Untitled - inco.Scienza

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Untitled - inco.Scienza
in collaborazione con
Associazione
Culturale
J.W. Draper
con il patrocinio di
Università degli
Piano
studi di Modena
Lauree
Scientifiche e Reggio Emilia
Civico Planetario Brain
“F. Martino”
Escape
di Modena
Software
Comune
di Modena
Assessorato
All’Istruzione
IL COSTO DI NON FAR NULLA
La Default Mode Network come ingresso al problema della
spiegazione neuroscientifica del fenomeno “coscienza”
Omar Timothy Khachouf
29 febbraio 2012
www.ydfscience.altervista.org
www.facebook.com/YoungDoctorsForScience
[email protected]
“Young Doctors for Science” è un ciclo di conferenze dedicate alla scienza
che si pone come obiettivo la promozione e la diffusione della cultura scientifica nella comunità modenese, che si è tenuto da gennaio a marzo 2012.
Queste conferenze mirano inoltre ad ampliare le opportunità divulgative di
giovani laureati delle facoltà scientifiche del nostro ateneo. Il Planetario
di Modena, ente ospitante e coinvolto nell'organizzazione, con queste conferenze ripropone il suo ruolo centrale nella divulgazione scientifica, e
non solo astronomica, nella comunità modenese.
IL COSTO DI NON FAR NULLA
La Default Mode Network come ingresso al problema della spiegazione neuroscientifica del
fenomeno “coscienza”.
Omar Timothy Khachouf – 29 Febbraio 2012 – Civico Planetario “Francesco Martino” di Modena
Introduzione
Le neuroscienze, o come alcuni amici epistemologi si disturbano a riformulami spesso, la
neuroscienza cognitiva è una materia assai vasta e complessa. Ma l’aggettivo che maggiormente le
si addice è senz’ombra di dubbio giovane. La sua giovinezza la pone nella necessità di elaborare nei
termini della fisiologia umana, che è il suo linguaggio, problemi di derivazione extra-fisiologica e
talvolta extra-scientifica, quest’ultimo caso sia inteso lato sensu che strictu sensu. Si occupa spesso,
cioè, della ricerca di basi neurali di fenomeni umani solo contingentemente e raramente (forse
nell’ambito della psichiatria) approcciati neurofisiologicamente, come le decisioni economiche, o le
decisioni di vita, la capacità di fare progetti, la percezione di un sé cosciente. Quest’ultimo punto sta
al centro di quello che, passando sotto il nome di problema mente-corpo (body-mind problem), ha
prodotto l’esplodere di un dibattito metateorico sulla legittimità o meno delle neuroscienze che
parlano nel linguaggio della neurofisiologia di trattare ed eventualmente spiegare il fatto che l’uomo
possieda una coscienza, e che la possieda non nello stesso modo con cui possiede un rene o la
milza, e cioè distaccatamente e dall’alto della propria complessità intellettiva, dal quale i nobili
visceri menzionati sono tuttavia lontani anni luce, bensì la possiede lì davanti a lui, ed è quella con
cui interagisce in ogni momento della sua vita privata e intellettuale. Le neuroscienze si trovano a
fare i conti con il problema di un fenomeno in prima persona singolare, definito fondamentalmente
così e non definibile altrimenti, pur mantenendo statuto di scienza e con esso l’obbligo dell’uso
della terza persona singolare.
Questi ed altri problemi hanno fatto scontrare le neuroscienze con molte altre discipline scientifiche
e non, proprio per la sua posizione di interfaccia (tra l’utente e l’hardware per dirla con
l’informatica): da un lato la psicologia che si è occupata a lungo di spiegare gli stati psichici
dell’uomo basandosi su modelli interpretativi teorici facenti capo a pensatori, sul modello della
filosofia, dall’altro discipline di carattere biomedico come la neurologia, ma anche scienze pure
quali la fisica, la biologia e la genetica, e ora l’informatica e l’intelligenza artificiale.
Una costante che tutt’ora risulta vera è la tensione intellettuale che troviamo tra la prospettiva
psicologica e fisiologica riguardo al funzionamento cerebrale e mentale. Nel saggio di Donald O.
Hebb “Alice in Wonderland, or Psychology Among the Biological Sciences” (1965) l’autore scrive:
“il neurologo clinico si lamenta che gli psicologi hanno l’abitudine di complicare il problema
dell’afasia; il neurochirurgo non capisce le obiezioni che gli vengono mosse quando vuole a tutti i
costi identificare in questa piuttosto che in quella parte del cervello un non so ché chiamato
coscienza, memoria o qualcos’altro ancora. Dal canto loro, gli psicologi quasi mai riescono a
mantenersi aggiornati su cosa succede nel mondo delle neuroscienze e della neurologia, e per
difendere questa loro ignoranza, troppo spesso negano che tali informazioni possano avere alcuna
rilevanza per il proprio lavoro” (traduzione mia).
I. La Default Mode Network
È apparentemente controintuitivo, per quanto vero, che il costo energetico dell’attività cerebrale
intrinseca eccede enormemente quella dell’attività evocata da uno stimolo (Raichle e Mintun 2006).
È stato stimato che l’attività funzionale di neurocomunicazione utilizza il 60-80% dell’intero
budget di energia cerebrale, a sua volta rappresentato dal 20% dell’energia del corpo. Il costo in
energia addizionale associato ai momentanei reclutamenti neurali da parte dell’ambiente, cioè ad
elicitazione transitoria di aree ammonta a circa lo 0,5-1,0% del totale del budget energetico. Questo
bilancio rende chiaro che l’attività evocata dall’ambiente nel cervello potrebbe al massimo arrivare
a equivalere quella intrinseca in termini di costo energetico (glucosio e ossigeno) globale.
Ora, il glucosio è la maggior risorsa energetica del cervello, e la sua conversione in ATP (molecola
di scambio energetico per tutte le cellule) è favorita dall’ossigeno. In effetti l’ossigeno entra nella
catena respiratoria mitocondriale, i substrati della quale si ossidano progressivamente (e cioè
perdono elettroni) riducendo l’ossigeno (che invece acquisisce elettroni) ad acqua, creando
attraverso questo meccanismo un gradiente di potenziale elettrico e dunque energetico a cavallo
della membrana mitocondriale. Questo potenziale viene attualizzato nella generazione di un legame
fosfodiesterico (tra due gruppi fosfato) su una molecola di ADP che diviene in questo modo ATP.
Questo avviene in tutte le cellule. Il funzionamento di questo sistema è garantito dalla presenza di
coenzimi che derivano da cicli biochimici (glicolisi, ciclo di Krebs) il cui substrato iniziale è il
glucosio. Il bilancio complessivo del consumo di glucosio e ossigeno durante il metabolismo
aerobio è espresso da
C6H12O6 + 6O2 = 6CO2 + CH2O
È evidente come per la conversione energetica di ogni molecola di glucosio siano indispensabili 6
ossigeni. Quindi l’afflusso di glucosio e ossigeno dovrebbe realizzarsi idealmente nel rapporto
ossigeno/glucosio di 6:1. Ora, i dati sperimentali di autoradiografia indicano un rapporto di 5,5:1,
suggerendo che la maggior parte del glucosio andrà metabolizzata secondo un meccanismo aerobio,
mentre la restante minima parte secondo un meccanismo anaerobio, a minor rendimento energetico.
Ogni neurone che si attiva nel cervello (ma anche nel midollo spinale NdR) deve essere supportato
energeticamente. Pertanto, ogni area cerebrale che aumenta la propria frequenza di scarica in
rapporto a determinate funzioni, causerà una vasodilatazione locale che esiterà in aumento di flusso
ematico, per diminuzione delle resistenze principalmente a livello arteriolare. Le sostanze coinvolte
in questo processo sono lo ione K+, che risulta secreto nello spazio extracellulare in quantità
proporzionale alla frequenza di scarica neuronale; l’adenosina, che risulta dal catabolismo dell’ATP,
e ne esprime dunque il consumo; e l’ossido nitrico (NO) prodotto dall’enzima costitutivo
Nistrossido Sintasi (NOSn) neuronale.
Questo è il correlato fisiologico del segnale riconosciuto da uno degli strumenti più usati in
Neuroscienze, che è la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Essa consiste in un’apparecchiatura
a tunnel, nel quale viene inserito il soggetto; all’interno questo sarà sottoposto a due campi
magnetici fondamentali, subendone gli effetti. Uno è un campo magnetico statico ad altissima
intensità, costante e omogeneo, prodotto originariamente da una coppia di Helmoltz (due circuiti
circolari chiusi a corrente elettrica di identica intensità, coassiali e separati da una distanza pari al
loro raggio) o più contemporaneamente da un solenoide (circuito elettrico ad andamento
spiraliforme, che garantisce tanta maggiore omogeneità di campo magnetico al suo interno quanto
maggiore è il rapporto lunghezza/diametro).
I nuclei atomici dotati di momento magnetico e momento angolare sono detti spin e mostrano un
movimento di precessione giroscopica attorno alla direzione del campo magnetico esterno
(normalmente quello terrestre). Questo campo magnetico ha la funzione di allineare tutti gli spin dei
protoni di cui è costituito il corpo (principalmente quindi i nuclei di idrogeno dell’acqua largamente
presente nell’organismo) secondo la propria direzione, in modo da uniformarne l’orientamento.
L’asse attorno al quale compiono la precessione è detto direzione longitudinale, mentre il piano nel
quale si muovono è detto piano trasversale. Ogni spin adotta uno stato a bassa o ad alta energia,
rispettivamente parallelo o antiparallelo al vettore campo magnetico statico. In condizioni normali
la magnetizzazione netta integrata per tutti gli spin è un vettore parallelo al campo magnetico
statico. Ma ora entra in gioco l’altro campo magnetico, questa volta pulsato e intermittente, a
intensità molto inferiore rispetto all’altro, prodotto da bobine che emettono (e ricevono) stimoli
elettromagnetici nello spettro delle radiofrequenze, che disturbano il moto di precessione degli spin
attorno alla direzione del campo statico, a una determinata frequenza, detta frequenza di Larmor.
Applicando questo stimoli, in un processo detto di eccitazione degli spin, è possibile inclinare il
vettore di magnetizzazione globale dalla direzione longitudinale al piano trasversale, nonché
rendere uniformi le traiettorie di precessione di tutti gli spin, facendo sì che i movimenti giroscopici
avvengano, per tutti i protoni, in fase. Interrompendo lo stimolo eccitante (cosa che accade con un
periodo stabilito), è possibile diseccitare gli spin, facendoli tornare sulla direzione longitudinale e
perdere la fase del moto di precessione, tornando ciascuno in un punto diverso della traiettoria del
moto doppio-conico. Durante questo processo, essi emettono energia in radiofrequenza, che viene
captata dalle bobine della macchina. A seconda dei tempi di rilassamento longitudinale (ritorno sulla
direzione longitudinale dell’asse) e trasversale (perdita di fase del moto di precessione), si avranno
segnali di intensità diversa. Ora, il tempo di rilassamento trasversale è influenzato dall’omogeneità
del campo magnetico stesso, e si riduce violentemente per rapide perturbazioni di questo,
determinando perdita di segnale. L’emoglobina deossigenata ha proprio questo potere: perturbare il
campo magnetico in cui precedono gli spin, con conseguente rapida diminuzione dell’intensità di
segnale. La risonanza magnetica funzionale si basa su questo principio per determinare le zone
cerebrali in cui, sotto lo stimolo dell’attività neurale, si assiste ad aumento del flusso ematico locale.
L’emoglobina deossigenata è presente in un territorio reduce da attività metabolica e al momento
inattivo; in sua corrispondenza avremo dunque un segnale fMRI basso. Se in corrispondenza di
questo tessuto si assiste ad aumentato flusso ematico, questo, ricco di ossigeno, farà fluire via
l’emoglobina deossigenata, che smetterà di perturbare l’omogeneità del campo magnetico esterno,
con conseguente rapido aumento dell’intensità di segnale.
Questo tipo di contrasto è detto BOLD (blood-oxigenation-level dependent) contrast ed è ciò su cui
si basa gran parte degli studi neuroscientifici. Da questo segnale in flusso ematico, attraverso
opportuni algoritmi matematici che passano principalmente attraverso un’operazione di
deconvoluzione (identificazione di una somma di funzioni generatrici di una funzione data), si
ricava, nel contesto di un forte rumore, un segnale interpretabile come l’attività neurale di una
determinata area come funzione del tempo.
Attraverso queste e altre tecniche (principalmente PET) si è arrivati, dal 2001 al 2007, ma sulla
scorta di osservazioni iniziate negli anni ’80, a far emergere una rete di neuroni molto particolare,
chiamata Default Mode Network, sulla base della definizione che Raichle et al. formulano di stato
di default del cervello (default mode).
Una divergenza dogmatica riguardante il funzionamento cerebrale, questa più interna alle
neuroscienze, ma che di per sé di scientifico avrebbe poco, ha a che fare con l’essenza stessa
dell’attività neurale del cervello: è riflessiva o autoreferenziale? In altri termini, è guidata
principalmente dalle richieste momentanee dell’ambiente, o è sede di operazioni fondamentalmente
intrinseche volte alla soddisfazione o addirittura alla previsione delle richieste ambientali?
È da questo interrogativo teorico che discende il concetto, estremamente sofferto e criticato, di
“stato cerebrale di default”. Esso comporta l’idea che il cervello sia in condizioni di intensa attività
funzionale, cioè di connessione e comunicazione tra neuroni, durante gli stati in cui non risulta
evidente un diretto condizionamento di tipo “bottom up” da parte dell’ambiente.
Dopo aver definito attivazione il fenomeno per cui un’area cerebrale risulta più attiva in condizioni
di esecuzione di un compito che in condizioni di controllo (riposo, fissazione di uno scenario), e
deattivazione il fenomeno per cui un’area cerebrale risulta meno attiva in condizioni di esecuzione
di un compito che in condizioni di controllo, Raichle et al., 1987 continuarono le interessanti
osservazioni di Ingvar (anni 70) su aree del cervello che parevano deattivarsi durante condizioni di
attività mentale mirata (esecuzione di compiti attenzionali o computazionali). Una buona parte del
cervello aveva questo comportamento contrario all’intuitiva ipotesi dell’aumento della complessiva
attività cerebrale durante l’esecuzione di sforzi intellettivi. Quello che fu notato negli anni 90 fu che
non vi era differenza di attivazione in molte aree del cervello tra due stati fenomenologicamente
diversi: l’esecuzione di un compito di richiamo mnemonico di episodi (memoria episodica attiva) e
uno stato di riposo mentale (resting state, normalmente usato come controllo). In entrambi i casi,
ampie zone del cervello apparivano intensamente attive. Questo ha condotto all’idea indipendente
di una rete neurale con una propria autonomia, effettivamente più attiva durante le condizioni di
assenza di stimolo esterno o di concentrazione (cioè di riposo, di default) rispetto alle condizioni di
esecuzione di un compito (task condition), contro l’opinione di chi invece metteva in dubbio la reale
legittimità di uno stato di default, che non sarebbe stato altro che l’epifenomeno di un’attività
cerebrale che per quanto non elicitata da stimoli esterni, era comunque vissuta dall’economia
cerebrale come uno stato dedicato a funzioni ben precise e determinate (fissare lo sguardo, pensare
ai fatti propri), e non pertanto utilizzabile come stato di controllo, né tanto meno denominabile
“resting state”.
Per l’identificazione della struttura anatomica della DMN sono stati condotti dagli anni 90 in poi tre
ordini di studi fondamentali: studi in PET, studi in fMRI e studi di connettività. Nei primi due tipi di
studio, la modalità classica di ricerca delle aree cerebrali implicate nel mantenimento della
condizione di default era quella della presentazione di stimoli attenzionali, in corrispondenza dei
quali si valutava la distribuzione delle deattivazioni, per poi mapparle. Si è ipotizzato così che la
DMN fosse in effetti un ampio sistema cerebrale, o meglio un insieme di sottosistemi intimamente
correlati, che coinvolge aree cerebrali anatomicamente connesse e interagenti tra loro.
Attraverso questi studi si è arrivati ad avere informazioni coerenti le une con le altre in termini
anatomici. Gli studi PET (Shulman 2001, Shannon 2006) si basavano sul fatto che, richiedendo la
PET un tempo di acquisizione immagini pari a un minuto, era necessario somministrare al soggetto
un tempo di stimolo pari a circa il tempo di acquisizione: gli stimoli duravano così, nel tempo, e
l’attivazione (o la deattivazione) che era possibile ricercare nel cervello durava altrettanto. Si
parlava così di blocked task-induced deactivations. Vedi immagini relative.
L’esigenza di ricorrere alla fMRI (Dosenbach 2006; Shannon 2006) nella valutazione di tali
deattivazioni derivava dalla possibilità di accorciare i tempi di stimolazione attenzionale del
soggetto, escludendo così che le deattivazioni cerebrali valutate derivassero dall’eccessiva durata
dello stimolo in PET, durante la quale il segnale negativo emergesse da una lenta evoluzione di un
segnale costante sotto stimolo non modulato. Si parlava in questo caso di event-related task-induces
deactivation. Ma dalle valutazioni fMRI le aree di mappatura coincidevano abbastanza bene con
quelle PET.
Da ultimo gli studi di connettività (Grecius et al 2004) hanno messo in evidenza un profondo
legame anatomo-funzionale tra le regioni della DMN, mostrando come, indipendentemente da
qualsiasi forma di deattivazione della rete (task induced deactivation), la regione del cingolo
posteriore, un importante nucleo di attivazione della DMN, fosse correlata funzionalmente (e cioè
di attivasse contemporaneamente e in fase) con le molte altre aree cerebrali che in buona parte
coincidevano con le aree individuate negli studi precedenti.
La convergenza di tutti questi risultati assieme mostra che la DMN comprende una serie distribuita
di regioni che include le cortecce associative e risparmia la corteccia sentitiva e motoria. Le regioni
che mostrano convergenza completa tra tutti gli studi sono:
- Corteccia mediale frontale: essa risulta storicamente deputata alla percezione del sé, alle
attività di introspezione, al tono emotivo, alla flessibilità cognitiva e comportamentale (cioè
alla capacità di elaborare nuove strategie cognitive a fronte di scenari diversi)
- Corteccia del Cingolo posteriore, precuneo e formazione ippocampica: integrazione di
informazioni visuospaziali, memoria episodica
- Lobulo parietale inferiore: area associativa connessa allo sviluppo semantico.
Le aree attraverso verso le quali ogni area considerata manda le proprie proiezioni, sono diverse
anche sotto l’aspetto citoarchitettonico, e pertanto sulle loro potenzialità di connessione. In ogni
caso, i due nuclei fondamentali della DMN sono il cingolo posteriore (PCC) e la corteccia
prefrontale mediale (MPFC). Il cingolo posteriore è in particolare connesso con il lobo temporale
mediale, il lobulo parietale inferiore che si estende nella circonvoluzione temporale superiore e alla
corteccia prefrontale. Vedi immagini
A questo punto si può dire che la DMN è un insieme integrato di reti neurali che comprende molte
regioni cerebrali coattivate durante stati soggettualmente passivi, che mostrano correlazione
funzionale tra loro e sono connesse tra loro attraverso proiezioni anatomiche dirette o indirette.
Tuttavia, esistono prove a sostegno del fatto che le aree coinvolte nella DMN siano implicate anche
in altre funzioni per le quali sono specializzate, e alle quali sono dedicate sottoreti che convergono
in nuclei di smistamento comuni (hubs, parola che in inglese vuol dire sia il perno di una ruota a
raggi, sia un aeroporto da cui vengono smistate le rotte). Le reti di connettività danno informazione
non sull’attivazione o deattivazione della DMN in condizioni di sforzo o di riposo, bensì, dato il
segnale in un voxel o un segnale astratto, sui voxel, tra tutti quelli presenti nell’immagine del
cervello che rappresentano negli stessi tempi lo stesso segnale, indipendentemente dalla causa di
tale correlazione. Così, studi che mostrano mappe come questa (immagine di connettività, fig. 7)
non sono in contraddizione con quelle che mostrano la mappa della DMN a un dato stimolo o a
risposo.
Bisogna aggiungere che il costo energetico della DMN è elevato. Sono stati condotti diversi studi
(Minoshima et al 1997, Raichle 2001) in cui il mappaggio del metabolismo del glucosio in giovani
adulti a livello cerebrale mostrava un picco del 20% più elevato a livello della PCC che nel resto del
cervello. Per quanto non siano stati compiuti studi a proposito di un confronto diretto tra il
metabolismo della DMN e quello di aree esterne ad essa, tutti i dati sono concordi nell’affermare
che a livello della linea mediana posteriore, in prossimità del la corteccia del Cingolo posteriore, il
metabolismo è sproporzionatamente elevato. È stata ricercata persino una definizione fisiologica
specifica del metabolismo della DMN, che appariva ad alcuni autori (Reichle) diverso rispetto a
quello delle restanti regioni del cervello. Pareva infatti che si potesse postulare uno stato metabolico
fisiologico di default, definito come uno stato in cui ad un aumento del flusso ematico corrisponda
un aumento proporzionale del metabolismo ossidativo. Nelle regioni transitoriamente attivate
(all’esterno della DMN), all’aumento del flusso ematico non corrisponde un immediato aumento del
metabolismo dell’ossigeno, con iniziale diminuzione del rapporto tra ossigeno utilizzato
metabolicamente e ossigeno portato dal sangue (oxygen extraction fraction, OEF). Adesso nella
DMN Reichle cerca di dimostrare attraverso studi PET che ossigeno trasportato e metabolizzato
aumentano di pari passo, con conseguente mantenimento costante della OEF. Questo avrebbe
riformulato le deattivazioni della DMN in termini fisiologici diversi rispetto al resto delle aree
cerebrali, ontologizzando ancora più radicalmente il concetto di DMN all’interno del paradigma
neurofisiologico. Di fatto, d’altra parte, non è stato possibile dimostrare questo mantenimento di
uno stato metabolico di default, con polemiche ancora aperte sul tema.
Questi dati metabolici che fanno della rete in questione un importante motivo di dispendio
energetico aprono tutta l’argomentazione riguardante il significato evolutivo di tale destinazione.
Non è affatto noto a cosa siano devoluti i costosi processi neurali portati avanti, apparentemente e
principalmente durante lo stato di riposo, dalla DMN.
È comune l’esperienza di una vita mentale interiore. Se lasciati in assenza di compiti imminenti che
richiedano attenzione, ci troviamo presto a saltellare mentalmente da un pensiero all’altro in quello
che William James prima di James Joice chiama “flusso di coscienza”. Riviviamo episodi passati,
prevediamo e creiamo scenari futuri, e ci proiettiamo in realtà molto distanti da quelle che ci
circondano in modo immediato. Questi sono i processi mentali alla base della fantasia,
dell’immaginazione, della reverie e del pensiero. Si è cercato di capire e tutt’ora lo si sta facendo, se
e in che proporzione la DMN medi la formazione di tale pensiero spontaneo, come viene chiamato.
Visti gli stati di attivazione e disattivazione nelle diverse condizioni di riposo e di attenzione, è
molto probabile che la DMN sia il nucleo motore del pensiero spontaneo. L’inclinazione all’attività
mentale privata è una caratteristica personale nota sin dall’antichità; Platone definisce Socrate
“capace di stare tutto il giorno in piedi nel mercato, perso nei suoi pensieri e dimentico del mondo
che lo circondava”, tanto che il commediografo Aristofane lo dipinge “tra le nuvole” nella
commedia omonima.
I primi studi sperimentali sulla vita mentale interiore furono condotti, verso fine Ottocento, nel
contesto del movimento Introspettivo, sviluppato da Wilhelm Windt e dallo psicologo Edward
Titchener. I metodi introspettivi domandavano al soggetto di descrivere i contenuti della loro
esperienza mentale. L’assunto da cui tale teoria muoveva era la sufficienza di elementi di coscienza
di e di attributi di essa per determinare e descrivere la mente. La predominanza novecentesca del
behaviorismo, che invece poneva l’accento su fattori estrinseci all’elemento mentale interiore nella
spiegazione del carattere individuale e collettivo ha significato il venir meno dell’interesse in questa
epoca nello studio del pensiero spontaneo. Il behaviorismo rifiutava i metodi dell’introspezione in
quanto fondati sulla prospettiva in prima persona, e con essa sulla testimonianza soggettiva, in
quella che veniva definita una “dilazione della conoscenza dell’esperienza interiore”.
A riscoprire l’importanza del pensiero spontaneo fu nel 1966 Singer che consentì alla psicologia
neointrospettiva sperimentale di sviluppare un metodo per lo studio fenomenologico del pensiero
spontaneo nella forma principale del “sogno ad occhi aperti”. Tale metodo sperimentale prendeva
come variabili di studio differenze nella cognizione, misure psicologiche e movimenti oculari.
Inoltre riuscì a dimostrare la popolarità del fenomeno del sogno ad occhi aperti, comune al 96%
della popolazione e contenente elementi di vita quotidiana, avvenimenti recenti, pianificazioni ed
aspettative per il futuro. Sicuramente studi che mettono in correlazione misurazioni
comportamentali del pensiero spontaneo e attività della DMN sono critici per la comprensione del
ruolo di quest’ultima nella generazione di tali pensieri.
La DMN sembra implicata in diversi processi mentali che riguardano il pensiero spontaneo:
- La frequenza di SITs (stimulus-independent thougths), definiti come pensieri
fenomenologicamente riferiti aventi come oggetto qualcosa di diverso dall’ambiente
circostante. Si è inizialmente cercato di allenare i soggetti volontari al riconoscimento e alla
comunicazione dell’esperienza di un SIT. Successivamente sono stati condotti (Binder et al
1999; mcKiernan et al 2003) studi in fMRI che sia a riposo che sotto stimolo attenzionale
misuravano l’attività della DMN in correlazione con l’esperienza di SITs riferita dal
soggetto. All’aumentare delle esperienze SIT (più frequenti a riposo e sotto stimoli per i
quali i soggetti erano allenati rispetto alla condizione di stimolo attenzionale nuovo)
aumentava l'attività delle regioni DMN.
- Momentanei cali attenzionali: è esperienza quotidiana essere “sovrappensiero” e pertanto
scarsamente reattivi agli stimoli esterni, in quanto assorti nel proprio mondo interiore.
Fenomenologicamente è inoltre possibile esperire una sensazione di competizione tra stimoli
esterni e l’interesse verso i movimenti di pensiero spontaneo interiori. Questa esperienza ha
un effettivo correlato neurale, mostrato da Grecius e Menon (2004) in fMRI, che consiste,
nel cervello di soggetti a riposo stimolati talvolta da diversi tipi di intrusione dall’esterno,
nel manifestarsi del mantenimento in fase attiva della DMN, come durante il riposo, e nel
sovrapporsi a questa attività di quella delle aree sensitive elicitate dagli stimoli esterni. Nei
soggetti, con maggior attività DMN, si osservava inoltre spegnimento dell’attività sensitiva,
a suggerire un processo di competizione tra coalizioni neurali.
- Infine è esperienza dei ricercatori in Neuroscienze che lavorano in fMRI sperimentare un
segnale di fondo a carattere fluttuante attraverso tutte le regioni del cervello. Ebbene,
piuttosto che ascriverlo a rumore come a lungo è stato fatto e ancora si fa, Grecius,
Damoiseaux, Vincent et al 2005, 2006, mostrano come tale “rumore di fondo” sia
riconducibile ad attività positivamente correlata tra regioni anatomicamente distanti nel
cervello, e tutte appartenenti alla DMN. In particolare, le aree coinvolte sarebbero la MPFC
e la PCC. È stata avanzata l’ipotesi inoltre, che i pensieri spontanei di cui facciamo
esperienza quotidiana abbiano come condizione funzionale necessaria proprio queste
fluttuazioni, appunto spontanee.
L’interpretazione delle funzioni della DMN nel contesto mentale di un soggetto cosciente sono la
parte che più richiede intuizione e competenza trasversale da parte degli autori. A chiarire questi
interrogativi sono principalmente elementi sperimentali tratti da un lato dall’osservazione che a
fronte dei molteplici stimoli attenzionali esitanti in una deattivazione della DMN molte altre attività
mentali ne causano un incremento di segnale (si tratta di capire che cosa abbiano in comune tali
attività), dall’altro dall’anatomia delle aree coinvolte nella DMN, che mostrano ad esempio come
essa si avvalga dell’informazione mnemonica elaborata a livello del lobo temporale inferiore e della
formazione ippocampica. Due sono le ipotesi avanzate rispetto ai possibili ruoli della DMN, dunque
rispetto al suo significato evolutivo:
1. Ipotesi autoreferenziale: la rete è coinvolta nella produzione di pensieri che abbiano come
oggetto qualcosa di rilevante per il proprio “sé”, dove questo è concepito in una prospettiva
fondamentalmente mentale-intellettuale. Si tratterebbe di movimenti psiconautici del
soggetto verso condizioni quali richiami alla memoria autobiografica, proiezioni nel futuro e
concezione di prospettive altrui (theory of mind). Nel caso del richiamo di episodi passati, la
maggior parte delle regioni DMN risultano attivate (Svoboda et al. 2006). Nel caso della
“theory of mind”, diversi studi sono stati condotti a valutare l’attività cerebrale durante
l’assunzione di punti di vista appartenenti a soggetti diversi, nel contesto di storie narrate,
piuttosto che, ad es., di confronto tra condizioni in cui il soggetto seguiva il punto di vista di
un uomo rispetto a un evento e in cui il soggetto pensava a una fotocamera che acquisiva
un’immagine di un ambiente. L’elemento interessante in tutto ciò (Saxe, Powell, 2006) sta
nel fatto che la DMN non risponde a stimoli riguardanti percezioni sensoriali o corporee di
altri soggetti (ho freddo, ho fame) né fattezze fisiche, bensì esclusivamente a informazioni
riguardanti il pensiero di altri soggetti. Anche durante la proiezione di scenari futuri
accadono fenomeni simili. È stata notata inoltre un’attività della DMN in corrispondenza di
valutazioni morali, sociali e politiche: se il pensiero di una persona interlocutrice veniva
ritenuto morale o socio-politicamente affine al proprio “sé cognitivo”, l’area MPFC si
attivava intensamente, non in caso contrario.
Si è cercato di cogliere a questo punto che cosa avessero in comune tutte le azioni messe in
evidenza dall’attivazione della DMN: probabilmente la flessibilità cognitiva. In tutti questi
diversissimi casi studiati, la costante fenomenologica coincide con la capacità del soggetto
di produrre scenari alternativi a quello presente ed esperibile attraverso i sensi. Nel contesto
di tale assunto, si è pensato di leggere l’architettura della DMN come costituita da due
nuclei funzionalmente distinti ma integrati: da un lato la corteccia parietale inferiore, che
unitamente alla formazione ippocampica avrebbe il ruolo di richiamare dalla memoria del
passato determinati elementi. Dall’altro la corteccia prefrontale mediale che valuterebbe
l’adeguatezza a un proprio sé (qualunque cosa esso sia) delle condizioni cognitive in esame,
passate, future o altrui, ma sempre alternative a quelle presenti. L’insieme di queste strutture
avrebbe lo scopo di costruire una sorta di “simulatore di vita” col quale vagliare, esplorare e
anticipare scenari reali di carattere sociale o ambientale. I ricordi del passato riemergono nel
contesto della DMN solo nella misura in cui rilevanti per l’addestramento, la guida di tale
simulatore di realtà.
2. Ipotesi di monitoraggio ambientale: nelle implicazioni ultime non differisce in modo
nettissimo dalla precedente. Ma se ne distacca sicuramente per il peso che dà alla situazione
presente ambientale circostante, piuttosto che al mondo interiore. Questa ipotesi sfuma i
confini tra la percezione attenzionale focale e il monitoraggio generale dell’ambiente,
risolvendo la prima come un caso particolare del secondo, come conseguenza, per così dire,
della diminuzione dei gradi di libertà del sistema attenzionale. Nel caso della DMN, si
tratterebbe, nelle condizioni di “resting state”, dell’espletazione di una funzione sentinella,
non cioè di attenzione a un particolare oggetto percepito (relativamente prevedibile nella sua
mutabilità), ma di energeticamente razionale distribuzione delle stesse risorse attenzionali su
un pannello molto più ampio di variabilità ambientale, onde poter prevedere nel modo più
efficace possibile, ossia minimizzando la sorpresa (vedi Bayes, Clark) l’eventualità
imminentemente futura. L’ampliamento dell’orizzonte di percezione ambientale
coinciderebbe, internamente, col distacco dalle condizioni ambientali effettive e con la
rappresentazione di scenari diversi e di pensieri spontanei: le informazioni provenienti
dall’esterno infatti non sarebbero ricercate programmaticamente, ma affluirebbero
casualmente in un ricettacolo stocastico di percezioni indefinite. È interessante notare a
sostegno di questa tesi che lesioni della porzione posteriore della DMN (cuneo e precuneo)
portano alla Sindrome di Balint, caratterizzata da una visione “a tunnel”, in cui il focus
attenzionale visivo è molto limitato e fuori di esso ogni possibile mutazione, ogni stimolo
non viene colto.
È da notare come esista una sorta di “doppio” della DMN, o meglio un suo alter ego. Una rete che è
stato evidenziato attivarsi nei momenti opposti rispetto a quelli in cui si attiva la DMN, in gergo,
anticorrelata (correlata negativamente) alla DMN è rappresentata in figura. È stata chiamata “Task
Positive Network” e pare essere implicata nelle attività di restrizione del focus attenzionale diretto
verso oggetti percepiti in quanto provenienti dall’ambiente circostante (comprende parte delle aree
sensitive e della corteccia visiva). È possibile dunque che il cervello passi alternativamente da una
all’altra modalità di funzionamento e che queste due condizioni stiano tra loro in rapporto di
competitività. Si è pensato inoltre che a “dirigere” tale passaggio e tale allocazione di risorse neurali
potesse esserci un’ulteriore area gerarchicamente più elevata, come la corteccia frontale.
Alternativamente, il passaggio da uno stato di distacco attenzionale volto al mantenimento di una
continuità psichica interiore a uno stato “bottom-up”, determinato da condizioni esterne e
focalizzato attenzionalmente potrebbe essere solo il risultato della diretta inibizione reciproca dei
due supersistemi neurali.
Esistono notevoli rilevanze patologiche dell’individuazione della DMN nell’uomo:
1. Autismo: è un disordine dello sviluppo cognitivo che comporta un indebolimento delle
interazioni sociali e delle capacità comunicative, con sintomi emergenti nella prima infanzia
e comprendenti comportamenti ripetitivi e stereotipati. È stato ipotizzato che un deficit di
attività della DMN comporti il carattere fondamentale dell’autismo e cioè, unitamente alla
incapacità di cogliere le emozioni altrui (vedi neuroni specchio), la scarsa o nulla attitudine
all’assunzione del punto di vista altrui, con conseguente difficoltà nella risoluzione di
problemi quali quelli proposti dalla “theory of mind”. Una alterazione della frequenza di
scarica della DMN, rintracciata in questi soggetti, assieme al reperto di un volume medio
ridotto della corteccia prefrontale mediale (MPFC) possono essere alla base di tale
patologia.
2. Schizofrenia: malattia mentale caratterizzata da alterate percezioni di realtà, allucinazioni
uditive, delusioni, eloquio disorganizzato etc. L’alterata attribuzione dei propri pensieri
invece che a se stessi, ad un’altra persona tipica dello schizofrenico, ha messo in
correlazione la malattia ad un’alterata funzionalità della DMN, deputata appunto
all’organizzazione dei pensieri non elicitati da stimoli ambientali esterni, bensì, propri
afferenti in qualche modo a un “sé”. In particolare si è pensato ad un’eccessiva attività della
DMN, con conseguente diminuzione del focus attenzionale orientato agli stimoli esterni,
oggetto della Task Positive Network. Se, come si è sostenuto, il meccanismo orchestrale di
alternanza tra DMN e Task Positive si trova da qualche parte nella corteccia frontale, è
possibile che un’alterazione di tale sistema di controllo sia implicata nella patogenesi della
schizofrenia.
3. Malattia di Alzheimer: è una forma di demenza progressiva tipica dell’età senile. I sintomi
iniziali sono difficoltà mnemoniche ma col tempo anche esecutive. Si è inizialmente
registrata nei pazienti con Alzheimer una minore attività metabolica nell’area della DMN in
confronto alla media sana per età, soprattutto a livello del Cingolo posteriore. Ma l’ipotesi
patogenetica più allettante sta nell’individuazione di un nesso causa-effetto tra l’attività
metabolica neurale e la probabilità di produzione intracellulare di proteine mal ripiegate
(beta-amiloide) che precipitando nei neuroni ne causano la morte. Ora, mappando le aree
cerebrali di precipitazione della beta-amiloide, è stata dimostrata la predilezione netta di tale
fenomeno per le aree coincidenti con la DMN, dato coerente con il coinvolgimento di aree
mnemoniche nella DMN stessa. L’attività metabolica elevata della rete comporta più elevata
probabilità di deposito amiloide che in altre aree; ciò è inoltre in linea con l’osservazione
che soggetti che durante la vita hanno esercitato l’attenzione in compiti intellettuali
complicati (cioè che hanno diminuito l’attività metabolica della DMN nel corso della vita)
hanno minore probabilità di sviluppare la malattia di Alzheimer.
II. Fondamenti epistemologici delle neuroscienze cognitive
Il tentativo più fruttuoso di produrre l’emancipazione della psicologia dalla filosofia, spingendola
nell’alveo delle scienze naturali è sicuramente la fondazione, nella seconda metà dell’Ottocento,
della psicofisica (Ernst Heinrich Weber e Gustav Theodor Fechner), branca della psicologia che
studia le relazioni che esistono tra gli stioli fisici e misurabili (luminosi, tattili, acustici…) e la
risposta, intesa come intensità percepita agli stimoli stessi. Su questa apparente soggettualità e
personalità (individualità) di prospettiva legata alla definizione della psicofisica, e successivamente
delle scienze cognitive torneremo con la critica fenomenologica, che ne sottolineerà la natura
sofistica e ingannevole, individuata nella mancanza di corrispondenza tra ciò cui la scienza si
riferisce come “percezione” (per definizione cosciente) e la reale esperienza in prima persona.
La psicofisica ha avuto il suo trionfo con l’approdo concettuale alla legge di Weber-Fechner.
i. MATERIALISMO
Gran parte del dibattito sul problema mente-corpo e sul tema della coscienza umana, prende le
mosse dalla reazione epistemologica alla radicalizzazione scientifica di posizioni tardopositivistiche, appunto nella psicofisica. In ogni caso la più ampia porzione del dibattito
contemporaneo mente-corpo va sotto il nome di Materialismo o Fisicalismo minimale, e si declina
in almeno cinque versioni logiche, portate avanti da diversi pensatori. Esse, semplificando
notevolmente, si può dire abbiano in comune i seguenti assunti:
- Gli stati mentali dipendono ontologicamente dagli stati fisici (c’è una primazia ontologica
degli stati fisici): non ci sono stati mentali se non c’è substrato fisico. Gli stati mentali non
sono mai disincarnati.
- Stabiliti gli stati fisici, anche quelli mentali risultano determinati. Le caratteristiche degli
stati mentali sono determinate dagli stati fisici. (Sarebbe più debole dire che il fisico covaria
col mentale, cioè al variare del mentale varia anche il fisico, una posizione questa detta
“della Sopravvenienza”, vedi sotto).
Il primo tipo di materialismo è la teoria dell’identità dei tipi (Smart, Place), o materialismo
australiano, che sostiene che gli stati mentali sono descrizioni di tipi di entità la cui descrizione più
adatta è quella in termini fisici. In altri termini, il linguaggio della scienza (della natura) e il
linguaggio della psicologia tradizionale (che descrive gli stati mentali in termini di tranquillità,
ansia, paura,…) si riferiscono entrambi a un terzo fenomeno, esterno ad ambo i linguaggi, al quale
però risulta più acconcia la descrizione scientifica.
L’obiezione classica è quella della multi-realizzabilità degli stati mentali, che è simile a quella di
Kripke, secondo cui deve essere necessaria la connessione fra stati mentali e stati fisici. Se “dolore”
è un designatore rigido e “fibre-C” è un designatore rigido, allora dire che “il dolore è identico alle
fibre-C” è una verità necessaria, mentre non abbiamo buone ragioni per pensare che il dolore non si
incorpori in altre fibre. In generale gli stati mentali di persone diverse o di specie diverse possono
avere realizzazioni del tutto diverse. Il punto è che in alcuni casi la scienza naturale ci aiuta a
giustificare tale necessità, ma solo in alcuni casi. In effetti il dolore alla gamba e la stimolazione dei
nervi della gamba possono essere identici con una certa necessità, visto che sono localizzati nello
stesso luogo. In altre parole, la teoria dell’identità dei tipi potrebbe essere validata se si dimostrasse
che in tutti i casi a un determinato stato mentale o percettivo corrisponde la stessa tipologia (tipo) di
attivazione neurale. Si tratta di una corrispondenza fatta valere tra tipi, cioè tra universali, e non tra
enti (eventi od oggetti individuali). Il limite è che tale corrispondenza non è dimostratamente 1:1.
Anzi, è abbastanza indiscusso che, per alcune percezioni superiori e complesse, come la visione di
uno scenario qualsiasi, non corrispondano per un dato stimolo ripetuto nel tempo, le stesse
attivazioni di coalizioni neurali nella corteccia visiva. Dunque la teoria dell’identità dei tipi può
valere solo per quella parte in cui è effettivamente dimostrata.
Il superamento della teoria dell’identità dei tipi, è rappresentato da quella che viene chiamata
“identità delle occorrenze” (Davidson, nel saggio “Mental Events” 1970), secondo la quale stati
mentali e stati fisici sono due descrizioni della stessa cosa, intesa però come singolo individuo. A
favore di questa teoria c’è il fatto che stati mentali e stati fisici sembrano interagire, quando ad es.
prendiamo una decisione (mentale-fisico), o quando udiamo una brutta notizia (fisico-mentale).
L’argomento della multirealizzabilità ha portato il pensiero a elaborare altre teorie, che in modo più
debole, mantenessero validi i principi materialisti. Nell’articolo il problema mente-corpo viene
impostato come un problema di causalità mentale: come è possibile che gli eventi mentali causino
gli eventi fisici se il mentale è in qualche modo distinto dal fisico? Questa posizione segnerà in
modo decisivo tutto il dibattito successivo. L’argomento della multirealizzabilità dimostra che è
inverosimile che un tipo mentale sia identico a un tipo fisico, ma non esclude affatto che un singolo
evento mentale sia identico a un particolare evento fisico: il mio dolore all’istante t1 è una certa
condizione cerebrale all’istante t1; il mio dolore all’istante t2 è un’altra condizione cerebrale a t2
etc (e lo stesso per altri generi di eventi mentali).
Il monismo anomalo è la posizione proposta nel saggio di Davisdson. Consiste essenzialmente nelle
congiunzione di due tesi:
1. Gli eventi mentali sono identici agli eventi fisici (monismo; cfr monismo neutrale che
sostiene che non ci sia un linguaggio preferenziale tra quello psicologico-esperienziale e
quello fisico nella descrizione dei fenomeni mentali: argomento alternativo all’identità dei
tipi)
2. Gli eventi mentali non sono sussumubili sotto leggi psicologiche o psico-fisiche (anomalia
del mentale). Si tratta di un materialismo minimale, puramente metafisico, che non lascia
alcuno spazio alla possibilità di spiegare i fenomeni psicologici in termini biologici e
nemmeno all’idea che la psicologia possa essere una scienza completamente naturale.
Il monismo materialista viene dedotto da Davidson in base all'argomentazione che esso offre l’unico
modo di rendere coerenti tre principi a suo giudizio irrinunciabili:
1. Almeno alcuni eventi mentali hanno interazioni causali con eventi fisici (natura causale
degli eventi mentali)
2. Le relazioni causali sono esemplificazioni di leggi (carattere nomologico della causalità)
3. Gli eventi mentali non ricadono sotto leggi deterministiche (natura anomala del mentale).
Mentre il principio 2 è dato per scontato, per quanto in sé controverso, il principio 3 viene
giustificato e dimostrato nei seguenti termini. Non è legittimo formulare predicati psico-fisici, cioè
far corrispondere a predicati mentali, predicati fisici in quanto gli uni e gli altri sono tra loro
incommensurabili. Mentre infatti i primi si basano su presupposti normativi, i secondi su
presupposti descrittivi; ne risulta l’assurdo di voler ricavare un enunciato a carattere descrittivo,
tipico della fisica, da uno a carattere normativo, tipico della psicologia. L’argomento è
evidentemente aprioristico, e vale per gli stati mentali superiori (es. nostalgia per il paese natale,
…).
La deduzione della teoria dell’identità di occorrenza avviene dunque così:
se m causa p, m e p devono essere sussunti sotto una legge deterministica (principio 2). Ma allora m
deve avere una descrizione fisica (per il principio 3) e quindi, per definizione di “fisico”, è un
evento fisico. “se m cade sotto una legge fisica, ha una descrizione fisica, e cioè è un evento fisico”.
La teoria dell’identità di tipo implica la teoria dell’identità di occorrenza ma non viceversa: la prima
è una teoria più forte della seconda; nondimeno la teoria dell’identità di occorrenza è una teoria
fisicalista, perché continua a identificare i fenomeni mentali con fenomeni fisici.
L’identità delle occorrenze è una teoria scientificamente non controllabile, poiché si riferisce a
individui e non a proprietà. Infatti la scienza non si occupa degli stati mentali e dei neuroni di Tizio,
ma di certi tipi di stati mentali e di certi tipi di neuroni, cioè di universali (la scienza è universale e
necessaria).
La forma di materialismo che oggi va più di moda è diventata quella di Kim della sopravvenienza
forte del mentale sul fisico. Cioè dualismo delle proprietà, ma quelle mentali sono del tutto
determinate da quelle fisiche. In alcuni casi questo è senz’altro vero; lo provano le neuroscienze, ma
solo in alcuni casi. Non si può generalizzare all’intera vita mentale senza ulteriori ricerche. Nella
sopravvenienza si sostiene che:
1. Il mentale dipende ontologicamente dal fisico (è il fisico che determina il mentale e non
viceversa)
2. Il fisico covaria col mentale (dato un insieme di proprietà A e un altro B, B sopravviene ad A
se non ci può essere una B-differenza senza che non ci sia una A-differenza). Se F1 = F2,
necessariamente M1 = M2.
(azzarderei che: teoria dell’identità dell’occorrenza + realizzabilità multipla = sopravvenienza, ma
non viceversa, perché la sopravvenienza è indipendente per quanto storicamente legata alla r.m).
La sopravvenienza è una tesi abbastanza debole, che mette in relazione inscindibile due serie di
fenomeni, senza però dire nulla su come dall’una si passi all’altra. Si tratta solo di correlazioni; non
c’è riduzione degli stati mentali a quelli fisici, in quanto la riduzione (riduzionismo) richiede come
minimo la teoria dell’identità delle occorrenze.
Più che la sopravvenienza forte, sembra valere quella che Broad chiamava “emergenza”, cioè le
proprietà mentali sono sempre concomitanti a proprietà fisiche, ma in generale non si conoscono
leggi che determinano le prime sulla base delle seconde. Non esistono stati mentali che non siano
fisici, anche se non in rapporto 1:1 come per la sopravvenienza, ma anche: gli stati mentali sono
proprietà emergenti da sistemi complessi a carattere olistico, in cui il tutto è ben più della somma
delle parti.
Il funzionalismo minimale (Fodor) sostiene che gli stati mentali sono determinate strutture causali,
modellate in particolare secondo gli schemi di una macchina di Turing. Tutte le forme di
ragionamento umano, tutti gli stati intellettuali, sono riconducibili, con più o meno plasticità, al
funzionamento di un sistema integrato di calcolatori minimali. E’ un programma di ricerca
materialista che ha dato risultati eccezionali, come la linguistica di Chomsky, la teoria della visione
di Marr, i modelli mentali di Johnson-Laird ecc. Esso ha un limite intrinseco che è quello dei qualia.
I qualia (plurale neutro latino di quale, is cioè qualità, attributo, modo) sono, nella filosofia della
mente, gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti. Ogni esperienza cosciente ha una sensazione
qualitativa diversa da un’altra. Ad esempio, l’esperienza che proviamo nell’assaporare un gelato è
qualitativamente diversa da quella che cogliamo quando contempliamo La Gioconda di Leonardo.
Secondo i loro sostenitori, quindi, i qualia sono estremamente specifici e caratterizzano
essenzialmente le singole esperienze coscienti. John Searle ha recentemente sostenuto che «ogni
stato cosciente è caratterizzato da una sensazione qualitativa»; pertanto, qualsiasi esperienza
cosciente comporterebbe una sensazione qualitativa particolare, dall’esperienza del dolore ad un
semplice calcolo aritmetico. Searle infatti afferma che la semplice esperienza, ad esempio,
dell’addizione cambia qualità a seconda della lingua in cui è stata eseguita l’operazione. Così ogni
esperienza cosciente ha una qualità a seconda del modo in cui accede alla coscienza.
Mentre nella teoria dell’identità i qualia venivano identificati con strutture fisiche, nel
funzionalismo non è possibile, poiché lo stato mentale è identico non allo stato fisico, ma alla sua
struttura. Per cui il funzionalismo resta con il problema aperto dei qualia: argomenti di Jackson e di
Nagel.
ii. FENOMENOLOGIA
Esistono numerosissimi ingressi al pensiero fenomenologico, che fa capo al filosofo novecentesco
Edmund Husserl. Esula dai propositi di questa relazione darne una definizione tecnica esaustiva,
non però il delinearne le ricadute sul dibattito sulla legittimità delle neuroscienze nella definizione
della coscienza, che in effetti la fenomenologia nega in assoluto. Non nega tuttavia la legittimità di
studio neuroscientifico di problemi minori associati alla coscienza (i cosiddetti soft problems di
Chalmers), come la percezione cosciente del colore, o la percezione cosciente di qualsivoglia
oggetto di senso. È sulla coscienza in quanto tale, sull’esperienza di essere situati, sul “Sentimento
di esistere” per dirla con Varela (definizione fenomenologia della coscienza), che la fenomenologia
cerca di rendere consapevole la scienza di impossibilità teoretica e della sua velleità destinata allo
scorno.
Partendo dall’imaging neuroscientifico, la fenomenologia potrebbe osservare come in un contesto
sperimentale in cui il soggetto viene posto all’interno di uno scanner che ne osserverà l’attività
cerebrale, l’esperimento stesso non possa prescindere dalla richiesta verbale al soggetto stesso di
resoconti esperienziali sugli stati di coscienza studiati (vedi quanto detto prima sulla DMN). Questo
proverebbe l’incapacità assoluta di bypassare la coscienza, che si configura come una dato
ineliminabile e ontologicamente primario e primitivo. In altri termini non è possibile derivare
(leggere come secondaria) la coscienza da (a) un substrato fondamentale di tipo materialistico, e
come tale studiato dalla fisica. “L’essenza della coscienza è la sua impossibilità di essere eliminata”,
Paci.
Tuttavia questo pensiero è stato a lungo travisato come tentativo di configurare una nuova
impostazione di stampo idealistico che valesse sul piano gnoseoepistemologico molto più
precisamente di quelle ottocentesche (Fichte, Hegel,…), e che si ponesse in dialogo con Berkeley. Il
fenomenologo autentico, al contrario, si rivolge non solo e non tanto ai filosofi, quanto agli
scienziati al fine di illuminarli su un metodo scientifico innovativo, di apertura allo studio
dell’oggetto senza l’esclusione del soggetto. La coscienza non interessa ai fenomenologi in sé, bensì
come accesso al mondo. Pare necessario destare la scienza dal torpore moderno dettato dall’errore,
giustificato dall’applicabilità della conoscenza, per cui non è stato riconosciuto (da Galileo in poi) il
mondo della vita soggettiva come fondamento della conoscenza del mondo fisico, che è stato
epurato di ogni residuo qualitativo di soggettività, almeno apparentemente.
L’epochè cui Husserl si riferisce consiste nel “mettere tra parentesi tutto ciò che ci appare naturale
perché si riveli, da sé, il legame ineliminabile della coscienza con i suoi oggetti”, dove con
“naturale” si riferisce alla familiarità con cui ormai ci rapportiamo ai portati scientifici, colti come
inderogabili. Da questo dubbio fondamentale Husserl muoveva verso la fondazione di una scienza
rigorosa e nuova, che trasformasse “le intuizioni profonde in forme razionali inequivocabili”. Si
tratta di risalire primordialmente al mondo così come appare, pre-scientifico, per usare le intuizioni
che si hanno di esso come materiale per l’individuazione di invarianti strutturali intersoggettive, che
siano la base per la formazione di nuovi saldi concetti, nel loro genere oggettivamente validi.
L’operazione effettuata dalla scienza (fisica) moderna coincide di fatto con l’espulsione dal campo
della verificabilità e quindi della verità di tutto quanto attiene alla sfera dell’esperienza, sulla quale
non vi è accordo intersoggettivo. L’eliminazione della vita vissuta dalla verità si traduce nel
delineamento di un mondo scevro da ogni qualità, e costituito solo di relazioni tra fenomeni, un
mondo per così dire in bianco e nero, la cui essenza è strutturale, generalmente fatta di matematica,
ma anche di affermazioni come “i cervelli sono organi costituiti da neuroni e cellule gliali”. Così dal
mondo della vita i vari ambiti esperiti si sono trasformati in ambiti conoscitivo-applicativi,
formalizzati in vario modo: dalle sensazioni termiche esperite tattilmente, alla termodinamica;
dall’esperienza del movimento alla meccanica e alla cinematica; dall’esperienza della vita alla
biologia. Questo processo di isolamento delle qualità esperibili può essere ipostatizzato, reso
metafisico in due maniere: secondo i principi del riduzionismo o quelli del dualismo. Nel primo
caso si avrà l’idea che ogni qualità esperibile sia un epifenomeno di un reale fondamento strutturale
coglibile scientificamente, nel secondo si reificherà insieme alla materia inerte della fisica anche
una sostanza “pensante” o “esperiente” che renda ragione di questo effettivo ed ineliminabile fatto
della vita. Per la fenomenologia la coscienza rimane ontologicamente primaria: le stesse conclusioni
della scienza fisica, teoretiche e sperimentali sono colte nel loro lato soggettivo, che evidenzia la
permanenza di giudizio nelle prime, e di percezione sensibile nelle seconde. Nella scienza, tuttavia,
a differenza che nella vita, tali giudizi e percezioni rimangono invarianti intersoggettive. Ora, visto
che la coscienza – si argomenta – è per definizione esperibile solo in prima persona, risulta sterile il
tentativo della scienza di spiegarla in terza, rivelandosi come il rovesciamento di prospettiva della
lezione fenomenologica, e cioè l’utilizzo di strutture ottenute eliminando l’esperienza per spiegare
l’esperienza stessa.
[mio commento: l’esperienza si mantiene anche nella scienza, solo che è invariante. Da qui il ponte
della neurofenomenologia di Varela].
Il clou della fenomenologia rispetto alle neuroscienze sta probabilmente nella distinzione tra
l’esperienza cosciente e i fenomeni e gli oggetti naturali. Gli oggetti del mondo naturale sono dati in
modo sempre incompleto, in quanto presuppongono il preconcetto della scienza, la domanda
galileiana che viene posta alla natura e alla quale solo la natura risponde. Si conoscono gli oggetti
naturali sono nella misura in cui noi ce ne figuriamo l’essere, in modo aprioristico. L’esperienza
futura potrà così senz’altro smentire l’apparente verità presente, mostrando come l’oggetto non
corrisponda a un modello aprioristico, bensì a un altro (vedi fisica classica/ meccanica quantistica/
relatività). L’esperienza cosciente invece è per definizione immediatamente e completamente data, e
mai nessuna esperienza cosciente futura potrà sconfermare quella passata: potrà solo prenderne il
posto. Ogni ascrizione di esistenza presuppone l’esistenza di un’esperienza cosciente.
Ne risulta dunque da un lato un sapere parzialmente dato e relazionale (strutturale), che sacrifica le
qualità (qualia) sull’altare della precisione, dall’altro un’esperienza soggettiva, ricca di qualità,
completamente data. Il problema mente/corpo risulta quello di coniugare, trovare un nesso tra il
primo e il secondo ambito. Di nuovo, i modi trovati dalla filosofia analitica per risolvere il problema
sono due:
- Neo-dualismo (Chalmers) che adotta una metafisica “double face” nella quale il mondo
fisico possiede sia proprietà relazionali (prese in considerazione dalla fisica) sia una sorta di
proprietà non relazionali che renderebbero conto dell’esperienza cosciente (possiederebbe in
qualche modo una proprietà non strutturale che renderebbe possibile la coscienza). Il
tentativo fatto di delineare le caratteristiche di questo secondo ordine di proprietà del mondo
fisico tuttavia è molto debole: Chalmers finisce per usare termini esperienziali per
descriverlo, termini esperienziali (già fenomenologici) dei quali, cadendo in un circolo
vizioso, egli vuole rendere ragione esplorando il mondo fisico.
- Materialismo (visto sopra): secondo questa lettura tutto è riducibile a struttura (studiata dalla
scienza), persino la coscienza. Ma se la coscienza è solo struttura, allora perderebbe la
qualità di prima persona singolare che ne è l’essenza, e la lezione della fenomenologia viene
completamente trascurata.
La fenomenologia, di concerto col neodualismo di Chalmers, cerca di ammonire sul fatto che ci
siano due ordini di problemi trattabili in fatto di coscienza: un primo ordine (detto soft problem)
relativo a ogni contenuto di coscienza. Questo si occupa delle percezioni (dei colori, degli odori),
degli stati di coscienza (il sonno, l’allucinazione, la veglia), delle funzioni (il ricordo, la memoria)
etc. Esso pare discretamente trattabile scientificamente, perché spezzetta la coscienza in problemi
molto più piccoli e semplici. Tuttavia, la fenomenologia ritiene molto probabilmente illusoria la
speranza neuroscientifica che risolvendo un numero sufficiente di soft problems si arrivi a definire
il hard problem, che configura invece la spiegazione dell’esperienza stessa di vivere, di esserci, di
essere situati, qualunque sia il contenuto dell’esperienza.
A questo proposito si fa l’esempio del colore e della percezione cosciente del colore. Si tratta di un
soft problem, tanto è vero che la catena neurale della percezione cromatica è estremamente definita
in neurofisiologia. È possibile tuttavia ridurre l’esperienza cosciente del colore blu ai fenomeni
fisici che avvengono durante tale percezione? La fenomenologia risponde di no, per due ordini di
motivi:
- Che la correlazione tra i fenomeni fisici e le caratteristiche dell’esperienza cosciente è
imperfetta. In particolare, tra la lunghezza d’onda e la percezione del colore. Esistono molte
più esperienze coscienti che loro correlati neurali. Non c’è una correlazione 1:1 tra
l’esperienza dei colori e i diversi flussi di luce monocromatica in direzione della retina. Per
-
esempio, la combinazione di luci monocromatiche rossa e blu non dà origine alla percezione
di un rosso bluoso ma di un viola, che corrisponde a una radiazione monocromatica a
lunghezza d’onda inferiore sia del blu che del rosso.
Questi fenomeni sono stati spiegati come frutto di ulteriore ricerca: sono stati individuati
nella retina tre tipi di cellule foto-cromosensibili (coni) , che all’interno presentano diversi
fotopigmenti (opsine, molecole che cambiano di struttura a contatto coi fotoni inibendo la
produzione di glutammato del neurone in cui si trovano e mediando il processo di
trasduzione del segnale luminoso in nervoso). Questo rende in qualche modo ragione della
mancata corrispondenza diretta tra lunghezza d’onda fotonica e colore percepito: si sono
individuati alcuni elementi strutturali nell’esperienza riportata che possono essere fatti
corrispondere a nozioni strutturali riguardanti oggetti naturali. Nella seconda metà del XX
secolo è stato possibile anche individuare le regioni di elaborazione e di associazione delle
informazioni retiniche. I segnali in uscita dai coni sono affinati dal sistema neurale della
retina e dopo un complesso circuito cerebrale, sono proiettati a livello di V1. Questa
porzione di corteccia comprende colonne cellulari associate specificamente alle diverse tinte
cromatiche, che cioè scaricano selettivamente per i singoli colori. Tuttavia di nuovo non era
possibile individuare una corrispondenza diretta tra i colori esperiti soggettualmente e
l’attivazione delle colonne cromatiche a livello di V1. La corrispondenza è successivamente
stata incrementata da ulteriore lavoro fisiologico, che ha portato all’individuazione delle
aree V4-V8, la cui attività è in correlazione più stretta con la percezinone soggettiva del
colore, comprese quelle legate all’ombra e alla luce del giorno. Ma di nuovo la percezione
dei colori comporta molti ingredienti addizionali come il movimento, l’orientazione e
l’attività, che sono processate in porzioni diverse del cervello. Non pare possa esservi fine a
questa ricerca sui correlati neurofisiologici della percezione cromatica.
“gli scienziati che ritengono che risolvendo molti “soft problems” sulla coscienza un giorno
chiariranno il problema più ostico (“hard problem”) della sua intera origine fisica, paiono
come chi crede che camminando abbastanza a lungo, sia possibile raggiungere la linea
dell’orizzonte”, Michel Bitbol (NeuroQuantology, 2008).
Non esiste una connessione concettuale né alcun modo di figurarsi un passaggio tra la
lunghezza d’onda della luce, l’attività di strutture neurali, e l’esperienza soggettuale di un
colore. Thomas Nagel (1974, 1986) ha sostenuto appunto che dal livello oggettivo della
fisiologia non è possibile arrivare al livello soggettivo della fenomenologia.
Da ultimo è importante sottolineare un punto su cui Bitbol (uno dei principali filosofi di pensiero
fenomenologico viventi) mostra, come conseguenza di quanto detto. Il lessico delle scienze
cognitive, tra cui anche quello delle neuro-scienze cognitive, usa termini propri della psicologia
tradizionale e dell’esperienza cosciente, negando loro però la luce della coscienza. I termini come
pensare, percepire, credere, capire, memoria, opinione sono termini che in prima istanza, per essere
capiti, vanno vissuti. Non è sufficiente usarli in terza persona, e connetterli con fenomeni
osservabili dalla neurofisiologia, per renderli esaustivi semanticamente e per, così, giustificare la
riduzionistica coincidenza di quei fenomeni con l’esperienza cosciente.
iii. DANIEL C. DENNETT
a. Dennett contro il teatro cartesiano
Egli assume un atteggiamento metodologico teso a minare alla base inveterate consuetudini di
pensiero che in modo consapevole da parte di filocartesiani, o inconscio da parte di scienziati
fautori di una prospettiva materialistica, avallavano una visione in certo senso metafisica della
mente umana, il concetto di dualismo. L’ovvietà della inconsistenza dell’antica tesi cartesiana della
ghiandola pineale (epifisi) come sede dell’incontro tra res cogitans e res extensa, tra pensiero e
materia, tra mente e cervello, perde tutta la sua potenza ironica se ci si rende conto di quanto la
stessa posizione sia radicata e nascosta nelle più prestigiose teorie scientifiche della coscienza. Non
ridiamo più di Cartesio se ci accorgiamo di quanto poco distanti da lui siano alcuni importanti filoni
di pensiero coscienziale moderno e contemporaneo, tanto meno in quanto i loro sostenitori se ne
sentono completamente liberati. Il nocciolo secondo Dennett erroneo dell’impianto epistemico in
cui tali posizioni si inseriscono sta nel mantenere un principio di unificazione (e quindi in qualche
misura, di reificazione) delle azioni “spirituali” dell’uomo. Non sarà la ghiandola pineale, non sarà
la res cogitans a fare da protagonista, ma si continua a ricercare un qualche luogo nel cervello, una
qualche linea – per quanto contorta e involuta – di demarcazione a livello della quale si possa
rigidamente – per quanto con estrema difficoltà, forse minimante riducibile – distinguere i fenomeni
consci da quelli inconsci, si possa cioè definire la coscienza come fenomeno isolato, autonomo e
continuo tra le sue parti.
. Tale posizione è chiamata dall’autore il Teatro Cartesiano, in quanto simulazione a livello fisico e
neurofisiologico di un rapporto dualistico spettacolo/spettatore, in cui in un unico e centralizzato
“locus” si manifesti (uscendo da un “dietro le quinte” sconosciuto allo spettatore) il fenomeno della
percezione cosciente, nel contesto del quale il soggetto viene trattato scientificamente come un ente
(e non una somma) sostanziale che continuamente riceve informazioni sul proprio stato sensoriale
ed intellettivo.
b. Il modello delle Molteplici Versioni
L’alternativa a tale modello è in Dennett il cosiddetto modello delle Molteplici Versioni. Secondo
questa prospettiva il cervello non presenta tante stanze di montaggio cinematografico dalle quali, in
un punto dello spazio, e in un momento del tempo, emergono le “versioni ufficiali” delle percezioni
sensibili e delle conoscenze intelligibili. Al contrario le percezioni sensibili entrano sotto forma di
stimoli neurali codificati da diverse risposte sinaptiche afferenti, in diversi momenti e da diverse
parti del corpo e non convergono tra loro. Come nascono distinti e assolutamente indipendenti, così
permangono nel cervello. Alcune di queste reazioni (di cui talune a vita breve, altre in grado di
modificare a lungo termine lo stato cognitivo del soggetto: esperienze mnemoniche, emotive,
induzione del linguaggio) sono necessarie e sufficienti per dare luogo al fenomeno della coscienza.
Ma poiché per ogni dato fenomeno che percepiamo, il tempo di percezione di ciascuno dei passaggi
in cui può essere (arbitrariamente) scomposto è limitatissimo, le diverse versioni rappresentate di
quel passaggio competeranno tra loro per lasciare tracce nella memoria. L’insieme delle diverse
tracce dà la percezione sensibile, che se protratta nel tempo e sufficientemente supportata da
“disposizioni neurali a reagire” (e reagire nei possibili modi citati od altri) diviene cosciente.
La coscienza è il risultato di diversi fenomeni paralleli nello spazio e nel tempo che avvengono
all’interno del cervello umano senza alcun tipo di gerarchia, ma in continua lotta tra loro per la
prevalenza. I più intensi vincono sugli altri e ricevono “in premio” la facoltà della disposizione a
reagire, cioè divengono in grado di mettere l’individuo in condizioni di rispondere allo stimolo.
Questa risposta, a seconda della natura dello stimolo, della sua importanza a livello evoluzionistico
e della sua intensità, potrà variare da automatica (riflessi) a completamente meditata (pensiero,
autocoscienza), passando per un numero infinito di stazioni intermedie. L’uomo ha un cervello
talmente sofisticato, con un carattere talmente complicato per la presenza di circuiti indefinitamente
comunicanti, che arriva all’illusione netta di essere un io singolo e definito, di possedere un’area
limitata entro la quale ciò che perviene diventa cosciente. Non è vero, d’altra parte che l’uomo non
sia cosciente. Semplicemente non è cosciente nel modo in cui crede di esserlo, né di tutti i fatti di
cui è convinto di esserlo, ma solo di una loro parte. Attraverso un numero vastissimo di esempi,
Dennett, arriva a sostenere che, come la l’assenza di una rappresentazione mentale non è la stessa
cosa della rappresentazione di un’assenza (uno può non sapere di non percepire qualcosa, senza
sentire al suo posto un’”area grigia” che lo avverte dell’assenza di quell’informazione), così la
rappresentazione della presenza non è uguale alla presenza della rappresentazione. Della coscienza
abbiamo una rappresentazione che ci illude (non radicalmente e totalmente, ma anche solo
parzialmente e debolmente) della sua presenza. Un fatto concreto può essere usato come metafora
esemplificativa del concetto: io sono davanti a un motivo ornamentale che decora un oggetto
(esempio, disegnato sulle mattonelle che ricoprono una parete gigantesca); il motivo è sempre lo
stesso, che si ripete e ripete per tutto il muro. Io colgo subito questa ripetizione e dentro di me sono
consapevole che sul muro c’è sempre e solo quel motivo, e ciò nonostante io non l’abbia osservato
mattonella per mattonella. Io fisso un punto sul muro, ma nemmeno lontanamente nel mio campo
visivo arrivo a individuare punti distanti più di pochi centimetri da quello che osservo. Io credo di
avere l’intero muro nel mio cervello. Quest’ultimo tuttavia non lo raffigura dentro di sé, costruendo
un’immagine tutta “cervelliana” del muro, secondo un assurdo (sia pure sostenuto da alcuni
pensatori) processo di photo-editing che riproduce la piccola area di muro percepita, sull’area
complessiva dell’immagine, moltiplicandone le fattezze. Al contrario: non crea assolutamente nulla,
perché non ve n’è bisogno. L’immagine sembra esserci, ma non c’è, nel cervello; quando ci
chiediamo come sia il muro in un punto diverso da quello osservato, la sola percezione già
sperimentata risponde “così!”, e noi acquisiamo dall’esterno le informazioni necessarie a rispondere
solo alle domande che ci vengono poste dal nostro apparato percettivo, e per la sola durata di quelle
nel tempo; se esso non richiede informazioni su un dato punto dello spazio, noi non le abbiamo, né
il cervello si preoccupa di crearle ex novo; semplicemente non si pone il problema epistemico. Il
risultato è l’illusione di avere una conoscenza (e una coscienza) completa e omogenea, ma in realtà
essa è estremamente povera e discontinua; noi non ce ne accorgiamo per quella che mi viene
spontaneo chiamare una riedizione dell’aporia socratica: se manca in noi lo stimolo a conoscere (o a
essere coscienti di qualcosa), noi non sentiamo la mancanza di conoscenza (o di coscienza).
L’idea fenomenologica di uno stato di coscienza, di un esserci, basilare, fondamentale e
ontologicamente primario rispetto ai contenuti di questa coscienza, espresso secondo le categorie
della trascendentalità di ascendenza kantiana, è ciò che essenzialmente viene contestato da Dennett,
che invece frammenta la coscienze e ne nega una reale unitarietà e continuità. Non c’è forma e non
c’è contenuto di coscienza se non a livello neurale; la coscienza è essa stessa un’accozzaglia di
contenuti, percepiti come unificati per la mancata rappresentazione dell’assenza di coscienza tra
uno e l’altro, o meglio per la definizione della coscienza come treno di impulsi parziali, minimi e
indipendenti tra i quali non può esserci coscienza in quanto essi stessi sono coscienza. In questo
consiste l’illusione dennettiana.
Così, Dennett ritiene inadeguato il modo di vedere il mondo delle sensazioni e dei fenomeni
psichici umani come un insieme di qualia, di stati atomici e condizioni ultime e definite,
universalmente accettate, perché sperimentate, come degli in sé (dolore, piacere, suono di un la, di
un mi, colore blu, verde etc…). Al contrario interpreta tali realtà come capacità degli enti esterni di
disporre il soggetto a reagire in un certo modo (o più semplicemente, disposizioni a reagire). Tali
disposizioni sono mediate da veicoli neurali e neurologici che hanno sede nel cervello, e che in
quanto vettori trasportano un dato contenuto di origine esterna, in qualche modo codificato da altre
strutture neurali (neurotrasmettitori, mescolanze di neurotrasmettitori, frequenze di trasmissione
neurale e mescolanze di diverse frequenze, e altro ancora). Il tutto, in un sistema per definizione
caotico, assolutamente non ordinato.
A fianco della demolizione dei qualia troviamo la demolizione dell’idea di anima intesa in senso
tradizionale come principio sostanziale pensante. L’io psichico è letto ancora una volta in una
prospettiva evoluzionistico-darwiniana, come un meccanismo di difesa da noi stessi e quindi dagli
altri, un po’ come l’io biologico è il meccanismo che la natura ha riservato alle cellule per
proteggersi dall’ambiente circostante. Dennett introduce un parallelismo tra l’interpretazione
dell’evoluzione biologica di Darwin e la teoria della computazione di Turing: prima di Darwin era
necessario postulare un’intelligenza per spiegare il perfetto adattamento delle specie al loro habitat,
che mostra un grado di finalismo incontrovertibile nella forma, nelle funzioni biologiche rispetto
alle necessità di sopravvivenza. Dopo Darwin era chiaro che l’intelligenza, la coscienza non era
assolutamente necessaria per la competenza degli esseri nel garantire la propria sopravvivenza: ad
essa era necessario semplicemente un cieco algoritmo rappresentato dalla selezione naturale, che
semplicemente elimina tutto ciò che da un bacino vasto e casualmente variabile, non è adeguato a
una “forma a priori” che è l’ambiente. La correzione automatica degli errori.
Così dopo Turing, la macchina calcolatrice, prima rappresentata in modo antropomorfo, e cioè
dotata di una forma di intelligenza dei principi della matematica, si mostrava essenzialmente scevra
da questa necessità: il computer non ha bisogno di essere intelligente per essere competente, non ha
bisogno di comprendere l’aritmetica per fare i calcoli. Esiste invece la possibilità di ottenere
risultati matematici attraverso connessioni tra ciechi circuiti elettrici estremamente raffinati, ed ecco
prodotto quanto l’uomo genera come effetto della propria coscienza.
Il finalismo presente in natura non presuppone la sua coscienza, per risultare così un finalismo solo
all’interpretazione umana, che legge la natura come se fosse razionale. Così la competenza
matematica di un calcolatore non presuppone intelligenza. Tuttavia, competenza e intelligenza,
competenza e coscienza possono coesistere in vari gradi e in natura la progressiva rappresentazione
da parte dell’essere di essere un’unità distinta e situata, rappresentazione che a un certo punto
dell’evoluzione si somma alle altre rappresentazioni che hanno per oggetto enti diversi da sé, dà
origine a diversi livelli di coscienza che accompagnano una competenza ugualmente presente dagli
archebatteri fino all’uomo. La complessità delle strutture determina a un certo punto un passaggio
da quantità a qualità che fa insorgere un livello di auto-percezione astratta (e fittizia) e quindi una
coscienza che raggiunge il suo apice nell’uomo.
Nell’ultima parte l’autore è impegnato nel tentativo di individuare in questa teoria i punti di forza
che gli consentono di replicare a diverse obiezioni alla sua prospettiva riduzionista e alla sua
impostazione eterofenomenologica (visione in terza persona). Tra queste, sono citati i famosi
argomenti “Che cosa si prova ad essere un pipistrello?” (di Thomas Nagel) e “Mary, la scienziata
del colore” (di Frank Jackson). La tesi fondamentale dell’autore è che troppo spesso, in filosofia
come anche nelle scienze, la carenza di dettaglio sui contenuti (che in filosofia significa spesso la
dimenticanza di alcune possibilità logiche, e in scienza la necessità non soddisfatta di ricerca) è
erroneamente scambiata per dimostrata ovvietà dello status quo. A chi obietta adducendo come
argomento il celebre esperimento mentale di “Mary, la scienziata del colore” 1 (Jackson) egli
risponde non con l’invalidità dell’esperimento, ma con un invito a riflettere sulla sua ipotesi, data
troppo per scontata per una sorta di accidia immaginativa che prende il filosofo nel tentativo di
definire in che modo, nei dettagli, questa Mary riesca a conoscere tutte quante le informazioni
fisiche ottenibili sulla neurofisiologia della visione.