Lucia BONI - Premio Calvino

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Lucia BONI - Premio Calvino
Lucia BONI
NON AVEVAMO CONOSCIUTO ALTRI GENITORI
SE NON I NOSTRI GATTI
da Noci e Bauli
La mamma sì, la mamma l’avevamo e le volevamo molto bene. Anche lei ce ne voleva.
Ma quando i nostri compagni dell’asilo parlavano dei genitori, ci dicevano: «Sono quelli che ti dicono
quando è l’ora di mangiare, di andare a letto, di fare i buoni», e noi non avevamo capito che dovevano
essere «persone».
Gatta giocava, poi sgridava, poi sedeva, composta a controllare. A un certo punto si metteva a
cercare la scodella del latte, allora sapevamo che mentre davamo da mangiare a lei, mangiavamo anche
noi.
Capivamo che era sera quando i micini smettevano di saltare su e giù dal divano, di bisticciarsi per
finta, di far capriole, nascondersi e trovarsi e dopo aver spiato dietro le gambe delle sedie, tutt’a un
tratto si mettevano a leccarsi le zampine, sdraiati cercando un equilibrio nuovo sulla schiena o sul
fianco. Ci facevano ridere e noi li copiavamo: loro ci facevano vedere i giochi e noi li facevamo.
A volte invece facevamo un gioco nel bagno, quello ce lo eravamo inventato noi e lo facevamo di
nascosto.
Facevamo la pipì, come nei film quando ci sono le luci che si incrociano. Noi lo facevamo con i
nostri zampilli, incrociandoli dentro il water. E poi quando avevamo la cacca, facevamo le sparatorie
con le scorregge.
Questo gioco lo facevamo in bagno con la porta chiusa e cercavamo di parlare pianissimo. Lo
facevamo cercando di scappare dalla gatta, perché non ci seguisse.
Tutte le volte che aprivamo la porta, invece, la trovavamo lì, seduta che ci diceva qualcosa, con una
voce strana. Beh, noi lo sapevamo che forse non si fanno quei giochi, allora, per non sentirci troppo in
colpa e per farle un dispetto, facevamo i leoni, con gli artigli vicini, vicini alla faccia e i denti in fuori.
Tiravamo fuori una voce grossa e ci guardavamo. Né io, né mio fratello volevamo dimostrare che
avevamo paura del nostro verso e del buio in fondo al corridoio, allora ridevamo forte. La gatta ci
sgridava con un miao deciso.
Poi andavamo sul divano e aspettavamo la mamma lì, perché c’era più caldo.
La gatta si stendeva per terra un po’ lontano dai suoi gattini e li chiamava e intanto si sistemava
facendo vedere bene la pancia calda. Era come un nido. Anche noi ci mettevamo tutti i cuscini a posto.
I gattini intanto ad uno ad uno erano andati a mangiare e anche noi col nostro crostino di pane li
guardavamo. Pigiavano con energia, prima con una zampina poi con l’altra, vicino alle tettine e
succhiavano. Io mi mettevo in bocca il pollice e ridevo un po’ con la bocca piena, mio fratello metteva
il dito indice fino in fondo alla gola e guardava intorno con gli occhi persi sul soffitto e succhiavamo
allo stesso ritmo dei gatti. Ci tenevamo la mano per un po’ e poi non so più cosa succedeva. La gatta
faceva solo qualche piccolo verso e respiri dolci. Si sentiva leccare forte.
La mamma a volte arrivava in quel momento e qualche volta, invece, quando era quasi mattina.
Lei era molto contenta di vederci , ci veniva incontro con un sorriso furbetto, con la testa giù piegata
in avanti, ci guardava sbirciando verso l’alto e mentre diceva delle parole lunghissime con tanti suoni
tutti uguali, come una canzone, ci mettevamo tutti e tre con le teste vicine e io cercavo con gli occhi di
incrociare lo sguardo di mio fratello e della mamma. Lei allora faceva il gioco di sbagliare i nostri
nomi e noi giocavamo a confonderla. Poi io cercavo i suoi occhi, con la testa vicina, vicina e lei, che
non voleva farsi vedere, andava sempre più giù con la testa sul mio petto, mentre mio fratello rideva
ancora. Io sapevo che quando lei faceva così, poi si metteva a piangere, e sottovoce mi chiedeva se ero
io Gabriele o era mio fratello. Mi chiedeva di aiutarla e piangeva, piano. Io avrei dovuto consolarla,
guidarla, guarirla dentro, nell’anima. Mio fratello continuava a fare le facce buffe, per farla ridere. Poi
la mamma si calmava, ci faceva fare il bagno e ci addormentavamo tutti insieme nel lettone.
Alla mattina per fortuna c’erano i «nostri genitori».
Gatta si metteva vicino al letto seduta bene, composta e ci guardava finché non ci svegliavamo, poi
faceva un piccolo salto guardando la cucina, poi tornava e ci chiamava.
Noi ci alzavamo e chiamavamo la mamma. Il latte per noi e per i gatti.
Uscivamo e, se la mamma si dimenticava la strada, noi l’aiutavamo a portarci all’asilo.
Io ero contento che a casa i nostri gatti ci aspettavano e ci facevano da genitori.