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Beckettiana
Breath
“Il critico inglese Kenneth Tynan, mentre stava assemblando Oh! Calcutta, lo spettacolo
‘erotico’ che celebrò il credo ‘hippy’ di liberazione sessuale chiese a Beckett un contributo per
questa sua sfida teatrale al perbenismo borghese”1. Beckett, per non apparire irriconoscente verso
Tynan, il quale aveva caldamente sostenuto Aspettando Godot fin dalle sue prime rappresentazioni,
gli inviò “(pare tramite una semplice cartolina) il brevissimo testo di Breath (Respiro), che Tynan
collocò all’inizio dello spettacolo (la ‘prima’ ebbe luogo a New York il 17 giugno 1969)”2. E’ lo
stesso Beckett ad annunciare in modo scherzoso, ma con equità intellettuale e una neutralità
emotiva, il fondamento oggettivo di Breath, frazionamento di un atto teatrale la cui manifestazione
discorsiva è autoreferenziale, presupposta e concatenata alla modalità di una contrazione
estremizzata:
Il mio contributo al circo di Tynan è un brano di quaranta secondi
intitolato Breath… E’ semplicemente una luce, che si alza e si abbassa
sulla scena ingombra di un confuso miscuglio di oggetti, sincronizzata
col suono del respiro, una sola volta dentro e fuori, il tutto (ah!) iniziato
e concluso dallo stesso sottile rantolo-vagito. Capii quando era ormai
troppo tardi che non è privo di connessioni con
On entre, on crie,
Et c’est la vie,
On crie, on sort,
Et c’est la mort.
Se non riesce a stuzzicare, ritirerò la merce3.
Nell’ambito di una cornice pur adatta a sottrarsi alle parole, emerge la visione del disordine che
resta l’epifania formale di Breath. Senonché, “qualcuno, lo stesso Tynan o forse, a sentir lui,
qualcun altro della produzione, alterò il testo beckettiano aggiungendo le parole ‘con gente nuda’
alla didascalia che riguardava le cianfrusaglie ammucchiate in scena. Quando il libro illustrato
venne pubblicato […] non solo l’illecita aggiunta venne conservata, ma, sebbene l’elenco degli
autori precedesse l’indice, il nome di Beckett – che secondo gli accordi non avrebbe dovuto affatto
comparire – fu invece l’unico cui venne esplicitamente attribuito uno sketch, e la fotografia a fronte
della sua sceneggiatura mostrava chiaramente le parti nude di corpi di cui aveva sentito parlare”4.
L’assegnazione autoritaria della nuova scena inflitta a Breath da parte di Tynan suscitò in Beckett
un gesto di rifiuto e “vietò che il suo lavoro fosse incluso nelle successive riprese dello spettacolo. E
l’anno dopo, nel 1970, la rivista ‘Gambit’ (vol. 4, n. 16, pp. 8-9) pubblicò il testo e la riproduzione
fotografica del manoscritto di Breath da cui chiaramente, se mai ce ne fosse stato bisogno, risultava
la totale estraneità di Beckett alle scelte di Tynan.” Di certo il testo era permeato di altre intenzioni
e la sua lucida persuasività non poteva essere travolta dall’arbitraria giustificazione intellettuale di
Tynan. Sta di fatto che “il piccolo scandalo richiamò su Breath un’attenzione forse eccessiva da
parte della critica beckettiana, che attribuì in alcuni casi un valore sproporzionato a un breve lavoro
che l’autore stesso, in occasione della pubblicazione della versione francese (Souffle, in ‘Cahiers du
Chemin’, n. 12, aprile 1971), trattò con divertita ironia, definendolo ‘una farsa in cinque atti’.” La
1
P. Bertinetti, Respiro. Informazioni, in S. Beckett, Teatro Completo, edizione presentata e annotata da P. Bertinetti,
trad. it. a cura di C. Fruttero, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, p. 882.
2
Ibidem.
3
In J. Knowlson, Samuel Beckett. Una vita, a cura di G. Frasca, trad. it. di G. Alfano, Torino, Einaudi, 2001, p. 667.
4
Ibidem.
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1
codificazione del contesto di Breath ha operato un vuoto di parola ed è anche questo vuoto a
costituire la scrittura referenziale; un’indicazione, questa, che richiama, comunque, tracce eventuali
della poetica beckettiana. “E’ pur vero, tuttavia, che il tema, e il modo di trattarlo, sono molto
beckettiani; non può non venire in mente, ad esempio, la lapidaria frase di Pozzo in Aspettando
Godot: ‘Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo la
notte’.” L’innata originalità del testo beckettiano sarà presto restituita alla scena teatrale: “Breath fu
riproposto prima da Geoffrey Gilham (al Close Theatre Club di Glasgow nell’ottobre del 1969) e
poi da Francis Warner (all’Oxford Playhouse nel marzo del 1970 e allo Hart House Theatre di
Toronto nel novembre dello stesso anno) nella sua versione originale, allo scopo di ‘restituire’ a
Beckett il testo che la manipolazione di Tynan aveva clamorosamente snaturato.” Quanto alla
ricezione della critica, l’unica sfaccettatura interpretativa degna di nota rivolta al testo apparve sul
“‘Times’ del 9 marzo 1970”. Wardle, l’autore, “scrisse che Beckett era riuscito a ‘comprimere
l’incomprimibile’; ma il resto della critica si limitò a qualche frase di circostanza”5.
Ciò che costituisce la scrittura omogenea della rappresentazione – sviluppando un pattern di
memorizzazione dell’intera scena – è la didascalia esplicativa che Beckett appone dopo la dicitura
Curtain, a chiusura della sequenza che ha la durata di una trentina di secondi: Rubbish. No verticals,
all scattered and lying.6 Dunque, “in un caso limite è possibile fare del tutto a meno del soggetto
umano e affidare l’iniziativa semiotica alla scena e agli accessori scenici, che vengono quindi
percepiti come soggetti spontanei equivalenti alla figura dell’attore”7. Il che significa rovesciamento
della metafora che stravolge e modifica l’azione linguistica, in un contro-movimento di parodia
drammatica che si svolge in una zona di senso decentrata e anche nella statutarietà della non
nominazione, trattandosi di un livello morfologico di modellazione assunto nella circostanziale,
generica, scompaginante componente dei rifiuti, tutti giacenti e sparsi, in cui si è esiliata ogni
accensione di dinamica drammatica che pertiene all’asse della verticalizzazione, la curvatura più
espressiva e vero leit-motiv dell’accadimento scenico. In Breath avviene uno scambio gerarchico di
qualificazioni con l’ambiente: la pièce “ha come unico protagonista la scenografia”8. Ciò che
all’apparenza pare pertinentizzato sul registro temporale, osteso nella dinamica di accelerazione
dell’evento:
2. Faint brief cry and immediately inspiration and slow increase of light
together reaching maximum together in about ten seconds. Silence and
hold about five seconds.
3. Expiration and slow decrease of light together reaching minimum together
[…] in about ten seconds and immediately cry as before. Silence and hold
about five seconds.9
è strettamente correlato, invece, al dato oggettivo che pertiene all’asse della spazialità. E’ l’oggetto
scenografico, appunto, che detiene il pronunciato carattere della pièce, contenitore cui si attribuisce
l’idea di un tempo e di uno spazio uniformi, unidirezionali. Premessa di tale impresa è di strutturare
la rappresentazione su una normatività statutaria viziata, che inverte il senso della progressione
drammatica e le assegna come fine il suo punto di avvio. In Breath non può esservi senso della
verticalità, ascesa verso un climax drammaturgico, perché l’autonomia espressiva della reviviscenza
che si riafferma prelude antiteticamente alla dissoluzione della prospettiva drammatica.
L’architettura testuale della pièce è strutturata in linea retta: la produzione di senso va estrapolata
dalla sua funzione semplice e uniforme, senza un rinvio a significazioni ulteriori. Possiamo soltanto
ipotizzare la combinazione e la sovrapposizione di due azioni disposte in successione di movimenti
5
P. Bertinetti, Respiro. Informazioni… cit., pp. 882-83.
S. Beckett, The Complete Dramatic Works, London-Boston, Faber and Faber, 1990, p. 371.
7
K. Elam, Semiotica Del Teatro, trad. it. di F. Cioni, Bologna, il Mulino, 1988, p. 23.
8
Ibidem.
9
S. Beckett, The Complete Dramatic Works… cit., p. 371.
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2
singolarizzati: dentro a un simile scenario, è soprattutto la perdita della diversificazione dei piani
dell’espressione e l’omologazione delle categorie contenutistiche a determinare l’impoverimento
del messaggio. Viene impedita qualsiasi variante di un modello di azione iscritto nella iterazione
discorsiva che ha uguaglianza di struttura e di valore. Il “grido” diventa e va interpretato come
nucleo dell’azione invisibile, è l’eco della natura sensoriale che si distende nell’assetto verbale della
scena, ridotto alle sole impronte testuali sovrapposte nella perfetta circolarità della disposizione
chiastica: il grido, parafrasi ridotta che si fa carico di costruire una sintassi di segni indotti nella
doppia sequenza distinta e omologabile, costituisce, altresì, un paradigma di termini sostituibili:
Attimo di vagito registrato. Importante che i due gridi siano identici, e inseriscano e interrompano
luce e respiro esattamente sincronizzati.10 Così, attraverso la particolare categoria di un artificio
semiotico significante di una rappresentazione cosciente, si realizza una seconda virtualità della
parola-grido, che è l’espressione transitiva di una psicologia senza velature, e, da un istante all’altro,
in costante mutamento fra l’alfa e l’omega, fra principio e fine, fra vita e morte. Modello della
comunicazione istintiva, vincolata all’espiazione dell’esistenza, esso è altresì il segno del confronto
possibile e crescente tra l’essere e la parola, tra la coscienza e la rappresentazione.
Il punto forte dell’azione si blocca nel momento in cui la situazione si focalizza sull’asse di
equilibrio dove va necessariamente ad afferire la sua configurazione terminale. I due correlativi
segmenti drammatici, spaventosamente limitati entro gli angusti confini in cui la pièce è situata,
sono determinati da un linguaggio che tende a neutralizzare le correnti espressive che fluiscono
nell’equilibrio d’un assetto di stabilità e di equivalenza di una fenomenologia che traspone la
costrizione del destino che è stato assegnato, in cui l’origine è occultata nella meta culminante della
traiettoria di un viaggio che si compie all’insegna di una pulsione di morte. Inoltre, alla coscienza
dello spettatore, la scansione dello spazio fisico, la proliferazione dei suoi centri che sono “i rifiuti,
tutti giacenti e sparsi”, è impedita ogni possibilità di mettere a fuoco i frammenti di una qualche
loro propria identità, che si sottrae al suo accertamento perché si compie in uno scenario di
insostituibile vuoto.
Come già richiamato in precedenza, il palcoscenico diventa il luogo in cui spazio-temporalità
eterogenei si intersecano e si aggrovigliano in una alterazione di un contesto che fissa comunque
delle pertinenze. Vista attraverso il prisma di una diversa trasposizione, secondo gli interessi
specifici che ritaglino una visuale interpretativa, la pièce può essere indicata su un immaginario
piano cartesiano, laddove sull’asse orizzontale sia disposta la presenza del tempo fatto agire sulla
scena (t) e su quello verticale la luminosità (l) nella sua allucinante fantasmagoria riflessa nello
stocastico accumulo di immondizia, e otterremmo un grafico sul quale è ben visibile l’andamento
della luce nel tempo.
Come recitano le didascalie, il momento iniziale della pièce (t = 0; l = 3) e quello finale (t = 35; l
= 3) sono i segnalatori delle cornici di tempo e spazio, i demarcatori del dispiegarsi di progressioni
temporali omogenee e perfettamente simmetriche, tanto che si potrebbe leggere il testo – nella
scansione numerica che articola la sua configurazione – in una dislocazione temporale invertita e
cioè dalla conclusione al principio; o, secondo il nostro grafico immaginario, da destra a sinistra e
da sinistra a destra, senza snaturare le connessioni e le successioni temporali definitive e le strutture
logiche profonde. Un’inferenza ancor più plausibile se si accolgono regole economiche di
implicitazione di due unità semantiche di cui l’una diventa medesima espressione dell’altra. Il
problema della colorazione dei rumori, del minimo cioè di ordine da inserire come limite logico e
renderlo recepibile, viene risolto dalla succinta didascalia11 che segnala, in base ad un’affinità
formale, la perfetta invarianza dei due gridi, l’uno all’inizio dell’inspirazione (t = 5; l = 3) e l’altro
al culmine dell’espirazione (t = 30; l = 3).
E’ dunque a partire da un principio unitario di avvicinamento e di opposizione che si elabora la
tensione drammatica immanente al testo. Essa è doppiamente enunciata dall’immobilità primitiva e
dall’equilibrio terminale, che sono le condizioni di stabilità, in conseguenza dell’allentamento della
10
11
S. Beckett, Teatro Completo… cit., p. 427.
Cfr. supra.
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3
tensione, risospinta sistematicamente verso l’originaria matrice della sua indotta inerzia a cui essa
inclina, naturalmente, ad approdare. Altrimenti detto, la presenza materializzata degli artifici
significanti, sia sonori che visivi e spaziali, si attua nel perfetto sostituirsi di momenti riflessivi, o,
meglio, statici, dove la luminosità rimarrà costante, a momenti progressivi che nutrono le emissioni
tensionali della pièce, indicati da un lento crescere/decrescere di luminosità, nel loro
complementare, ripetuto alternarsi di una sequenziale durata assegnata diversamente ai due
momenti: 5; 10; 5; 10; 5 secondi di cui si sostanzia il doppio livello di manifestazione drammatica,
rispettivamente nei due blocchi sintagmatici equivalenti a 5 secondi per l’immobilità, la stasi e 10
secondi per l’avanzamento, la progressione. E va aggiunto che nella sua curva strutturale,
l’operazione transattiva fornisce un’ulteriore spia della singolare coesione della strategia
drammatica; vale a dire che il primo movimento progressivo, che preesiste alla simulazione della
realtà, può essere ricondotto nel grido che deve essere piccolo e fioco al fine di far sorgere l’energia
dell’inspirazione e la pur tenue corrente tensionale che alimenta il lento crescere della luce. Se tale
grido fosse stato più alto e risonante, oltre a spezzare la perfetta simmetria degli insiemi, avrebbe
costretto a intensificare a dismisura la proiezione successiva della luminosità, causando un divario
di pressura e un conseguente riflesso di rifrazioni incompatibili alla catena del sistema unitario
inscatolato nel testo. Un brusco spostamento di accento, che con ogni probabilità avrebbe fatto
raggiungere alla luminosità il suo punto massimo, resta estraneo e sproporzionato al piano della
rappresentazione primaria, così come si può leggere nella valutazione di Beckett che fissa la
frontiera dove converge l’aspetto diretto dell’espressione. Lo schema costruito attraverso un doppio
meccanismo di agganciamento verso il basso e verso l’alto prevede che la luce non sia “Mai
intensa. Se 0 = buio e 10 = massimo di luminosità, la luce dovrebbe crescere da 3 a 6”12.
Al limite di una situazione così configurata, il ricettore è costretto ad arrestarsi generalmente
all’accezione nozionale dei segni, sensibile soltanto alla lettera dell’espressione, all’opacità dei
significanti. Breath pare installarsi sul puro livello fonologico-visivo, semplice ed elementare,
nell’equivalente pura materialità del segno. Le componenti del messaggio sono trasformate in una
totale intransitività ed esistono unicamente per essere date a vedere e a sentire.
La modalità costitutiva e dominante della pièce chiama dunque in gioco l’incrocio di una
simmetria: nel ciclo ripetitivo in cui la staticità/riflessione è correlata alla dinamica della
progressione, la scena, chiusa nei suoi segni di esaurimento, ritorna al suo stadio iniziale, laddove
anche gli estremi si toccano e coincidono; ne consegue che l’iscrizione della “fine” è già enunciata
nel “principio”.
Poco importa che lo scopo sia oggettivamente raggiunto, che la tensione si riassorba o non si
riassorba al culmine dell’esecuzione. Al contrario, una volta che l’impulso viene dato, sospinto su
di un asse preciso, la tensione potrà crescere, ma alla fine si sottrarrà sempre al suo naturale epilogo.
Ciò è dovuto al fatto che l’arresto definitivo del movimento, il punto di arrivo, l’altra estremità del
segmento tensionale appaiono come una realtà a un tempo presentita e inaccessibile, dietro al saldo
imperativo del suo replicato allontanamento. Nella medesima prospettiva si rivela esemplarmente il
ruolo simbolico della spazzatura, nel reticolo drammaturgico della pièce: essa è portatrice della
soluzione definitiva, significa l’immobilità assoluta che si trova all’altro polo del cammino
dell’esistenza a partire dal primo vagito; la spazzatura è il segno concreto della morte a contatto con
la vita, è integrata alla scena, è offerta allo sguardo.
La profonda immobilità del sistema di equilibrio, nel quale sono coinvolti gli elementi
dell’universo beckettiano, suscita la tensione da cui vengono plasmati gli avvenimenti, gli oggetti,
la partitura sonora e l’impianto visivo. Il movimento nasce e si perpetua nello sforzo - ma non vi
riesce per logica normativa – di giungere alla sua conclusione, per cui solo l’immagine, il
messaggio sono adombrati nella processualità drammatica. Ne consegue che la tensione, proprio a
partire da questo fine estremo, costituisce la vita stessa della rappresentazione; e l’istinto della
12
S. Beckett, Teatro Completo… cit., p. 427.
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sopravvivenza drammatica dispiega, all’infinito, nel luogo scenico, la modalità del suo svolgimento
inarrestabile.13
Stefano Bajma Griga
13
“Il respiro nascente lancia un grido. La soffocazione lo spegne. Il respiro morente gli dà nuovamente inizio. Una
piccola voce tace. L’aria resta piena del mormorio di migliaia di altre voci che le fanno e si fanno eco. Nonostante
Beckett abbia scritto soprattutto in prosa, egli ha, da poeta, captato questo brusio, registrato questi gridi, questi colpi,
questi sobbalzi. Egli ha difeso l’ostinazione a respirare, sostegno della costanza nel dire” (D. Anzieu, Beckett, a cura di
R. M. Salerno, Genova, Casa Editrice Marietti, 2001, p. 12).
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