Untitled - inco.Scienza
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in collaborazione con Associazione Culturale J.W. Draper con il patrocinio di Università degli Piano studi di Modena Lauree Scientifiche e Reggio Emilia Civico Planetario Brain “F. Martino” Escape di Modena Software Comune di Modena Assessorato All’Istruzione IL COSTO DI NON FAR NULLA La Default Mode Network come ingresso al problema della spiegazione neuroscientifica del fenomeno “coscienza” Omar Timothy Khachouf 29 febbraio 2012 www.ydfscience.altervista.org www.facebook.com/YoungDoctorsForScience [email protected] “Young Doctors for Science” è un ciclo di conferenze dedicate alla scienza che si pone come obiettivo la promozione e la diffusione della cultura scientifica nella comunità modenese, che si è tenuto da gennaio a marzo 2012. Queste conferenze mirano inoltre ad ampliare le opportunità divulgative di giovani laureati delle facoltà scientifiche del nostro ateneo. Il Planetario di Modena, ente ospitante e coinvolto nell'organizzazione, con queste conferenze ripropone il suo ruolo centrale nella divulgazione scientifica, e non solo astronomica, nella comunità modenese. IL COSTO DI NON FAR NULLA La Default Mode Network come ingresso al problema della spiegazione neuroscientifica del fenomeno “coscienza”. Omar Timothy Khachouf – 29 Febbraio 2012 – Civico Planetario “Francesco Martino” di Modena Introduzione Le neuroscienze, o come alcuni amici epistemologi si disturbano a riformulami spesso, la neuroscienza cognitiva è una materia assai vasta e complessa. Ma l’aggettivo che maggiormente le si addice è senz’ombra di dubbio giovane. La sua giovinezza la pone nella necessità di elaborare nei termini della fisiologia umana, che è il suo linguaggio, problemi di derivazione extra-fisiologica e talvolta extra-scientifica, quest’ultimo caso sia inteso lato sensu che strictu sensu. Si occupa spesso, cioè, della ricerca di basi neurali di fenomeni umani solo contingentemente e raramente (forse nell’ambito della psichiatria) approcciati neurofisiologicamente, come le decisioni economiche, o le decisioni di vita, la capacità di fare progetti, la percezione di un sé cosciente. Quest’ultimo punto sta al centro di quello che, passando sotto il nome di problema mente-corpo (body-mind problem), ha prodotto l’esplodere di un dibattito metateorico sulla legittimità o meno delle neuroscienze che parlano nel linguaggio della neurofisiologia di trattare ed eventualmente spiegare il fatto che l’uomo possieda una coscienza, e che la possieda non nello stesso modo con cui possiede un rene o la milza, e cioè distaccatamente e dall’alto della propria complessità intellettiva, dal quale i nobili visceri menzionati sono tuttavia lontani anni luce, bensì la possiede lì davanti a lui, ed è quella con cui interagisce in ogni momento della sua vita privata e intellettuale. Le neuroscienze si trovano a fare i conti con il problema di un fenomeno in prima persona singolare, definito fondamentalmente così e non definibile altrimenti, pur mantenendo statuto di scienza e con esso l’obbligo dell’uso della terza persona singolare. Questi ed altri problemi hanno fatto scontrare le neuroscienze con molte altre discipline scientifiche e non, proprio per la sua posizione di interfaccia (tra l’utente e l’hardware per dirla con l’informatica): da un lato la psicologia che si è occupata a lungo di spiegare gli stati psichici dell’uomo basandosi su modelli interpretativi teorici facenti capo a pensatori, sul modello della filosofia, dall’altro discipline di carattere biomedico come la neurologia, ma anche scienze pure quali la fisica, la biologia e la genetica, e ora l’informatica e l’intelligenza artificiale. Una costante che tutt’ora risulta vera è la tensione intellettuale che troviamo tra la prospettiva psicologica e fisiologica riguardo al funzionamento cerebrale e mentale. Nel saggio di Donald O. Hebb “Alice in Wonderland, or Psychology Among the Biological Sciences” (1965) l’autore scrive: “il neurologo clinico si lamenta che gli psicologi hanno l’abitudine di complicare il problema dell’afasia; il neurochirurgo non capisce le obiezioni che gli vengono mosse quando vuole a tutti i costi identificare in questa piuttosto che in quella parte del cervello un non so ché chiamato coscienza, memoria o qualcos’altro ancora. Dal canto loro, gli psicologi quasi mai riescono a mantenersi aggiornati su cosa succede nel mondo delle neuroscienze e della neurologia, e per difendere questa loro ignoranza, troppo spesso negano che tali informazioni possano avere alcuna rilevanza per il proprio lavoro” (traduzione mia). I. La Default Mode Network È apparentemente controintuitivo, per quanto vero, che il costo energetico dell’attività cerebrale intrinseca eccede enormemente quella dell’attività evocata da uno stimolo (Raichle e Mintun 2006). È stato stimato che l’attività funzionale di neurocomunicazione utilizza il 60-80% dell’intero budget di energia cerebrale, a sua volta rappresentato dal 20% dell’energia del corpo. Il costo in energia addizionale associato ai momentanei reclutamenti neurali da parte dell’ambiente, cioè ad elicitazione transitoria di aree ammonta a circa lo 0,5-1,0% del totale del budget energetico. Questo bilancio rende chiaro che l’attività evocata dall’ambiente nel cervello potrebbe al massimo arrivare a equivalere quella intrinseca in termini di costo energetico (glucosio e ossigeno) globale. Ora, il glucosio è la maggior risorsa energetica del cervello, e la sua conversione in ATP (molecola di scambio energetico per tutte le cellule) è favorita dall’ossigeno. In effetti l’ossigeno entra nella catena respiratoria mitocondriale, i substrati della quale si ossidano progressivamente (e cioè perdono elettroni) riducendo l’ossigeno (che invece acquisisce elettroni) ad acqua, creando attraverso questo meccanismo un gradiente di potenziale elettrico e dunque energetico a cavallo della membrana mitocondriale. Questo potenziale viene attualizzato nella generazione di un legame fosfodiesterico (tra due gruppi fosfato) su una molecola di ADP che diviene in questo modo ATP. Questo avviene in tutte le cellule. Il funzionamento di questo sistema è garantito dalla presenza di coenzimi che derivano da cicli biochimici (glicolisi, ciclo di Krebs) il cui substrato iniziale è il glucosio. Il bilancio complessivo del consumo di glucosio e ossigeno durante il metabolismo aerobio è espresso da C6H12O6 + 6O2 = 6CO2 + CH2O È evidente come per la conversione energetica di ogni molecola di glucosio siano indispensabili 6 ossigeni. Quindi l’afflusso di glucosio e ossigeno dovrebbe realizzarsi idealmente nel rapporto ossigeno/glucosio di 6:1. Ora, i dati sperimentali di autoradiografia indicano un rapporto di 5,5:1, suggerendo che la maggior parte del glucosio andrà metabolizzata secondo un meccanismo aerobio, mentre la restante minima parte secondo un meccanismo anaerobio, a minor rendimento energetico. Ogni neurone che si attiva nel cervello (ma anche nel midollo spinale NdR) deve essere supportato energeticamente. Pertanto, ogni area cerebrale che aumenta la propria frequenza di scarica in rapporto a determinate funzioni, causerà una vasodilatazione locale che esiterà in aumento di flusso ematico, per diminuzione delle resistenze principalmente a livello arteriolare. Le sostanze coinvolte in questo processo sono lo ione K+, che risulta secreto nello spazio extracellulare in quantità proporzionale alla frequenza di scarica neuronale; l’adenosina, che risulta dal catabolismo dell’ATP, e ne esprime dunque il consumo; e l’ossido nitrico (NO) prodotto dall’enzima costitutivo Nistrossido Sintasi (NOSn) neuronale. Questo è il correlato fisiologico del segnale riconosciuto da uno degli strumenti più usati in Neuroscienze, che è la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Essa consiste in un’apparecchiatura a tunnel, nel quale viene inserito il soggetto; all’interno questo sarà sottoposto a due campi magnetici fondamentali, subendone gli effetti. Uno è un campo magnetico statico ad altissima intensità, costante e omogeneo, prodotto originariamente da una coppia di Helmoltz (due circuiti circolari chiusi a corrente elettrica di identica intensità, coassiali e separati da una distanza pari al loro raggio) o più contemporaneamente da un solenoide (circuito elettrico ad andamento spiraliforme, che garantisce tanta maggiore omogeneità di campo magnetico al suo interno quanto maggiore è il rapporto lunghezza/diametro). I nuclei atomici dotati di momento magnetico e momento angolare sono detti spin e mostrano un movimento di precessione giroscopica attorno alla direzione del campo magnetico esterno (normalmente quello terrestre). Questo campo magnetico ha la funzione di allineare tutti gli spin dei protoni di cui è costituito il corpo (principalmente quindi i nuclei di idrogeno dell’acqua largamente presente nell’organismo) secondo la propria direzione, in modo da uniformarne l’orientamento. L’asse attorno al quale compiono la precessione è detto direzione longitudinale, mentre il piano nel quale si muovono è detto piano trasversale. Ogni spin adotta uno stato a bassa o ad alta energia, rispettivamente parallelo o antiparallelo al vettore campo magnetico statico. In condizioni normali la magnetizzazione netta integrata per tutti gli spin è un vettore parallelo al campo magnetico statico. Ma ora entra in gioco l’altro campo magnetico, questa volta pulsato e intermittente, a intensità molto inferiore rispetto all’altro, prodotto da bobine che emettono (e ricevono) stimoli elettromagnetici nello spettro delle radiofrequenze, che disturbano il moto di precessione degli spin attorno alla direzione del campo statico, a una determinata frequenza, detta frequenza di Larmor. Applicando questo stimoli, in un processo detto di eccitazione degli spin, è possibile inclinare il vettore di magnetizzazione globale dalla direzione longitudinale al piano trasversale, nonché rendere uniformi le traiettorie di precessione di tutti gli spin, facendo sì che i movimenti giroscopici avvengano, per tutti i protoni, in fase. Interrompendo lo stimolo eccitante (cosa che accade con un periodo stabilito), è possibile diseccitare gli spin, facendoli tornare sulla direzione longitudinale e perdere la fase del moto di precessione, tornando ciascuno in un punto diverso della traiettoria del moto doppio-conico. Durante questo processo, essi emettono energia in radiofrequenza, che viene captata dalle bobine della macchina. A seconda dei tempi di rilassamento longitudinale (ritorno sulla direzione longitudinale dell’asse) e trasversale (perdita di fase del moto di precessione), si avranno segnali di intensità diversa. Ora, il tempo di rilassamento trasversale è influenzato dall’omogeneità del campo magnetico stesso, e si riduce violentemente per rapide perturbazioni di questo, determinando perdita di segnale. L’emoglobina deossigenata ha proprio questo potere: perturbare il campo magnetico in cui precedono gli spin, con conseguente rapida diminuzione dell’intensità di segnale. La risonanza magnetica funzionale si basa su questo principio per determinare le zone cerebrali in cui, sotto lo stimolo dell’attività neurale, si assiste ad aumento del flusso ematico locale. L’emoglobina deossigenata è presente in un territorio reduce da attività metabolica e al momento inattivo; in sua corrispondenza avremo dunque un segnale fMRI basso. Se in corrispondenza di questo tessuto si assiste ad aumentato flusso ematico, questo, ricco di ossigeno, farà fluire via l’emoglobina deossigenata, che smetterà di perturbare l’omogeneità del campo magnetico esterno, con conseguente rapido aumento dell’intensità di segnale. Questo tipo di contrasto è detto BOLD (blood-oxigenation-level dependent) contrast ed è ciò su cui si basa gran parte degli studi neuroscientifici. Da questo segnale in flusso ematico, attraverso opportuni algoritmi matematici che passano principalmente attraverso un’operazione di deconvoluzione (identificazione di una somma di funzioni generatrici di una funzione data), si ricava, nel contesto di un forte rumore, un segnale interpretabile come l’attività neurale di una determinata area come funzione del tempo. Attraverso queste e altre tecniche (principalmente PET) si è arrivati, dal 2001 al 2007, ma sulla scorta di osservazioni iniziate negli anni ’80, a far emergere una rete di neuroni molto particolare, chiamata Default Mode Network, sulla base della definizione che Raichle et al. formulano di stato di default del cervello (default mode). Una divergenza dogmatica riguardante il funzionamento cerebrale, questa più interna alle neuroscienze, ma che di per sé di scientifico avrebbe poco, ha a che fare con l’essenza stessa dell’attività neurale del cervello: è riflessiva o autoreferenziale? In altri termini, è guidata principalmente dalle richieste momentanee dell’ambiente, o è sede di operazioni fondamentalmente intrinseche volte alla soddisfazione o addirittura alla previsione delle richieste ambientali? È da questo interrogativo teorico che discende il concetto, estremamente sofferto e criticato, di “stato cerebrale di default”. Esso comporta l’idea che il cervello sia in condizioni di intensa attività funzionale, cioè di connessione e comunicazione tra neuroni, durante gli stati in cui non risulta evidente un diretto condizionamento di tipo “bottom up” da parte dell’ambiente. Dopo aver definito attivazione il fenomeno per cui un’area cerebrale risulta più attiva in condizioni di esecuzione di un compito che in condizioni di controllo (riposo, fissazione di uno scenario), e deattivazione il fenomeno per cui un’area cerebrale risulta meno attiva in condizioni di esecuzione di un compito che in condizioni di controllo, Raichle et al., 1987 continuarono le interessanti osservazioni di Ingvar (anni 70) su aree del cervello che parevano deattivarsi durante condizioni di attività mentale mirata (esecuzione di compiti attenzionali o computazionali). Una buona parte del cervello aveva questo comportamento contrario all’intuitiva ipotesi dell’aumento della complessiva attività cerebrale durante l’esecuzione di sforzi intellettivi. Quello che fu notato negli anni 90 fu che non vi era differenza di attivazione in molte aree del cervello tra due stati fenomenologicamente diversi: l’esecuzione di un compito di richiamo mnemonico di episodi (memoria episodica attiva) e uno stato di riposo mentale (resting state, normalmente usato come controllo). In entrambi i casi, ampie zone del cervello apparivano intensamente attive. Questo ha condotto all’idea indipendente di una rete neurale con una propria autonomia, effettivamente più attiva durante le condizioni di assenza di stimolo esterno o di concentrazione (cioè di riposo, di default) rispetto alle condizioni di esecuzione di un compito (task condition), contro l’opinione di chi invece metteva in dubbio la reale legittimità di uno stato di default, che non sarebbe stato altro che l’epifenomeno di un’attività cerebrale che per quanto non elicitata da stimoli esterni, era comunque vissuta dall’economia cerebrale come uno stato dedicato a funzioni ben precise e determinate (fissare lo sguardo, pensare ai fatti propri), e non pertanto utilizzabile come stato di controllo, né tanto meno denominabile “resting state”. Per l’identificazione della struttura anatomica della DMN sono stati condotti dagli anni 90 in poi tre ordini di studi fondamentali: studi in PET, studi in fMRI e studi di connettività. Nei primi due tipi di studio, la modalità classica di ricerca delle aree cerebrali implicate nel mantenimento della condizione di default era quella della presentazione di stimoli attenzionali, in corrispondenza dei quali si valutava la distribuzione delle deattivazioni, per poi mapparle. Si è ipotizzato così che la DMN fosse in effetti un ampio sistema cerebrale, o meglio un insieme di sottosistemi intimamente correlati, che coinvolge aree cerebrali anatomicamente connesse e interagenti tra loro. Attraverso questi studi si è arrivati ad avere informazioni coerenti le une con le altre in termini anatomici. Gli studi PET (Shulman 2001, Shannon 2006) si basavano sul fatto che, richiedendo la PET un tempo di acquisizione immagini pari a un minuto, era necessario somministrare al soggetto un tempo di stimolo pari a circa il tempo di acquisizione: gli stimoli duravano così, nel tempo, e l’attivazione (o la deattivazione) che era possibile ricercare nel cervello durava altrettanto. Si parlava così di blocked task-induced deactivations. Vedi immagini relative. L’esigenza di ricorrere alla fMRI (Dosenbach 2006; Shannon 2006) nella valutazione di tali deattivazioni derivava dalla possibilità di accorciare i tempi di stimolazione attenzionale del soggetto, escludendo così che le deattivazioni cerebrali valutate derivassero dall’eccessiva durata dello stimolo in PET, durante la quale il segnale negativo emergesse da una lenta evoluzione di un segnale costante sotto stimolo non modulato. Si parlava in questo caso di event-related task-induces deactivation. Ma dalle valutazioni fMRI le aree di mappatura coincidevano abbastanza bene con quelle PET. Da ultimo gli studi di connettività (Grecius et al 2004) hanno messo in evidenza un profondo legame anatomo-funzionale tra le regioni della DMN, mostrando come, indipendentemente da qualsiasi forma di deattivazione della rete (task induced deactivation), la regione del cingolo posteriore, un importante nucleo di attivazione della DMN, fosse correlata funzionalmente (e cioè di attivasse contemporaneamente e in fase) con le molte altre aree cerebrali che in buona parte coincidevano con le aree individuate negli studi precedenti. La convergenza di tutti questi risultati assieme mostra che la DMN comprende una serie distribuita di regioni che include le cortecce associative e risparmia la corteccia sentitiva e motoria. Le regioni che mostrano convergenza completa tra tutti gli studi sono: - Corteccia mediale frontale: essa risulta storicamente deputata alla percezione del sé, alle attività di introspezione, al tono emotivo, alla flessibilità cognitiva e comportamentale (cioè alla capacità di elaborare nuove strategie cognitive a fronte di scenari diversi) - Corteccia del Cingolo posteriore, precuneo e formazione ippocampica: integrazione di informazioni visuospaziali, memoria episodica - Lobulo parietale inferiore: area associativa connessa allo sviluppo semantico. Le aree attraverso verso le quali ogni area considerata manda le proprie proiezioni, sono diverse anche sotto l’aspetto citoarchitettonico, e pertanto sulle loro potenzialità di connessione. In ogni caso, i due nuclei fondamentali della DMN sono il cingolo posteriore (PCC) e la corteccia prefrontale mediale (MPFC). Il cingolo posteriore è in particolare connesso con il lobo temporale mediale, il lobulo parietale inferiore che si estende nella circonvoluzione temporale superiore e alla corteccia prefrontale. Vedi immagini A questo punto si può dire che la DMN è un insieme integrato di reti neurali che comprende molte regioni cerebrali coattivate durante stati soggettualmente passivi, che mostrano correlazione funzionale tra loro e sono connesse tra loro attraverso proiezioni anatomiche dirette o indirette. Tuttavia, esistono prove a sostegno del fatto che le aree coinvolte nella DMN siano implicate anche in altre funzioni per le quali sono specializzate, e alle quali sono dedicate sottoreti che convergono in nuclei di smistamento comuni (hubs, parola che in inglese vuol dire sia il perno di una ruota a raggi, sia un aeroporto da cui vengono smistate le rotte). Le reti di connettività danno informazione non sull’attivazione o deattivazione della DMN in condizioni di sforzo o di riposo, bensì, dato il segnale in un voxel o un segnale astratto, sui voxel, tra tutti quelli presenti nell’immagine del cervello che rappresentano negli stessi tempi lo stesso segnale, indipendentemente dalla causa di tale correlazione. Così, studi che mostrano mappe come questa (immagine di connettività, fig. 7) non sono in contraddizione con quelle che mostrano la mappa della DMN a un dato stimolo o a risposo. Bisogna aggiungere che il costo energetico della DMN è elevato. Sono stati condotti diversi studi (Minoshima et al 1997, Raichle 2001) in cui il mappaggio del metabolismo del glucosio in giovani adulti a livello cerebrale mostrava un picco del 20% più elevato a livello della PCC che nel resto del cervello. Per quanto non siano stati compiuti studi a proposito di un confronto diretto tra il metabolismo della DMN e quello di aree esterne ad essa, tutti i dati sono concordi nell’affermare che a livello della linea mediana posteriore, in prossimità del la corteccia del Cingolo posteriore, il metabolismo è sproporzionatamente elevato. È stata ricercata persino una definizione fisiologica specifica del metabolismo della DMN, che appariva ad alcuni autori (Reichle) diverso rispetto a quello delle restanti regioni del cervello. Pareva infatti che si potesse postulare uno stato metabolico fisiologico di default, definito come uno stato in cui ad un aumento del flusso ematico corrisponda un aumento proporzionale del metabolismo ossidativo. Nelle regioni transitoriamente attivate (all’esterno della DMN), all’aumento del flusso ematico non corrisponde un immediato aumento del metabolismo dell’ossigeno, con iniziale diminuzione del rapporto tra ossigeno utilizzato metabolicamente e ossigeno portato dal sangue (oxygen extraction fraction, OEF). Adesso nella DMN Reichle cerca di dimostrare attraverso studi PET che ossigeno trasportato e metabolizzato aumentano di pari passo, con conseguente mantenimento costante della OEF. Questo avrebbe riformulato le deattivazioni della DMN in termini fisiologici diversi rispetto al resto delle aree cerebrali, ontologizzando ancora più radicalmente il concetto di DMN all’interno del paradigma neurofisiologico. Di fatto, d’altra parte, non è stato possibile dimostrare questo mantenimento di uno stato metabolico di default, con polemiche ancora aperte sul tema. Questi dati metabolici che fanno della rete in questione un importante motivo di dispendio energetico aprono tutta l’argomentazione riguardante il significato evolutivo di tale destinazione. Non è affatto noto a cosa siano devoluti i costosi processi neurali portati avanti, apparentemente e principalmente durante lo stato di riposo, dalla DMN. È comune l’esperienza di una vita mentale interiore. Se lasciati in assenza di compiti imminenti che richiedano attenzione, ci troviamo presto a saltellare mentalmente da un pensiero all’altro in quello che William James prima di James Joice chiama “flusso di coscienza”. Riviviamo episodi passati, prevediamo e creiamo scenari futuri, e ci proiettiamo in realtà molto distanti da quelle che ci circondano in modo immediato. Questi sono i processi mentali alla base della fantasia, dell’immaginazione, della reverie e del pensiero. Si è cercato di capire e tutt’ora lo si sta facendo, se e in che proporzione la DMN medi la formazione di tale pensiero spontaneo, come viene chiamato. Visti gli stati di attivazione e disattivazione nelle diverse condizioni di riposo e di attenzione, è molto probabile che la DMN sia il nucleo motore del pensiero spontaneo. L’inclinazione all’attività mentale privata è una caratteristica personale nota sin dall’antichità; Platone definisce Socrate “capace di stare tutto il giorno in piedi nel mercato, perso nei suoi pensieri e dimentico del mondo che lo circondava”, tanto che il commediografo Aristofane lo dipinge “tra le nuvole” nella commedia omonima. I primi studi sperimentali sulla vita mentale interiore furono condotti, verso fine Ottocento, nel contesto del movimento Introspettivo, sviluppato da Wilhelm Windt e dallo psicologo Edward Titchener. I metodi introspettivi domandavano al soggetto di descrivere i contenuti della loro esperienza mentale. L’assunto da cui tale teoria muoveva era la sufficienza di elementi di coscienza di e di attributi di essa per determinare e descrivere la mente. La predominanza novecentesca del behaviorismo, che invece poneva l’accento su fattori estrinseci all’elemento mentale interiore nella spiegazione del carattere individuale e collettivo ha significato il venir meno dell’interesse in questa epoca nello studio del pensiero spontaneo. Il behaviorismo rifiutava i metodi dell’introspezione in quanto fondati sulla prospettiva in prima persona, e con essa sulla testimonianza soggettiva, in quella che veniva definita una “dilazione della conoscenza dell’esperienza interiore”. A riscoprire l’importanza del pensiero spontaneo fu nel 1966 Singer che consentì alla psicologia neointrospettiva sperimentale di sviluppare un metodo per lo studio fenomenologico del pensiero spontaneo nella forma principale del “sogno ad occhi aperti”. Tale metodo sperimentale prendeva come variabili di studio differenze nella cognizione, misure psicologiche e movimenti oculari. Inoltre riuscì a dimostrare la popolarità del fenomeno del sogno ad occhi aperti, comune al 96% della popolazione e contenente elementi di vita quotidiana, avvenimenti recenti, pianificazioni ed aspettative per il futuro. Sicuramente studi che mettono in correlazione misurazioni comportamentali del pensiero spontaneo e attività della DMN sono critici per la comprensione del ruolo di quest’ultima nella generazione di tali pensieri. La DMN sembra implicata in diversi processi mentali che riguardano il pensiero spontaneo: - La frequenza di SITs (stimulus-independent thougths), definiti come pensieri fenomenologicamente riferiti aventi come oggetto qualcosa di diverso dall’ambiente circostante. Si è inizialmente cercato di allenare i soggetti volontari al riconoscimento e alla comunicazione dell’esperienza di un SIT. Successivamente sono stati condotti (Binder et al 1999; mcKiernan et al 2003) studi in fMRI che sia a riposo che sotto stimolo attenzionale misuravano l’attività della DMN in correlazione con l’esperienza di SITs riferita dal soggetto. All’aumentare delle esperienze SIT (più frequenti a riposo e sotto stimoli per i quali i soggetti erano allenati rispetto alla condizione di stimolo attenzionale nuovo) aumentava l'attività delle regioni DMN. - Momentanei cali attenzionali: è esperienza quotidiana essere “sovrappensiero” e pertanto scarsamente reattivi agli stimoli esterni, in quanto assorti nel proprio mondo interiore. Fenomenologicamente è inoltre possibile esperire una sensazione di competizione tra stimoli esterni e l’interesse verso i movimenti di pensiero spontaneo interiori. Questa esperienza ha un effettivo correlato neurale, mostrato da Grecius e Menon (2004) in fMRI, che consiste, nel cervello di soggetti a riposo stimolati talvolta da diversi tipi di intrusione dall’esterno, nel manifestarsi del mantenimento in fase attiva della DMN, come durante il riposo, e nel sovrapporsi a questa attività di quella delle aree sensitive elicitate dagli stimoli esterni. Nei soggetti, con maggior attività DMN, si osservava inoltre spegnimento dell’attività sensitiva, a suggerire un processo di competizione tra coalizioni neurali. - Infine è esperienza dei ricercatori in Neuroscienze che lavorano in fMRI sperimentare un segnale di fondo a carattere fluttuante attraverso tutte le regioni del cervello. Ebbene, piuttosto che ascriverlo a rumore come a lungo è stato fatto e ancora si fa, Grecius, Damoiseaux, Vincent et al 2005, 2006, mostrano come tale “rumore di fondo” sia riconducibile ad attività positivamente correlata tra regioni anatomicamente distanti nel cervello, e tutte appartenenti alla DMN. In particolare, le aree coinvolte sarebbero la MPFC e la PCC. È stata avanzata l’ipotesi inoltre, che i pensieri spontanei di cui facciamo esperienza quotidiana abbiano come condizione funzionale necessaria proprio queste fluttuazioni, appunto spontanee. L’interpretazione delle funzioni della DMN nel contesto mentale di un soggetto cosciente sono la parte che più richiede intuizione e competenza trasversale da parte degli autori. A chiarire questi interrogativi sono principalmente elementi sperimentali tratti da un lato dall’osservazione che a fronte dei molteplici stimoli attenzionali esitanti in una deattivazione della DMN molte altre attività mentali ne causano un incremento di segnale (si tratta di capire che cosa abbiano in comune tali attività), dall’altro dall’anatomia delle aree coinvolte nella DMN, che mostrano ad esempio come essa si avvalga dell’informazione mnemonica elaborata a livello del lobo temporale inferiore e della formazione ippocampica. Due sono le ipotesi avanzate rispetto ai possibili ruoli della DMN, dunque rispetto al suo significato evolutivo: 1. Ipotesi autoreferenziale: la rete è coinvolta nella produzione di pensieri che abbiano come oggetto qualcosa di rilevante per il proprio “sé”, dove questo è concepito in una prospettiva fondamentalmente mentale-intellettuale. Si tratterebbe di movimenti psiconautici del soggetto verso condizioni quali richiami alla memoria autobiografica, proiezioni nel futuro e concezione di prospettive altrui (theory of mind). Nel caso del richiamo di episodi passati, la maggior parte delle regioni DMN risultano attivate (Svoboda et al. 2006). Nel caso della “theory of mind”, diversi studi sono stati condotti a valutare l’attività cerebrale durante l’assunzione di punti di vista appartenenti a soggetti diversi, nel contesto di storie narrate, piuttosto che, ad es., di confronto tra condizioni in cui il soggetto seguiva il punto di vista di un uomo rispetto a un evento e in cui il soggetto pensava a una fotocamera che acquisiva un’immagine di un ambiente. L’elemento interessante in tutto ciò (Saxe, Powell, 2006) sta nel fatto che la DMN non risponde a stimoli riguardanti percezioni sensoriali o corporee di altri soggetti (ho freddo, ho fame) né fattezze fisiche, bensì esclusivamente a informazioni riguardanti il pensiero di altri soggetti. Anche durante la proiezione di scenari futuri accadono fenomeni simili. È stata notata inoltre un’attività della DMN in corrispondenza di valutazioni morali, sociali e politiche: se il pensiero di una persona interlocutrice veniva ritenuto morale o socio-politicamente affine al proprio “sé cognitivo”, l’area MPFC si attivava intensamente, non in caso contrario. Si è cercato di cogliere a questo punto che cosa avessero in comune tutte le azioni messe in evidenza dall’attivazione della DMN: probabilmente la flessibilità cognitiva. In tutti questi diversissimi casi studiati, la costante fenomenologica coincide con la capacità del soggetto di produrre scenari alternativi a quello presente ed esperibile attraverso i sensi. Nel contesto di tale assunto, si è pensato di leggere l’architettura della DMN come costituita da due nuclei funzionalmente distinti ma integrati: da un lato la corteccia parietale inferiore, che unitamente alla formazione ippocampica avrebbe il ruolo di richiamare dalla memoria del passato determinati elementi. Dall’altro la corteccia prefrontale mediale che valuterebbe l’adeguatezza a un proprio sé (qualunque cosa esso sia) delle condizioni cognitive in esame, passate, future o altrui, ma sempre alternative a quelle presenti. L’insieme di queste strutture avrebbe lo scopo di costruire una sorta di “simulatore di vita” col quale vagliare, esplorare e anticipare scenari reali di carattere sociale o ambientale. I ricordi del passato riemergono nel contesto della DMN solo nella misura in cui rilevanti per l’addestramento, la guida di tale simulatore di realtà. 2. Ipotesi di monitoraggio ambientale: nelle implicazioni ultime non differisce in modo nettissimo dalla precedente. Ma se ne distacca sicuramente per il peso che dà alla situazione presente ambientale circostante, piuttosto che al mondo interiore. Questa ipotesi sfuma i confini tra la percezione attenzionale focale e il monitoraggio generale dell’ambiente, risolvendo la prima come un caso particolare del secondo, come conseguenza, per così dire, della diminuzione dei gradi di libertà del sistema attenzionale. Nel caso della DMN, si tratterebbe, nelle condizioni di “resting state”, dell’espletazione di una funzione sentinella, non cioè di attenzione a un particolare oggetto percepito (relativamente prevedibile nella sua mutabilità), ma di energeticamente razionale distribuzione delle stesse risorse attenzionali su un pannello molto più ampio di variabilità ambientale, onde poter prevedere nel modo più efficace possibile, ossia minimizzando la sorpresa (vedi Bayes, Clark) l’eventualità imminentemente futura. L’ampliamento dell’orizzonte di percezione ambientale coinciderebbe, internamente, col distacco dalle condizioni ambientali effettive e con la rappresentazione di scenari diversi e di pensieri spontanei: le informazioni provenienti dall’esterno infatti non sarebbero ricercate programmaticamente, ma affluirebbero casualmente in un ricettacolo stocastico di percezioni indefinite. È interessante notare a sostegno di questa tesi che lesioni della porzione posteriore della DMN (cuneo e precuneo) portano alla Sindrome di Balint, caratterizzata da una visione “a tunnel”, in cui il focus attenzionale visivo è molto limitato e fuori di esso ogni possibile mutazione, ogni stimolo non viene colto. È da notare come esista una sorta di “doppio” della DMN, o meglio un suo alter ego. Una rete che è stato evidenziato attivarsi nei momenti opposti rispetto a quelli in cui si attiva la DMN, in gergo, anticorrelata (correlata negativamente) alla DMN è rappresentata in figura. È stata chiamata “Task Positive Network” e pare essere implicata nelle attività di restrizione del focus attenzionale diretto verso oggetti percepiti in quanto provenienti dall’ambiente circostante (comprende parte delle aree sensitive e della corteccia visiva). È possibile dunque che il cervello passi alternativamente da una all’altra modalità di funzionamento e che queste due condizioni stiano tra loro in rapporto di competitività. Si è pensato inoltre che a “dirigere” tale passaggio e tale allocazione di risorse neurali potesse esserci un’ulteriore area gerarchicamente più elevata, come la corteccia frontale. Alternativamente, il passaggio da uno stato di distacco attenzionale volto al mantenimento di una continuità psichica interiore a uno stato “bottom-up”, determinato da condizioni esterne e focalizzato attenzionalmente potrebbe essere solo il risultato della diretta inibizione reciproca dei due supersistemi neurali. Esistono notevoli rilevanze patologiche dell’individuazione della DMN nell’uomo: 1. Autismo: è un disordine dello sviluppo cognitivo che comporta un indebolimento delle interazioni sociali e delle capacità comunicative, con sintomi emergenti nella prima infanzia e comprendenti comportamenti ripetitivi e stereotipati. È stato ipotizzato che un deficit di attività della DMN comporti il carattere fondamentale dell’autismo e cioè, unitamente alla incapacità di cogliere le emozioni altrui (vedi neuroni specchio), la scarsa o nulla attitudine all’assunzione del punto di vista altrui, con conseguente difficoltà nella risoluzione di problemi quali quelli proposti dalla “theory of mind”. Una alterazione della frequenza di scarica della DMN, rintracciata in questi soggetti, assieme al reperto di un volume medio ridotto della corteccia prefrontale mediale (MPFC) possono essere alla base di tale patologia. 2. Schizofrenia: malattia mentale caratterizzata da alterate percezioni di realtà, allucinazioni uditive, delusioni, eloquio disorganizzato etc. L’alterata attribuzione dei propri pensieri invece che a se stessi, ad un’altra persona tipica dello schizofrenico, ha messo in correlazione la malattia ad un’alterata funzionalità della DMN, deputata appunto all’organizzazione dei pensieri non elicitati da stimoli ambientali esterni, bensì, propri afferenti in qualche modo a un “sé”. In particolare si è pensato ad un’eccessiva attività della DMN, con conseguente diminuzione del focus attenzionale orientato agli stimoli esterni, oggetto della Task Positive Network. Se, come si è sostenuto, il meccanismo orchestrale di alternanza tra DMN e Task Positive si trova da qualche parte nella corteccia frontale, è possibile che un’alterazione di tale sistema di controllo sia implicata nella patogenesi della schizofrenia. 3. Malattia di Alzheimer: è una forma di demenza progressiva tipica dell’età senile. I sintomi iniziali sono difficoltà mnemoniche ma col tempo anche esecutive. Si è inizialmente registrata nei pazienti con Alzheimer una minore attività metabolica nell’area della DMN in confronto alla media sana per età, soprattutto a livello del Cingolo posteriore. Ma l’ipotesi patogenetica più allettante sta nell’individuazione di un nesso causa-effetto tra l’attività metabolica neurale e la probabilità di produzione intracellulare di proteine mal ripiegate (beta-amiloide) che precipitando nei neuroni ne causano la morte. Ora, mappando le aree cerebrali di precipitazione della beta-amiloide, è stata dimostrata la predilezione netta di tale fenomeno per le aree coincidenti con la DMN, dato coerente con il coinvolgimento di aree mnemoniche nella DMN stessa. L’attività metabolica elevata della rete comporta più elevata probabilità di deposito amiloide che in altre aree; ciò è inoltre in linea con l’osservazione che soggetti che durante la vita hanno esercitato l’attenzione in compiti intellettuali complicati (cioè che hanno diminuito l’attività metabolica della DMN nel corso della vita) hanno minore probabilità di sviluppare la malattia di Alzheimer. II. Fondamenti epistemologici delle neuroscienze cognitive Il tentativo più fruttuoso di produrre l’emancipazione della psicologia dalla filosofia, spingendola nell’alveo delle scienze naturali è sicuramente la fondazione, nella seconda metà dell’Ottocento, della psicofisica (Ernst Heinrich Weber e Gustav Theodor Fechner), branca della psicologia che studia le relazioni che esistono tra gli stioli fisici e misurabili (luminosi, tattili, acustici…) e la risposta, intesa come intensità percepita agli stimoli stessi. Su questa apparente soggettualità e personalità (individualità) di prospettiva legata alla definizione della psicofisica, e successivamente delle scienze cognitive torneremo con la critica fenomenologica, che ne sottolineerà la natura sofistica e ingannevole, individuata nella mancanza di corrispondenza tra ciò cui la scienza si riferisce come “percezione” (per definizione cosciente) e la reale esperienza in prima persona. La psicofisica ha avuto il suo trionfo con l’approdo concettuale alla legge di Weber-Fechner. i. MATERIALISMO Gran parte del dibattito sul problema mente-corpo e sul tema della coscienza umana, prende le mosse dalla reazione epistemologica alla radicalizzazione scientifica di posizioni tardopositivistiche, appunto nella psicofisica. In ogni caso la più ampia porzione del dibattito contemporaneo mente-corpo va sotto il nome di Materialismo o Fisicalismo minimale, e si declina in almeno cinque versioni logiche, portate avanti da diversi pensatori. Esse, semplificando notevolmente, si può dire abbiano in comune i seguenti assunti: - Gli stati mentali dipendono ontologicamente dagli stati fisici (c’è una primazia ontologica degli stati fisici): non ci sono stati mentali se non c’è substrato fisico. Gli stati mentali non sono mai disincarnati. - Stabiliti gli stati fisici, anche quelli mentali risultano determinati. Le caratteristiche degli stati mentali sono determinate dagli stati fisici. (Sarebbe più debole dire che il fisico covaria col mentale, cioè al variare del mentale varia anche il fisico, una posizione questa detta “della Sopravvenienza”, vedi sotto). Il primo tipo di materialismo è la teoria dell’identità dei tipi (Smart, Place), o materialismo australiano, che sostiene che gli stati mentali sono descrizioni di tipi di entità la cui descrizione più adatta è quella in termini fisici. In altri termini, il linguaggio della scienza (della natura) e il linguaggio della psicologia tradizionale (che descrive gli stati mentali in termini di tranquillità, ansia, paura,…) si riferiscono entrambi a un terzo fenomeno, esterno ad ambo i linguaggi, al quale però risulta più acconcia la descrizione scientifica. L’obiezione classica è quella della multi-realizzabilità degli stati mentali, che è simile a quella di Kripke, secondo cui deve essere necessaria la connessione fra stati mentali e stati fisici. Se “dolore” è un designatore rigido e “fibre-C” è un designatore rigido, allora dire che “il dolore è identico alle fibre-C” è una verità necessaria, mentre non abbiamo buone ragioni per pensare che il dolore non si incorpori in altre fibre. In generale gli stati mentali di persone diverse o di specie diverse possono avere realizzazioni del tutto diverse. Il punto è che in alcuni casi la scienza naturale ci aiuta a giustificare tale necessità, ma solo in alcuni casi. In effetti il dolore alla gamba e la stimolazione dei nervi della gamba possono essere identici con una certa necessità, visto che sono localizzati nello stesso luogo. In altre parole, la teoria dell’identità dei tipi potrebbe essere validata se si dimostrasse che in tutti i casi a un determinato stato mentale o percettivo corrisponde la stessa tipologia (tipo) di attivazione neurale. Si tratta di una corrispondenza fatta valere tra tipi, cioè tra universali, e non tra enti (eventi od oggetti individuali). Il limite è che tale corrispondenza non è dimostratamente 1:1. Anzi, è abbastanza indiscusso che, per alcune percezioni superiori e complesse, come la visione di uno scenario qualsiasi, non corrispondano per un dato stimolo ripetuto nel tempo, le stesse attivazioni di coalizioni neurali nella corteccia visiva. Dunque la teoria dell’identità dei tipi può valere solo per quella parte in cui è effettivamente dimostrata. Il superamento della teoria dell’identità dei tipi, è rappresentato da quella che viene chiamata “identità delle occorrenze” (Davidson, nel saggio “Mental Events” 1970), secondo la quale stati mentali e stati fisici sono due descrizioni della stessa cosa, intesa però come singolo individuo. A favore di questa teoria c’è il fatto che stati mentali e stati fisici sembrano interagire, quando ad es. prendiamo una decisione (mentale-fisico), o quando udiamo una brutta notizia (fisico-mentale). L’argomento della multirealizzabilità ha portato il pensiero a elaborare altre teorie, che in modo più debole, mantenessero validi i principi materialisti. Nell’articolo il problema mente-corpo viene impostato come un problema di causalità mentale: come è possibile che gli eventi mentali causino gli eventi fisici se il mentale è in qualche modo distinto dal fisico? Questa posizione segnerà in modo decisivo tutto il dibattito successivo. L’argomento della multirealizzabilità dimostra che è inverosimile che un tipo mentale sia identico a un tipo fisico, ma non esclude affatto che un singolo evento mentale sia identico a un particolare evento fisico: il mio dolore all’istante t1 è una certa condizione cerebrale all’istante t1; il mio dolore all’istante t2 è un’altra condizione cerebrale a t2 etc (e lo stesso per altri generi di eventi mentali). Il monismo anomalo è la posizione proposta nel saggio di Davisdson. Consiste essenzialmente nelle congiunzione di due tesi: 1. Gli eventi mentali sono identici agli eventi fisici (monismo; cfr monismo neutrale che sostiene che non ci sia un linguaggio preferenziale tra quello psicologico-esperienziale e quello fisico nella descrizione dei fenomeni mentali: argomento alternativo all’identità dei tipi) 2. Gli eventi mentali non sono sussumubili sotto leggi psicologiche o psico-fisiche (anomalia del mentale). Si tratta di un materialismo minimale, puramente metafisico, che non lascia alcuno spazio alla possibilità di spiegare i fenomeni psicologici in termini biologici e nemmeno all’idea che la psicologia possa essere una scienza completamente naturale. Il monismo materialista viene dedotto da Davidson in base all'argomentazione che esso offre l’unico modo di rendere coerenti tre principi a suo giudizio irrinunciabili: 1. Almeno alcuni eventi mentali hanno interazioni causali con eventi fisici (natura causale degli eventi mentali) 2. Le relazioni causali sono esemplificazioni di leggi (carattere nomologico della causalità) 3. Gli eventi mentali non ricadono sotto leggi deterministiche (natura anomala del mentale). Mentre il principio 2 è dato per scontato, per quanto in sé controverso, il principio 3 viene giustificato e dimostrato nei seguenti termini. Non è legittimo formulare predicati psico-fisici, cioè far corrispondere a predicati mentali, predicati fisici in quanto gli uni e gli altri sono tra loro incommensurabili. Mentre infatti i primi si basano su presupposti normativi, i secondi su presupposti descrittivi; ne risulta l’assurdo di voler ricavare un enunciato a carattere descrittivo, tipico della fisica, da uno a carattere normativo, tipico della psicologia. L’argomento è evidentemente aprioristico, e vale per gli stati mentali superiori (es. nostalgia per il paese natale, …). La deduzione della teoria dell’identità di occorrenza avviene dunque così: se m causa p, m e p devono essere sussunti sotto una legge deterministica (principio 2). Ma allora m deve avere una descrizione fisica (per il principio 3) e quindi, per definizione di “fisico”, è un evento fisico. “se m cade sotto una legge fisica, ha una descrizione fisica, e cioè è un evento fisico”. La teoria dell’identità di tipo implica la teoria dell’identità di occorrenza ma non viceversa: la prima è una teoria più forte della seconda; nondimeno la teoria dell’identità di occorrenza è una teoria fisicalista, perché continua a identificare i fenomeni mentali con fenomeni fisici. L’identità delle occorrenze è una teoria scientificamente non controllabile, poiché si riferisce a individui e non a proprietà. Infatti la scienza non si occupa degli stati mentali e dei neuroni di Tizio, ma di certi tipi di stati mentali e di certi tipi di neuroni, cioè di universali (la scienza è universale e necessaria). La forma di materialismo che oggi va più di moda è diventata quella di Kim della sopravvenienza forte del mentale sul fisico. Cioè dualismo delle proprietà, ma quelle mentali sono del tutto determinate da quelle fisiche. In alcuni casi questo è senz’altro vero; lo provano le neuroscienze, ma solo in alcuni casi. Non si può generalizzare all’intera vita mentale senza ulteriori ricerche. Nella sopravvenienza si sostiene che: 1. Il mentale dipende ontologicamente dal fisico (è il fisico che determina il mentale e non viceversa) 2. Il fisico covaria col mentale (dato un insieme di proprietà A e un altro B, B sopravviene ad A se non ci può essere una B-differenza senza che non ci sia una A-differenza). Se F1 = F2, necessariamente M1 = M2. (azzarderei che: teoria dell’identità dell’occorrenza + realizzabilità multipla = sopravvenienza, ma non viceversa, perché la sopravvenienza è indipendente per quanto storicamente legata alla r.m). La sopravvenienza è una tesi abbastanza debole, che mette in relazione inscindibile due serie di fenomeni, senza però dire nulla su come dall’una si passi all’altra. Si tratta solo di correlazioni; non c’è riduzione degli stati mentali a quelli fisici, in quanto la riduzione (riduzionismo) richiede come minimo la teoria dell’identità delle occorrenze. Più che la sopravvenienza forte, sembra valere quella che Broad chiamava “emergenza”, cioè le proprietà mentali sono sempre concomitanti a proprietà fisiche, ma in generale non si conoscono leggi che determinano le prime sulla base delle seconde. Non esistono stati mentali che non siano fisici, anche se non in rapporto 1:1 come per la sopravvenienza, ma anche: gli stati mentali sono proprietà emergenti da sistemi complessi a carattere olistico, in cui il tutto è ben più della somma delle parti. Il funzionalismo minimale (Fodor) sostiene che gli stati mentali sono determinate strutture causali, modellate in particolare secondo gli schemi di una macchina di Turing. Tutte le forme di ragionamento umano, tutti gli stati intellettuali, sono riconducibili, con più o meno plasticità, al funzionamento di un sistema integrato di calcolatori minimali. E’ un programma di ricerca materialista che ha dato risultati eccezionali, come la linguistica di Chomsky, la teoria della visione di Marr, i modelli mentali di Johnson-Laird ecc. Esso ha un limite intrinseco che è quello dei qualia. I qualia (plurale neutro latino di quale, is cioè qualità, attributo, modo) sono, nella filosofia della mente, gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti. Ogni esperienza cosciente ha una sensazione qualitativa diversa da un’altra. Ad esempio, l’esperienza che proviamo nell’assaporare un gelato è qualitativamente diversa da quella che cogliamo quando contempliamo La Gioconda di Leonardo. Secondo i loro sostenitori, quindi, i qualia sono estremamente specifici e caratterizzano essenzialmente le singole esperienze coscienti. John Searle ha recentemente sostenuto che «ogni stato cosciente è caratterizzato da una sensazione qualitativa»; pertanto, qualsiasi esperienza cosciente comporterebbe una sensazione qualitativa particolare, dall’esperienza del dolore ad un semplice calcolo aritmetico. Searle infatti afferma che la semplice esperienza, ad esempio, dell’addizione cambia qualità a seconda della lingua in cui è stata eseguita l’operazione. Così ogni esperienza cosciente ha una qualità a seconda del modo in cui accede alla coscienza. Mentre nella teoria dell’identità i qualia venivano identificati con strutture fisiche, nel funzionalismo non è possibile, poiché lo stato mentale è identico non allo stato fisico, ma alla sua struttura. Per cui il funzionalismo resta con il problema aperto dei qualia: argomenti di Jackson e di Nagel. ii. FENOMENOLOGIA Esistono numerosissimi ingressi al pensiero fenomenologico, che fa capo al filosofo novecentesco Edmund Husserl. Esula dai propositi di questa relazione darne una definizione tecnica esaustiva, non però il delinearne le ricadute sul dibattito sulla legittimità delle neuroscienze nella definizione della coscienza, che in effetti la fenomenologia nega in assoluto. Non nega tuttavia la legittimità di studio neuroscientifico di problemi minori associati alla coscienza (i cosiddetti soft problems di Chalmers), come la percezione cosciente del colore, o la percezione cosciente di qualsivoglia oggetto di senso. È sulla coscienza in quanto tale, sull’esperienza di essere situati, sul “Sentimento di esistere” per dirla con Varela (definizione fenomenologia della coscienza), che la fenomenologia cerca di rendere consapevole la scienza di impossibilità teoretica e della sua velleità destinata allo scorno. Partendo dall’imaging neuroscientifico, la fenomenologia potrebbe osservare come in un contesto sperimentale in cui il soggetto viene posto all’interno di uno scanner che ne osserverà l’attività cerebrale, l’esperimento stesso non possa prescindere dalla richiesta verbale al soggetto stesso di resoconti esperienziali sugli stati di coscienza studiati (vedi quanto detto prima sulla DMN). Questo proverebbe l’incapacità assoluta di bypassare la coscienza, che si configura come una dato ineliminabile e ontologicamente primario e primitivo. In altri termini non è possibile derivare (leggere come secondaria) la coscienza da (a) un substrato fondamentale di tipo materialistico, e come tale studiato dalla fisica. “L’essenza della coscienza è la sua impossibilità di essere eliminata”, Paci. Tuttavia questo pensiero è stato a lungo travisato come tentativo di configurare una nuova impostazione di stampo idealistico che valesse sul piano gnoseoepistemologico molto più precisamente di quelle ottocentesche (Fichte, Hegel,…), e che si ponesse in dialogo con Berkeley. Il fenomenologo autentico, al contrario, si rivolge non solo e non tanto ai filosofi, quanto agli scienziati al fine di illuminarli su un metodo scientifico innovativo, di apertura allo studio dell’oggetto senza l’esclusione del soggetto. La coscienza non interessa ai fenomenologi in sé, bensì come accesso al mondo. Pare necessario destare la scienza dal torpore moderno dettato dall’errore, giustificato dall’applicabilità della conoscenza, per cui non è stato riconosciuto (da Galileo in poi) il mondo della vita soggettiva come fondamento della conoscenza del mondo fisico, che è stato epurato di ogni residuo qualitativo di soggettività, almeno apparentemente. L’epochè cui Husserl si riferisce consiste nel “mettere tra parentesi tutto ciò che ci appare naturale perché si riveli, da sé, il legame ineliminabile della coscienza con i suoi oggetti”, dove con “naturale” si riferisce alla familiarità con cui ormai ci rapportiamo ai portati scientifici, colti come inderogabili. Da questo dubbio fondamentale Husserl muoveva verso la fondazione di una scienza rigorosa e nuova, che trasformasse “le intuizioni profonde in forme razionali inequivocabili”. Si tratta di risalire primordialmente al mondo così come appare, pre-scientifico, per usare le intuizioni che si hanno di esso come materiale per l’individuazione di invarianti strutturali intersoggettive, che siano la base per la formazione di nuovi saldi concetti, nel loro genere oggettivamente validi. L’operazione effettuata dalla scienza (fisica) moderna coincide di fatto con l’espulsione dal campo della verificabilità e quindi della verità di tutto quanto attiene alla sfera dell’esperienza, sulla quale non vi è accordo intersoggettivo. L’eliminazione della vita vissuta dalla verità si traduce nel delineamento di un mondo scevro da ogni qualità, e costituito solo di relazioni tra fenomeni, un mondo per così dire in bianco e nero, la cui essenza è strutturale, generalmente fatta di matematica, ma anche di affermazioni come “i cervelli sono organi costituiti da neuroni e cellule gliali”. Così dal mondo della vita i vari ambiti esperiti si sono trasformati in ambiti conoscitivo-applicativi, formalizzati in vario modo: dalle sensazioni termiche esperite tattilmente, alla termodinamica; dall’esperienza del movimento alla meccanica e alla cinematica; dall’esperienza della vita alla biologia. Questo processo di isolamento delle qualità esperibili può essere ipostatizzato, reso metafisico in due maniere: secondo i principi del riduzionismo o quelli del dualismo. Nel primo caso si avrà l’idea che ogni qualità esperibile sia un epifenomeno di un reale fondamento strutturale coglibile scientificamente, nel secondo si reificherà insieme alla materia inerte della fisica anche una sostanza “pensante” o “esperiente” che renda ragione di questo effettivo ed ineliminabile fatto della vita. Per la fenomenologia la coscienza rimane ontologicamente primaria: le stesse conclusioni della scienza fisica, teoretiche e sperimentali sono colte nel loro lato soggettivo, che evidenzia la permanenza di giudizio nelle prime, e di percezione sensibile nelle seconde. Nella scienza, tuttavia, a differenza che nella vita, tali giudizi e percezioni rimangono invarianti intersoggettive. Ora, visto che la coscienza – si argomenta – è per definizione esperibile solo in prima persona, risulta sterile il tentativo della scienza di spiegarla in terza, rivelandosi come il rovesciamento di prospettiva della lezione fenomenologica, e cioè l’utilizzo di strutture ottenute eliminando l’esperienza per spiegare l’esperienza stessa. [mio commento: l’esperienza si mantiene anche nella scienza, solo che è invariante. Da qui il ponte della neurofenomenologia di Varela]. Il clou della fenomenologia rispetto alle neuroscienze sta probabilmente nella distinzione tra l’esperienza cosciente e i fenomeni e gli oggetti naturali. Gli oggetti del mondo naturale sono dati in modo sempre incompleto, in quanto presuppongono il preconcetto della scienza, la domanda galileiana che viene posta alla natura e alla quale solo la natura risponde. Si conoscono gli oggetti naturali sono nella misura in cui noi ce ne figuriamo l’essere, in modo aprioristico. L’esperienza futura potrà così senz’altro smentire l’apparente verità presente, mostrando come l’oggetto non corrisponda a un modello aprioristico, bensì a un altro (vedi fisica classica/ meccanica quantistica/ relatività). L’esperienza cosciente invece è per definizione immediatamente e completamente data, e mai nessuna esperienza cosciente futura potrà sconfermare quella passata: potrà solo prenderne il posto. Ogni ascrizione di esistenza presuppone l’esistenza di un’esperienza cosciente. Ne risulta dunque da un lato un sapere parzialmente dato e relazionale (strutturale), che sacrifica le qualità (qualia) sull’altare della precisione, dall’altro un’esperienza soggettiva, ricca di qualità, completamente data. Il problema mente/corpo risulta quello di coniugare, trovare un nesso tra il primo e il secondo ambito. Di nuovo, i modi trovati dalla filosofia analitica per risolvere il problema sono due: - Neo-dualismo (Chalmers) che adotta una metafisica “double face” nella quale il mondo fisico possiede sia proprietà relazionali (prese in considerazione dalla fisica) sia una sorta di proprietà non relazionali che renderebbero conto dell’esperienza cosciente (possiederebbe in qualche modo una proprietà non strutturale che renderebbe possibile la coscienza). Il tentativo fatto di delineare le caratteristiche di questo secondo ordine di proprietà del mondo fisico tuttavia è molto debole: Chalmers finisce per usare termini esperienziali per descriverlo, termini esperienziali (già fenomenologici) dei quali, cadendo in un circolo vizioso, egli vuole rendere ragione esplorando il mondo fisico. - Materialismo (visto sopra): secondo questa lettura tutto è riducibile a struttura (studiata dalla scienza), persino la coscienza. Ma se la coscienza è solo struttura, allora perderebbe la qualità di prima persona singolare che ne è l’essenza, e la lezione della fenomenologia viene completamente trascurata. La fenomenologia, di concerto col neodualismo di Chalmers, cerca di ammonire sul fatto che ci siano due ordini di problemi trattabili in fatto di coscienza: un primo ordine (detto soft problem) relativo a ogni contenuto di coscienza. Questo si occupa delle percezioni (dei colori, degli odori), degli stati di coscienza (il sonno, l’allucinazione, la veglia), delle funzioni (il ricordo, la memoria) etc. Esso pare discretamente trattabile scientificamente, perché spezzetta la coscienza in problemi molto più piccoli e semplici. Tuttavia, la fenomenologia ritiene molto probabilmente illusoria la speranza neuroscientifica che risolvendo un numero sufficiente di soft problems si arrivi a definire il hard problem, che configura invece la spiegazione dell’esperienza stessa di vivere, di esserci, di essere situati, qualunque sia il contenuto dell’esperienza. A questo proposito si fa l’esempio del colore e della percezione cosciente del colore. Si tratta di un soft problem, tanto è vero che la catena neurale della percezione cromatica è estremamente definita in neurofisiologia. È possibile tuttavia ridurre l’esperienza cosciente del colore blu ai fenomeni fisici che avvengono durante tale percezione? La fenomenologia risponde di no, per due ordini di motivi: - Che la correlazione tra i fenomeni fisici e le caratteristiche dell’esperienza cosciente è imperfetta. In particolare, tra la lunghezza d’onda e la percezione del colore. Esistono molte più esperienze coscienti che loro correlati neurali. Non c’è una correlazione 1:1 tra l’esperienza dei colori e i diversi flussi di luce monocromatica in direzione della retina. Per - esempio, la combinazione di luci monocromatiche rossa e blu non dà origine alla percezione di un rosso bluoso ma di un viola, che corrisponde a una radiazione monocromatica a lunghezza d’onda inferiore sia del blu che del rosso. Questi fenomeni sono stati spiegati come frutto di ulteriore ricerca: sono stati individuati nella retina tre tipi di cellule foto-cromosensibili (coni) , che all’interno presentano diversi fotopigmenti (opsine, molecole che cambiano di struttura a contatto coi fotoni inibendo la produzione di glutammato del neurone in cui si trovano e mediando il processo di trasduzione del segnale luminoso in nervoso). Questo rende in qualche modo ragione della mancata corrispondenza diretta tra lunghezza d’onda fotonica e colore percepito: si sono individuati alcuni elementi strutturali nell’esperienza riportata che possono essere fatti corrispondere a nozioni strutturali riguardanti oggetti naturali. Nella seconda metà del XX secolo è stato possibile anche individuare le regioni di elaborazione e di associazione delle informazioni retiniche. I segnali in uscita dai coni sono affinati dal sistema neurale della retina e dopo un complesso circuito cerebrale, sono proiettati a livello di V1. Questa porzione di corteccia comprende colonne cellulari associate specificamente alle diverse tinte cromatiche, che cioè scaricano selettivamente per i singoli colori. Tuttavia di nuovo non era possibile individuare una corrispondenza diretta tra i colori esperiti soggettualmente e l’attivazione delle colonne cromatiche a livello di V1. La corrispondenza è successivamente stata incrementata da ulteriore lavoro fisiologico, che ha portato all’individuazione delle aree V4-V8, la cui attività è in correlazione più stretta con la percezinone soggettiva del colore, comprese quelle legate all’ombra e alla luce del giorno. Ma di nuovo la percezione dei colori comporta molti ingredienti addizionali come il movimento, l’orientazione e l’attività, che sono processate in porzioni diverse del cervello. Non pare possa esservi fine a questa ricerca sui correlati neurofisiologici della percezione cromatica. “gli scienziati che ritengono che risolvendo molti “soft problems” sulla coscienza un giorno chiariranno il problema più ostico (“hard problem”) della sua intera origine fisica, paiono come chi crede che camminando abbastanza a lungo, sia possibile raggiungere la linea dell’orizzonte”, Michel Bitbol (NeuroQuantology, 2008). Non esiste una connessione concettuale né alcun modo di figurarsi un passaggio tra la lunghezza d’onda della luce, l’attività di strutture neurali, e l’esperienza soggettuale di un colore. Thomas Nagel (1974, 1986) ha sostenuto appunto che dal livello oggettivo della fisiologia non è possibile arrivare al livello soggettivo della fenomenologia. Da ultimo è importante sottolineare un punto su cui Bitbol (uno dei principali filosofi di pensiero fenomenologico viventi) mostra, come conseguenza di quanto detto. Il lessico delle scienze cognitive, tra cui anche quello delle neuro-scienze cognitive, usa termini propri della psicologia tradizionale e dell’esperienza cosciente, negando loro però la luce della coscienza. I termini come pensare, percepire, credere, capire, memoria, opinione sono termini che in prima istanza, per essere capiti, vanno vissuti. Non è sufficiente usarli in terza persona, e connetterli con fenomeni osservabili dalla neurofisiologia, per renderli esaustivi semanticamente e per, così, giustificare la riduzionistica coincidenza di quei fenomeni con l’esperienza cosciente. iii. DANIEL C. DENNETT a. Dennett contro il teatro cartesiano Egli assume un atteggiamento metodologico teso a minare alla base inveterate consuetudini di pensiero che in modo consapevole da parte di filocartesiani, o inconscio da parte di scienziati fautori di una prospettiva materialistica, avallavano una visione in certo senso metafisica della mente umana, il concetto di dualismo. L’ovvietà della inconsistenza dell’antica tesi cartesiana della ghiandola pineale (epifisi) come sede dell’incontro tra res cogitans e res extensa, tra pensiero e materia, tra mente e cervello, perde tutta la sua potenza ironica se ci si rende conto di quanto la stessa posizione sia radicata e nascosta nelle più prestigiose teorie scientifiche della coscienza. Non ridiamo più di Cartesio se ci accorgiamo di quanto poco distanti da lui siano alcuni importanti filoni di pensiero coscienziale moderno e contemporaneo, tanto meno in quanto i loro sostenitori se ne sentono completamente liberati. Il nocciolo secondo Dennett erroneo dell’impianto epistemico in cui tali posizioni si inseriscono sta nel mantenere un principio di unificazione (e quindi in qualche misura, di reificazione) delle azioni “spirituali” dell’uomo. Non sarà la ghiandola pineale, non sarà la res cogitans a fare da protagonista, ma si continua a ricercare un qualche luogo nel cervello, una qualche linea – per quanto contorta e involuta – di demarcazione a livello della quale si possa rigidamente – per quanto con estrema difficoltà, forse minimante riducibile – distinguere i fenomeni consci da quelli inconsci, si possa cioè definire la coscienza come fenomeno isolato, autonomo e continuo tra le sue parti. . Tale posizione è chiamata dall’autore il Teatro Cartesiano, in quanto simulazione a livello fisico e neurofisiologico di un rapporto dualistico spettacolo/spettatore, in cui in un unico e centralizzato “locus” si manifesti (uscendo da un “dietro le quinte” sconosciuto allo spettatore) il fenomeno della percezione cosciente, nel contesto del quale il soggetto viene trattato scientificamente come un ente (e non una somma) sostanziale che continuamente riceve informazioni sul proprio stato sensoriale ed intellettivo. b. Il modello delle Molteplici Versioni L’alternativa a tale modello è in Dennett il cosiddetto modello delle Molteplici Versioni. Secondo questa prospettiva il cervello non presenta tante stanze di montaggio cinematografico dalle quali, in un punto dello spazio, e in un momento del tempo, emergono le “versioni ufficiali” delle percezioni sensibili e delle conoscenze intelligibili. Al contrario le percezioni sensibili entrano sotto forma di stimoli neurali codificati da diverse risposte sinaptiche afferenti, in diversi momenti e da diverse parti del corpo e non convergono tra loro. Come nascono distinti e assolutamente indipendenti, così permangono nel cervello. Alcune di queste reazioni (di cui talune a vita breve, altre in grado di modificare a lungo termine lo stato cognitivo del soggetto: esperienze mnemoniche, emotive, induzione del linguaggio) sono necessarie e sufficienti per dare luogo al fenomeno della coscienza. Ma poiché per ogni dato fenomeno che percepiamo, il tempo di percezione di ciascuno dei passaggi in cui può essere (arbitrariamente) scomposto è limitatissimo, le diverse versioni rappresentate di quel passaggio competeranno tra loro per lasciare tracce nella memoria. L’insieme delle diverse tracce dà la percezione sensibile, che se protratta nel tempo e sufficientemente supportata da “disposizioni neurali a reagire” (e reagire nei possibili modi citati od altri) diviene cosciente. La coscienza è il risultato di diversi fenomeni paralleli nello spazio e nel tempo che avvengono all’interno del cervello umano senza alcun tipo di gerarchia, ma in continua lotta tra loro per la prevalenza. I più intensi vincono sugli altri e ricevono “in premio” la facoltà della disposizione a reagire, cioè divengono in grado di mettere l’individuo in condizioni di rispondere allo stimolo. Questa risposta, a seconda della natura dello stimolo, della sua importanza a livello evoluzionistico e della sua intensità, potrà variare da automatica (riflessi) a completamente meditata (pensiero, autocoscienza), passando per un numero infinito di stazioni intermedie. L’uomo ha un cervello talmente sofisticato, con un carattere talmente complicato per la presenza di circuiti indefinitamente comunicanti, che arriva all’illusione netta di essere un io singolo e definito, di possedere un’area limitata entro la quale ciò che perviene diventa cosciente. Non è vero, d’altra parte che l’uomo non sia cosciente. Semplicemente non è cosciente nel modo in cui crede di esserlo, né di tutti i fatti di cui è convinto di esserlo, ma solo di una loro parte. Attraverso un numero vastissimo di esempi, Dennett, arriva a sostenere che, come la l’assenza di una rappresentazione mentale non è la stessa cosa della rappresentazione di un’assenza (uno può non sapere di non percepire qualcosa, senza sentire al suo posto un’”area grigia” che lo avverte dell’assenza di quell’informazione), così la rappresentazione della presenza non è uguale alla presenza della rappresentazione. Della coscienza abbiamo una rappresentazione che ci illude (non radicalmente e totalmente, ma anche solo parzialmente e debolmente) della sua presenza. Un fatto concreto può essere usato come metafora esemplificativa del concetto: io sono davanti a un motivo ornamentale che decora un oggetto (esempio, disegnato sulle mattonelle che ricoprono una parete gigantesca); il motivo è sempre lo stesso, che si ripete e ripete per tutto il muro. Io colgo subito questa ripetizione e dentro di me sono consapevole che sul muro c’è sempre e solo quel motivo, e ciò nonostante io non l’abbia osservato mattonella per mattonella. Io fisso un punto sul muro, ma nemmeno lontanamente nel mio campo visivo arrivo a individuare punti distanti più di pochi centimetri da quello che osservo. Io credo di avere l’intero muro nel mio cervello. Quest’ultimo tuttavia non lo raffigura dentro di sé, costruendo un’immagine tutta “cervelliana” del muro, secondo un assurdo (sia pure sostenuto da alcuni pensatori) processo di photo-editing che riproduce la piccola area di muro percepita, sull’area complessiva dell’immagine, moltiplicandone le fattezze. Al contrario: non crea assolutamente nulla, perché non ve n’è bisogno. L’immagine sembra esserci, ma non c’è, nel cervello; quando ci chiediamo come sia il muro in un punto diverso da quello osservato, la sola percezione già sperimentata risponde “così!”, e noi acquisiamo dall’esterno le informazioni necessarie a rispondere solo alle domande che ci vengono poste dal nostro apparato percettivo, e per la sola durata di quelle nel tempo; se esso non richiede informazioni su un dato punto dello spazio, noi non le abbiamo, né il cervello si preoccupa di crearle ex novo; semplicemente non si pone il problema epistemico. Il risultato è l’illusione di avere una conoscenza (e una coscienza) completa e omogenea, ma in realtà essa è estremamente povera e discontinua; noi non ce ne accorgiamo per quella che mi viene spontaneo chiamare una riedizione dell’aporia socratica: se manca in noi lo stimolo a conoscere (o a essere coscienti di qualcosa), noi non sentiamo la mancanza di conoscenza (o di coscienza). L’idea fenomenologica di uno stato di coscienza, di un esserci, basilare, fondamentale e ontologicamente primario rispetto ai contenuti di questa coscienza, espresso secondo le categorie della trascendentalità di ascendenza kantiana, è ciò che essenzialmente viene contestato da Dennett, che invece frammenta la coscienze e ne nega una reale unitarietà e continuità. Non c’è forma e non c’è contenuto di coscienza se non a livello neurale; la coscienza è essa stessa un’accozzaglia di contenuti, percepiti come unificati per la mancata rappresentazione dell’assenza di coscienza tra uno e l’altro, o meglio per la definizione della coscienza come treno di impulsi parziali, minimi e indipendenti tra i quali non può esserci coscienza in quanto essi stessi sono coscienza. In questo consiste l’illusione dennettiana. Così, Dennett ritiene inadeguato il modo di vedere il mondo delle sensazioni e dei fenomeni psichici umani come un insieme di qualia, di stati atomici e condizioni ultime e definite, universalmente accettate, perché sperimentate, come degli in sé (dolore, piacere, suono di un la, di un mi, colore blu, verde etc…). Al contrario interpreta tali realtà come capacità degli enti esterni di disporre il soggetto a reagire in un certo modo (o più semplicemente, disposizioni a reagire). Tali disposizioni sono mediate da veicoli neurali e neurologici che hanno sede nel cervello, e che in quanto vettori trasportano un dato contenuto di origine esterna, in qualche modo codificato da altre strutture neurali (neurotrasmettitori, mescolanze di neurotrasmettitori, frequenze di trasmissione neurale e mescolanze di diverse frequenze, e altro ancora). Il tutto, in un sistema per definizione caotico, assolutamente non ordinato. A fianco della demolizione dei qualia troviamo la demolizione dell’idea di anima intesa in senso tradizionale come principio sostanziale pensante. L’io psichico è letto ancora una volta in una prospettiva evoluzionistico-darwiniana, come un meccanismo di difesa da noi stessi e quindi dagli altri, un po’ come l’io biologico è il meccanismo che la natura ha riservato alle cellule per proteggersi dall’ambiente circostante. Dennett introduce un parallelismo tra l’interpretazione dell’evoluzione biologica di Darwin e la teoria della computazione di Turing: prima di Darwin era necessario postulare un’intelligenza per spiegare il perfetto adattamento delle specie al loro habitat, che mostra un grado di finalismo incontrovertibile nella forma, nelle funzioni biologiche rispetto alle necessità di sopravvivenza. Dopo Darwin era chiaro che l’intelligenza, la coscienza non era assolutamente necessaria per la competenza degli esseri nel garantire la propria sopravvivenza: ad essa era necessario semplicemente un cieco algoritmo rappresentato dalla selezione naturale, che semplicemente elimina tutto ciò che da un bacino vasto e casualmente variabile, non è adeguato a una “forma a priori” che è l’ambiente. La correzione automatica degli errori. Così dopo Turing, la macchina calcolatrice, prima rappresentata in modo antropomorfo, e cioè dotata di una forma di intelligenza dei principi della matematica, si mostrava essenzialmente scevra da questa necessità: il computer non ha bisogno di essere intelligente per essere competente, non ha bisogno di comprendere l’aritmetica per fare i calcoli. Esiste invece la possibilità di ottenere risultati matematici attraverso connessioni tra ciechi circuiti elettrici estremamente raffinati, ed ecco prodotto quanto l’uomo genera come effetto della propria coscienza. Il finalismo presente in natura non presuppone la sua coscienza, per risultare così un finalismo solo all’interpretazione umana, che legge la natura come se fosse razionale. Così la competenza matematica di un calcolatore non presuppone intelligenza. Tuttavia, competenza e intelligenza, competenza e coscienza possono coesistere in vari gradi e in natura la progressiva rappresentazione da parte dell’essere di essere un’unità distinta e situata, rappresentazione che a un certo punto dell’evoluzione si somma alle altre rappresentazioni che hanno per oggetto enti diversi da sé, dà origine a diversi livelli di coscienza che accompagnano una competenza ugualmente presente dagli archebatteri fino all’uomo. La complessità delle strutture determina a un certo punto un passaggio da quantità a qualità che fa insorgere un livello di auto-percezione astratta (e fittizia) e quindi una coscienza che raggiunge il suo apice nell’uomo. Nell’ultima parte l’autore è impegnato nel tentativo di individuare in questa teoria i punti di forza che gli consentono di replicare a diverse obiezioni alla sua prospettiva riduzionista e alla sua impostazione eterofenomenologica (visione in terza persona). Tra queste, sono citati i famosi argomenti “Che cosa si prova ad essere un pipistrello?” (di Thomas Nagel) e “Mary, la scienziata del colore” (di Frank Jackson). La tesi fondamentale dell’autore è che troppo spesso, in filosofia come anche nelle scienze, la carenza di dettaglio sui contenuti (che in filosofia significa spesso la dimenticanza di alcune possibilità logiche, e in scienza la necessità non soddisfatta di ricerca) è erroneamente scambiata per dimostrata ovvietà dello status quo. A chi obietta adducendo come argomento il celebre esperimento mentale di “Mary, la scienziata del colore” 1 (Jackson) egli risponde non con l’invalidità dell’esperimento, ma con un invito a riflettere sulla sua ipotesi, data troppo per scontata per una sorta di accidia immaginativa che prende il filosofo nel tentativo di definire in che modo, nei dettagli, questa Mary riesca a conoscere tutte quante le informazioni fisiche ottenibili sulla neurofisiologia della visione.