Uchi komi: oltre il colpo

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Uchi komi: oltre il colpo
Uchi komi: oltre il colpo
Sin dal periodo Eian (794–1185) alcuni appartenenti al clan Minamoto disseppellivono i morti per
studiare e approfondire meglio come e dove portare colpi mortali di spada, cercando di indagare
anche quali fossero i punti vitali dove affondare i loro fendenti per bloccare immediatamente
l’avversario.
Al termine del periodo Edo (1603–1868) i Samurai si posero il problema su come mantenere alta la
qualità e l'efficacia della tecnica guerriera acquisita e sperimentata sin a quel momento nella
realtà dei combattimenti all’ultimo sangue.
A differenza dei duelli tra uomini occidentali i Giapponesi usavano indistintamente una o due
spade: spada lancia, una spada contro due, e, in molti casi, l’uso del l’arco faceva parte del
patrimonio guerriero di ogni Samunrai o Ronin. In questo modo i ryu divennero inevitabilmente
"luoghi" d'incontro per scambiarsi esperienze e tenersi in allenamento per prepararsi al proprio
destino.
In seguito, venendo a mancare l'utilità concreta e diretta di tali fini, si
cercò di promuovere particolari metodi di potenziamento, fisici ma
sopratutto mentali: questi sistemi dovevano forzare oltre i limiti umani
alcuni aspetti psichici che potevano, in caso di reale scontro, garantire
al praticante di essere pronto a tale tensione fisica e mentale e di
uscirne indenne e vincitore.
In quel periodo alcuni spadaccini tra i più esperti e famosi
incominciarono a strutturare un “metodo” di addestramento che
induceva i propri allievi a sopportare allenamenti estenuanti per cercare di selezionare e capire
quali fossero quelli che potevano sopportare tale disciplina; così facendo nacque anche il concetto
di “uchi komi”, cioè quella costante, ossessiva e continua ripetizione di tecniche per raggiungere
l’eccellenza, sviluppando la forza di volontà attraverso, appunto, la ripetizione del gesto tecnico.
Tale allenamento non mirava a costruire solo un fisico possente bensì sviluppava la capacità di
inserire tutto il corpo nella tecnica e rendere la stessa fluida e spontanea.
Dopo circa duecento anni questi aspetti si riscontravano anche nella pratica del karate del grande
Bushi Matsumura, il vero esperto del karate di Shuri: egli, infatti, praticava il jigen ryu, dove
usavano spade e bokken pesantissimi e percuotendo centinania e centinaia di volte con questi
particolari “attrezzi” cercavano di capire quando il movimento, la tecnica si fondevano con lo
spirito dando una corretta posizione del corpo insieme ad un perfetto
centramento interiore: Matsumura in questo modo pose le fondamenta per il
futuro sviluppo della metodologia d’allenamento del karate che fino ad allora
risultava scarsa e destrutturata, in tal modo egli seppe dare corpo prima al shuiri-te e poi al
karatedo che oggi tutti noi praticanti conosciamo.
Il maestro Gichin Funakoshi, formatosi sotto due grandi esperti di combattimento quali Azato
(allievo di Bushi Matsumura, forse l’unico che deteneva il testo del Bubishi) e Itosu, volle
mantenere entrambe le linee di allenamento e per tale motivo, come fecero i suoi maestri con lui,
faceva ripetere le tecniche e i kata miglia di volte per fortificare il carattere e lo spirito degli
adepti, questo pratica rappresentava la normale continuità di quello che era un metodo di
addestramento rivolto alla difesa personale globale, che arrivava direttamente dall’esperienza dei
Bushi.
In quel particolare momento di transizione , in mancanza di applicazione reale, i guerrieri
dovevano mettersi comunque sempre alla prova per migliorare e tenere costantemente la loro
mente sgombra dalla paura della morte: l’uchi komi era, ed è ancora oggi, uno strumento
eccezionale perchè l’adepto “attraverso la pratica possa comprendere come mutare la propria
coscienza”, la pratica dell’uchi komi non deve essere solo un allenamento fisico ma deve
racchiudere esperienze corporee quanto quelle psichiche, in quanto attraverso la ripetizione e la
fatica impariamo a conoscere le nostre azioni/reazioni, un detto che trova riscontro anche nella
nostra antica lingua Latina: “per aspera ad astra” (attraverso le fatiche si
arriva alle stelle).
A tale proposito il Maestro Kase era solito dire: “ bisogna ripetere tutti i giorni,
centinaia e centinaia di tsuki, ogni tanto ti accorgi che qualcosa sta
cambiando, a volte senti che qualche waza è diverso dagli altri, in tal caso devi
cercare di ricordare e riprovare a sentire nuovamente questa senzazione
finchè diventa naturale e perenne, dopo tante e tante volte sarà il tuo corpo e
il tuo spirito a darti la giusta indicazione su come fare”.
I waza delle Arti Marziali non sono semplici tecniche, il semplice tecnicismo porta alla assuefazione
e alla autosoddisfazine temporanea, questo è anche uno dei motivi per cui molti praticanti, anche
grandi campioni, dopo tanti anni trovano difficoltà a continuare nella ricerca e nella pratica del
karate: i waza sono una via d’incontro tra l’essere e il divenire spirituale legato alla nostra
evoluzione e quella del mondo circostatnte, un percorso lontano e solitario che scaviamo, giorno
dopo giorno, waza dopo waza, dentro il nostro corpo e dentro la nostra anima lasciando una
traccia indelebile che ci accompagnerà per tutta la vita.
Ciro Varone