La sentenza del Bundesverfassungsgericht e il futuro dell`Unione

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La sentenza del Bundesverfassungsgericht e il futuro dell`Unione
La sentenza del Bundesverfassungsgericht
e il futuro dell’Unione europea
Dopo il “no” francese al progetto di Costituzione europea non poteva mancare una risposta tedesca.
La Francia ha fatto valere il suo diritto di veto. Ora, la Germania rende espliciti i limiti invalicabili
della costruzione europea fissati dalla Costituzione tedesca. Si tratta di un diritto di veto preventivo.
L’ex-giudice costituzionale Paul Kirchof, dopo la sentenza del Bundesverfassungsgericht del 30
giugno, ha dichiarato: “Non ci potrà essere uno stato europeo finché la costituzione tedesca avrà
vita”. E’ un’affermazione grave, che rinnega i fondamenti della costruzione europea. Presa alla
lettera, comporta l’intenzione della Germania di fare a meno di una politica estera e della sicurezza
europea, l’unico “potere sovrano” che è ancora in bilico tra l’Unione e gli stati membri. La
Germania forse pensa a una sua nuova Sonderweg nella politica mondiale?
Per discutere di questi complessi problemi, esamineremo preliminarmente il nucleo ideologico sul
quale i giudici tedeschi hanno costruito le loro argomentazioni. In seguito, avanzeremo una critica
al concetto di sovranità nazionale e, infine, prenderemo in considerazone le conseguenze politiche
del nucleo ideologico del Bundesverfassungsgericht.
La sentenza dei giudici costituzionali tedeschi si fonda su un nucleo ideologico preciso e ben
argomentato. Si tratta, in sostanza, di un’ennesima riformulazione della dottrina della sovranità
nazionale, che nel mondo contemporaneo deve fondarsi esplicitamente sulla volontà popolare e
sulla democrazia. L’elemento fondamentale dello stato democratico, secondo la Corte
costituzionale tedesca, consiste nel riconoscimento del diritto dei cittadini a determinare, con un
voto libero ed eguale, la formazione dei poteri pubblici, dunque il proprio governo. Esso deve
basarsi su una maggioranza proporzionale alla popolazione, mentre alla minoranza spetta il compito
di rappresentare l’alternativa politica (§ 211, 212, 213, 214, 215). La Costituzione tedesca, grazie a
istituzioni rappresentative, garantisce questo risultato mediante norme che devono essere
considerate “inviolabili”. Secondo i giudici, il potere costituente dei tedeschi, che ha dato vita alla
Costituzione, ha stabilito che queste norme fondamentali – “l’identità costituzionale” tedesca – non
possano essere modificate in alcun modo in futuro. E’ una “garanzia per l’eternità”. La Corte
Costituzionale tedesca si assume il compito di guardiana fedele dell’identità costituzionale tedesca
(§ 216, 217, 218).
Da queste premesse, a prima vista ineccepibili, i giudici tedeschi elaborano alcune critiche severe
alle istituzioni dell’Unione europea, che viene designata come uno Staatenverbund, cioè una
associazione di stati che rimangono sovrani. I giudici riconoscono che la Costituzione prevede
l’integrazione della Germania nelle istituzioni europee e mondiali, al fine di garantire un futuro di
pace e di prosperità ai cittadini. Tuttavia, “né l’integrazione graduale nell’Unione europea, né
l’integrazione nel sistema di mantenimento della pace delle Nazioni Unite può comportare la
sottomissioni a poteri alieni” (§ 220). In particolare, per quanto riguarda l’Europa, si riconosce che
la Costituzione ammette la possibilità di “trasferimenti di poteri sovrani all’Unione europea (§ 226),
ma questo trasferimento di poteri si deve arrestare di fronte ad un limite ben preciso, perché “la
Costituzione non consente ad alcun organo che agisce per conto dei tedeschi di abbandonare il
diritto di auto-determinazione del popolo tedesco nella forma della sovranità tedesca nel quadro del
diritto internazione mediante la creazione di uno stato federale. A causa dell’irrevocabile
trasferimento di sovranità a un nuovo soggetto di legittimità, questo passo è riservato a un’esplicita
dichiarazione di volontà del popolo tedesco” (§ 228). Inoltre, la Corte costituzionale rende chiaro
che, come guardiana dell’identità costituzionale tedesca, essa si opporrebbe a questo passo, perché
si passerebbe da un’Unione europea, concepita come Staatenverbund, nella quale i governi
nazionali restano i Signori dei Trattati, a un’entità statuale federale, mediante un irreversibile
trasferimento di sovranità. In questo caso, l’uscita della Germania dallo Staatenverbund
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diventerebbe inevitabile (§ 230, 231, 232, 233, 234, 235 e 264).
Questa costruzione teorica presenta il fianco a una facile critica. L’Unione europea contempla fra i
suoi organi un Parlamento europeo direttamente eletto dai cittadini; si dovrebbe dunque ammettere
l’esistenza di un popolo sovrano europeo a fianco dei popoli nazionali. I giudici costituzionali
tedeschi hanno, tuttavia, una loro peculiare concezione del funzionamento dell’Unione: “il
Consiglio non è la seconda camera, come avverrebbe in uno stato federale, ma l’organo di
rappresentanza dei Signori dei Trattati”; la Commissione non “svolge le funzioni di un governo
pienamente responsabile di fronte al Parlamento” e il Parlamento europeo è solo “una fonte
addizionale indipendente della legittimità democratica” (§ 271). In sostanza, il Parlamento europeo
non esprime una piena legittimità democratica alla pari dei parlamenti nazionali. “Il Trattato di
Lisbona ha negato il concetto di Costituzione federale europea in cui il Parlamento europeo sarebbe
stato l’organo della rappresentanza del popolo federale europeo” (§ 277). Pertanto l’Unione europea
continua a restare “la creazione di stati democratici sovrani” (§ 278) e non può in nessun modo
essere considerata uno stato federale perché al suo interno non si può manifestare la “volontà di una
maggioranza europea che porti alla formazione di un governo” in modo che si realizzi “una genuina
competizione tra un governo e un’opposizione ben visibile ai cittadini” (§ 280). Questa dialettica tra
maggioranza e opposizione non potrebbe comunque manifestarsi nel Parlamento europeo attuale
perché i deputati europei sono eletti secondo un criterio degressivo, in base al quale i cittadini dei
paesi più piccoli sono sovra-rappresentati rispetto a quelli dei paesi più grandi. “Il risultato è che il
voto di un cittadino di uno Stato membro piccolo pesa dodici volte il voto di un cittadino di uno
Stato membro grande” (§ 285). A una maggioranza di deputati nel Parlamento europeo non
corrisponde necessariamente una maggioranza di elettori europei. In definitiva, non è “il popolo
europeo che è rappresentato, secondo l’art. 10.1 del TEU di Lisbona, ma i popoli europei
organizzati nei loro stati” (§ 286); il Trattato di Lisbona “non crea un nuovo livello di sviluppo della
democrazia” (§ 295), le cui fondamenta restano ben salde negli Stati nazionali sovrani.
Consideriamo ora i limiti della dottrina della sovranità nazionale. La sovranità nazionale non è solo
un concetto giuridico, ma anche un mito politico che è servito e serve per giustificare il potere
nazionale, la sua esistenza e il suo accrescimento, sino alla manifestazione di una volontà di potenza
che ha generato le maggiori tragedie della storia: le due guerre mondiali del secolo XX. La
riformulazione della dottrina della sovranità nazionale da parte dei giudici tedeschi è
apparentemente cauta e fondata sulle solide radici della democrazia e della volontà popolare.
Tuttavia, suggerisce la creazione di un mito che potrebbe trasformarsi in un mostro politico. Il mito
si genera da una visione della storia, che trascura alcuni fondamentali aspetti della realtà, per
esaltarne altri, immaginari, con la funzione di rendere comprensibile una situazione oscura o
giustificare un potere; in questo caso il potere nazionale. La storia della ricostruzione post-bellica
della Germania, in effetti, non giustifica l’ipotesi, avanzata dai giudici tedeschi, di una manifesta
volontà popolare di democrazia. Lo Stato tedesco post-bellico, ricostruito sulle ceneri dello Stato
hitleriano sconfitto, non è sorto grazie all’autodeterminazione del popolo tedesco, ma per volontà
delle grandi potenze vincitrici, in primo luogo USA e URSS, che hanno gettato le fondamenta
ideologiche e istituzionali delle nuove relazioni internazionali post-belliche, hanno diviso l’Europa
in due domini separati e hanno spezzato il vecchio Reich in due stati. Lo storico Golo Mann ha
potuto scrivere, nel 1958, senza essere smentito, che: “I due principi, la democrazia e il federalismo,
sono stati imposti ai tedeschi dai vincitori, come i vincitori imposero la monarchia alla Francia dopo
la caduta di Napoleone”. In termini meno crudi, il costituzionalista Carl Friedrich (nel 1950) ha
fornito una spiegazione convincente della sostanziale uniformità di tutte le costituzioni europee nel
dopoguerra per quanto riguarda la loro struttura democratica interna e la loro apertura alla
costruzione della pace e la devoluzione della sovranità nazionale a istituzioni sovranazionali.
Secondo Friedrich, le costituzioni sono il frutto di rivoluzioni, come dimostra la storia europea e
americana dell’età dei lumi. Nell’Europa post-bellica la volontà di rinnovamento si è manifestata,
tuttavia, mediante un insieme di “rivoluzioni negative, motivate non tanto da un entusiasmo
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positivo per un atteso splendido futuro, quanto dal rifiuto negativo di un sordido passato”. Il
concetto di “rivoluzioni negative” spiega non solo i contenuti democratici delle Costituzioni della
Germania e dell’Italia, i due paesi sconfitti, ma anche quelli della Francia e di altri paesi europei.
Si tratta, dunque, di prendere atto che l’ordine internazionale postbellico è stato costruito, grazie
alla volontà delle potenze vincitrici, sulla base del principio della sovranità nazionale, attenuato
dallo spirito di cooperazione pacifica rappresentato dalle Nazioni Unite. Anche la Germania, come
tutti gli altri Stati europei, ha dunque potuto considerarsi uno stato sovrano. Ma si è trattato di una
sovranità puramente formale, priva di sostanza. Non si deve dimenticare che la Germania
nell’immediato dopoguerra non aveva né una moneta, né un esercito, né il controllo della Ruhr. Nel
1951, fu solo grazie all’Unione Europea dei Pagamenti che la Germania riuscì a superare una grave
crisi economica e fu solo grazie alla creazione della Comunità europea che si poté realizzare il
cosiddetto Wirtschaftswunder, un miracolo economico che sarebbe meglio considerare europeo e
non nazionale. Tuttavia, nonostante la terminologia giuridica ottecentesca con la quale giudichiamo
ancora la realtà politica, la Germania (così come tutti gli altri stati europei) non può considerarsi
uno stato sovrano, se per sovrano intendiamo uno stato che ha i poteri necessari e sufficienti per
garantire una piena indipendenza ai propri cittadini. Il marco tedesco è stato considerato una moneta
forte, ma lo era solo perché la Germania poteva godere dei vantaggi dell’integrazione europea.
Inoltre, la Germania non ha mai avuto una difesa autonoma, ma solo delle truppe integrate in
un’alleanza militare, la NATO, governata dagli Stati Uniti. Quando i giudici tedeschi si fanno
paladini della difesa della sovranità tedesca – l’identità costituzionale – che cosa intendono
difendere?
Liberi dal pregiudizio ideologico della sovranità nazionale, i giudici costituzionali tedeschi
avrebbero potuto apprezzare gli aspetti innovativi della democrazia europea in costruzione. La
proporzionale pura, con cui essi pretendono di giudicare la legittimità democratica delle istituzioni
politiche, è solo una tecnica utilizzata in alcuni stati democratici per conseguire l’obiettivo del
governo rappresentativo. Altri sistemi considerano altrettanto importante la stabilità. Per questo i
sistemi elettorali di USA e Gran Bretagna utilizzano la tecnica elettorale del “first-past-the-post”. E’
noto che, in questi casi, può verificarsi, e si è effettivamente verificata, una maggioranza
parlamentare che non corrisponde alla maggioranza dei votanti. Ma poiché, mediante questo
sistema elettorale, si possono garantire stabili maggioranze di governo, i cittadini inglesi e
americani sono disposti ad accettare scostamenti dal principio della proporzionalità pura. In ogni
caso, è vero che nel caso della rappresentanza dei popoli “nazionali” si tende preferibilmente
all’applicazione del principio proporzionale. Tuttavia, il problema europeo è differente.
Nell’Unione Europea il problema consiste nella costruzione di una “democrazia sovranazionale”,
nella quale i popoli nazionali possano partecipare alla formazione delle leggi su una base di
eguaglianza non solo dei cittadini, ma dei popoli nazionali. Nei sistemi federali, questo problema
può essere risolto attraverso il bicameralismo, una camera in cui sono rappresentati i cittadini
dell’Unione – il popolo delle nazioni europee – e una camera in cui vengono rappresentati i popoli
nazionali. L’Unione europea sta affrontando questa sfida – mai affrontata nelle federazioni esistenti,
poiché sono tutte espressioni di popoli nazionali – mediante soluzioni istituzionali innovative, che
conciliano la democrazia rappresentativa con la difesa dell’identità nazionale. In questa prospettiva,
il Parlamento europeo ha accettato di attenuare la proporzionalità pura, mediante il principio della
rappresentanza degressiva, nella quale gli stati nazionali più popolosi accettano che gli stati più
piccoli possano avere un numero proporzionalmente maggiore di deputati, affinché anche i piccoli
paesi possano inviare, al Parlamento europeo, rappresentanti di tutte le espressioni politiche interne.
D’altro canto, anche il Consiglio dei Ministri, nel quale sono rappresentati gli stati nazionali, ha
attenuato il principio internazionalistico “uno stato, un voto”, accettando una correzione
“democratica” proporzionale, con il criterio delle decisioni fondate sulla doppia maggioranza degli
stati e della popolazione. Il Consiglio dei Ministri, al contrario di quanto affermano i giudici
tedeschi, è dunque ormai divenuto una seconda camera dell’Unione, almeno per quanto riguarda
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l’approvazione della legislazione europea che avviene sulla base del principio della “codecisione”
tra Parlamento e Consiglio. Si può pertanto affermare che l’Unione Europea sta effettivamente
realizzando un tipo di democrazia nuova, una democrazia sovranazionale – così, in effetti, l’ha
definita il Parlamento europeo – o, meglio, una democrazia federale, grazie alla quale tutti i
cittadini e tutti i popoli nazionali dell’Unione possono contribuire, nella libertà e nell’eguaglianza,
alla formazione di una volontà politica europea.
Dobbiamo ora prendere in considerazione il secondo problema, quello delle possibili conseguenze
politiche della dottrina elaborata nel nucleo ideologico illustrato in precedenza. Si tratta di una
dottrina che segnala un punto di svolta nella storia dell’integrazione europea. La prima Comunità
europea, la CECA, è stata costruita come primo passo verso la Federazione europea, come si
afferma nella Dichiarazione Schuman. Tuttavia, l’obiettivo finale della Federazione si è perseguito
mediante il metodo dell’integrazione economica che, col tempo, ha reso impensabile, e quindi
impossibile, una nuova guerra tra i paesi dell’Unione europea. Oggi, possiamo dunque affermare
che l’Unione europea è una federazione di fatto, se l’essenza di una federazione consiste nella
rinuncia degli stati membri alla guerra come mezzo per la soluzione delle loro controversie.
Tuttavia, dalla Dichiarazione Schuman a oggi molta acqua è passata sotto i ponti: è caduto il Muro
di Berlino, è finita la guerra fredda e l’Unione europea si è allargata a 27 paesi. Inoltre, nessun
politico ai vertici politici nazionali, oggi, ha sperimentato direttamente la tragedia della seconda
guerra mondiale. Per le nuove generazioni, il problema della pacificazione dell’Europa non
rappresenta più la motivazione morale primaria della costruzione europea. L’Unione europea deve
affrontare problemi nuovi, come la globalizzazione economica, la crisi finanziaria internazionale, la
minaccia di una crisi ecologica planetaria e la sicurezza internazionale, in una situazione sempre più
multipolare, con un declinante ruolo degli Stati Uniti come potenza egemone. Si può dunque
comprendere come, dopo il fallimento del progetto di Costituzione europea, nel Trattato di Lisbona
siano comparse norme e principi che consentono ai giudici tedeschi – e prima di loro a un gran
numero di accademici “realisti”, quali Milward e Moravsic – di elaborare e rendere credibile, per
l’Unione europea, l’ambigua concezione di Staatenverbund, ovvero una unione di stati nazionali
sovrani. Si tratta di una nozione talmente vaga che può essere utilizzata per designare realtà molto
differenti dall’Unione europea, come ad esempio la Lega delle Nazioni. Si potrebbe, tuttavia, anche
affermare che gli USA sono un’Unione di Stati sovrani – i cinquanta stati membri che conservano
tutti i poteri “sovrani” che non sono stati affidati al governo federale – più il governo federale.
Altrettanto bene si potrebbe dire che l’Unione europea è un’Unione di Stati sovrani più un sistema
di governance confuso e poco democratico. Tuttavia, la questione sostanziale non è terminologica.
Dobbiamo chiederci: i politici europei quali margini di manovra vogliono sfruttare con questa
ambigua nozione? E’ davvero possibile che la Germania (o un altro paese importante, come la
Francia) esca dall’Unione europea? E con quali conseguenze?
Per rispondere a questi interrogativi, possiamo ricordare a un precedente storico rilevante. Si tratta
della dottrina dei “diritti degli stati” elaborata da John Calhoun, nella prima metà dell’Ottocento, in
una Federazione americana ancora incerta tra unione e divisione. La disputa era sorta
originariamente intorno all’imposizione di dazi protettivi per favorire lo sviluppo industriale. Questi
dazi erano favoriti dal Nord, ma osteggiati dal Sud. Calhoun sostenne che il patto costituzionale
federale consisteva in una volontaria rinuncia di poteri degli stati membri – che restavano sovrani –
al governo federale. Il governo federale non poteva esercitare poteri sui cittadini dell’Unione che
non fossero espressamente previsti nel patto originario. Ogni stato poteva dunque, sulla base del suo
ordinamento costituzionale e politico, decidere unilateralmente di annullare (nullification) la
legislazione federale se la materia in questione era controversa, cosa che la Convenzione del South
Carolina effettivamente fece nel 1832. In risposta, il governo federale minacciò l’uso della forza
militare per riportare il South Corolina alla ragione. Alla fine, nel 1833, il Presidente Jackson
propose un compromesso e la disputa si risolse pacificamente. Tuttavia, quando negli anni
successivi il problema controverso riguardò l’abolizione della schiavitù, un compromesso tra Nord
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e Sud non fu possibile e gli Stati Uniti affrontarono una sanguinosa guerra civile. La dottrina di
Calhoun dei diritti degli stati e del potere di annullamento delle leggi federali divenne la
giustificazione ideologica della disgregazione dell’Unione americana.
Il caso statunitense è rilevante anche per l’Europa contemporanea. La dottrina di Calhoun e il
dramma della guerra civile statunitense sono discussi da Carl Schmitt in Verfassunglehre (1927).
Giustamente Schmitt fa osservare che in una federazione è possibile che si manifestino delle
“antinomie giuridiche e politiche” che possono condurre alla sua dissoluzione. “E’ inammissibile –
sostiene Schmitt – che l’esistenza globale della federazione sopprima l’esistenza particolare degli
stati membri o che questa esistenza degli stati membri sopprima quella della federazione”. Un
conflitto sulla sovranità non può essere risolto con una decisione giuridica. Si tratta di un problema
esistenziale che deve prima di tutto essere tranciato politicamente. In sostanza, l’antinomia giuridica
e politica può essere superata solo se gli stati membri e la federazione si accordano su regole
comuni di convivenza, che realizzino una “omogeneità politica”, mediante un patto di rinuncia
permanente all’uso della forza e alla secessione. Solo a questo punto ha senso affidare a un organo
giuridico, la corte suprema federale, il compito di redimere le controversie tra gli stati membri e tra
questi e il governo federale.
L’osservazione di Schmitt è utile per comprendere le difficoltà attuali dell’Unione europea e le vie
per il loro superamento. A differenza degli Stati Uniti d’America della prima metà del Secolo XIX,
l’Unione europea non deve oggi affrontare dei problemi esistenziali che potrebbero scatenare un
conflitto tra gli stati membri o tra di loro e il governo federale (che non esiste ancora). E’ difficile,
se non impossibile, che i governi nazionali convincano i cittadini europei che una guerra (ad
esempio tra Francia e Germania) è una prospettiva possibile e sensata. Il vero conflitto esistenziale,
di cui parla Schmitt, è puramente interno alla classe politica europea e ai suoi stati membri, in
particolare a Francia e Germania. Sono questi due stati che devono decidere quanti poteri ancora
affidare all’Unione europea per consentirle di agire, con un governo democratico ed efficace,
nell’arena mondiale. Ciò non toglie che il pericolo di una dissoluzione dell’Unione si possa
manifestare in forme diverse da una guerra. Uno Staatenverbund è una costruzione politica
instabile. La Germania, sostenuta dalla Francia, è fortemente tentata dalla richiesta di una sua
partecipazione nazionale al Consiglio di sicurezza dell’ONU, in alternativa ad una partecipazione
europea. Francia e Germania vorrebbero creare un direttorio di paesi forti, per diventare la punta di
lancia della politica estera europea. E’ un’illusione. Un ingresso della Germania nel Consiglio di
sicurezza rappresenterebbe un rifiuto esplicito di una politica estera comune europea e,
probabilmente, la premessa di un armamento atomico tedesco. Questa prospettiva genererebbe
rancori e gelosie tra gli altri paesi dell’Unione. Al contrario, l’esperienza della moneta unica ha
mostrato che il marco tedesco poteva essere considerato una moneta forte in Europa, ma non è mai
stato tanto forte da diventare una moneta mondiale. Oggi, l’euro è una moneta mondiale, alternativa
al dollaro. Chi vuole una politica estera tedesca autonoma coltiva l’illusione di una possibile
politica mondiale tedesca (una Weltpolitik). Tuttavia, la Germania non può diventare una potenza
mondiale. Solo l’Unione europea può oggi avere la forza, se unita, di dialogare alla pari con le
grandi potenze continentali, come la Cina, l’India, il Brasile, oltre che USA e Russia.
In conclusione, occorre essere grati ai giudici tedeschi per aver sollevato con chiarezza un problema
cruciale per il futuro dell’Unione europea. La loro analisi consente di affermare che esiste un
duplice deficit democratico dell’Unione: un deficit di responsabilità di governo (accountability) e
un deficit di efficacia, quando la decisione è bloccata dal veto. Il primo deficit dipende dal fatto che
i poteri attuali dell’Unione europea, che sono considerevoli dopo la creazione dell’Unione
monetaria e l’approvazione del Trattato di Lisbona, non sono gestiti da organi pienamente
responsabili nei confronti dei cittadini. La denuncia dei giudici tedeschi della mancanza di un chiaro
rapporto tra elettore, Parlamento europeo e governo europeo è pienamente giustificata e condivisa
dai federalisti. Il secondo aspetto del deficit democratico riguarda, invece, la necessità di abolire il
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diritto di veto nel Consiglio europeo, anche per quanto riguarda la politica estera, la sicurezza e la
fiscalità che, sebbene in misura modesta (rispetto a quella nazionale), deve essere affidata
all’Unione per consentirle di affrontare efficacemente le sfide economiche globali. Non è vero, a su
questo punto i giudici tedeschi non hanno ragione, che l’abolizione del diritto di veto metterebbe a
repentaglio l’identità delle nazioni europee. I giudici tedeschi non possono accusare l’Unione
europea di essere poco democratica e, contemporaneamente, difendere il diritto di veto nel
Consiglio. L’identità politica e culturale delle nazioni europee nel mondo dell’interdipendenza
globale sarà più garantita se i paesi europei sapranno agire uniti nella politica mondiale. Dopo la
seconda guerra mondiale è iniziato quel processo, che Friedrich definisce rivoluzione negativa,
mediante il quale i popoli nazionali europei hanno conquistato nuove libertà e nuovi poteri
mediante una progressiva unificazione politica che nella prassi quotidiana ha creato un’unità
federale in molti settori della vita pubblica. Ora è venuto il momento di decidere se questa “unità
federale di fatto” debba diventare anche un’unità giuridica e politica. L’Unione Europea ha bisogno
di un governo federale e di una Costituzione. Questa decisione spetta alla classe politica e, in
particolare, ai cittadini europei. I giudici, tuttavia, possono contribuire, con i loro giudizi, a
ostacolare o assecondare questa scelta.
Guido Montani
Vice-Presidente dell’UEF
Agosto, 2009
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