettivi delle situazioni facenti capo alla società, «sia pure in una maniera specifica che vale a
distinguerle dalle altre che ad essi competono come individui», sarebbero pertanto, sempre e
comunque, i singoli soci (cfr., sul punto, la fondamentale Cass., 26.10.1995, n. 11151, in
Giur. comm., 1996, II, 329 ss., spesso citata
nelle sentenze esaminande; è scontato sottolineare che la teoria in discorso riguardi, propriamente, le sole società di capitali, in quanto
provviste di personalità giuridica; tuttavia, le
conclusioni cui essa addiviene possono estendersi, a fortiori, anche alle società di persone).
Accolta questa premessa, si dovrebbe concludere che il venditore di partecipazioni alieni
con esse anche la (con)titolarità sui beni sociali: beni che pur sempre gli appartengono, ancorché uti universus (i.e. in quanto socio e in
conformità della speciale disciplina giuridica
dettata in materia di società) e non già uti singulus.
4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. Ora, prescindendo da ogni valutazione circa la persuasività delle singole giustificazioni
formali addotte a sostegno dell’orientamento
minoritario, si deve osservare che in gran parte
dei casi da ultimo ricordati la ricomprensione
del patrimonio sociale nell’oggetto del contratto è stata motivata, più che da reali prese di posizione d’ordine dogmatico, da considerazioni
di carattere equitativo, ossia dalla finalità di
fornire all’acquirente di partecipazioni insoddisfatto una protezione più ampia di quella apprestabile conformandosi all’orientamento tradizionale.
NGCC 2015 - Parte seconda
Ad esempio, nella celebre Cass., 27.7.1933
(sul c.d. caso Raggio) la statuizione è funzionale ad affermare la responsabilità del venditore di un pacchetto azionario di riferimento
per l’evizione di beni sociali (in particolare,
sovraprofitti di guerra avocati dallo Stato in
forza di una legge speciale; per una critica alla
configurabilità di un fatto evizionale nel caso
concreto, v. P. Greco, 133 ss., infra, Nota bibl.), non altrimenti sanzionabile a causa della
contestuale assenza nel contratto di esplicite
garanzie patrimoniali (cfr. Maggi, 11 ss., infra, Nota bibl.).
Quanto all’indirizzo minoritario più recente,
in Cass., n. 2059/2000 si trattava di tutelare il
compratore delle quote di una S.n.c. (poi trasformata in S.a.s.) che gestiva un bar-tabaccheria, il quale aveva scoperto, in seguito al trasferimento, che nel patrimonio sociale non figurava alcuna licenza amministrativa per la vendita
dei tabacchi. Poiché anche in tal caso il contratto di cessione non conteneva business warranties, se la Corte si fosse attenuta all’indirizzo
dominante avrebbe verosimilmente dovuto negare all’acquirente l’azionabilità di qualsivoglia
strumento rimediale, essendo rari e non sempre privi di ambiguità i precedenti che, in mancanza di clausole convenzionali, hanno consentito al compratore gravemente deluso sotto il
profilo della consistenza del patrimonio sociale
di ricorrere agli istituti del dolo determinante
od incidente del venditore (oltre alla citata
Trib. Milano, 25.8.2006, v. Cass., 11.7.2014,
n. 16004, in Banca dati Leggi d’Italia; Id.,
14.10.1991, n. 10779, in Giur. it., 1993, I, 1, c.
190 ss.; Id., 29.8.1991, n. 9227, in Riv. dir.
comm., 1994, II, 379; App. Milano, 21.6.2012,
in Obbl. e contr., 2012, 12, 919 ss.; Trib. Milano, 4.6.1998, in Giur. it., 1998, 2106 ss.; Trib.
Catania, 30.4.1997, in Giur. comm., 1999, II,
681 ss.), della presupposizione (Cass.,
3.12.1991, n. 12921, in questa Rivista, 1992, I,
784 ss.; App. Cagliari, 26.1.1996, in Riv. dir.
comm., 1998, II, 65 ss.), della rescissione per
lesione (Cass., 14.2.1963, n. 325, in Giust. civ.,
1963, I, 743 ss.), dell’errore essenziale (Trib.
Roma, 16.4.2009, in Società, 2010, 1203 ss.;
confondendo errore e consegna di aliud pro
alio: Cass., 28.8.1952, n. 2784, in Riv. dir.
comm., 1953, II, 9 ss.) o finanche – salve le più
recenti aperture – dell’aliud pro alio datum
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Rassegne di giurisprudenza
(Cass., 10.12.1991, n. 13268, in Rep. Foro it.,
1991, voce «Vendita», n. 59).
Una volta ampliato l’oggetto del contratto, sì
da ricomprendervi anche la «funzionalità» dell’esercizio commerciale, il S.C. ha invece avuto
buon gioco nel condannare il venditore al risarcimento dei danni. Sul piano declamatorio,
la Corte motiva la decisione affermando che la
sussistenza dell’autorizzazione amministrativa
mancante, essenziale al fine del regolare svolgimento dell’attività, avrebbe dovuto ritenersi
dedotta a contenuto di una ipotetica garanzia
(patrimoniale) implicita, che ritiene di poter
configurare in capo al venditore in forza del
principio dell’«adempimento del contratto secondo buona fede» (riferimento in sé impreciso, dato che la buona fede verrebbe qui in rilievo, semmai, in funzione integrativa o come criterio ermeneutico ex art. 1366 cod. civ.; v. comunque un cenno già in Cass., 28.3.1996, n.
2843, in Giur. comm., 1998, II, 362 ss.).
Ma presa sul serio, tale asserzione non implica in realtà alcuna attività suppletiva dell’interprete nella ricostruzione del regolamento negoziale, né di questa v’è davvero bisogno: una
volta qualificato il patrimonio sociale come
«cosa venduta», sono le garanzie di cui agli
artt. 1479 ss. cod. civ. ad operare in automatico
anche con riferimento ai beni sociali (e l’eccentricità del successivo richiamo diretto all’art.
1218 cod. civ., ignorando la disciplina dell’art.
1494 e il regime prescrizionale dell’art. 1495,
tende a rafforzare la sensazione che a muovere
il Collegio sia stata un’istanza equitativa; v. pure, più in generale, C. D’Alessandro, Vendita
di partecipazioni sociali e promessa di qualità,
1074, e le diverse osservazioni sul punto specifico di Tina, 176, entrambi infra, Nota bibl.).
Coerenti con quest’ultima considerazione si
sono dimostrate, del resto, le pronunce di legittimità successive conformi all’indirizzo minoritario, accordando al compratore, dalle analoghe premesse dell’identificazione tra oggetto
del contratto e patrimonio sociale nonché dell’astratta configurabilità di garanzie cc.dd. implicite in capo al venditore, i rimedi tipici previsti: (i) per la mancanza di qualità (la sentenza
non chiarisce se essenziali, come forse dovrebbero ritenersi, o promesse) della cosa alienata
ex art. 1497 cod. civ., in un caso di vendita dell’intera quota di partecipazione ad una S.r.l.
360
che gestiva un albergo con licenza per l’attività
di ristorazione, poi rivelatasi parzialmente insussistente (Cass., n. 3370/2004; ma il diritto
del compratore è stato poi dichiarato prescritto); (ii) per la consegna di aliud pro alio, nell’ambito della vendita di un pacchetto azionario di riferimento di una S.p.a. la cui complessiva consistenza patrimoniale era risultata diversa da quella prospettata dal venditore e alla
quale erano state irrogate, dopo il trasferimento della proprietà, ma in relazione a fatti intervenuti prima dell’acquisto, delle sanzioni tributarie di importo assai elevato (Cass., n.
18181/2004).
In definitiva, la riconduzione dei beni sociali
all’attribuzione traslativa del contratto di vendita di partecipazioni, conseguente al superamento dell’alterità soggettiva tra società e socio, sembra per lo più costituire un espediente
volto ad ampliare le maglie di protezione del
compratore quando appare ingiusto negargli
ogni tutela; ossia, sovente, qualora nel contratto non siano state inserite delle clausole di garanzia patrimoniale. Quest’ultime vengono così surrogate da garanzie convenzionali che sono tali solo in quanto ricostruite dal giudice in
via d’interpretazione integrativa, e che ricalcano, di fatto, le garanzie di legge.
In proposito, d’altra parte, può ricordarsi
che gli stessi fautori della concezione riduzionistica della persona giuridica propugnano la
teoria non già come schema ricostruttivo valido tout court, bensì in funzione squisitamente
strumentale alla repressione di possibili «abusi» della personalità (v. ad es. Galgano, Cessione di partecipazioni sociali e superamento
dell’alterità soggettiva fra socio e società, 543,
infra, Nota bibl.).
5. Natura delle garanzie patrimoniali:
primi tentativi di inquadramento (App.
Genova, 6.11.1964 e Cass., n. 338/1967). Le
reazioni della dottrina. Se si escludono le
sentenze anzidette, e gli ormai frequenti obiter
dicta circa l’annullabilità del contratto in caso
di falsa rappresentazione dolosa della situazione patrimoniale da parte del venditore (v. per
tutte Cass., 19.7.2007, n. 16031, in Giur.
comm., 2008, II, 103 ss.), la giurisprudenza dominante nega, ossequiando la concezione tradizionale della persona giuridica come soggetNGCC 2015 - Parte seconda
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Vendita di partecipazioni sociali
to di diritto ed in conformità dell’assunto per
cui la vendita di partecipazioni sociali trasferisce soltanto la proprietà delle quote o azioni,
che in assenza di garanzie esplicite il compratore deluso dalla consistenza del patrimonio sociale possa ottenere una qualche tutela (Cass.,
12.6.2008, n. 15706, in Giur. it., 2008, 2766 ss.;
Id., 18.12.1999, n. 14287, in Vita notar., 2000,
347 ss.; Trib. Roma, 16.11.2011, in Banca dati
Leggi d’Italia; Trib. Milano, 8.11.2011, in Società, 2012, 94 ss.; Trib. Belluno, ivi, 2010,
1153; Trib. Milano, 18.3.2006, in Corr. merito, 2006, 1133 ss.; Id., 15.2.2006, in Giur. it.,
2006, 757 ss.; Id., 26.11.2001, in Società, 2002,
568 ss.; tra le più risalenti, v. Cass., 16.2.1977,
n. 721, in Foro it., 1977, I, 2275 ss.; App. Milano, 13.4.1951, ivi, 1951, I, 607 ss.).
Si ammette, al più, che le garanzie esplicite
possano anche non essere «espressamente qualificate» come tali nel contratto, essendo sufficiente che la volontà conforme delle parti si
evinca in modo «inequivocabile» dal negozio:
si pensi, ad esempio, a delle clausole (non denominate «garanzie») con cui le parti ancorino
l’ammontare del prezzo al valore totale dell’azienda, con impegno del venditore ad effettuare finanziamenti per ricostituire il capitale
sociale qualora i debiti sociali dovessero risultare maggiori rispetto a quelli rappresentati
(Cass., 13.12.2006, n. 26690, in Giur. comm.,
2008, II, 948 ss.).
Va dunque registrato e ribadito che, per il
c.d. diritto vivente, le clausole di garanzia patrimoniale costituiscono l’unica àncora di salvezza del compratore di partecipazioni rilevanti rappresentanti una situazione patrimoniale
non conforme alle aspettative.
Proprio tenendo conto di questa posizione,
come anticipato, da alcuni decenni i redattori
dei contratti di vendita di partecipazioni sociali
di «controllo» prestano grande attenzione ad
inserire delle business warranties nel testo dell’accordo.
Di regola, a quest’ultime pattuizioni vengono inoltre collegate delle clausole ulteriori, definite di indennizzo (indemnity clauses), che
hanno la funzione di integrarle e completarle
(cfr. Picone, 104, infra, Nota bibl.) disciplinando sul piano rimediale le conseguenze dell’eventuale mancata corrispondenza tra quanto
garantito e la realtà materiale (ad es., preveNGCC 2015 - Parte seconda
dendo in capo al venditore l’obbligo di corrispondere all’acquirente una somma di denaro
pari all’ammontare di una posta attiva di bilancio rivelatasi inesistente). Va da sé che quanto
più dettagliata è la formulazione della disciplina delle garanzie pattizie, tanto minore è il
margine di discrezionalità che residua al giudice nella gestione di eventuali controversie o
nell’opera di eterointegrazione del regolamento incompleto: per questo le indemnities risultano assai frequenti nella prassi, e per questo
esse vengono pure curate molto in dettaglio,
prevedendo, oltre a franchigie e massimali, sia
un termine temporale entro cui il venditore rimane vincolato a garantire il compratore e
questi può far valere, se del caso, l’obbligo di
indennizzo (c.d. periodo di validità o durata
della garanzia, da non confondere col termine
di prescrizione del relativo diritto: sul punto, v.
infra), sia quello, di natura decadenziale, entro
il quale il compratore stesso deve denunziare al
venditore la scoperta della mancata corrispondenza tra garantito e reale (c.d. reclamo) al fine
di poter conseguire il pagamento (v. Speranzin, Vendita della partecipazione di «controllo»
e garanzie contrattuali, 168 ss., infra, Nota bibl.;
nel secondo caso, trattandosi di termine di decadenza, trova applicazione il limite legale di
cui all’art. 2965 cod. civ.).
Le prime pronunce ad aver definito in modo
chiaro la natura delle garanzie patrimoniali, ricostruendone la disciplina applicabile, risalgono agli anni ’60 del secolo scorso. Si tratta di
due decisioni, l’una d’appello e l’altra di legittimità, vertenti sulla medesima controversia (rispettivamente, App. Genova, 6.11.1964, inedita, e Cass., 10.2.1967, n. 338, in Foro it.,
1967, I, 966 ss.): il venditore di un pacchetto
azionario garantisce al compratore che la consistenza patrimoniale della società è conforme
a quella specificamente descrittagli in apposita
dichiarazione; in seguito all’esame del bilancio
da parte dei nuovi amministratori sociali, il
compratore rileva una situazione economica
peggiore rispetto a quella rappresentata: ammortamenti di impianti e macchinari inadeguati e non conformi alla legge, attivo inferiore a
quanto dichiarato, debiti superiori a quelli indicati; conviene pertanto in giudizio il venditore, chiedendone, forte della garanzia espressa,
la condanna al risarcimento dei danni subiti.
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Rassegne di giurisprudenza
Sia la Corte territoriale che il S.C. accolgono
la domanda attorea, ma partendo da premesse
opposte: la prima ritenendo l’autonomia funzionale e strutturale della clausola apposta al
contratto rispetto all’attribuzione traslativa; il
secondo assimilando la garanzia ad una promessa di specifica qualità delle azioni vendute
ai sensi dell’art. 1497 cod. civ.
In altre parole, secondo il giudice di merito,
vendita delle partecipazioni e patto di garanzia, pur se integrati da un unico documento,
sarebbero due negozi distinti, aventi ciascuno
una sua «causa tipica» [traslativa da un lato; di
garanzia pura dall’altro: su tale concetto, v.
Corrias, 1 ss. e 7, infra, Nota bibl., che lo descrive come «assunzione volontaria da parte di
un soggetto (...) del rischio di un determinato
evento idoneo a cagionare una oggettiva diminuzione economica del patrimonio di un altro
soggetto»], un proprio «oggetto» (partecipazioni; patrimonio sociale), una «tutela giuridica
specifica» (azioni edilizie; corresponsione di
un indennizzo), e l’azione del compratore
avrebbe fondamento unicamente nel secondo.
Per la Corte di cassazione, invece, la clausola
di garanzia patrimoniale «inerisce essenzialmente al contratto di vendita, dal quale è inscindibile», e si limita ad ampliare il contenuto della tutela legale in accordo con quanto previsto
dal ricordato art. 1497 cod. civ., che affianca
alle qualità essenziali della cosa anche quelle,
non essenziali, che le parti abbiano assunto come rilevanti «nella determinazione dell’oggetto
della prestazione del venditore».
Sulla prima ricostruzione, subito condivisa
da autorevole dottrina (Aa.Vv., 217, infra, Nota bibl.), ci si soffermerà in seguito; sin d’ora
può rilevarsi, invece, come la seconda abbia
suscitato numerose perplessità tra gli interpreti già all’indomani della pubblicazione della
sentenza (v. Schermi, 437 ss., infra, Nota bibl.). Ad essa si è obiettato, in particolare, che
qualità promesse della «cosa venduta», cui
l’art. 1497 si riferisce, non possano essere che
quelle concernenti i diritti e gli obblighi collegati alla partecipazione (ad es., in caso di alienazione di pacchetto azionario, l’essere l’azione ordinaria o privilegiata: così Schermi,
456): se oggetto della vendita sono solo le
quote o azioni, risulta impossibile qualificare
come qualità promesse di queste le caratteri362
stiche e la consistenza del patrimonio sociale
senza incorrere in una contraddizione logica
(v., tra i molti, Calvo-Delogu, 170, infra,
Nota bibl.).
Del resto, per quanto all’autonomia privata
sia consentito ampliare il contenuto della garanzia legale tramite una promessa di qualità
non essenziali, è indubbio che le parti non possano dedurre a contenuto della promessa ciò
che a priori e a prescindere da essa non costituisca qualità del bene: «nemmeno la espressa
considerazione delle parti può rendere elemento sostanziale del titolo una circostanza che (...)
non è una qualità normale e obiettiva della cosa venduta» (G. Panzarini, 291; v. anche Rubino De Ritis, 886, entrambi infra, Nota bibl.). Qualità essenziali e promesse differiscono,
infatti, per il solo fatto che le prime rilevano in
automatico ai fini della garanzia ex art. 1497
cod. civ., e non in ragione del differente oggetto o per una ipotetica diversità ontologica,
giacché i requisiti promessi debbono pur sempre inerire, alla stessa stregua di quelli essenziali, alla res vendita, come caratteri che essa
già possiede per sua natura.
I rilievi dottrinali appena richiamati appaiono senz’altro corretti; si deve osservare, però,
che in Cass., n. 338/1967, il Collegio cerca di
giustificare l’inquadramento proposto assumendo che vera funzione delle business warranties sia non già quella di assicurare una certa consistenza del patrimonio sociale, quanto
piuttosto quella di garantire un certo «modo di
essere» intrinseco della partecipazione alienata: dunque, una vera e propria qualità della cosa venduta, mediante la creazione di un nesso
funzionale tra questa e la situazione patrimoniale della società. Tale «modo di essere» delle
partecipazioni, qualificato dalle garanzie, sarebbe costituito nel pensiero della Corte dal loro «valore reale», che, a differenza di quello
nominale, si determinerebbe proprio in funzione della consistenza del patrimonio sociale che
la partecipazione rappresenta.
Le clausole di garanzia patrimoniale costituirebbero pertanto, accogliendo questa impostazione, assicurazioni del venditore circa il fatto
che la partecipazione alienata possieda quella
specifica «qualità» costituita da un certo «coefficiente economico di valore» ragguagliato alla
consistenza patrimoniale della società dichiaraNGCC 2015 - Parte seconda
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Vendita di partecipazioni sociali
ta nel contratto, di per sé – ossia in assenza di
esplicite pattuizioni – non essenziale.
Così precisatone il fondamento argomentativo, può comunque rilevarsi che la tesi della
Corte continua a non sottrarsi a censura, risultando fallace sotto molteplici profili invero già
da tempo posti in luce dalla dottrina più attenta: (i) anzitutto, i formulari contrattuali non conoscono clausole di garanzia patrimoniale nelle
quali si faccia menzione di promesse di «qualità» delle partecipazioni alienate, risultando invece palese dal tenore delle pattuizioni che le
parti intendano riferirsi in via diretta ed esclusiva ad una determinata situazione patrimoniale della società (v. Bonelli, Giurisprudenza e
dottrina, 30); (ii) la mancanza di qualità, analogamente ai vizi redibitori (art. 1490 ss. cod.
civ.), è concretata da un «difetto materiale»
della cosa alienata che, anche quando si tratti
di qualità promesse, deve per forza attenere ad
un intrinseco «attributo funzionale o strutturale del bene» (Luminoso, 265 ss., infra, Nota
bibl.): ciò che mal si attaglia al rilievo per cui il
valore economico di un bene è ontologicamente inidoneo a costituirne un siffatto attributo,
esprimendo soltanto, in termini monetari, la
misura in cui esso può essere scambiato con altri beni (v. Corrias, 308); (iii) è opinione diffusa tra gli interpreti che la disciplina legale dei
vizi e della mancanza di qualità si applichi soltanto alla vendita di cose materiali, ossia di beni suscettibili di essere consegnati e ispezionati
ai fini di una pronta denuncia degli eventuali
difetti (cfr. Erede, 204, infra, Nota bibl., che
contesta su questa base l’applicabilità dell’art.
1497 cod. civ. alle garanzie patrimoniali): se si
accoglie l’insegnamento di una autorevole dottrina (Bianca, 207 ss., infra, Nota bibl.), la disciplina degli artt. 1490 ss. cod. civ. sarebbe
inapplicabile, ad esempio, alla vendita di crediti, opere dell’ingegno, invenzioni industriali,
contratti e, finanche, partecipazioni sociali; (iv)
una volta recepito l’assunto di Cass., n. 338/
1967, non è chiaro quale differenza residuerebbe tra business e legal warranties, dato che anche le prime finirebbero – sia pur di riflesso –
con l’essere riferite alle quote o azioni, oggetto
della vendita: il risultato sostanziale cui giunge
questa tesi è dunque identico a quello che si ottiene reputando, in premessa, che i beni sociali
formino oggetto del contratto di vendita.
NGCC 2015 - Parte seconda
6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. Nonostante i condivisibili argomenti contrari elaborati dalla dottrina dominante a contrasto dell’indirizzo, la giurisprudenza successiva alle due pronunce ha in prevalenza confermato la ricostruzione delle business warranties operata dai giudici di legittimità.
A titolo esemplificativo, di recente il principio di diritto è stato applicato con riferimento:
(i) ad una pattuizione, contenuta in un preliminare di vendita di quote di S.r.l., in forza della
quale il promittente alienante assicurava che,
alla data del definitivo, nel patrimonio sociale
sarebbe stato ricompreso un determinato cespite immobiliare: rilevatane l’assenza, al compratore è stata accordata l’azione redibitoria al
fine di risolvere il preliminare (Cass., n. 23649/
2014); (ii) ad una clausola, inserita in un contratto di vendita di quote di S.r.l., con cui il
venditore «dichiarava e garantiva espressamente
che la situazione contabile della società ceduta
era quella risultante dal bilancio allegato alla
scrittura privata»: scoperta la difformità tra garantito e reale, il compratore ha chiesto ed ottenuto una riduzione del prezzo (Trib. Larino, 17.1.2014, in Banca dati Leggi d’Italia; si
può notare, incidentalmente, che è invero dubbia tra gli interpreti l’esperibilità dell’azione
estimatoria nelle ipotesi regolate dall’art. 1497
cod. civ.: v. ad es., in senso contrario, Cass.,
8.3.2013, n. 5845, in Banca dati Leggi d’Italia;
ma in dottrina favorevoli, con argomentazioni
diverse, Rubino, 898, e Bianca, 850, infra,
Nota bibl.); (iii) ad una convenzione, contenuta
in un contratto di vendita di quote di S.a.s., in
forza della quale il venditore garantiva che
l’esposizione debitoria della società era contenuta entro un certo ammontare, impegnandosi
espressamente ad indennizzare l’acquirente in
caso contrario: emersa in seguito una situazione debitoria occulta superiore a quella dichiarata, il venditore è stato condannato ad indennizzare la controparte dando attuazione a
quanto promesso (Trib. Salerno, 6.3.2013, in
Banca dati Leggi d’Italia; la clausola prevedeva
che l’indennizzo dovesse essere corrisposto alla
società, secondo lo schema, validato dal Tribunale, del contratto a favore di terzo ex art. 1411
cod. civ.).
Invero, nella maggior parte delle fattispecie
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Rassegne di giurisprudenza
esaminate la statuizione rappresenta un semplice obiter dictum, in quanto il contratto di
vendita risultava sprovvisto, nel caso controverso, di clausole di garanzia patrimoniale (v.,
in ispecie, le numerose sentenze riportate in
apertura del precedente paragrafo).
In altri casi, invece, la giurisprudenza ha ritenuto di poter richiamare la disciplina delle garanzie nella vendita soltanto in via analogica
(Cass., n. 26690/2006, Trib. Roma, 20.3.2012,
in Banca dati Leggi d’Italia, Id., 21.5.2012, ivi,
e Trib. Napoli, 11.3.2002, in Giur. it., 2003,
81 ss.); mentre, come già segnalato, nelle sentenze che assimilano cosa venduta e patrimonio sociale l’argomento, ove richiamato (Cass.,
n. 3370/2004, la quale però non fa chiarezza
sul punto), appare privo di pregio, dato che
l’applicazione delle norme in materia di garanzia ex art. 1497 cod. civ. sembra dover conseguire piuttosto, al di là degli artifici retorici
adoperati, alla peculiare configurazione impressa al contenuto dell’attribuzione traslativa
e alla configurabilità di garanzie (dunque, di
promesse di qualità) implicite.
Una variante dell’impostazione suggerita da
Cass., n. 338/1967, si rinviene poi nelle pronunce, in gran parte risalenti all’inizio degli
anni ’90 del secolo scorso (App. Milano,
5.6.1990, in Società, 1991, 483 ss.; Trib. Roma, 21.5.2012, cit.; Trib. Milano, 9.11.1992,
in Giur. it., 1993, I, 677; Id., 14.9.1992, in Società, 1993, 511 ss.; Id., 27.2.1992, ibidem,
424 ss.; Id., 3.10.1991, ivi, 1992, 517 ss.; Id.,
5.7.1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 396; Id.,
20.4.-6.7.1989, in Bonelli, Giurisprudenza e
dottrina, 74 ss.), che suggeriscono, sia pur
quasi sempre in astratto (risolvono la controversia applicando in concreto il principio di
diritto: Trib. Roma, 20.3.2012, ma offrendo
tutela piena al compratore e svincolandosi, nei
fatti, dalla declamazione; Trib. Milano,
16.4.1992, in Giur. it., 1992, I, 696 ss.), che le
business warranties siano strumentali a giuridicizzare la mancata corrispondenza tra situazione patrimoniale rappresentata e reale nei
termini di un vero e proprio «vizio» redibitorio della partecipazione. L’inserimento nel
contratto delle clausole di garanzia patrimoniale avrebbe la funzione, cioè, di rendere
operante anche rispetto al patrimonio sociale
la garanzia legale per vizi (artt. 1490 ss. cod.
364
civ.), di per sé applicabile alle sole quote o
azioni.
Quest’ultimo paventato inquadramento, peraltro, sembra non considerare che mentre la
promessa di specifica qualità amplia nel singolo caso concreto la tutela legale già offerta al
compratore dall’art. 1497 cod. civ., sicché è figura almeno astrattamente idonea a qualificare
delle pattuizioni convenzionali in mancanza
delle quali il compratore rimane sprovvisto
d’ogni tutela, la garanzia per vizi è un c.d. effetto (od elemento) naturale del negozio, perciò tertium non datur: il vizio rileva sempre in
quanto ricompreso nell’area operativa della disciplina legale, o non rileva mai in quanto ad
essa estraneo.
Se si opinasse, in senso contrario, che le parti
possono pur sempre derogare alla disciplina legale mediante apposito patto modificativo – finendo così per inquadrare le business warranties nell’alveo dei patti modificativi della garanzia legale per vizi redibitori, e creando con ciò
un ulteriore iato tra forma giuridica e realtà
materiale – varrebbero comunque qui, e a
maggior ragione, le osservazioni già spese nel
paragrafo precedente con riguardo alle qualità
promesse (sulla definizione di vizio ex art.
1490 cod. civ., cfr. sempre Luminoso, 269).
Ad esse si aggiungerebbe, inoltre, quella ulteriore che l’art. 1490, comma 1o, cod. civ., qualifica come vizi i difetti della cosa venduta che
«ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore», sicché un parallelismo con la soluzione
adottata da Cass., n. 338/1967, appare in ogni
caso impraticabile. Sembra infatti ragionevole
ritenere che, poiché la norma prende in considerazione la diminuzione di valore come conseguenza di un vizio, essa non possa in assoluto
costituire vizio di per sé (mentre con un patto
modificativo le parti potrebbero, semmai, rendere rilevanti dei difetti materiali della cosa che
diminuiscano il valore in modo non apprezzabile).
7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza
sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita. Dall’inquadramento delle garanzie patrimoniali
nell’alveo dell’art. 1497 (o 1490) cod. civ. scaturisce una conseguenza pratica di non poco
NGCC 2015 - Parte seconda
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Vendita di partecipazioni sociali
momento: l’applicazione, ai diritti da esse derivanti in favore dell’acquirente, dei ristretti termini di decadenza e prescrizione previsti dall’art. 1495 cod. civ.
Il compratore di partecipazioni deluso
avrebbe dunque l’onere di denunziare al venditore la difformità riscontrata entro otto giorni dalla scoperta (art. 1495, comma 1o) e di agire in giudizio entro l’anno dalla consegna (art.
1495, comma 3o), pena l’impossibilità di ottenere una qualche tutela in forza delle clausole.
A titolo esemplificativo, nella controversia
oggetto di una delle rare sentenze che aggancia
le garanzie pattizie all’art. 1490 cod. civ. facendo poi concreta applicazione di tale statuizione
(Trib. Milano, 16.4.1992), il compratore di
quote di una S.r.l. aveva riscontrato, in seguito
al trasferimento, una consistenza del magazzino diversa da quella indicata nel contratto. Nel
contratto erano state inserite delle business
warranties, formulate in modo sintetico; poiché tuttavia i registri di magazzino, dai quali la
consistenza reale ben avrebbe potuto evincersi,
erano stati consegnati all’acquirente più di otto
giorni prima che egli denunziasse la difformità
al venditore, il Tribunale, adito dal primo a seguito del rifiuto di indennizzarlo da parte del
secondo, ha rigettato la domanda dichiarando
l’attore decaduto dal diritto alla garanzia.
Questa ed analoghe controversie si concludono quasi sempre, pertanto, con la vanificazione della tutela del compratore, mortificando
a monte l’autonomia delle parti. Vale la pena
osservare in proposito che, al fine di ottenere
l’inserimento di garanzie pattizie nel contratto,
questi vede di sempre incrementare il prezzo
da corrispondere alla controparte (v. De Nova, 40, infra, Nota bibl.), di talché svuotare di
efficacia le clausole non equivale soltanto a
rendere inoperante una parte dell’accordo, ma
comporta anche, in certa misura, uno stravolgimento del sinallagma.
Vero è che, nel caso appena richiamato, una
maggior prontezza del compratore nel denunziare al venditore la «violazione» della garanzia, sì come palesata dai registri, avrebbe potuto rovesciare l’esito del giudizio. In molti altri
casi, però, l’inquadramento delle business warranties nell’ambito della garanzia per vizi o
mancanza di qualità rende del tutto impossibile farle valere in giudizio, a causa di un regime
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prescrizionale non solo ristretto, bensì pure intrinsecamente incompatibile con il peculiare
contenuto che esse possono assumere in concreto.
Va infatti ricordato che mentre il termine di
decadenza ex art. 1495 cod. civ., è modificabile
dalle parti ed è soprattutto, ad ogni modo,
«mobile», cominciando a decorrere da un momento posteriore alla consegna non individuabile a priori, quello di prescrizione è inderogabile (art. 2936 cod. civ.) e «rigido», poiché il
dies a quo è fissato nel giorno della consegna a
prescindere da ogni valutazione circa la materiale possibilità per il compratore di rendersi
edotto del vizio o della mancanza di qualità.
Ne discende che, rispetto a tutta una serie di
situazioni dedotte in garanzia le quali, pur originando da fatti antecedenti al trasferimento
della proprietà delle quote, ben possono emergere ed essere «scoperte» solo a distanza di anni da tale momento (ad es., sopravvenienze
passive, specie fiscali), il compratore rimarrebbe sempre sprovvisto di protezione, poiché
privato della garanzia prima ancora di poterla
azionare: ciò che appare tanto meno tollerabile
in quanto le parti abbiano collegato alle warranties, come in genere accade, delle indemnities, molto puntuali nel delineare tempistiche,
modalità dei reclami e periodo di validità della
garanzie.
Queste osservazioni conducono a ritenere
che, anche qualora si reputi valido l’assunto di
fondo proprio dell’orientamento prevalente in
punto di qualificazione delle garanzie patrimoniali – ossia che le clausole hanno per oggetto,
sia pur indiretto, la partecipazione – e se ne voglia pertanto ricercare un corrispettivo nelle
norme generali del codice dedicate alla vendita, le pattuizioni rispondano, per propria natura, più alla logica della c.d. garanzia convenzionale di buon funzionamento di cui all’art. 1512
cod. civ. che a quella della garanzia redibitoria
o per mancanza di qualità ex artt. 1490-1497
cod. civ. (v., sul punto, Cherti, 1035 ss., infra,
Nota bibl.).
Invero, garanzia di buon funzionamento e
promessa di qualità ex art. 1497 cod. civ. costituiscono due ipotesi di garanzia del tutto assimilabili sotto il profilo obiettivo (cfr. la rassegna di opinioni scolari riportata da Bocchino,
189, infra, Nota bibl.), connotandosi la prima
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Rassegne di giurisprudenza
soltanto in virtù di una maggiore specificità,
giacché non tutti i beni sono suscettibili di un
funzionamento e non tutte le qualità della cosa,
in ogni caso, sono classificabili in termini di
funzionamento (mentre è vero il contrario).
Ciò posto, entrambe le garanzie sono nominate
dal diritto positivo, entrambe operano di principio solo in quanto le parti lo prevedano in
modo espresso e non mancano precedenti in
cui la giurisprudenza è giunta a sovrapporle in
toto (cfr. Cass., 20.1.1976, n. 177, in Banca dati
Leggi d’Italia).
È noto, inoltre, che il concetto di buon funzionamento – e, a monte, di funzionalità, che la cosa venduta si ritiene debba possedere affinché se
ne possa garantire un funzionamento – venga inteso, da una significativa parte degli interpreti, in
maniera assai estensiva, tanto da includere nel
suo ambito applicativo, oltre alle macchine, ogni
altro bene che non sia consumabile (v., ad es.,
Cass., 14.6.2000, n. 8126, in Mass. Giur. it.,
2000; Cass., 8.10.1968, n. 3165, in Foro it., 1969,
I, 662 ss.; in dottrina: Rubino, 874 ss., che vi fa
rientrare i beni immobili, e Bianca, 271 ss., che
vi aggiunge addirittura anche le cose consumabili). Proprio in ragione di siffatta analogia strutturale e concettuale, in dottrina si è rilevato che se
si allarga la nozione di buon funzionamento fino
a ricomprendervi anche la mera «idoneità a un
uso ripetuto o prolungato» del bene, nella qualificazione giudiziale delle clausole contrattuali
(specie se formulate in modo generico) la garanzia ex art. 1512 cod. civ. può prestarsi a soppiantare, in molti casi, la promessa di qualità, limitandone così il campo di azione (v., su questo punto, Cabella-Pisu, 239, infra, Nota bibl.; per un
esempio giurisprudenziale conforme, cfr. Cass.,
30.11.2012, n. 21463, in Banca dati Leggi d’Italia).
I vantaggi per il compratore sono evidenti.
Laddove il termine di prescrizione dei diritti
derivanti dalla garanzia redibitoria o per mancanza di qualità è, come detto, «rigido», quello
relativo alla garanzia di buon funzionamento è
infatti «mobile» alla medesima stregua di quello decadenziale, essendo fissato bensì in soli sei
mesi, ma decorrenti dalla scoperta del difetto
di funzionamento; e le parti possono stabilire
pattiziamente il periodo di validità della garanzia. In altri termini, concordato che il venditore sarà tenuto a rimediare al difetto qualora es366
so si palesi entro un «tempo determinato» (ad
es., cinque anni) computato a partire dalla conclusione del contratto (periodo di validità), il
termine di prescrizione semestrale del diritto
del compratore ad ottenere il rimedio opererà
all’interno di tale perimetro temporale, cominciando a decorrere solo dal momento in cui il
compratore si avvedrà o potrà avvedersi del difetto.
Proprio la libera fissazione della durata del
vincolo, riflesso della particolarità della fattispecie e del «dinamismo» potenziale del difetto, rappresenta, secondo autorevole dottrina,
la caratteristica discretiva della garanzia di
buon funzionamento rispetto alla promessa di
qualità (v. Luzzatto, 476 ss., infra, Nota bibl.): tanto che, come statuito a più riprese anche dalla giurisprudenza, in mancanza di una
sua espressa indicazione la pattuizione rimane
priva d’effetto (cfr., oltre alla citata Cass., n.
8126/2000; Cass., 29.5.1995, n. 6033, in Mass.
Giur. it., 1995; Trib. Padova, 23.2.2011, in
Banca dati Leggi d’Italia; un cenno anche in
Cass., 30.10.2009, n. 23060, in Mass. Giur. it.,
2009).
Alla luce di queste considerazioni, appare
difficile negare che, se di garanzie nominate
aventi ad oggetto il bene venduto deve trattarsi, le business warranties si attaglino, per necessità logica ancor prima che giuridica, più al prisma della garanzia convenzionale di buon funzionamento – concetto interpretato in modo
ampio dalla stessa giurisprudenza – che a quello, seppur per molti versi analogo, della promessa di qualità.
Ampliando la visuale al diritto privato di matrice comunitaria, rilievi simili a quelli appena
avanzati possono muoversi, del resto, con riguardo alla disciplina della c.d. garanzia convenzionale ulteriore nella vendita business-toconsumer di beni di consumo (artt. 128-133
cod. cons.; cfr. sempre Cherti, 1035 ss. e, in
giurisprudenza, per un caso di garanzia convenzionale ulteriore quinquennale relativa al
funzionamento di un’autovettura: Trib. Taranto, 27.1.2012, in Banca dati Leggi d’Italia),
ove spiccano: (i) la mancanza di ogni riferimento a termini di prescrizione o decadenza e
la menzione, per contro, di un termine di «durata» della garanzia (art. 133, comma 2o, lett.
b), equipollente del «tempo determinato» di
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Vendita di partecipazioni sociali
cui all’art. 1512 cod. civ.; (ii) la possibilità, per
il consumatore, di «continuare ad avvalersi
della garanzia ed esigerne l’applicazione» anche laddove la pattuizione non risponda ai requisiti di forma e contenuto prescritti dalla disposizione (art. 133, comma 5o), ivi compresa
l’indicazione «in modo chiaro e comprensibile» del suddetto termine di durata (sempre art.
133, comma 2o, lett. b).
Da ultimo, ma non per importanza, può ricordarsi la disciplina contenuta Convenzione
di Vienna sulla vendita internazionale di beni
mobili del 1980, che si applica ai rapporti business-to-business e il cui esame risulta pertanto
di particolare interesse ai fini dell’indagine. Ai
sensi dell’art. 39 della Convenzione, il diritto
del compratore di far valere l’eventuale difetto
di conformità della cosa venduta è soggetto ad
un termine di decadenza biennale a decorrere
dalla consegna (v. Cuffaro, 180, infra, Nota
bibl.), entro il quale egli ha l’onere non già di
agire in giudizio, bensì soltanto di denunciare
il difetto (art. 39, comma 2o). La stessa disposizione introducente tale regime decadenziale
precisa che il termine non si applica qualora sia
«in contrasto con la durata di una garanzia contrattuale»: con la conseguenza che, in quest’ultimo caso, alle parti è consentito, per implicito,
di derogarvi.
Riassumendo, l’analisi della disciplina dell’art. 1512 cod. civ., supportata dalla concezione estesa di buon funzionamento recepita anche dalla giurisprudenza di legittimità e da ulteriori indici normativi nazionali e sovranazionali, suggerisce che alle business warranties inserite nei contratti di vendita di partecipazioni
non debba essere applicata, né in via diretta né
analogica, la disciplina degli artt. 1490-1497
cod. civ., ma che piuttosto, se proprio si voglia
ritenere che esse abbiano per oggetto (indiretto) un «elemento» della partecipazione, sia più
coerente, nonché conforme a scopi e conseguenze avuti di mira dalle parti mediante la loro predisposizione (cfr. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, 91 ss., infra,
Nota bibl.), classificarle come garanzie convenzionali in senso stretto.
8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle
garanzie: pronunce di merito... Le sentenNGCC 2015 - Parte seconda
ze che inquadrano le clausole di garanzia patrimoniale nell’alveo della promessa di qualità o
(del patto modificativo) della garanzia per vizi
redibitori, sin qui esaminate, non esauriscono
però il panorama giurisprudenziale in argomento.
Nell’ultimo decennio diverse sentenze di
merito hanno infatti confermato a grandi linee
l’opinione espressa da App. Genova,
6.11.1964, svincolando le business warranties
dall’angusta disciplina dell’art. 1495 cod. civ.
ed applicando, in sua vece, il termine ordinario
decennale di cui all’art. 2946 cod. civ. (App.
Milano, 9.7.2013, n. 2081, in Banca dati DeJure; App. Roma, 5.3.2011, in Giur. comm., 2012,
II, 1008 ss.; un cenno in Trib. Milano,
3.9.2013, in Società, 2013, 1254; Id., 26.8.2011,
n. 10733, ivi, 2012, 145 ss.; Id., 25.1.2007, n.
1041, in Resp. civ. e prev., 2007, 1691 ss.; in
obiter, Trib. Genova, 9.10.2006, in Banca dati
Leggi d’Italia).
Un contributo fondamentale al progressivo
affermarsi di questo orientamento minoritario
è stato apportato da attente dottrine (cfr., fra
tutti: Speranzin, Vendita della partecipazione,
114 ss.; Corrias, 309 ss.; v. pure Tina, 318 ss.;
C. D’Alessandro, Compravendita di partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente, 197 ss.;
E. Panzarini, 329, n. 167, tutti infra, Nota bibl.), le quali vi hanno fornito un persuasivo
supporto dogmatico precisando che, pur non
configurando veri e propri contratti strutturalmente distinti dalla vendita in ragione dell’unicità del corrispettivo, le clausole in questione
integrano pattuizioni accessorie atipiche di garanzia pura (o copertura del rischio) almeno
funzionalmente autonome rispetto all’attribuzione traslativa, modellate sugli schemi del
contratto assicurativo (art. 1882 ss. cod. civ.) e
della promessa del fatto del terzo (art. 1381
cod. civ.) ed aventi ad oggetto non già la partecipazione, bensì il patrimonio sociale.
In questa sede è possibile provare ad abbozzare una sintetica ricostruzione delle pronuncia conforme che si ritiene, tra tutte, più significativa: Trib. Milano, n. 10733/2011.
Nel caso deciso dal giudice milanese, l’acquirente di un pacchetto azionario di riferimento
aveva lamentato, in seguito al trasferimento, il
riscontro di sopravvenienze passive (oneri sostenuti per la riparazione di prodotti difettosi)
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Rassegne di giurisprudenza
e insussistenze dell’attivo (mancato incasso di
crediti) nel patrimonio della società target. Poiché il contratto di vendita conteneva garanzie
patrimoniali sintetiche e dettagliate indemnities collegate, egli, richiesto invano al venditore
di corrispondere l’indennizzo, aveva agito in
giudizio contro quest’ultimo richiedendone la
condanna al pagamento di una somma corrispondente. Nonostante le eccezioni di decadenza e prescrizione sollevate dalla controparte ex art. 1495 cod. civ., stante l’inquadramento tradizionale delle garanzie entro il modello
dell’art. 1497, il Tribunale milanese accoglie
qui la domanda del compratore, ritenendo tali
norme inapplicabili alla fattispecie.
La pronuncia si segnala in quanto: (i) sottolinea che non tutte le garanzie pattizie inserite
nel contratto di vendita debbano per forza essere qualificate come promesse di qualità della
cosa venduta: al contrario, una «regolamentazione completa ed esauriente delle modalità di
escussione delle garanzie negozialmente pattuite», come quella contenuta nel negozio in esame, forma un complesso di disposizioni «incompatibili con la disciplina legale invocata dal
convenuto», ma altresì perfettamente ammissibile «a fronte della non contestabile autonomia
negoziale delle parti in materia»; (ii) recepisce
la teoria dottrinale che qualifica le business
warranties come clausole funzionalmente autonome di garanzia pura, accertando prima la
difformità tra garantito e reale (il verificarsi
dell’evento dedotto nella clausola) e poi l’inadempimento dell’obbligazione di indennizzo
da questa innescata (v. Corigliano, 146 ss.,
infra, Nota bibl.), alla medesima stregua di ciò
che accade nell’assicurazione contro i danni e
nella promessa del fatto del terzo.
9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/2014. Ferme quest’ultima e le altre sentenze di merito citate, fino al luglio dello scorso anno, come già
accennato, non esistevano tuttavia pronunce di
legittimità che confermassero l’indirizzo minoritario conforme ad App. Genova, 6.11.1964.
Per la verità, già in una decisione risalente al
2012 il S.C. aveva implicitamente recepito la ricostruzione operata ormai più di mezzo secolo
fa dalla Corte ligure (Cass., n. 17948/2012);
ma la singolarità della controversia decisa im368
pedisce di considerare la sentenza come
senz’altro indicativa di un vero e proprio revirement. Il caso era il seguente: nel contratto di
vendita di un pacchetto azionario di riferimento (S.p.a.) erano state inserite, con collegata
clausola di indennizzo, tre garanzie patrimoniali, relative, rispettivamente, all’assenza di
sopravvenienze passive, alla conformità alla
normativa vigente di impianti ricompresi nell’azienda sociale, e alla possibilità di coprire
con i ricavi annuali dei costi fissi di gestione di
un impianto (garanzia c.d. reddituale); verificata in seguito una netta difformità tra realtà materiale e contenuto delle pattuizioni, l’acquirente chiedeva all’alienante il pagamento dell’indennizzo, che gli veniva prontamente corrisposto.
Posto che le parti avevano già provveduto a
versare l’imposta di registro sul contratto di
vendita di partecipazioni, l’Agenzia delle entrate, ritenendo che il contenuto delle business
warranties fosse del tutto avulso dal contratto
di vendita, notificava al compratore un avviso
di liquidazione, applicando l’imposta di registro, in forza dell’art. 21, comma 1o, d.p.r.
26.3.1986, n. 131 (Approvazione del testo unico
delle disposizioni concernenti l’imposta di registro: d’ora in poi, T.U. Registro), anche sulla
somma liquidatagli a titolo d’indennizzo in base alle clausole di garanzia ed indemnity.
La norma dell’art. 21, comma 1o, T.U. Registro, prevede, in effetti, la possibilità di tassare
separatamente le singole disposizioni (in ispecie: attribuzione traslativa e garanzie patrimoniali) di un unico atto (il contratto di vendita),
quando esse «non derivano necessariamente,
per la loro intrinseca natura, le une dalle altre»:
ciò che l’Agenzia delle entrate pertanto qui sostiene, in modo più o meno consapevole, è che
le clausole di garanzia non possono essere considerate funzionalmente inerenti alla alienazione delle partecipazioni.
A conclusione di un iter giudiziale che aveva
dapprima visto prevalere le contrarie ragioni
del privato, il quale sosteneva che le clausole
non fossero scindibili dal contratto di vendita e
dovessero qualificarsi come qualità promesse
della cosa venduta – per inciso: posizione invero obbligata, ma altresì paradossale dato che a
sostenerla è qui il compratore – con conseguente applicazione del regime di tassazione
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unico di cui all’art. 21, comma 2o, T.U. Registro, il S.C. rigetta la tesi tradizionale che considera le garanzie patrimoniali come promesse
di qualità della cosa venduta, ne valorizza l’autonomia rispetto all’attribuzione traslativa della vendita e accoglie la ricostruzione operata
dall’Agenzia.
Premessa l’esistenza di tale precedente, la
giurisprudenza di legittimità ha infine confermato anche in modo esplicito e ben argomentato l’interpretazione propria dell’orientamento minoritario, sia pur in una pronuncia che, al
momento, rimane isolata (v., infatti, la successiva e difforme Cass., n. 23649/2014).
Nel caso deciso da Cass., n. 16963/2014, relativo alla vendita della partecipazione di controllo di una S.p.a., il contratto conteneva una
business warranty sintetica, collegata ad un obbligo di indennizzo, per l’ipotesi in cui, successivamente al trasferimento della proprietà delle
azioni, fossero emerse sopravvenienze passive
(in particolare, derivanti dalla violazione di
norme tributarie e contributive). Verificatesi le
sopravvenienze, a seguito del rifiuto del venditore di indennizzare il compratore quest’ultimo lo conveniva in giudizio; costituitosi, il venditore eccepiva, secondo il consueto schema, la
prescrizione del diritto del compratore, in ragione dell’inutile decorrenza del termine di
prescrizione annuale ex art. 1495 cod. civ.
In forza di una clausola compromissoria inserita nel negozio, in primo grado il giudizio si
svolge dinnanzi ad un collegio arbitrale, che
nega la riconducibilità della clausola di garanzia all’art. 1497 cod. civ. e concede, pertanto,
tutela piena al compratore, applicando il termine prescrizionale ordinario (il contratto era
stato concluso nel 2000; il lodo viene emesso
nel 2005). Il lodo viene tuttavia impugnato
dinnanzi alla Corte d’appello di Milano, che
prima lo dichiara nullo per error in judicando e
poi si conforma, nella fase rescissoria, all’indirizzo tradizionale, dichiarando prescritto il diritto del compratore all’indemnity.
Il S.C., nella sentenza in esame, sancisce infine che il termine di prescrizione applicabile sia
quello ordinario decennale, condannando
l’alienante al pagamento dell’indennizzo.
I giudici di legittimità, dando atto delle critiche avanzate dalla dottrina dominante alla
posizione giurisprudenziale tradizionale circa
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la natura delle garanzie patrimoniali, rilevano
in motivazione: (i) che le clausole di garanzia
patrimoniale non concernono la prestazione
traslativa giacché la consistenza patrimoniale
della società garantita non integra qualità promessa dei beni venduti (le partecipazioni sociali), la quale ultima può attenere soltanto
«alla struttura materiale, alla funzionalità o anche alla mancanza di attributi giuridici della cosa venduta»; (ii) che se è vero che una diminuzione della consistenza patrimoniale della società è idonea ad incidere sul valore delle partecipazioni alienate, è altrettanto palese che
«la corrispondenza o meno del valore del bene
venduto non attiene alle qualità intrinseche (essenziali o promesse) previste dall’art. 1497 cod.
civ.»: la misura del prezzo pattuito è infatti
normalmente irrilevante sul piano giuridico,
salvo il ricorso agli istituti della rescissione per
lesione e, ove l’errore sul prezzo sia consistito
in «errore sulle qualità del bene», dell’annullamento del contratto; (iii) che la previsione,
nell’art. 1495 cod. civ., di termini di decadenza e prescrizione brevi, «risponde all’esigenza
di assicurare la pronta contestazione di inesattezze nella prestazione del venditore, che la prolungata inerzia del compratore potrebbe far ritenere tollerate»: la norma postula pertanto, in
modo palese, che si tratti di inesattezze del
bene le quali, per loro natura, possano manifestarsi «in un ragionevole lasso di tempo, e
delle quali il compratore si presume possa rendersi conto in tale arco temporale»; (iv) che
poiché l’eventuale difformità della situazione
patrimoniale della società rispetto al contenuto dalle business warranties può emergere anche a distanza di tempo dalla conclusione del
contratto, se ai diritti da esse derivanti si dovesse ritenere applicabile l’art. 1495 cod. civ.
le clausole medesime, «introdotte al fine di tutelare proprio la posizione del compratore, finirebbero per penalizzarlo»; (v) che le clausole di
indemnity hanno ad oggetto «obbligazioni accessorie assunte dal venditore in relazione al
successivo manifestarsi» dei fatti o degli eventi
dedotti nelle garanzie patrimoniali, alle quali
si applica il termine di prescrizione decennale
di cui all’art. 2946 cod. civ.
Appare evidente come la sentenza faccia
propri i numerosi rilievi dottrinali in argomento che si sono segnalati nel corso della tratta369
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Rassegne di giurisprudenza
zione, sicché appare superfluo dilungarsi in ulteriori commenti sul punto.
Un’unica precisazione andrebbe avanzata
con riguardo alla statuizione da ultimo riportata. La sentenza, infatti, mentre descrive contenuto e disciplina delle indemnities, non prende
espressa posizione sul tema, logicamente sovraordinato e prodromico, della qualificazione
e della struttura delle garanzie patrimoniali.
A tale riguardo va chiarito e ribadito, con la
miglior dottrina, che le business warranties sono prestazioni accessorie all’attribuzione traslativa integrate da clausole atipiche di copertura del rischio, sicché fino all’eventuale riscontro della «violazione», venditore e compratore sono vincolati, in forza delle pattuizioni, da un rapporto non già obbligatorio, bensì
di garanzia pura, ai cui poli si situano, rispettivamente, una soggezione alla «idoneità dell’evento» in esse contemplato a dare origine ad
una «obbligazione indennitaria», ed una aspettativa alla «nascita del diritto (soggettivo) a tale
prestazione» (v. Corrias, 310). Ciò che già esiste, così come ciò la cui venuta ad esistenza
non dipenda da un comportamento attuativo
del soggetto passivo, non può, infatti, costituire oggetto di una obbligazione in senso tecnico
(cfr. Mengoni, Profili di una revisione della
teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, 387
ss., e Schlesinger, 1281, entrambi infra, Nota
bibl.).
Una volta riscontrata la difformità tra garantito e reale o verificatosi l’evento, invece, la
soggezione si converte – allora bensì, e anche
qualora non vi sia la previsione espressa di una
indemnity: c.d. principio indennitario, ricavabile in via analogica dalla disciplina dell’assicurazione contro i danni (v. sempre Corrias,
267) – in obbligazione (di indennizzo) e
l’aspettativa in diritto di credito (all’indennizzo), secondo il meccanismo sostanzialmente
condizionale tipico della reine Garantie.
10. Considerazioni conclusive. Terminata la rassegna, è ora possibile estendere alcune brevi osservazioni conclusive circa il percorso svolto.
Un primo rilievo riguarda lo stato dell’arte
della giurisprudenza in punto di qualificazione
delle garanzie patrimoniali. All’indirizzo interpretativo consolidato, già di per sé non del tut370
to armonico in quanto oscillante senza esitazioni tra promessa di qualità e garanzia per vizi, si
contrappone ormai da qualche anno un indirizzo minoritario che pare conformarsi alle più
recenti e persuasive elaborazioni dottrinali, le
quali fanno leva sulla categoria concettuale della garanzia pura. Questo secondo orientamento, oltre ad essere più preciso sul piano dei
dogmi, comporta di riflesso l’applicazione, ai
diritti derivanti dalle garanzie, del termine prescrizionale ordinario (decennale e «mobile»,
poiché decorrente, in generale, a partire dal
giorno in cui il diritto può essere fatto valere:
art. 2935 cod. civ.) in luogo di quello breve
(annuale e «rigido», nel senso suesposto) previsto dall’art. 1495 cod. civ., valorizzando così
opportunamente l’autonomia delle parti ed
evitando di vanificare, a valle, la tutela del
compratore.
Un secondo rilievo concerne la coerenza della sentenza da ultimo esaminata (Cass., n.
16963/2014), che recepisce per la prima volta
in sede di legittimità l’indirizzo minoritario,
con l’evoluzione del pensiero pretorio: alla luce di quanto appena rilevato, la statuizione in
essa contenuta, lungi dal costituire un precedente eccentrico, rappresenta il coronamento
di una tendenza che, benché forse oscurata dal
grado delle pronunce anteriori conformi, già
avrebbe potuto registrarsi in materia nel decennio passato.
Un terzo ed ultimo rilievo, invero connesso a
quest’ultimo, inerisce infine alle prospettive future del diritto vivente. La ricca motivazione in
diritto di Cass., n. 16963/2014, con la condivisione dei principali argomenti tradizionalmente opposti dalla dottrina dominante all’orientamento giurisprudenziale maggioritario, fa presagire, stante la considerazione di cui appena
sopra, che siano ormai maturi i tempi per un –
quanto mai auspicabile – progressivo abbandono dell’inquadramento tralatizio delle garanzie patrimoniali. O quantomeno, specie nell’immediato, per l’apertura di un «dibattito»
interno alla giurisprudenza sul punto: a tale
proposito va infatti ricordato che Cass., n.
23649/2014, di poco successiva al revirement,
ha nuovamente ricondotto le business warranties nell’alveo dell’art. 1497 cod. civ. Se si tratti
dell’anticamera di un vero e proprio contrasto
in divenire in seno alle sezioni semplici della
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Corte di cassazione (la pronuncia più recente è
della sez. I, l’altra della sez. II), o di una mera
scossa di assestamento a fronte di un così importante mutamento di rotta, lo chiariranno le
future sentenze in argomento.
Nota bibliografica
1. Premessa: le cc.dd. garanzie patrimoniali nella vendita di partecipazioni
sociali di «controllo». Per un autorevole
contributo saggistico sull’evoluzione storica del
pensiero giurisprudenziale e dottrinale in tema
di qualificazione delle business warranties, contenente anche degli estratti di lodi arbitrali inediti in materia, cfr. Bonelli, Acquisizioni di società e di pacchetti azionari di riferimento: le garanzie del venditore, in Dir. comm. int., 2007,
293 ss.; già in precedenza, analogamente e allegando anche dei formulari contrattuali nazionali ed internazionali: Id., Giurisprudenza e
dottrina su acquisizioni di società e di pacchetti
azionari di riferimento, in Bonelli-De André
(a cura di), Acquisizioni di società e di pacchetti
azionari di riferimento, Giuffrè, 1990, 5 ss.
Sul significato del sintagma representations
and warranties nella prassi dei formulari, v.
nello stesso volume Pistorelli, Le garanzie
analitiche sulle voci della situazione patrimoniale di riferimento, ivi, 155 ss.; e, in una prospettiva più tecnica e generale, Alpa-Delfino (a
cura di), Il contratto nel common law inglese,
3a ed., Cedam, 2005, 86 ss.
Un’elencazione esaustiva e chiara delle clausole di garanzia patrimoniale sintetiche ed analitiche è contenuta oggi in Speranzin, Le clausole relative all’oggetto «indiretto» (il patrimonio sociale); garanzie sintetiche e garanzie analitiche, in Irrera (diretto da), Le acquisizioni societarie, Zanichelli, 2011, 193 ss.; cfr. anche, fra
gli altri, il recente contributo di Sangiovanni,
Compravendita di partecipazione sociale e garanzie del venditore, in Notariato, 2012, 203 ss.;
Iorio, Struttura e funzioni delle clausole di garanzia nella vendita di partecipazioni sociali,
Giuffrè, 2006, 6 ss.; Ponti-Masetti, La vendita garantita delle partecipazioni sociali, Cedam,
1997, 285 ss.; più risalente Casella, I due sostanziali metodi di garanzia del compratore, in
Bonelli-De André (a cura di), Acquisizioni di
società, cit., 131 ss.
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La particolare importanza rivestita dalle business warranties nell’ambito della vendita di
partecipazioni di «controllo», rispetto a quella
rivestita nella vendita di pacchetti di minoranza, è ben posta in luce da E. Panzarini, Cessione di pacchetti azionari: il contenuto delle
clausole di garanzia, nel Trattato de I contratti
del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, diretto da Galgano, I, Utet, 1995,
247 ss.
Sulle differenze tra legal warranties e garanzie di ex artt. 1490-1497 cod. civ., e, in particolare, sull’utilità di inserire le prime nel contratto, cfr., oltre alla citata E. Panzarini-Tersilla, Le clausole di garanzia nei contratti di acquisizione, in Dir. comm. int., 2004, 101 ss.; Callegari, Le clausole sull’oggetto «diretto», in
Bonelli-De André (a cura di), Le acquisizioni
societarie, cit., 181 ss.
Riguardo alla recente proposta di riforma
volta a disciplinare in modo espresso il regime
prescrizionale dei diritti derivanti dalle clausole di garanzie patrimoniale, v. un primo commento in Speranzin-Tina, Una recente proposta legislativa in tema di trasferimento di aziende e di partecipazioni sociali, in Società, 2014,
261 ss.
2. Oggetto del contratto di vendita
di partecipazioni sociali: le quote o
azioni e non il patrimonio. Una panoramica delle diverse questioni che gravitano attorno
alla vendita di partecipazioni sociali (in società
di capitali e di persone) è offerta da Fezza, La
vendita di partecipazioni sociali, nel Codice della vendita, 2a ed., a cura di Buonocore-Luminoso, Giuffrè, 2005, 1470 ss.; circa la circolazione di partecipazioni azionarie, invece, si
veda l’autorevole contributo di Angelici, La
circolazione della partecipazione azionaria, nel
Trattato Colombo-Portale, 2, I, Utet, 1991, 101
ss.
Sulla distinzione tra oggetto «immediato» e
«mediato» del contratto di vendita di partecipazioni sociali, è doveroso rinviare al suo ideatore: Galgano, voce «Vendita (dir. priv.)», in
Enc. del dir., XLVI, Giuffrè, 1993, 484 ss.;
mentre, riguardo alla distinzione con riferimento alla vendita in generale (con tutt’altra
accezione), si può rinviare a Romano, Vendita,
Contratto estimatorio, nel Trattato Grosso-San371
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toro Passarelli, V, 1, Vallardi, 1960; e Rubino,
La compravendita, 2a ed., nel Trattato CicuMessineo, XXXIII, Giuffrè, 1971.
3. Segue: le eccezioni... Sulle partecipazioni sociali (in particolare, azioni) come «beni di
secondo grado», non può che rinviarsi al fondamentale contributo di Ascarelli, Riflessioni in tema di titoli azionari e società tra società,
oggi in Saggi di diritto commerciale, Giuffrè,
1955, 219 ss.
Sulla concezione riduzionistica della persona
giuridica, è invece d’obbligo consultare i saggi
di F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, in Studi in memoria di Ascarelli, Giuffrè, 1969, 241 ss.; e Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del concetto
di persona giuridica, in Riv. dir. civ., 1965, I,
533 ss.
4. Segue: ... in funzione di tutela dell’acquirente. Le cc.dd. garanzie implicite. Una autorevole critica alla sentenza Cass.,
27.7.1933 è operata da P. Greco, Le società di
comodo e la vendita delle loro azioni, in Riv. dir.
comm., 1935, II, 128 ss. Sulle ragioni sostanzialmente equitative che muovono l’orientamento minoritario più risalente in tema di oggetto del contratto di vendita di partecipazioni,
cfr. di recente Maggi, I rimedi e le garanzie
contrattuali a tutela dell’acquirente di partecipazioni azionarie rilevanti, Jovene, 2012.
In un senso analogo, ma con riferimento all’indirizzo minoritario più recente, sembra
porsi C. D’Alessandro, Vendita di partecipazioni sociali e promessa di qualità, in Giust. civ.,
2005, I, 1071 ss. Una interpretazione della sentenza Cass., n. 2059/2000 diversa da quella
suggerita nell’elaborato è contenuta in Tina, Il
contratto di acquisizione di partecipazioni societarie, Giuffrè, 2007.
Circa la strumentalità della concezione riduzionistica della persona giuridica alla repressione di «abusi» della personalità, si veda Galgano, Cessione di partecipazioni sociali e superamento dell’alterità soggettiva fra socio e società,
in Contr. e impr., 2004, 537 ss.
5. Natura delle garanzie patrimoniali:
primi tentativi di inquadramento (App.
Genova, 6.11.1964 e Cass., n. 338/1967). Le
reazioni della dottrina. Sulle clausole di
372
indemnity e sulla loro funzione collegata alle
garanzie convenzionali, v. Picone, Contratti di
acquisto di partecipazioni azionarie, Pirola,
1995; più di recente, Martinetti, Le «garanzie» delle garanzie e le clausole indennitarie, in
Le acquisizioni societarie, cit., 238 ss.
Un’analisi esaustiva dei termini convenzionalmente stabiliti per l’attuazione delle garanzie, mediante raffronto con gli istituti della
prescrizione e della decadenza, è contenuta in
Speranzin, Vendita della partecipazione di
«controllo» e garanzie contrattuali, 2a ed.,
Giuffrè, 2006.
Sul concetto di garanzia pura, cfr. oggi l’ampia e meticolosa ricostruzione offerta da Corrias, Garanzia pura e contratti di rischio, Giuffrè, 2006; su quello, originariamente contrapposto, di «supergaranzia», v. la celebre monografia di Gorla, La compravendita e la permuta, nel Trattato Vassalli, VII, 1, Utet, 1937, in
particolare 89 ss.
Quanto alla pronta condivisione in dottrina
della qualificazione delle business warranties
operata da App. Genova, 6.11.1964, si possono menzionare: Aa.Vv., Società per azioni, in
Casi e materiali di diritto commerciale, I, Giuffrè, 1974; e Montalenti, La compravendita di
partecipazioni azionarie, in Scritti in onore di
Rodolfo Sacco, II, Giuffrè, 1994, 765 ss., e in
particolare 787, il quale precisa che vendita e
garanzie sono contratti collegati.
Quanto alle numerose critiche dottrinali all’orientamento giurisprudenziale tradizionale,
che inquadra le clausole nell’alveo dell’art.
1497 cod. civ., si vedano fra gli altri: Schermi,
Considerazioni sulla natura e sulla vendita dei
titoli di credito astratti, dei titoli rappresentativi
e dei titoli azionari, in Giust. civ., 1967, I, 437
ss.; Calvo-Delogu, La vendita, II, a cura di
M. Bin, Cedam, 1994; G. Panzarini, La tutela
dell’acquirente nella vendita dei titoli di credito,
in Riv. dir. comm., 1959, I, 252 ss.; Rubino De
Ritis, Trasferimento di pacchetti azionari di
controllo: clausole contrattuali e limiti all’autonomia privata, in Giur. comm., 1997, I, 879 ss.;
Bonelli, Giurisprudenza e dottrina, cit.; Corrias, Garanzia pura, cit.; Erede, Durata delle
garanzie e conseguenze della loro violazione, in
Bonelli-De André (a cura di), Acquisizioni di
società e di pacchetti azionari di riferimento, cit.,
199 ss.
NGCC 2015 - Parte seconda
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Vendita di partecipazioni sociali
Sul concetto di qualità promesse, v. per tutti
Luminoso, La compravendita, Giappichelli,
2011; Fadda, La mancanza di qualità, nel Codice della vendita, 2a ed., cit., 592 ss., che tratta
poi anche dell’aliud pro alio (605 ss.)
Una autorevole presa di posizione circa l’inestensibilità alla vendita di beni immateriale delle garanzie legali previste ex artt. 1490 ss. cod.
civ. è contenuta in Bianca, La vendita e la permuta, 2a ed., nel Trattato Vassalli, VII, 1, Utet,
1993.
6. Tesi prevalente nella giurisprudenza successiva. Sull’esperibilità dell’azione
estimatoria in caso di mancanza di qualità della
cosa venduta, v. Rubino, La compravendita,
cit.; e Bianca, La vendita e la permuta, cit. Per
un’analisi completa ed efficace delle posizioni
dottrinali in materia di qualificazione della garanzia legale per vizi redibitori nella vendita,
cfr. sempre Luminoso, La compravendita, cit.;
e, sui vizi dei titoli di credito, P. Greco-Cottino, Della vendita, nel Commentario ScialojaBranca, Zanichelli-Foro it., 1981, 2a ed., sub
art. 1490, 246 ss.; Mirabelli, Dei singoli contratti (artt. 1470-1765 c.c.), nel Commentario al
codice civile, IV, 3, sub artt. 1490-1497, Utet,
1991, 90 ss.
7. Conseguenze pratiche dell’inquadramento prevalente. Scarsa coerenza
sistematica con la disciplina delle garanzie convenzionali nella vendita.
Considerazioni illuminanti circa il rapporto fra
estensione delle representations and warranties
e prezzo della vendita (e non solo) sono contenute in De Nova, Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato, Giappichelli,
2011.
Per una recente indagine sulla compatibilità
tra la disciplina delle garanzie convenzionali nominate e le business warranties, cfr. Cherti, Cessione di pacchetti azionari e garanzie convenzionali, in Contratti, 2013, 11, 1035 ss. Con particolare riguardo alla garanzia di buon funzionamento,
recente e chiara è l’opera di Bocchino, La vendita di cose mobili, nel Commentario Schlesinger,
Giuffrè, 2004, 2a ed., sub art. 1512; per una interpretazione estensiva del concetto di buon funzionamento, cfr. Rubino, La compravendita, cit.;
e Bianca, La vendita e la permuta, cit.; pone in riNGCC 2015 - Parte seconda
salto l’affinità con la promessa di qualità e la possibilità di estendere l’ambito applicativo dell’art.
1512 cod. civ. a scapito dell’art. 1497 cod. civ.,
Cabella-Pisu, Garanzia e responsabilità nelle
vendite commerciali, Giuffrè, 1983; interessanti
rilievi dogmatici, compreso quello di centralità
della previsione della durata ai fini dell’efficacia
della garanzia sono contenuti in Luzzatto, La
compravendita, ed. postuma, a cura di Persico,
Utet, 1961.
Sulla previsione dell’art. 39 della Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili del 1980, cfr. il commento di Cuffaro, nel Commentario alla Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni
mobili, coordinato da Bianca, Cedam, 1992,
sub art. 39.
Sui rapporti tra argomentazione pratica e argomentazione dogmatica nel ragionamento
giuridico, e in particolare sulla c.d. folgenorientierte Argumentation, rimane attuale il raffinato contributo di Mengoni, L’argomentazione
orientata alle conseguenze, oggi in Ermeneutica
e dogmatica giuridica, Giuffrè, 1996, 91 ss.
8. Orientamento minoritario che valorizza l’autonomia funzionale delle
garanzie: pronunce di merito... Tra i contributi dottrinali che hanno fornito un persuasivo supporto dogmatico all’orientamento minoritario in punto di qualificazione delle garanzie patrimoniali, meritano di essere ricordati: Speranzin, Vendita della partecipazione,
cit.; Corrias, Garanzia pura, cit.; Tina, Il contratto, cit.; D’Alessandro, Compravendita di
partecipazioni sociali e tutela dell’acquirente,
Giuffrè, 2003; E. Panzarini, Cessione di pacchetti azionari, cit.
Per un breve ma mirato commento alla sentenza Trib. Milano, n. 10733/2011, v. Corigliano, Dichiarazioni e garanzie: un nuovo capitolo di una storia infinita?, in Società, 2012,
145 ss.
9. Segue: ... e di legittimità. Il revirement operato da Cass., n. 16963/2014. Sulla
distinzione tra obbligazione e garanzia, è d’obbligo il rinvio alle autorevoli pagine di Mengoni, Profili di una revisione della teoria sulla garanzia per i vizi nella vendita, oggi in Scritti di
Luigi Mengoni, II, a cura di Castronovo-Al373
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Rassegne di giurisprudenza
banese-Nicolussi, Giuffrè, 2011, 385 ss.; e
Schlesinger, Riflessioni sulla prestazione dovuta nel rapporto obbligatorio, in Riv. trim. dir.
e proc. civ., 1959, I, 1273 ss., riprese oggi da
Corrias, Garanzia pura, cit.
Per due primi commenti alla sentenza Cass.,
n. 16963/2014, cfr. Dalla Massara, La Cassazione su cessione di partecipazioni sociali e prescrizione dell’indennizzo pattuito in caso di sopravvenienze: per una nuova impostazione della
374
questione in termini di obbligazione pecuniaria
sottoposta a condizione sospensiva, in www.dirittocivilecontemporaneo.com, 2014, 10 s.; Iorio, Vendita di partecipazioni sociali: garanzie
contrattuali e termine di prescrizione, in Giur.
it., 2014, 1406 ss.
10. Considerazioni conclusive.
Sul punto non si segnalano contributi specifici.
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