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Dramatis Oves
Miss Maple
la pecora più intelligente del gregge e, forse,
del mondo.
Mopple the Whalela grassa pecora dalla memoria portentosa,
un montone merino perennemente affamato.
Sir Ritchfield
il vecchio montone capo, ha ancora la vista
migliore del gregge.
Othello
il nuovo montone capo, nero, ha quattro
corna ed è molto risoluto.
L’agnello invernale un giovane outsider in cerca del proprio
nome.
Ramses
un montone giovane e nervoso con delle
buone idee.
Zora
una pecora con il muso nero e un debole per
i precipizi.
Heide
un’energica, giovane pecora.
Cloud
la pecora più lanosa del gregge.
Cordelia
una pecora idealista.
Maude
il miglior fiuto del gregge.
Lane
è la pecora con le zampe più lunghe e la più
veloce che ci sia.
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Melmoth
il fratello gemello di Ritchfield. Un montone
indimenticato.
Willow
la seconda pecora più taciturna del gregge.
La pecora più
taciturna del gregge
Il non tosato
uno straniero arruffato.
Dramatis Caprae
Madouc
una piccola capra nera piena di idee pazzesche.
Megära
la capra con l’orecchio nero.
Amaltée
una giovane capra grigia.
Circe
una giovane capra rossiccia.
Kalliope
una giovane capra pezzata bianca e marrone.
Kassandra
una vecchia capra cieca.
Bernie
un caprone leggendario.
La capra con
un corno solo
una scettica.
Dramatis Personae
Rebecca
la pastora.
Mamma
sua madre.
Il Picchio
è il signore del castello e zoppica un poco.
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Hortense
profuma di violetta e si occupa dei cuccioli d’uomo.
Jules e Jean
due cuccioli d’uomo.
Madame Fronsac
la governante, Mamma la chiama “la
Balena”.
Monsieur Fronsac
guarda.
Mademoiselle Plin
l’amministratrice dall’austera pettinatura.
Paul il pastore di capre tace.
Yves
un tuttofare.
Il giardiniere
sorveglia il meleto.
Eric
fa il formaggio di capra.
Zach
un agente molto segreto.
Malonchot
un poliziotto.
Il veterinario
non è benvoluto dalle pecore.
Il piccolo
passeggiatore
Il grosso
passeggiatore
un ospite invernale.
un secondo ospite invernale.
Dramatis Canidae
Tess
il vecchio cane pastore.
Vidocq
un cane pastore ungherese.
Il Garou
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“Cosa state facendo?” domandò la capra con un corno solo.
“Un thriller!” proclamò la capra grigia, agitando drammaticamente le orecchie.
“Con le pecore?” domandò la capra con un corno solo, strizzò un occhio e sbirciò con aria critica attraverso lo steccato.
“Un capriccio!” disse la capra grigia scalpitando.
“Una commedia!” disse la capra sul comò.
“Non sarà mai e poi mai una commedia,” disse la capra con
un corno solo e guardò ancora attraverso il recinto.
“È tutto una commedia!” brontolò la capra sul comò. “Una
commedia con tanto rosso!”
Le tre capre guardarono le pecore che pascolavano ignare.
“Tutto questo ce lo immaginiamo soltanto!” disse la capra
con un corno solo.
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Prologo
Passato.
Finito.
Era sempre bello, dopo.
Gli piaceva starsene lì, appoggiato a un albero, ad ascoltare
l’eccitazione della caccia che si disperdeva nella neve. Come il
sangue. Il cielo e il fruscio del bosco sopra di lui, il terreno sotto
i suoi piedi. E davanti, un quadro.
Era tutto così tranquillo. Senza paura. Senza fretta. Si sentiva
libero. Rinato. Sorpreso di possedere due mani – com’erano
rosse! – e due gambe e una forma.
Durante la caccia tutto era informe, c’era soltanto un davanti
e un dietro, una traccia, una preda e la velocità. Vita e morte.
Quattro o due zampe? Non era importante. E talvolta le prede gli
sfuggivano. Raramente. Andava bene così. Andava tutto bene.
Un pettirosso si posò su un ramo. Così grazioso, così vicino,
così pieno di vita. Amava il bosco. Non era importante ciò che
era successo o quello che sarebbe successo: il bosco lo accoglieva comunque e lui diventava un animale come gli altri. Se fosse
stata notte, adesso, avrebbe ululato alla luna per la felicità.
Ma non era notte e anche questa era una buona cosa. Era
giorno fatto e i colori scintillavano.
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E il tempo passava.
Sospirò. Il tempo che seguiva era sempre troppo breve.
Presto avrebbe cominciato a sentire freddo. Doveva fare ritorno. Lavare le mani nella neve fino a farle tornare bianche.
Indossare i guanti. Un altro paio di stivali. Zigzagare. Far sparire le sue tracce. Ricominciare a pensare. Alle compere da fare,
all’ispettore delle imposte e, naturalmente, a loro. Alle cose cui
pensano gli uomini, appunto.
C’era un vestito da portare in tintoria. Il dopobarba era finito. Nella stanza da letto c’era una pianta dall’aria triste. Doveva
innaffiarla? Forse. Non ne capiva granché di piante. Il lavoro lo
aspettava. E il pranzo. Funghi cotti nel burro, una salsa alla
panna e una bistecca. Patate fritte? Perché no! Pâté di fegato
d’oca? Che giorno era oggi? E pane fresco! Del pane con una
crosta croccante ci sarebbe stato bene.
Dette un’ultima occhiata al quadro davanti a lui – di nuovo
la volpe! La volpe era una nota interessante – poi se ne andò
sulle sue due gambe e a ogni passo si trasformava un poco.
Quando uscì dal bosco gli venne da ridere. Pecore! Con la
neve e le pecore, il castello aveva un aspetto molto più interessante. Com’erano bianche, tutte tranne una. La pecora nera lo
innervosiva.
Proseguì lungo il recinto, diretto al castello, sbirciando di
nascosto la sua finestra. Non poteva fare altrimenti.
Niente.
Nel profondo, dentro di lui, il Garou si raggomitolò sazio e
soddisfatto, e si addormentò.
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Prima parte
PELLI
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“E poi?” chiese l’agnello invernale.
“Poi le pecore madri portarono gli agnelli al sicuro, lontano
dall’uomo con il piccolo cane. E trovarono un… un…” Cloud,
la pecora più lanosa del gregge, non sapeva più come continuare.
“Un mucchio di fieno!” suggerì Cordelia. Cordelia era una
pecora molto idealista.
“Esatto, un mucchio di fieno!” disse Cloud. “E le pecore
madri si sfamarono e gli agnelli si rotolarono tutti insieme nel
fieno, e tacquero!”
Le pecore belarono entusiaste. A forza di raccontarla, la
storia di The Silence of the Lambs1 aveva subito, di volta in volta,
alcune variazioni e ogni volta ci aveva guadagnato un po’.
Rebecca, la pastora, aveva letto loro quel libro in autunno,
quando le foglie erano già ingiallite, ma il sole era ancora rotondo, maturo e sano. Nel frattempo, le pecore non sapevano più
spiegarsi perché allora, nelle prime fredde e argentee notti
autunnali, quella storia le avesse fatte rabbrividire. Soltanto
Mopple the Whale, la grassa pecora dalla memoria di ferro, si
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Si è deciso di utilizzare il titolo originale del romanzo di Thomas
Harris, poiché la traduzione italiana, Il silenzio degli innocenti, non giustificherebbe l’interesse delle pecore per la storia raccontata. (N.d.T.)
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ricordava ancora che nel libro che Rebecca leggeva sui gradini
caldi di sole del capanno, di agnelli ce n’erano ben pochi, e
pochissimo fieno.
Il vento tesseva fili di neve tra le loro zampe. Più in basso,
presso il recinto del pascolo, gli arbusti spogli tremolavano e la
storia era finita.
“Era un grande mucchio di fieno?” domandò Heide che era
ancora giovane e non voleva che le storie finissero così, semplicemente.
“Molto!” disse Cloud con convinzione. “Grande come…
grande come…”
Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa di grande. Heide?
No. Per una pecora, Heide non era molto grande. Mopple the
Whale era già più grande di lei. E più grasso. Il capanno, che
stava al centro del loro pascolo, era più grande di tutte le pecore, ma il fienile lo era ancora di più. La cosa più grande in assoluto era la vecchia quercia che cresceva al margine del bosco e
che, in autunno, aveva fatto cadere a terra un’infinità di foglie
scricchiolanti, marroni e amare. Era stato un lavoraccio pascolare in mezzo a tutte quelle foglie.
Sui lati del pascolo, a sinistra, c’era il frutteto e, a destra, il
pascolo delle capre. Sul pascolo delle capre non c’era niente di
grande. Soltanto le capre. Dietro i due pascoli c’era il bosco,
sconosciuto, frusciante e fin troppo vicino. Davanti a loro c’era
il cortile, con le stalle, le abitazioni, i camini che fumavano e la
gente chiassosa, e subito accanto, vicino, grigio e massiccio
come una zucca, il castello. Dato che il loro pascolo saliva
leggermente verso il bosco, le pecore lo vedevano benissimo.
“Grande come il castello!” disse Cloud trionfante.
Le pecore si meravigliarono. Il castello era davvero molto
grande. Aveva una torre appuntita e tante finestre e ogni sera
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toglieva loro il sole troppo presto. Un mucchio di fieno sarebbe
stato un felice cambiamento.
Si sentì un colpo. Le pecore si spaventarono.
Poi allungarono il collo, curiose.
Un oggetto era volato fuori dalla finestra del capanno. Di
nuovo!
Il gregge si mise in movimento. Di recente volavano spesso
degli oggetti dalla finestra del capanno e ogni tanto c’era qualcosa di interessante. Un tegame con della pappa d’avena appena
un po’ bruciacchiata, per esempio, o una pianta, un giornale. La
pianta aveva provocato flatulenza. Il giornale era piaciuto
soltanto a Mopple.
Quella era una giornata niente male: davanti a loro, nella
neve, c’era un maglione di lana. Il maglione di Rebecca. Il
maglione. Alle pecore quel maglione piaceva più di tutti gli altri.
Era l’unico capo d’abbigliamento che capivano. Bello e nel
colore delle pecore, spesso e lanoso, e poi aveva un odore. Non
odorava solo vagamente di pecora, come accadeva con molti
maglioni di lana, bensì di un certo tipo di pecora. Di un gregge
che aveva vissuto sul mare, pascolato erbe salate, trottato su
terreni sabbiosi, respirato un vento che veniva da lontano. Chi
lo annusava attentamente, riusciva addirittura a distinguere la
personalità delle diverse pecore. C’era dentro la lana di una
pecora madre che sapeva di latte, di un montone sporco di resina e della pecora scarna e arruffata ai margini del gregge. C’era
l’odore dei denti di leone e del sole e le grida dei gabbiani nel
vento.
Le pecore respirarono quell’aroma lanoso e sospirarono.
Avevano nostalgia del loro vecchio pascolo in Irlanda, dei grandi spazi aperti e del grigio mormorio del mare, degli scogli, della
sabbia e dei gabbiani, e addirittura del vento. Nel frattempo era
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chiara una cosa: era il vento a dover viaggiare, le pecore dovevano restarsene a casa.
La porta del capanno si aprì e Rebecca, la pastora, scese
pesantemente le scale, con le labbra tirate, a piccoli passi rabbiosi. Raccolse il maglione dalla neve mettendo fine a quella gioia
per l’olfatto.
“Basta!” mormorò con le sopracciglia pericolosamente
aggrottate, mentre scuoteva i cristalli di neve dal maglione.
“Basta! Le faccio fare un bel volo! Questa volta le faccio fare un
bel volo!”
Le pecore la sapevano meglio. Dalla finestra del capanno
volava ogni tipo di oggetto, ma non lei. In genere si muoveva di
rado, ma quando lo faceva, allora, era sorprendentemente veloce. Le pecore dubitavano addirittura che sarebbe potuta passare attraverso la finestra del capanno.
Anche Rebecca sembrò dubitarne. Abbassò lo sguardo sul
maglione e sospirò profondamente. Dietro il vetro opalino della
finestra del capanno apparve un volto, singolarmente dolce e
largo, che fissò con disapprovazione Rebecca e le pecore.
Rebecca non lo guardò. Le pecore ricambiarono lo sguardo
affascinate. Poi il volto scomparve di nuovo e, in compenso, si
aprì la porta del capanno. Ma nessuno uscì.
“Quella cosa puzzolente non entra più in casa mia!” si udì
strillare da dentro.
Rebecca fece un profondo respiro.
“Non è una casa,” disse minacciosamente piano. “E non è
affatto casa tua. Questo è un capanno. Il mio capanno. E il
maglione non puzza. Odora di pecora! È normale quando è
umido. Anche le pecore odorano di pecora quando sono bagnate! Le pecore odorano sempre di pecora!”
“Esatto!” belò Maude.
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“Esatto!” belarono le altre pecore. Maude era la pecora con
il miglior fiuto del gregge. Di odori se ne intendeva.
Dal capanno spirò un silenzio gelido.
“E non puzzano!” disse Rebecca con rabbia. “L’unica cosa
che puzza qui, sono le tue…”
S’interruppe e sospirò di nuovo.
“Bottigliette!” belò Heide.
“Ciprie!” belò Cordelia.
“E le capre!” aggiunse Maude per amor di completezza.
Le pecore avvertirono che il silenzio all’interno del capanno si addensava, formando una nuvoletta scura. E la nuvola
pensava.
“E con questo?” strillò poi. “Per quel che m’importa, che
odorino pure di pecora! Possono starsene lì tutto il santo giorno
e odorare di pecora! Là fuori! Ma non qui dentro. Qui dentro
le pecore non sono ben accette!”
“Esatto!” belò Sir Ritchfield, il vecchio montone capo. Sir
Ritchfield era sempre stato per l’ordine. Le altre tacquero. La
vita all’interno del capanno, con tutti i suoi odori di cibo e di
piante da appartamento, le aveva sempre interessate.
“Sul serio, Reba, un po’ di igiene!” disse la voce, questa volta
in un tono dolce e materno.
Igiene non suonava male. Un po’ come l’erba fresca, verde e
scintillante.
“Igiene!” belarono con approvazione le pecore. Tutte meno
Othello, il nuovo montone capo, nero come un corvo. Othello
aveva trascorso la gioventù in uno zoo e lì aveva visto da lontano
– e soprattutto fiutato – alcune ig-iene e sapeva che non c’era
motivo di farsi prendere dall’entusiasmo. Niente affatto.
Rebecca abbassò le braccia e una manica del maglione che
aveva appena finito di scuotere con cura, finì di nuovo nella
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neve. Sembrava smarrita, un po’ come un giovane montone che
non sa esattamente se deve scappare o attaccare.
“Attacco!” belò Ramses. Anche Ramses era un giovane
montone, e per lo più sceglieva la fuga.
Rebecca abbassò la fronte, si strinse il maglione al petto
sgualcendolo, e si mise ben eretta. Non era molto alta. Ma
riusciva a sembrare molto alta quando voleva.
“Questo è il mio capanno. E queste sono le mie pecore. E il
mio maglione. E qui nessuno ha bisogno dei tuoi consigli. Ho
ereditato tutto da papà, perché ha avuto fiducia in me, e sai una
cosa? Non me la cavo affatto male!”
Le pecore sentirono che all’interno del capanno si stava verificando un cambiamento. La nuvola si dilatò, divenne più chiara e umida. Poi cominciò a piovere.
“Tuo paaadre!” sussurrò Heide all’orecchio di Lane.
“Tuo paaaaadre!” si sentì gemere dentro il capanno.
“Be’, fantastico. Brava, Rebecca!” mormorò Rebecca.
Il capanno sospirò profondamente, poi sulla porta apparve
una donna. Non pareva che stesse semplicemente in piedi. Dava
l’impressione di essersi attaccata alla cornice della porta con delle
ventose, come un’elegante lumaca senza guscio, pulita, marrone
e lucida. L’acqua le scorreva dagli occhi e le sfocava il viso.
Le pecore la guardarono inquiete.
Avevano visto quel volto la prima volta sotto la pioggia scrosciante, strano e bagnato in egual misura.
Nel frattempo le pecore si erano convinte che la donna avesse portato la pioggia, forse nella sua borsetta blu oceano, forse
dentro la sua piccola valigia di metallo scintillante, probabilmente dentro le tasche del suo impeccabile cappotto. La pioggia era stata sua alleata, quando aveva bussato alla porta del
capanno, la pioggia e una crema di liquore fatta in casa.
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Rebecca le aveva aperto e la portatrice di pioggia aveva
cominciato a rovesciarle addosso un fiume di parole: nostalgia,
figlia, ma che bel nido, d’ora in poi volerò solo in prima classe,
figlia, preoccupazioni, soltanto per le feste, sei molto magra, e ti
ho portato anche la buona crema di liquore.
A Rebecca erano cadute le braccia.
“Mamma!”
Non era suonato proprio come un invito, ciononostante la
donna e la pioggia erano rimaste. Prima non aveva mai piovuto,
per tutto l’autunno, al massimo un acquazzone che aveva fatto
gracidare di felicità le rane nel fossato del castello. Ma a parte
questo, niente.
Da quando la donna era arrivata, aveva piovuto e basta. Dal
tetto del fienile gocciolava l’acqua. Il suolo era fangoso e sdrucciolevole, soprattutto sotto il trogolo. Il mangime sapeva di
umidità. Il piccolo ruscello che attraversava il loro pascolo era
diventato marrone e Mopple the Whale, mentre andava a caccia
d’erba sulla scarpata, c’era finito dentro.
“Panta rei,” dissero le capre, presso il recinto.
Prima cadde la pioggia. Poi la neve. Poi la crema di liquore
volò dalla finestra. Poi altri oggetti. Rebecca riportò nel capanno alcune delle cose che erano state così bandite, Mamma ne
riportò delle altre, e alcune non le riportò dentro nessuno, e così
Mopple aveva mangiato il giornale e la notte aveva sognato un
uomo con la testa di volpe.
C’era una qualche relazione in tutto questo, ma le pecore non
capivano quale.
“Questo non ha niente a che vedere con papà,” disse Rebecca,
dolcemente adesso, e s’infilò il maglione. “Si tratta solo di me e
di te. Tu sei un’ospite qui e io voglio che ti comporti come tale.
Tutto qui. Okay?”
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“Okay,” disse Mamma sulla porta, tirando su con il naso e
asciugandosi gli occhi con un fazzoletto bianco.
“Okay!” belarono le pecore. Sapevano cosa sarebbe venuto
adesso: le sigarette. Mamma seduta sui gradini del capanno,
Rebecca un po’ più in alto, sul pendio, appoggiata all’armadio
che, misterioso e misteriosamente, si trovava sotto la vecchia
quercia.
Fumo e silenzio.
Anche le pecore tacevano, raspavano nella neve, brucavano
l’umida erba invernale o almeno così sembrava. Tutte aspettavano quello che sarebbe successo a breve. Qualcosa che si vedeva appena, ma che in compenso si fiutava distintamente.
Sul loro pascolo c’era una pecora straniera. Era lì da prima di
loro, non sul pascolo, bensì nel meleto e sulla sottile striscia di
prato tra il pascolo e il limitare del bosco. Adesso stava con loro
e, giorno dopo giorno, gironzolava intorno al recinto del pascolo.
Ogni volta che Rebecca si appoggiava all’armadio a fumare,
lo straniero s’impietriva. Non muoveva più niente, né un orecchio, né un ciglio, nemmeno la punta della coda. Ma emanava
un odore. Quello del panico più puro e cieco. Come quello di
un agnello che fugge nella palude davanti ai cani selvaggi. Non
che alle pecore fosse già capitato di fuggire nella palude davanti a dei cani selvaggi, per fortuna no, ma riuscivano a immaginarselo molto bene.
Quella faccenda le innervosiva.
Lo straniero non era, di solito, pauroso. Non aveva paura di
Tess, la vecchia cagna che, per lo più, dormiva sui gradini del
capanno, e non aveva paura neanche delle quattro corna nere di
Othello. Però aveva paura di Rebecca, quando la pastora si
appoggiava all’armadio a fumare, guardando il pascolo. Aveva
una paura pazzesca.
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Rebecca spense infine la sigaretta, se la mise scrupolosamente in tasca e ridiscese al capanno. Lo straniero si rilassò e iniziò
a mormorare. Le altre pecore abbassarono le orecchie e la coda
e cercarono di scuotersi di dosso quel silenzio.
Lo straniero dava loro sui nervi. Non aveva veramente l’odore di una pecora, non si comportava come una pecora e, soprattutto, non aveva l’aspetto di una pecora. Sembrava piuttosto
una grande pietra informe, coperta di muschio.
Ciononostante, Miss Maple, la pecora più intelligente del
gregge e forse del mondo, sosteneva che lo straniero fosse una
pecora. Una pecora solitaria che nessuno aveva più tosato da
anni, con una massa di lana infeltrita e indurita sulla schiena, e
una storia che nessuno conosceva.
“Si abitueranno a stare insieme!” aveva detto Rebecca quando, insieme al capraio, aveva spinto la pecora straniera dal meleto sul loro pascolo.
Il capraio aveva strizzato gli occhi e tossito. O forse si era
trattato di una risata polverosa.
Non si erano abituate, neppure un po’. Al contrario: ogni
giorno che passava il montone non tosato sembrava loro un
poco più estraneo. E un po’ più distante.
Stava tra di loro, ma non con loro, si muoveva in un gregge
che, però non era il loro. Qualche volta avevano l’impressione
che non le vedesse affatto. Vedeva altre pecore, che nessun’altro, oltre a lui, era in grado di vedere.
Pecore fantasma.
Fantasmi.
Adesso il non tosato abbandonò la sua postazione in alto, sul
limitare del bosco, e attraversò il pascolo al trotto, superò il
fienile e il capanno, saltò il ruscello e si diresse nell’angolo che
confinava con il meleto, mormorando esortazioni a una schiera
di pecore invisibili che lo seguivano.
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Le pecore non lo guardarono. Tutte eccetto Sir Ritchfield.
“Credo… che sia una pecora!” belò Ritchfield eccitato. In
quel periodo, il vecchio montone capo era molto interessato alla
questione su chi fosse una pecora, e chi no.
Le altre sospirarono. Ancora una volta si chiesero se quel
viaggio in Europa fosse stata davvero una bella idea.
Avevano ereditato il viaggio da George, il loro precedente
pastore. Un giorno avevano trovato George sdraiato sul loro
pascolo, semplicemente, con una vanga nel ventre. Le pecore
non avevano avuto niente a che fare con ciò – be’ insomma, non
molto comunque –, ma avevano ereditato: un viaggio in Europa,
il capanno con dentro Rebecca, la figlia di George, che aveva il
compito di foraggiarle e leggere per loro. C’era scritto nel testamento.
Poi però doveva essersi verificato un errore. L’Europa di cui
aveva parlato George era piena di meli in fiore, di campi di erbe
aromatiche e di uno strano pane lungo. Nessuno aveva mai
parlato delle auto strombazzanti, delle strade polverose e delle
zanzare ronzanti, della neve, delle pecore fantasma, e meno che
mai delle capre.
Le pecore davano la colpa alla carta stradale. Rebecca aveva
portato con sé una carta colorata che, durante le loro escursioni,
fissava spesso e a lungo, e quella carta evidentemente non ne
sapeva niente dell’Europa.
Tre pecore avevano attirato Rebecca in un campo di girasoli, mentre Mopple the Whale aveva addentato la carta che si
trovava sui gradini del capanno e l’aveva mangiata tutta, perfino la parte di cartone, dura e brillante. E davvero: un paio di
giorni più tardi, davanti al capanno, era comparsa una donna
con i capelli raccolti sulla testa in un’austera pettinatura, che
con qualche lusinga aveva invitato le pecore. Poco dopo, l’este26
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nuante vita nomade era finita e loro avevano adesso di nuovo
un pascolo, un fienile, un magazzino per il foraggio e questa
volta addirittura un armadio. E tuttavia, non era il loro vecchio
pascolo.
“Dimmi un’altra volta perché siamo qui,” sospirò Mamma
che stava ancora attaccata alla porta come una lumaca e si era
accesa un’altra sigaretta. Tess riuscì a infilarsi tra lei e la porta e
salutò Rebecca sui gradini del capanno agitando la coda.
Rebecca si accovacciò e accarezzò Tess dietro le orecchie. Tess
cercò di infilare il muso brizzolato sotto l’ascella di Rebecca.
“Io sono qui perché le pecore hanno bisogno di un ricovero
per l’inverno,” disse Rebecca. Lo aveva già spiegato cento volte,
prima alle pecore, poi a Mamma, qualche volta anche a se stessa.
“Il pascolo è buono, l’affitto conveniente. Il paesaggio è idilliaco. Sono stata invitata. Perché tu sei qui, non lo so.”
Le pecore sapevano perché Mamma era lì: era una parassita.
Rebecca lo aveva confidato loro una volta, mentre distribuiva il
fieno. “Fa la raffinata, ma in realtà è al verde. E come potrebbe
essere altrimenti, con il lavoro che fa? Poi intruglia un po’ di
crema di liquore e non si sposta più per settimane. Soltanto per
il periodo delle feste? Bah! Lo vedrete. Non ho ancora idea di
come farò a liberarmene.”
Non certo attraverso la finestra del capanno, questo era poco
ma sicuro. Mamma soffiò il fumo su Rebecca e Tess e guardò
con aria critica verso il castello.
“Dovremmo andarcene da qui. Guardati intorno, bambina
mia! È un posto abbandonato da Dio, e poi qui sono tutti pazzi.”
“Hortense è a posto,” disse Rebecca.
“Non ha stile,” disse Mamma sprezzante. “Pensavo che le
francesi avessero stile. E che mi dici del capraio laggiù? Se ne va
in giro tutto il giorno per il bosco e quando passa di qui non dice
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una parola. È forse normale questo? Hai notato che gli altri gli
stanno alla larga? Ci sarà pure un motivo.”
“Stanno alla larga anche da noi,” disse Rebecca.
Tess si era girata sulla schiena e adesso Rebecca le accarezzava la pancia.
“C’è una ragione anche per questo,” disse Mamma. “Tu non
la capisci la gente, Reba. Proprio come tuo padre. Le persone
non ti sono mai interessate. A me sì. Io le sento. Io le vedo.
Idilliaco? Le carte dicono qualcosa di diverso!”
Le pecore si scambiarono uno sguardo eloquente. Le carte
dicevano spesso qualcosa di diverso. Proprio come la carta stradale, fino a quando Mopple non l’aveva mangiata. Tutti i loro
problemi erano cominciati con quella carta stradale.
“Sai quale carta compare in ogni mia seduta, da due settimane?”
Rebecca sospirò, si rialzò e si stirò come un gatto.
“Il Diavolo!” belarono le pecore in coro. Era sempre la stessa cosa.
“Il Diavolo!” riecheggiò Mamma trionfante dai gradini del
capanno.
Rebecca rise. “Questo succede perché nel tuo mazzo ci sono
tre diavoli, mamma. La Giustizia e la Temperanza le hai scartate!”
Tess si stirò alla maniera dei cani e, scivolando accanto alle
pantofole di Mamma, rientrò nel capanno.
“E allora? Bisogna adattare un poco le carte alle circostanze
attuali, tutto qui. Da quando la Temperanza è fuori, ho una
percentuale di successo pari al 75 per cento! Sai che gli altri…”
Rebecca agitò la mano come se volesse scacciare delle mosche
invisibili – e molto insensibili al freddo –, e Mamma sospirò.
“Onestamente, bambina mia, ti senti a tuo agio qui? Chiedi
domani al veter…”
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Più agile di una gazzella, Rebecca risalì con un balzo i gradini del capanno e premette una mano sulla bocca di Mamma.
“Sei impazzita?” sibilò. “Sai cosa si scatenerà qui, se pronunci quella parola?”
“L’inferno!” belarono le pecore.
Quando lì si scatenava qualcosa, allora era quasi sempre l’inferno.
Quella sera le pecore rimasero più a lungo del solito davanti
al fienile a guardare fuori, nella notte. Gli edifici del cortile si
stringevano attorno al castello in cerca di protezione. Il meleto
taceva. C’era odore di fumo e di neve fresca. L’ombra di una
civetta scivolò silenziosa sul pascolo diretta verso il bosco.
Si sentivano a loro agio lì? Forse Cloud. Cloud era la pecora
più lanosa del gregge e si sentiva a suo agio ovunque. Lanosa e
comodosa andavano insieme. Quel posto sembrava piacere
anche a Sir Ritchfield, perché lì aveva molti interlocutori che
non potevano scappare: la vecchia quercia, l’armadio, il ruscello, qualche volta lo straniero non tosato e, se aveva fortuna,
l’una o l’altra capra. Le capre sembravano addirittura gradire le
chiacchierate ad alta voce e unilaterali di Ritchfield e spesso un
intero drappello si riuniva nei pressi del recinto, ridacchiando e
saltellando.
Le altre non ne erano così sicure. C’era qualcosa che non
andava. Nel meleto c’era ancora un’unica mela dimenticata,
rossa come una goccia di sangue. La vedevano ma non riuscivano a sentirne l’odore. Forse era di nuovo giunto il momento di
mangiare una carta. Ma quale?
“Cosa mai avrà voluto dire?” domandò a un tratto Miss
Maple.
“Chi?” chiese Maude.
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“Mamma,” disse Maple. “Prima che Rebecca le chiudesse la
bocca.”
Le pecore non lo sapevano e tacquero. Una mezza luna pendeva sopra il pascolo come un biscotto d’avena già morsicato.
“Rebecca si è veramente spaventata,” disse Miss Maple.
“Come se dovesse succedere presto qualcosa. Qualcosa di terribile.”
“Che cosa dovrebbe succedere?” disse Cloud gonfiando la
lana.
“Che cosa dovrebbe succedere?” belarono le altre pecore.
Ogni giorno c’era del mangime nel trogolo e una storia sui
gradini del capanno. Quando la sorgente era gelata, Rebecca
spaccava il ghiaccio con una scure. Quando nevicava troppo,
restavano nel fienile. Quando si annoiavano, mangiavano o si
raccontavano delle storie. Alla fine di ogni storia c’era un profumato mucchio di fieno che aspettava.
Le pecore guardarono la neve blu, fuori, e si reputarono
audaci.
In quel momento un suono tagliò il silenzio, lungo e sottile,
lontano e straziante.
Un lamento.
Un ululato.
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