Il Ruolo degli Investimenti Esteri Cinesi
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Il Ruolo degli Investimenti Esteri Cinesi
Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2010 IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI CINESI. IMPLICAZIONI IN AMBITO SICUREZZA, CONSEGUENZE STRATEGICHE E POLITICHE, POSSIBILITA’ DI SVILUPPO ECONOMICO Direttore della Ricerca Dott. Nunziante MASTROLIA Indice Executive Summary ............................................................................................................................. 3 Introduzione ......................................................................................................................................... 5 Gli investimenti diretti esteri: qualche definizione ............................................................................ 11 Consistenza ed evoluzione del fenomeno .......................................................................................... 14 I settori nei quali Pechino investe ..................................................................................................... 20 La dimensione geografica .................................................................................................................. 22 Chi investe? ........................................................................................................................................ 45 Conclusioni ........................................................................................................................................ 56 Executive Summary Obiettivo dello studio è una analisi delle opportunità o minacce legate al fenomeno degli investimenti diretti esteri cinesi. Sulla base delle osservazioni e delle analisi condotte in questo studio, pare lecito poter affermare che il secolo cinese non è ancora alle porte. La forza con cui Pechino, infatti, si è lanciata sul mercato internazionale, per la prima volta nella sua storia, come investitore, deriva dalle difficoltà che gravano sulla Cina. I numeri dei suoi investimenti sono ancora relativamente piccoli, ma certo la progressione è impressionante Materie prime, energia, servizi finanziari per poter accompagnare le proprie piccole e medie imprese nella conquista di mercati internazionali, tecnologie da poter impiegare in patria, sono lo specchio delle difficoltà interne. In secondo luogo Pechino deve riuscire in qualche modo a liberarsi dalla trappola del dollaro in cui si è cacciata: le sue enormi riserve valutarie rischiano di deprezzarsi considerevolmente al calare del valore del dollaro e in caso di inflazione. Per fare ciò, Pechino non può che servirsi delle sue aziende di Stato, che tuttavia, proprio per questa loro natura, incontrano costantemente difficoltà nel portare a compimento il compito loro assegnato: devono muoversi con cautela, visto che nei paesi in cui operano c'è sempre il rischio, soprattutto nei paesi sviluppati, che venga invocata una protezione contro la minaccia cinese incombente. Se così stanno le cose, sembra possibile affermare che è vero che le imprese di Stato cinese, che, come si è cercato di mettere in evidenza nel seguente studio, guidano la campagna di investimenti all'estero, sono alle dirette dipendenze del potere politico e pertanto soggiacciono a una policy governativa, tuttavia questo non significa che tale policy abbia come obiettivo quello di conquistare posizioni economiche tali da poter condizionare strategicamente e politicamente i paesi in cui investe. Detto in altre parole Pechino non investe per poter minacciare l'Occidente. Pertanto non sarebbe molto oculato, per i paesi sviluppati, chiudere completamente le porte a tali investimenti, d'altro canto i settori in cui gli investimenti cinesi possono arrecare un danno strategico al paese ospitante, sono relativamente pochi e possono essere controllati. Inoltre, come scrive l'Economist, se le compagnie cinesi vogliono avere successo all'estero nelle fasi post acquisizione “will have to adapt. That means hiring local managers, investing in local research and placating local concerns—for example by listing subsidiaries locally. Indian and Brazilian firms have an advantage abroad thanks to their private-sector DNA and more open cultures.”. Il che significa che devono lasciarsi ulteriormente contaminare dal modello capitalistico occidentale (che fa tutt'uno è bene ricordarlo con democrazia e nomocrazia), il che inoltre significa che più entrano nel mercato internazionale, più potrebbero potrebbero essere costrette a svincolarsi dal controllo diretto dello Stato. In conclusione si può dire che gli investimenti diretti esteri cinesi, condotti dalle imprese di Stato, potrebbero essere una minaccia se puntassero all'acquisizione di un controllo di assets strategici, ma tale minaccia può essere gestita, sono invece una opportunità economica utile a dare linfa finanziaria ad un occidente dove un modello di capitalismo, il paradigma hayekiano, è entrato in crisi, ma non, per fortuna, il capitalismo né lo stesso occidente. Introduzione La gravità delle crisi economica che da ormai due anni sta colpendo il mondo non consiste solo nei danni economici, rilevanti, che essa sta arrecando. Ha anche un risvolto più pernicioso e più preoccupate. Essa, infatti, rappresenta la fine di un modello di sviluppo: il neoliberismo (o paradigma hayekiano). Il crollo di questo modello tra trascinando con sé quelle che fino a qualche anno fa erano l'orgoglio dell'Occidente che aveva trionfato nella Guerra Fredda: il primato della legge, la democrazia, il capitalismo e l'economia di mercato. “La crisi ha rivelato le fragilità del sistema economico americano ed ha evidenziato le capacità del modello di governo cinese nell'affrontare tempestivamente situazioni impreviste e difficili.”1 Gli Stati Uniti, questa volta, si son presi la febbre, a Pechino per ora neanche uno starnuto2. Questo è un dato di fatto. L'elemento singolare tuttavia è che, in 1 L. Napoleoni, Maonomics, Rizzoli, Milano, 2010 2 I dubbi sulla tenuta della salute economica del paese, tuttavia, si addensano. L'inflazione ritorna a preoccupare sfiorando la soglia di sicurezza posta dal governo al 3%. Ma soprattutto cresce il timore per un collasso del settore immobiliare: anzi per Kenneth Rogoff, economista di Harvard, è solo una questione di tempo: “stiamo per assistere al collasso nel settore immobiliare [cinese] e questo colpirà il sistema bancario”. I prezzi delle case sono saliti alle stelle, a Pechino un appartamento costa tremila euro al metro quadro, quanto il reddito medio annuale. Si stima che siano sessantacinque milioni che case rimaste senza acquirente Il timore è che la bolla possa sgonfiarsi improvvisamente affossando così il settore dell'edilizia che assorbe in massima parte la manodopera non specializzata proveniente dalle campagne, di qui il divieto di acquistare seconde case e la proposta di una tassa sugli immobili, per frenare la speculazione immobiliare. Si teme, in altre parole, uno scenario americano per Pechino: default bancari, credit crunch e via discorrendo. Inoltre, il mondo del lavoro cinese è in subbuglio. Si sciopera per ottenere salari migliori, migliori condizioni sul posto di lavoro, nel complesso un trattamento più umano e dignitoso. Alla Foxcom, azienda che produce componenti elettroniche per i maggiori marchi globali del settore, tra cui la Apple, per rivendicare aumenti salariali e più umane condizioni di lavoro non si è trovato altro mezzo che il suicidio e non per una particolare propensione asiatica al togliersi la vita, ma perché questa diventa l’unica via di fuga quando tutte le possibilità di espressione di dissenso e disagio sono ostruite. Non può essere una forma di protesta, ma il rifiuto di un molto dal quale non si può evadere se non con la morte. In una prima fase l'azienda è ricorsa a metodi abbastanza ridicoli per provare a mettere un freno al fenomeno: grate alle finestre, reti di protezione, l'assunzione solo a chi sottoscriveva un impegno formale a non suicidarsi, spettacoli ed intrattenimento con clown per “tirare su” il morale dei lavoratori. Ma ovviamente nulla è servito. Solo successivamente la direzione aziendale ha deciso di aumentare i salari di circa il 30%. Così anche nelle altre imprese (Honda, Hyundai, Kentucky Fried Chicken e Toyota) in cui si sono verificati gli scioperi si è giunti ad aumenti salariali fino al 60%. Il governo è dalla parte dei lavoratori. Il premier Wen Jiabao li ha definiti “figli della nazione, che con il loro sangue e sudore stanno costruendo il Paese e vanno trattati membri della nostra stessa famiglia”. Lo stesso Quotidiano del Popolo è intervenuto a più riprese schierandosi al fianco degli scioperanti per chiedere salari migliori: “le paghe dei lavoratori devono essere aumentate per proteggere la stabilità della nazione”. La motivazione di tale sponsorship politica è duplice: da una parte gli incrementi salariali hanno come effetto quello di aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori, cosa perfettamente il linea con la decisione di far correre l'economia sulla base dei consumi interni. Dall'altra perchè il partito comunque ha timore che il malcontento possa esplodere. In questo doppio senso va letta anche la decisione di introdurre, per ora solo in alcune aree del Paese, il salario minimo, prima nell'area di Pechino dove si passa da da 800 a 960 yuan (quasi 96 euro). L’enorme provincia centrale dell’Henan – che ospita almeno 100 milioni di residenti – ha aumentato le paghe del 33%, arrivando fino a 600 yuan. Si pone tuttavia un problema, chi ha diritto al salario minimo? Solo i residenti. La questione, infatti, si lega legata a filo doppio al fenomeno dei migranti. Nessuno ne conosce il numero con esattezza, ma si stima che possano essere oltre i un'Occidente economicamente ingolfato e politicamente disorientato, alla ricerca spasmodica di un modo per uscire dalla crisi, si sta insinuando il dubbio che ci sia una diretta connessione tra la salute economica cinese e il suo impianto politico-istituzionale e si inizia a guardare all'esperienza cinese quasi come il nuovo paradigma3. La diagnosi è più o meno questa: “l'euforia della vittoria del comunismo ha accecato l'Occidente al punto da convincerlo che (il modello) che possiede è già perfetto”4 mentre a Pechino “dopo il 1989 (…) si è continuato a studiare il marxismo insieme a tutte le altre teorie economiche. Ebbene, questo lavoro ha portato alla creazione di un modello nuovo, moderno, improntato al più severo pragmatismo. (…) Il capitalismo made in China usa duecento milioni (E. Izraelewicz, La Sfida, 2005) - una migrazione che per numero non ha precedenti nella storia universale - i lavoratori che dalle zone interne del Paese si spostano sulla costa, o che comunque lasciano il proprio luogo di residenza per cercare lavoro, entrando così in una sorta di anonimato giuridico. E' la questione dell' hukou, un sistema di registrazione familiare, introdotto da Mao nel 1958 “che lega la persona al luogo in cui è nata impedendole di trasferirsi altrove. Fino all'inizio delle riforme degli anni Ottanta era impossibile per un contadino trasferirsi altrove, era legato alla terra come un servo della gleba, se riusciva a raggiungere un centro urbano correva il rischio di essere arrestato e rispedito al suo villaggio con il foglio di via. Negli ultimi anni le autorità hanno deciso di chiudere tutti e due gli occhi e circa duecento milioni di abitanti delle campagne si sono riversati nelle città dove le nuove industrie nascenti e il boom edilizio richiedono manodopera. Ma il sistema di registrazione familiare, l'hukou, è ancora in vigore e condanna gli immigrati alla discriminazione e all'arbitrio dei loro datori di lavoro che spesso li pagano quando e se ne hanno voglia”. Le richieste di una riforma in senso occidentale (l'introduzione di una carta di identità) si vanno intensificando eppure nulla pare muoversi. Il controllo delle grandi masse è una preoccupazione millenaria del potere politico in Cina, per questo è ben difficile che una riforma possa vedere presto la luce. Più conveniente politicamente ed economicamente portare lo sviluppo nelle zone interne del Paese. E' qui infatti che molte delle aziende, tra cui la Foxcom, oltre ad aumentare i salari per venire incontro alle richieste dei lavoratori, stanno iniziando anche a delocalizzare parte delle loro attività nelle zone interne e nel Nord Ovest. Una decisione che ricalca la volontà del governo di “armonizzare” lo sviluppo cinese, promuovendo anche la crescita delle aree interne (si parla di investimenti in infrastrutture per cento miliardi di dollari). Eppure sino oggi, pare, che poco o nulla sia stato fatto. Tuttavia ora riequilibrare lo sviluppo interno, limitare le fluttuazioni dell'immensa massa di lavoratori migranti, per evitare che una vera e propria bomba sociale si inneschi, diventano delle necessità non più dilazionabili. Perché? Perché a Pechino hanno pianificato – XI piano quinquennale – di scollegare il grosso della crescita economica dalle esportazioni sui mercati internazionali, per fare affidarsi gradualmente ai consumi interni. Tale intento è stato accelerato dal calo della domanda delle voracissime bocche americane ed europee. La leadership pare consapevole del fatto che tale decoupling potrebbe comportare un costo altissimo, nella fase di transizione, in termini di disoccupazione di una manodopera non specializzata e a basso costo: in pratica grossa parte dei settori che per trent’anni hai trainato la crescita cinese. Inoltre, a Pechino sanno che non possono trasformare dall’oggi al domani le braccia a basso costo in bocche voraci. A ciò si aggiunga quello che preoccupa maggiormente i leader: la disoccupazione intellettuale, la crisi impedirà alla stragrande maggioranza di laureati e diplomati di trovare posti di lavoro all'altezza delle proprie aspettative. La paura è che questa intellighenzia déclassé, quanto meno nelle aspettative, possa guidare una protesta e fare da detonatore al malcontento della massa di lavoratori semplici espulsi dal mercato del lavoro. “Negli anni 70, la soluzione di Mao fu di spedire i laureati nelle campagne; Hu Jintao, invece, ha deciso di parcheggiarli nell’ impresa come stagisti”. Non solo nelle imprese di Stato, ma anche nelle Forze Armate. Il 21 giugno del 2009 il Quotidiano del Popolo annunciava la volontà dell’Esercito di Liberazione nazionale di reclutare 120.000 diplomati con un’ età compresa tra i 18 e i 20 anni, ma il limite di età può essere innalzato fino a 24 anni per i laureati. Un evento unico per la consistenza dei numeri: più di sei milioni di studenti che si sono diplomati la scorsa estate e un milione che ancora apsetta di essere collocato dallo scorso anno. 3 Un atteggiamento - scrive Bill Emmott - che non è solo il portato della crisi “molte persone che pure vivono in una società democratica, covano una strisciante ammirazione per il modo in cui le dittature (…) riescono a prendere le decisioni e far si che le cose avvengano, a ottenere, cioè, qualcosa di simile al successo di Mussolini nel far arrivare i treni in orario”, B. Emmott, Asia contro Asia, pag. 85 4 L. Napoleoni, Maonomics tutto ciò che funziona (dall'impresa privata al controllo sui capitali) ed è quindi più flessibile e più attuale di quello occidentale. Il modello cinese sa adattare l'economia a cambiamenti epocali e repentini, quali il processo di globalizzazione, e questa flessibilità aiuta la Cina a diventare la super potenza del villaggio globale e a ridefinire i parametri della modernità”5. Sembra proprio che lo Spirito del Mondo abbia cambiato casa, la traslatio imperii si muove rapidamente e, l'Occidente pare, forse per la prima volta, sentirsi dalla parte sbagliata della Storia. Deng avrebbe, dunque, visto più lontano di tutti gli altri: il colore dei gatti non ha nessuna importanza, ciò che conta è che lavorino per restaurare la grandezza del socialismo cinese 6, o meglio dell’ex Impero di Mezzo. Se così stanno le cose, la via della salvezza per l’Occidente non può che consiste nell' “abbandonare il nostro modello economico e politico ormai logoro”7 e curarsi con l'amara “medicina” del modello cinese. Questo, d'altronde, significherebbe prendere atto che l'Occidente si è illuso che il binomio democrazia-mercato potesse essere il sacro Graal della crescita economica. I fatti sembrano parlar chiaro: “da quel lontano 1989 le condizioni di vita medie dei cinesi sono migliorate radicalmente, mentre nell'Est europeo e nei territori della vecchia Unione Sovietica, dove la democrazia di stampo occidentale ha attecchito, povertà e analfabetismo sono tornati alla ribalta” 8. Se nel bel mezzo della crisi, si argomenta, la Cina ha continuato a veleggiare spensierata, ciò sarebbe dovuto proprio alla sua conformazione politica. “L'ultima crisi del capitalismo globale sembra dirci che, almeno in questa fase di evoluzione, c'è bisogno di uno Stato ben presente, e l'esperienza cinese dimostra che l'economia funziona meglio se la guida rimane nelle mani di chi rappresenta il più possibile gli interessi del popolo e non delle élite” 9. La sintesi asiatica di autoritarismo politico e capitalismo economico – binomio rinsaldato e vivificato dai valori asiatici o confuciani - sarebbe dunque il vero Graal dell'eterna crescita. D'altronde, si sostiene, la compatibilità di tale binomio “era già stata dimostrata in altri paesi, come il Cile, la Corea del Sud, Taiwan e Singapore”10, dove si era elaborato un “modello di Stato, più simile al Giappone dei Meiji che alle democrazie 5 Ivi 6 Nelle parole di Deng “La democrazia può svilupparsi solo gradualmente, e noi non possiamo copiare i sistemi occidentali. Se lo facessimo sarebbe un disastro. La nostra costruzione socialista può essere realizzata solo sotto una leadership, in modo ordinario e in un ambiente di stabilità e unità”, citato in F. Mazzei, V. Volpi, La rivincita della mano visibile, Università Bocconi Editore, Milano, 2010, pag. 159. 7 Napoleoni, Ivi 8 Ivi 9 Ivi 10 R. Harvey, Breve storia del neoliberismo, occidentali”11 in cui “uno Stato autoritario ma non totalitario”12 è “capace di coniugare spazi di libertà concessi alla società civile e tollerare le forme di dissenso, ma non consentire una vera alternanza”13. Ottenendo la quadradura del cerchio: la necessità della crescita economica con l'esigenza, vitale, di conservare i valori confuciani e salvare così l'anima. La Cina, pertanto, sarebbe l'ultimo e più grandioso alfiere di un confucian style, in grado di indicare la vera strada per la modernità. Quest'ansia nel ricercare un'alternativa politica al modello occidentale è, in maniera indiretta, una conferma del fatto che la crisi che da due anni sta ferendo il mondo, è innanzitutto di natura politica. La diagnosi però non è del tutto corretta. Ad essere entrato in crisi è non è la grammatica occidentale – nomocrazia, democrazia, modernità e secolarismo – quando piuttosto è invecchiato un certo linguaggio. In altre parole non è la piattaforma informatica ad essere entrata in crisi, ma solo uno dei software compatibili con tale piattaforma: il software hayekiano. Il fatto che si tenda a condannare l'intero impianto occidentale14 è pertanto un errore macroscopico. Un errore che però non deve né essere guardato con sufficienza, né sottovalutato, potrebbe essere il segnale di qualcosa di più profondo e cioè che la crisi sta lavorando in maniera profonda le coscienze prese orami dall'angoscia e, come ha giustamente notato Dominique Moïse, dalla paura di cui sono preda le società aperte che in massima parte corrispondono con lo stesso Occidente. E' l'occidente ad aver paura e tale paura consiste nella “perdita di controllo sul futuro” 15. E' un punto che va tenuto a mente. E come si collega la paura con la crisi della democrazia? 16 Scrive Moïse “quando le democrazie predicano valori che non praticano più perdono la propria superiorità morale e, con essa, la propria forza d'attrazione” 17. E' questa la ragione che, probabilmente, aiuta a spiegare le reazioni anche dure con cui, in Europa (il caso Continetal) e Stati Uniti (il caso Unocal) sono stati respinti i tentativi di acquisizione da parte delle compagnie di Stato cinesi. Non era solo questione di implicazioni strategico-industriali. Era anche un modo per evitare il contagio di un 11 G. Borsa (a cura di), L'Asia orientale fra democrazia ed autoritarismo, Asia Major 1995, Bologna, Il Mulino, 1995, citato in M. Gilardi, Singapore. Quale democrazia?, pag. 19 12 ibidem 13 ibidem 14 L'attacco spesso è condotto in maniera rabbiosa contro l'esistente, in questo senso, non è impossibile sostenere che le tante andate di anti politica che a più riprese gonfiano nell'opinione pubblica non abbiano solo come oggetto i malaffari e i peccati dei rappresentanti, ma la rappresentanza in sé. Per certi versi quindi, l'anti politica, in nuce, porta con sé antidemocrazia. 15 D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti Libri, 2009, pag. 139 16 Crisi che si estrinseca in maniera più diretta nell'antipolitica, ma in maniera più soft sebbene altrettanto grave nella disaffezione verso la politica “oggigiorno cittadini su entrambe le sponde dell'Atlantico provano un orgoglio nettamente ridotto per i loro modelli democratici e i loro leader eletti”, D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, pag. 142 17 Ivi capitalismo, che nonostante i successi economici, si riteneva – giustamente – uno stadio di evoluzione e non un modello da acquisire. Le difficoltà della crisi economica hanno mutato il modo di vedere tali investimenti, sia perchè la liquidità cinese può essere una boccata d'ossigeno per le imprese occidentali che stentano a riprendersi, sia perchè la crisi ha insinuato il dubbio in occidente che forse il modello cinese o più in generale il modello di capitalismo di Stato o “Stato sviluppista” può ancora insegnare qualcosa ai paesi sviluppati. Lo stesso ragionamento – in termini opposti ovviamente – è stato fatto in Cina. La crisi era l'opportunità – visti i crolli del capitalismo “alla Wall Street”, di affermare il modello cinese. A più riprese i leader del partito comunista cinese, infatti, hanno affermato che per la Cina la crisi sarebbe stata una grande opportunità, tanto che Xia Bin, Direttore dell’Istituto di ricerche finanziarie del Consiglio di Stato, si è spinto a pronosticare che tra cinque/otto anni, la Cina potrebbe essere grata agli Stati Uniti per questa crisi finanziaria. Il fatto che il premier Wen Jiabao già nel 2009 a Davos dichiarasse fiducioso che questa crisi per Pechino sarebbe stata una grande opportunità, testimonia come si fosse diffuso un certo ottimismo in alcuni strati della leadership cinese su un avvento repentino del secolo cinese: le difficoltà economiche e i titoli dei listini falcidiati dalla crisi erano un'occasione per accelerare lo sviluppo cinese e rinsaldare ed espandere il proprio modello di capitalismo nel cuore dei paesi sviluppati, avvantaggiandosene ulteriormente. Le cose non stanno del tutto così. Anzi la crisi sta portando al pettine tutti i nodi del modello economico cinese: non solo gli squilibri geografici interni, le difficoltà sociali (in questo senso la marcia a tappe forzate per la creazione di un sistema sanitario nazionale), ma soprattutto gli enormi squilibri finanziari: l'enorme massa di riserve valutarie accumulata per poter rastrellare dal mercato dollari e tenere così basso il cambio dello yuan in modo da favorire le esportazioni, è una valanga che rischia di abbattersi innanzitutto sulla Cina stessa, nel caso in cui il dollaro dovesse svalutarsi o in caso di una inflazione rampante. Ma non si tratta solo di nodi economici. Il punto essenziale è l'aspetto politico. Intimamente le democrazie non si fidano dei sistemi autoritari. Così anche quando Pechino tenta un investimento del tutto legittimo, come il tentativo di incrementare in suo investimento in Rio Tinto, visto è la Cina è uno dei maggiori importatori mondiali di ferro, può essere facilmente additata come il Dragone che tutto vuole fagocitare. Ma la questione politica è un problema anche interno, questo perchè – per dirla in maniera netta – mentre i sistemi democratici sono riformabili, i sistemi autoritari no e questo perchè il binomio capitalismo-democrazia resta inscindibile. Se così stanno le cose è chiaro che una riforma del capitalismo cinese implicherebbe una riforma del sistema politico cinese, il che non significa altro che l'attuale o la futura leadership deve lavorare per poter preparare la “sua morte politica” o meglio lavorare per aprire ad altre forze l'arena politica scalzando il partito comunista cinese dal suo ruolo di primazia assoluta. Nell'analisi che segue si è cercato di collegare queste valutazioni più generali alla questione degli investimenti diretti esteri per cercare di capitale l'evoluzione del modello cinese in connessione con la crisi. Infatti, il ruolo di una Cina come grande investitore internazionale è un fenomeno recentissimo, che tuttavia ha subito un'accelerazione impressionante. La tesi che si è provato a sostenere in questo studio è che tale accelerazione sia solo in parte connessa con l'opportunità di accedere ad assets industriali, tecnologici e Know-how, diventati più a portata di mano – economicamente e politicamente – a causa della crisi, mentre può trovare una maggiore ricchezza esplicativa se la si legge come il tentativo di liberarsi – in maniera oculata e composta – dal peso di quella valanga di dollari che grava sulla testa di Pechino. Per fare ciò Pechino può utilizzare le proprie imprese di Stato, nei confronti delle quali è sempre aperta una linea di finanziamento direttamente collegata alle proprie riserve valutarie. In secondo luogo nel 2007 viene costituito a tale scopo il fondo sovrano cinese la Chiana Investment corporation. Tale necessità di fuggire – cautamente – dal dollaro Pechino la sta facendo conciliare con le sue esigenze economiche. La Cina è diventata negli ultimi trent’anni il più grande hub manifatturiero del mondo e le sue esigenze economiche derivano da questo dato. Pertanto gli investimenti diretti esteri sono finalizzati ad assicurarsi innanzitutto quelle materie prime che sono funzionali al mantenimento della macchina economica in funzione, sia attraverso l'acquisizione o partecipazione di società direttamente impregnate nel settore o indirettamente attraverso acquisizioni di fondi che hanno nel proprio portafoglio tali attività sia attraverso l'acquisizione di servizi finanziari che sono comunque finalizzati all'esigenza della macchina manifatturiera interna. Di qui il fatto che Pechino – almeno ad oggi – colloca solo una piccolissima parte dei propri investimenti diretti esteri nei paesi sviluppati, mentre investe massicciamente nei paesi ricchi di materie prime – Africa ed Australia in primis. Questo dato emerge con chiarezza se si escludono – e la decisione può certo sembrare un po' arbitraria – tutti gli investimenti diretti esteri che Pechino colloca nei paradisi fiscali, dei cui successivi impieghi non è possibile tracciare il percorso e tali vanno considerati – a parte le note Isole Vergini Britanniche o le Cayman – anche Hong Kong e Macao. In sintesi, dato che Pechino, attraverso la strategia del Go Global, può avvalersi direttamente dei proprio campioni nazionali quali attori globali e quali strumenti di investimento diretto estero, si può affermare che la Cina investa all'estero per poter soddisfare le sue esigenze interne. Gli investimenti diretti esteri: qualche definizione Una definizione molto efficace di investimenti diretti esteri (IDE) (o Foreign Direct Investment, FDI) definisce gli IDE quali un “investimento internazionale effettuato, da parte di un soggetto residente in un dato paese (investitore diretto estero), in una impresa residente presso un altro paese (impresa oggetto di investimento diretto). Tale investimento ha l’obiettivo di ottenere un interesse durevole, cioè esso mira ha stabilire una relazione di lungo termine tra il soggetto partecipante e l’impresa partecipata nonché un grado di influenza significativo nelle gestione dell’impresa”18. La definizione del Fondo Monetario Internazionale è leggermente diversa e fa riferimento all'IDE come “an investment in an economy other than that of the investor, the investor's purpose being to have an effective voice in the managment of the interprise”. Con ciò si vuole sottolineare come tale investimento deve essere di una certa percentuale, che lo stesso FMI fissa di almeno il 10% delle azioni ordinarie dell'impresa partecipata, al fine di poter “exert a significant influenze (potentially or actually exercised) over the key policies of the underlyung project” 19 L'UNCTAD pone l'accento su un altro aspetto l'IDE è “an investment involving a long-term relationship and reflecting a lansting interest and control of a resident entity in one economy (foreign direct investor or parent enterprise) in an enterprise resident in an economy other than that of the foreign direct investor” 20. In questa definizione si pone in risalto, per differenziare gli investimenti diretti esteri dalle operazioni di portafoglio, il carattere temporale: lungo termine per gli IDE, breve termini per le operazioni di portafoglio. In sintesi quindi le caratteristiche essenziali di un IDE sono la lunga durata e il controllo totale o la possibilità di poter prendere parte alle decisioni dell'impresa partecipata. Classificazione degli IDE Per avere un quadro preciso del fenomeno è utile procedere ad una classificazione dei vari tipi di IDE. Una prima classificazione che riguarda la tipologia di investimento è quella che suddivide 18 N. Acocella, LE STATISTICHE SUGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI E SULL’ATTIVITA’ DELLE IMPRESE MULTINAZIONALI, Presidenza del Consiglio dei Ministri, luglio 2002. 19 I. A. Moosa, Foreign Direct Investment: Theory, Evidence, and Practice, Palgrave Macmillan, 2002 20 UNCTAD, World Investment Report (WIR), 2010 gli IDE in orizzontali e verticali Per IDE orizzontali si intende un'operazione di investimento che afferisce alla produzione di un bene dello stesso settore merceologico che si produce in patria, all'estero. Esempio, l'apertura di uno stabilimento Iveco in Cina. Perchè produrre in loco e non commercializzare? La decisione di procedere ad un investimento di tipo orizzontale è spesso legata a motivazioni di ordine extra economico: aggirare barriere tariffarie, poter accedere ad agevolazioni (fiscali e non), rispondere a particolari policy di sviluppo economico decise dal paese ospitante: è il caso del trasferimento tecnologico o della necessità di aumentare l'occupazione. Sono investimenti dunque che hanno come obiettivo la conquista di un mercato cui sarebbe più difficile o impossibile accedere esportando direttamente il prodotto. Sono quindi investimenti market-seeking. IDE verticali, fanno riferimento ad investimenti che riguardano una o più fasi della produzione di un bene. Sono in altre parole il cuore dell'attuale fase di globalizzazione economica: è l'esplosione dell'antica catena di montaggio (racchiusa all'interno di uno stesso stabilimento nel quale entravano le materie prime ed usciva il prodotto finito) e la frammentazione della produzione (e dei servizi correlati) a livello globale a seconda dei vantaggi comparati offerti dai vari mercati. L'obiettivo principale di questo tipo di investimenti è, pertanto, quello di ridurre i costi di produzione: trasferimento di quelle fasi della produzione il cui costo in patria è maggiore rispetto al altri paesi. Il che può fare riferimento sia al trasferimento delle fasi labour-intensive, sia alla delocalizzazioni dei servizi, si pensi al caso indiano. In questo senso gli IDE possono essere considerati come investimenti che tendono a ridurre i costi di produzione (cost saving). Tuttavia è anche possibile che una impresa tenda a delocalizzare alcune fasi della produzione per cercare una produzione di qualità, potere avere accesso a saperi e Know how o marchi (inteso come “saper fare” e non come acquisizione di tecnologie). Un esempio in questo caso potrebbe essere quello della cinese Haier che dopo l'acquisizione di una impresa italiana di elettrodomestici (in particolare frigoriferi) da vendere nel mercato europeo, ha iniziato ed esportarli anche in Cina, dove tuttavia sarebbe di gran lunga più conveniente produrli. Dov'è dunque il vantaggio? Nell'attrazione che ha sui potenziali consumatori il marchio made in Italy: in questo senso tali investimenti potrebbero essere definiti quality-seeking. Una ulteriore forma di classificazione degli IDE fa riferimento al grado di coinvolgimento dell'investitore estero nelle attività o nel controllo dell'impresa ospite. Investimenti di tipo greenfield, con questo termine si fa riferimento alla costruzione ex novo di un impianto di produzione in un paese diverso dal paese di origine. Mentre per investimenti brownfield, si fa riferimento all'acquisizione di un impianto già esistente o la partecipazione al suo capitale. In questo secondo caso, a seconda della percentuale di partecipazione, gli IDE si possono distinguere in fusioni o acquisizioni (M&A); Joint-venute o Non equity Pact: franchising (contratti di agenzia per la commercializzazione) o licensing (contratti di licenza per la produzione). A seconda poi degli obiettivi che l'investitore persegue gli IDE possono essere suddivisi in: Investimenti resource seeking: acquisizione di materie prime o comunque fattori della produzione Investimenti market seeking: poter avere accesso a mercati, come si accennava in precedenza, protetti ad esempio da barriere commerciali o per i quali è più conveniente la commercializzazione in loco piuttosto che la semplice esportazione del prodotto Investimenti efficiency-seeking razionalizzazione delle attività internazionali, per migliorarne la competitività globale ogni affiliata si specializza in una fase del processo produttivo (o in un particolare bene) Strategic asset seeking: per avere accesso a nuove tecnologie e Know-how Consistenza ed evoluzione del fenomeno Rispetto al crollo degli investimenti diretti esteri durante la fase più cruda della crisi economica a cavallo del 2008-2009 si è registrato un modesto recupero, sebbene abbastanza irregolare. Ciò ha generato un cauto ottimismo tra gli osservatori internazionali circa le possibilità a breve di un ritorno della situazione alla fase pre-crisi, senza tuttavia raggiungere il picco del 2007, quando la quota degli IDE è arrivata a 2.100 miliardi Secondo le stime presentate nell'ultimo rapporto Unctad World Investment Report 2010 i flussi globali di investimenti diretti esteri per l'anno in corso dovrebbero toccare quota 1.200 miliardi di dollari, per poi proseguire la loro fase di ascesa nel 2011 e salire fino a 1.300-1.500 miliardi di dollari , per poi attestarsi nel 2012-2013 tra i 1.600-2000 miliardi di dollari, senza comunque raggiungere i livelli pre-crisi. La contrazione dovuta alla crisi è stata infatti pesantissima: nel 2009 si è registrato, infatti, un calo del 37%, 1.114 miliardi di dollari, con una flessione degli IDE in uscita (outbound) del 43%, scendendo fino a 1.101 miliardi di dollari. Nel 2008 si era avuta una flessione del 16%. Le economie in transizione e in via di sviluppo ha attirato la metà dei flussi di IDE a livello mondiale, e hanno investito un quarto del globale dei flussi in uscita. E sono proprio questi paesi che stanno trainando la riprese dei flussi di IDE a livello globale: sia per i loro investimenti all'estero sia perchè continuano a rimanere paesi di destinazione interessanti per gli investitori internazionali. Fra i principali destinatari degli IDE, la Cina è ormai stabilmente al secondo posto, con 95 miliardi di dollari, dopo gli Stati Uniti nel 2009, a quota 130 miliardi di dollari (324,6 nel 2008). Ma è un fenomeno che nel complesso vede protagonisti (come destinazioni di IDE) tutti i paesi in via di sviluppo, basti considerare che tra le prime sei principali destinazioni degli IDE la metà riguarda paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda le operazioni di M&A a livello internazionale i paesi sviluppati continuano a fare la parte da leone, sebbene la partecipazione dei paesi in via di sviluppo e delle economie in fase di transizione sia cresciuta considerevolmente negli ultimi anni passando da un 27% del 2007, dati UNCTAD, ad un 31% nel 2009. Oltre due terzi dei cross-border M & A continua a coinvolgere i paesi sviluppati, ma la quota dei paesi in via di sviluppo e delle economie di transizione, è salita dal 26 per cento nel 2007 al 31 per cento nel 2009. A ciò va aggiunto il fatto che nel 2009 più del 50% degli investimenti di tipo greenfield sono stati fatti nei paesi in via di sviluppo e delle economia in transizione. Sul fronte degli investimenti in uscita, Hong Kong (vera e propria piattaforma finanziaria cinese), la Cina e la Federazione russa, in questo ordine, compaiono ormai all'interno della classifica dei primi 20 investitori nel mondo. I Flussi di IDE verso Sud, Est e Sud-Est asiatico hanno fatto registrare il loro maggior calo dal 2001, anche se sono quelli che stanno mostrando i primi segni di ripresa dopo la crisi. L'afflusso verso la regione è diminuito del 17 per cento nel 2009, a 233 miliardi dollari, a causa principalmente del calo delle fusioni e acquisizioni, che è stato particolarmente grave nel settore dei servizi (-51 per cento). Nel complesso gli IDE in uscita dalla regione sono diminuite dell'8 per cento a 153 miliardi dollari, con cross-border M & A acquisti in calo del 44 per cento. In controtendenza rispetto al quadro regionale i dati che riguardano la Cina i cui investimenti all'estero continuano a crescere, soprattutto nei settori delle materie prime e, viste le stangate che la crisi ha causato sui listini internazionali, aumentano anche gli investimenti sotto forma di M&A. Flussi di IDE in entrata, 1980–2009 (in miliardi di dollari) Fonte: UNCTAD, World Investment Report, 2010 Come si accennava in precedenza, più della metà degli investimenti diretti esteri continua a dirigersi verso i paesi in via di sviluppo e i paesi in via di transizione. Mentre le operazioni di M&A continuano ad essere effettuate soprattutto nei paesi sviluppati. Tutta via come emerge abbastanza chiaramente dal grafico sopra, si nota che, per usare l'espressione di Friedman, il mondo sta davvero diventando piatto. A partire dal 2007 i paesi sviluppati hanno perso drasticamente il proprio primato come destinatari degli investimenti internazionali. Mentre i paesi in via di sviluppo o le economie in transizione hanno tenuto botta. A livello globale i flussi di IDE in uscita nel 2009 sono diminuiti del 43 per cento assestandosi a quota a 1.101 miliardi di dollari, in parte seguendo il trend decrescente degli IDE in entrata. In particolare si segnala una forte riduzione del ruolo dei paesi sviluppati quali investitori internazionali, a seguito della crisi. Si registrano comunque alcuni segnali di ripresa. Nel primo trimestre del 2010 i flussi di IDE, stando ai dati UNCTAD, in uscita hanno fatto registrare una aumento del 20% rispetto allo stesso periodo del 2009. Per avere un'idea di quanto forte sia stato l'impatto della crisi, può essere utile raffrontare i due grafici a lato. Entrambi fanno riferimento al flusso in uscita di investimenti esteri. Sono in pratica la classifica dei maggiori investitori internazionali (fonte UNCTAD, WIR, 2010, e il secondo WIR 2008). Nel 2005 la Cina non compariva nella top ten dei maggiori investitori internazionali. E' solo nel 2006 che, per la prima volta, il rapporto UNCTAD inserisce Hong Kong. Nel biennio 2008-2009 invece Pechino entra nella classifica raggiungendo il quinto posto, anche a voler sommare gli investimenti all'estero di Hong Kong. Nel complesso come sembra emergere dai dati, la crisi ha di fatto colpito duramente gli investimenti diretti esteri dei paesi sviluppati (emblematico a tale proposito il caso della Gran Bretagna, che praticamente precipita nella classifica), mentre si è abbattuta con minore impeto sui paesi in via di sviluppo e i paesi in transizione. Nel complesso infatti questo gruppo di paesi ha mantenuto o incrementato la propria posizione. Questo impressionante balzo in avanti potrebbe avere varie spiegazioni da una parte l'istituzione nel 2007 della China Investment Corporation (CIC) con una dotazione di 200 miliardi di dollari, dall'altra l'incremento progressivo della strategia del Go Global, adottata sin dal 2002, e che di recente ha comportato un ulteriore allentamento dei controlli sui capitali in uscita dalla Cina. Ma c'è anche un'altra spiegazione. E' convinzione diffusa che Pechino abbia incrementato in maniera così significativa il suo profilo di investitore internazionale per alleggerire le pressioni che i paesi sviluppati fanno perchè proceda ad un più consistente aumento della valutazione dello yuan. In altre parole Pechino non rivaluta ma aiuta la crescita economica dei paesi sviluppati facendo investimenti. Come si vedrà di seguito i dati smentiscono questa interpretazioni, dato che ad accogliere i maggiori investimenti diretti esteri cinesi, sia prima che dopo la crisi, non sono i paesi sviluppati, ma in massima parte i paesi in via di sviluppo. Il che sta probabilmente a significare che Pechino, più che restituire sotto forma di investimenti, quello che non vuole dare sotto forma di aumento delle importazioni a danno delle sue esportazioni, intende diminuire la propria esposizione rispetto al dollaro. In altre parole, al di là di quanto negli ultimi anni si è scritto circa la vulnerabilità americana dovuta alla enorme potenza di fuoco delle gigantesche riserve monetarie cinesi (oltre 2.200 miliardi di dollari) e al fatto che Pechino sia tra i maggiori detentori di T-bond americani (oltre 800 miliardi di dollari), è la Cina ad essere in difficoltà, imbrigliata com'è in una sorta di trappola del dollaro, trappola che scatta nel momento in cui negli Stati Uniti parte l'inflazione, cosa che la FED sta deliberatamente facendo. E' proprio questo timore che ha spinto Pechino nei quattro angoli del globo negli ultimi anni alla ricerca di investimenti che da una parte soddisfacessero alcune sue esigenze (materie prima, accesso a nuovi mercati, acquisizione di tecnologie etc) dall'altra diminuissero la propria esposizione al dollaro. In maniera abbastanza provocatoria, pertanto, si potrebbe dire che Pechino è costretta ad investire all'estero e che i suoi successi quali investitore internazionale sono il tentativo di rimediare ad una sua debolezza. Una ipotesi questa che può essere corroborata sei si prende in considerazione anche la forza (sebbene le cautele tipiche del mondo della finanza abbiamo attenuato solo in apparenza i toni) con cui Pechino ha cercato di premere per andare in direzione almeno di un bilanciamento del ruolo del dollaro a livello internazionale, basti ricordare le parole in questo senso del governatore della Banca Centrale Cinese, in favore di un ruolo maggiore da riservare ai Diritti Speciali di Prelievo emessi dal Fondo Monetario Internazionale. Nonché la concomitante serie di iniziative condotte da Pechino per la creazione di un'area dello yuan. E' una corsa forsennata se si considera che anche nel pieno della crisi, mentre i flussi globali di IDE calavano del 20% quelle cinesi “nearly doubled”21. Cina: la storia di un investitore A ricostruire la storia cinese quale investitore internazionale qualche ulteriore conferma in questo senso può essere tratta. La crescita cinese ha avuto tra i maggiori protagonisti l'immenso afflusso di investimenti diretti esteri in Cina. A fronte di questa valanga di investimenti in entrata, gli investimenti in uscita sono rimasti pressoché insignificanti fino a pochissimi anni fa. Nel 1979 la Cina non investiva all'estero (in questo senso di fa riferimento ai soli investimenti diretti, non agli aiuti alla cooperazione o gli aiuti ai regimi comunisti amici, che potrebbero essere definiti aiuti alla rivoluzione). Nel 2009 lo stock degli investimenti diretti esteri cinesi ammontava (dati UNCTAD) a 229 miliardi di dollari e 600 milioni, era di 27 miliardi di dollari e 768 milioni nel 2000, di 4 miliardi di dollari e 455 milioni nel 1990. A questi dati, tuttavia, andrebbero aggiunti gli investimenti che fanno capo ad Hong Kong che ammontano (dati UNCTAD) a 834 miliardi di dollari e 089 milioni di dollari nel 2009, ammontavano a 388 miliardi di dollari e 380 milioni nel 2000 e a 11 miliardi di dollari e 920 milioni nel 1990. A questi vanno aggiunti anche quelli di Macao che nel 2009, unico dato disponibile ammontano a 1 miliardi di dollari 211 milioni. Nel complesso il flusso di IDE in uscita nel 2009 ammonta a 48 miliardi di dollari. Erano 52 nel 2008 e 22,5 nel 2007. Anche i flussi in uscita da Hong Kong sono aumentati (52 miliardi di dollari) rispetto al 2008 (50 miliardi di dollari), senza tuttavia raggiungere i livelli pre-cresci: nel 2007 erano di 61 miliardi di dollari. Leggermente diversi di dati del MOFCOM. Per il Ministero del Commercio Estero cinese, il flusso in uscita degli investimenti diretti cinesi nel 2008 ha raggiungo la cifra di 55, 91 miliardi di dollari, facendo registrare un incremento del 111% in più rispetto all'anno precedente. Nel 2008, continua il MOFCOM, 8.500 imprese cinesi hanno aperto 12.000 attività all'estero, in 174 paesi, per un stock di 182,97 miliardi di dollari di investimento. Nel complesso, stima il MOFCOM, il totale degli investimenti all'estero in possesso di operatori cinesi, ammonta a mille miliardi di dollari. Gli investimenti finanziari nel 2008 hanno raggiunto la cifra di 14,5 miliardi di dollari, di cui 13,2 appartengono al settore bancario e corrispondono al 94% del totale. A fine 2008 lo stock di investimenti finanziari accumulato da operatori cinesi ammonta a 36,69 miliardi di 21 K. Davies, On China's rapid growth in outward FDI, China Daily, 3 agosto, 2009. dollari, di cui, 26, 79 nel settore bancari, 510 milioni nel settore assicurativo, 530 milioni al settore delle securities e 8,86 rientrano in altri comparti finanziari, per un valore percentuale, rispettivamente del 73%, 1,4%, 14% e 24,2% Se si guarda la progressione storica appare chiaro come il fenomeno degli investimenti diretti esteri cinesi sia in fortissima crescita. Ciò non dimeno in termini assoluti la frazione degli investimenti cinesi sul totale resta bassissima, si va dallo 0,6 stimato dall'UNCTAD allo 1,6 del MOFCOM Fonte: UNCTAD, World Investment Report, 2010 I settori nei quali Pechino investe Dall'analisi dei dati resi pubblici dal Ministero del Commercio Estero cinese emerge che il principale settore in cui Pechino investe all'estero è quello terziario, seguito dal settore primario (materie prima e risorse energetiche) e solo per ultimo il manifatturiero. Questa suddivisione si spiega facilmente se si tiene presente quanto si affermava prima. Pechino infatti, grazie al modello di sviluppo adottato negli ultimi trent'anni è di fatto diventato il più grande hub manifatturiero al mondo, o per dirla con il Financial Times, il più grande opificio a cielo aperto del mondo. Pertanto Pechino sta investendo all'estero in quei settori che sono funzionali al mantenimento della sua macchina manifatturiera. A valle, materie prime e fonti energetiche, acquisendone in maniera diretta o indiretta il controllo. A monte acquisizione di servizi (finanziari e non) funzionali al suo manifatturiero. In altre parole Pechino investe all'estero, attraverso le sue imprese di Stato e i suoi fondi di Stato, per rispondere alle sue esigenze interne. Distribuzione dello stock degli IDE per settore industriale,2004-2008 (in milioni di dollari) Industry 2004 2005 2006 2007 2008 Agriculture, forestry, husbandry, fishery 288,66 105,36 185,04 271,71 171,83 Mining 1800,21 1675,22 8539,51 4062,77 5823,51 Manufactury 755,55 2280,40 906,61 2126,50 1766,03 Power and other utilitise 78,49 7,66 118,74 151,38 1313,49 Construction 47,95 81,86 33,23 329,43 732,99 Transport,warehousing & postal service 828,66 576,79 1376,39 4065,48 2655,74 IT 30,50 14,79 48,02 303,84 298,75 Wholesale and retailing 799,69 2260,12 1113,91 6604,18 6514,13 Residential & catering trade 2,03 7,58 2,51 9,55 29,5 3529,99 1667,80 14048 Finance Real estate 8,51 115,63 383,76 908,52 339,01 Leasing & business service 749,31 4941,59 4521,66 5607,34 21717,23 Science research , service & geo-survey 18,06 129,42 281,61 303,90 166,81 Water,environment & public facility 1,20 0,13 8,25 2,71 141,45 88,14 62,79 111,51 76,21 165,36 2,28 8,92 1,54 0,18 0,75 0,76 5,10 21,8 21163,96 21163,96 55907,17 management Residential service & other services Education Public health & social welfares 0,01 Cultural,sports & entertainment 0,98 0,12 Public management & social organization 0,04 1,73 Total 5497,99 12261,17 Fonte MOFCOM La dimensione geografica In precedenza si accennava al fatto che gli investimenti diretti esteri cinesi si dirigono essenzialmente nei paesi in via di sviluppo. Non è stato sempre così. Negli anni Ottanta con una economia in piena transizione e con la fame di capitali Pechino continuava ad esercitare un fortissimo controllo sugli investimenti in uscita. E' solo nel 1992 che si ha il primo sussulto con 4 miliardi di dollari, il triplo rispetto all'anno precedente. Per tutti gli anni Novanta, tuttavia, la media degli investimenti diretti esteri in uscita si attesterà su poco più di 2 miliardi di dollari, a partire dal 2001-2002, come si è messo in evidenza in precedenza, la svolta, con un tasso di crescita medio annuo del 116%, mentre alla media mondiale che non andava oltre il 6% Nella primissima fase della sua vita come investitore (nel periodo che va dal 1979-al 1991) le destinazioni principali erano gli Stati Uniti e l'Oceania: quasi l'80% degli investimenti in uscita (mai non oltre un miliardo di dollari) soprattutto nel settore delle materie prime. Prima di procedere alla scomposizione a livello regionale e di singolo paese dei dati è utile sottolineare come l'investimento sotto forma di Mergers & Acquisition (M&A) sia diventato di gran lunga lo strumento più usato, rispetto agli investimenti di tipo greenfield. I vantaggi sono abbastanza chiari: sono una soluzione rapida per l'acquisizione di tecnologia avanzata, reti commerciali, marchi e altre attività strategiche all'estero. Il punto è che questo tipo di investimenti sono stati guardati con crescente sospetto, soprattutto nella fase pre-crisi. Basti a tale proposito ricordare il caso UNOCAL, che vide l'intervento del Congresso per stoppare il tentativo di acquisizione da parte della CNOOC. L'impresa cinese sebbene molto più piccola rispetto alle majors americane, pareva partire avvantaggiata per una serie di ragioni, comuni alle altre imprese di Stato cinese. Infatti, “esse possono contare sul sostegno dei loro governi che ne tracciano le politiche di espansione; e, in secondo luogo, esse non devono preoccuparsi di compiacere i propri azionisti con risultati finanziari trimestrali sempre più brillanti e dividendi sempre più elevati. (…) Ben provviste di liquidità, e sostenute dall'autorità politica del governo, le società cinesi si sono mostrate particolarmente aggressive, riuscendo a sfruttare opportunità di investimento ovunque si rendessero disponibili. (…) Spesso hanno avuto la meglio sulle loro più importanti rivali occidentali nella competizione per le riserve e i diritti di esplorazione, e per la costruzione di infrastrutture petrolifere” 22. Quando nel giugno del 2005 la CNOOC fece la sua proposta di acquisto della Unocal per un valore di 18,5 miliardi di dollari, circa 1,9 miliardi di dollari in più rispetto all'offerta fatta dalla Chevron, furono in molti a vedere segnato il destino della compagnia americana una delle maggiori “indipendenti” 23 degli Stati Uniti. Ma la Chevron riesce a “lavorarsi la comunità di Washington in modo esperto (…).Loro e i loro alleati hanno sollevato un polverone sul fatto che un'azienda cinese acquistasse attività americane. Sembrava che la CNOOC dovesse comprare la Exxon che ha una capitalizzazione di mercato di circa 380 miliardi di dollari e non la Unocal con una capitalizzazione di circa 18 (…) La Cnooc non aveva dipendenti negli USA, nessuna presenza politica e nessun portavoce, e a quel punto stava lottando per avere un'azienda americana contro un'azienda americana” 24. La Cnooc alla fine fu pertanto costretta a ritirarsi “dopo che il Congresso aveva minacciato di bloccare la vendita della Unocal ad un'azienda non americana. (…) membri del Congresso avevano apertamente parlato di timori di spionaggio cinese come ragione della loro opposizione”25. Probabilmente la verità è che “per tutto il 2005 ogni giorno sulla stampa si parlava della supposta sottovalutazione del renmimbi cinese, erano aumentate le preoccupazioni sui titoli americani, le frizioni del mercato erano alte come mai in precedenza con il disavanzo della bilancia commerciale con la Cina che continuava a salire, e il Congresso non aveva avuto ancora occasione tangibile per esprimersi. Poi arriva la CNOOC e il Congresso non trova meglio da fare che infilare un dito nell'occhio dei cinesi. Una tempesta perfetta” 26. A differenza delle imprese indiane, i grandi gruppi cinesi si sono mossi con poca cautela tentando, anche sulla scia del successo delle Lenovo, che aveva acquisito la produzione dei pc della IBM, subito il colpo grosso. Al di là della diversa percezione dell'India rispetto alla Cina, le imprese indiane hanno trovato minore difficoltà nelle loro operazioni di M&A all'estero, se si esclude qualche borbottio come nel caso dell'acquisizione di Arcelor da parte di Mittal. “Fatta eccezione per la Tata Steel, che ha acquisito la Corus Steel inglese, le aziende indiane si sono astenute dal tentare acquisizioni di alto profilo come quelle tentate da Lenovo, TLC, CNOOC e Haier. Gli indiani si sono mossi con cautela, facendo offerte per attività di scala minore e meglio gestibili. Cifre nell'ordine dei 100 milioni di dollari sono più accettabili rispetto ai 18 miliardi di cinesi. Queste operazioni naturalmente 22 L. Maugeri, L'era del petrolio, Feltrinelli, 2007, pag. 254-255 23 Ivi 24 T. Khanna, 2.4 miliardi di imprenditori. Cina e India nel nostro futuro, Francesco Brioschi Editore, 2008, pag. 162 25 Ivi 26 Ivi attirano meno l'attenzione, anche perchè sono sparse nel mondo. I Tata per esempio hanno acquisito la Tetley Tea in Gran Bretagna, la divisione veicoli commerciali della Daenwoo in Corea, una acciaieria nel Sudest asiatico e piccole società di software in America Latina. Mentre l'aggressività delle acquisizioni cinesi è sostenuto dal mandato politico dello Stato e da capitali illimitati, avendo come obiettivo la reputazione, anziché il ritorno sui capitali, le acquisizioni indiane debbono rispondere alle tradizionali pressioni degli azionisti. Quando gli indiani hanno tentato grandi acquisizioni – per esempio la compagnia petrolifera indiana ha tentato un affare in Kazakhstan – l'operazione è andata a monte per dissensi all'interno del governo e una divergenza fra il Ceo dell'azienda di Sato e il ministro per il Petrolio. Questa trasparenza a volte poco funzionale e che provoca discussioni impegnative su opportunità e strategie, è del tutto inimmaginabile in Cina. Infine, a differenza della Cina, nel settore privato l'India ha un'esplicita attività di lobbying, esercitata dalla nave ammiraglia delle sue attività industriali, l'industria del software, che agisce in modo da preparare il terreno al commercio estero.” 27 Ora, sebbene la dimensione della acquisizioni indiane sia cresciuta di molto, si pensi agli investimenti fatti nel settore automobilistico inglese, questi non trovano la stessa resistenza delle imprese cinesi. Il caso Unocal pertanto diventa una amara lezione per Pechino e per i suoi piani di investimento all'estero. Una lezione di cui pareva aver fatto esperienza. Ma nel 2009 è la Aluminum Corporation of China (Chinalco) a subire un nuovo smacco nel tentativo di aumentare la propria presenza nell'anglo-australiana Rio Tinto: dal 9 al 18% con un investimento di 19, 5 miliardi di dollari. Nel maggio del 2009 la Rio Tinto respinge l'offerta. La reazione cinese è dura e scomposta, prima la neonata Anti-Trust cinese, blocca l'accesso al mercato cinese al colosso anglo-australiano, in quanto colpevole di posizione dominante o, per usare le parole del Ministro dell'Industria Chen Yanhai, "a strong monopolistic color.", nel giugno dello stesso anno, con l'accusa di sottrazione di segreti di Stato – che in caso di condanna in Cina può portare anche alla pena di morte – viene arrestato il numero uno di Rio Tinto in Cina Stern Hu, di etnia cinese, ma di nazionalità australiana. Perchè una reazione così dura? Perchè Pechino ha un interesse pressoché vitale nel “ break the stranglehold that Rio, BHP Billiton (BHP) and Brazil's Vale (VALE) have on global pricing for iron ore and other key commodities that China desperately needs -- and will need for decades.” Il precedente dell'affare Unocal, pare comunque aver da una parte moderato l'aggressività cinese, dall'altra indotto Pechino a evitare, per quanto possibile, investimenti che possono 27 Ivi, pag. 163 levare ondate di proteste nei paesi sviluppati. Nel 2009, mentre le economie sviluppate sono rimaste impantanate a causa della crisi finanziaria globale, le aziende cinesi hanno fatto un numero record di acquisizioni internazionali, raggiungendo un totale di 298 accordi. A differenza della situazione pre crisi questa volta i capitali cinesi sono stati i benvenuti (per ragioni di sopravvivenza verrebbe da dire), sebbene continuino ad essere poco digeriti gli investimenti diretti delle aziende di Stato e continuino a sussistere le classiche fonti di preoccupazione. Infatti “much of the scrutiny has focused on natural resources, the sector where large Chinese companies have been most acquisitive and where many countries are sensitive to foreign investment, regardless of the source. However, there is plenty of evidence of an emerging wave of Chinese investment aimed at securing technology and other intellectual capital—for everything from car manufacturing to green technologies—as well as the management expertise to transform mainland companies into truly world-class players (though these deals are only beginning to show up in the data for acquisitions worth more than US$50m). This is raising concerns that go beyond the security of natural-resources supply and touch on more fundamental economic concerns. Of specific worry is the potential for manufacturing and jobs to be relocated to China. There is also a growing resentment among foreign companies that feel they are not being granted equal access to Chinese assets and markets, and hints that this could fan—or indeed, perhaps already is fanning— the flames of protectionism. Of course, China has its own views on the matter, with officials frequently commenting that other countries’ criticisms are unjustified and stem from frustrations about problems in their own economies.” 28 Ma sorgono anche altri problemi, come rilevato dall'Economist Intelligece Uniti “In our survey of 110 Chinese executives, 82% of respondents identified lack of management expertise in handling outbound investment as the biggest challenge for Chinese companies. Only 39% feel they know what is required to integrate a foreign acquisition. Only 39% of survey respondents said they had identified specific companies that would be attractive to them within their chosen geographic markets—increasing the risk that Chinese buyers could succumb to the temptation to buy assets that have become available as a result of the global financial crisis, rather than focusing on carefully researched targets” 29. Ma il punto più importante è che la lezione Unocal ha modificato l'approccio delle compagnie cinesi che stanno moderano i propri obiettivi. Dall'analisi degli accordi al di 28 Economist Intellice Unit, A Brave New World, aprile 2010. 29 Ivi sopra di 50 milioni di dollari in un arco di tempo che va dal 2004 al 2009, l'EIU ha rilevato che “half the deals involved 50-100% ownership of the targets and a further 13% involved substantial (minority) stakes of 25-50%. But there are many signs of a realisation that this may not be the best approach for a number of reasons, not least because it can set off alarm bells among the foreign public and regulators. Among survey respondents who said they were definitely or likely to make an overseas investment, 47% would prefer to strike either joint ventures (29%) or alliances (18%) while only 27% said they would do so through acquisitions”30 Se comparato a livello globale anche gli investimenti sotto forma di M&A sono solo una piccola quota rispetto ai grandi investitori internazionali. Solo a partire dal 2005, infatti, questi superano i dieci miliardi di dollari, ma a partire da allora la progressione è stata impressionante, come si rileva dai dati dell'EIU: · Negli ultimi dieci anni Pechino ha fatto acquisti all'estero sotto forma di M&A per un ammontare di 187 miliardi di dollari, pari al 2,2% di tutte le M&A a livello globale · nel 2009 questi hanno raggiunto i 42,6 miliardi di dollari, il 40% in meno rispetto ai 73 miliardi di dollari (l'EIU, spiega questo calo scrivendo che i dati del 2008 erano “inflated by China Unicom’s acquisition of China Netcom’s Hong Kong-based operations.”). Ora, nonostante la flessione del valore assoluto, vista la concomitante contrazione degli altri investitori internazionali, con questa cifra Pechino si è aggiudicata il 7,3% degli investimenti M&A a livello cross border. · Il 2009, come si accennava in precedenza, anche l'anno recond come numero di accordi 298. · Con i suoi 42,6 miliardi di dollari spesi nel 2009 Pechino ha conquistato la terza posizione per M&A e livello globale, dietro a Stati Uniti e Francia: un vero balzo in avanti rispetto alla dodicesima posizione che occupava. · Nel 2009 il 52% di questi investimenti ha avuto come 30 Ivi destinazione l'Asia, (il 53% negli ultimi dieci anni) · A livello di singoli paesi ad attrarre maggiormente le M&A cinesi sono state Hong Kong, Svizzera, Australia, Canada. In Australia Pechino negli dieci anni ha occupato la settima posizione ed in Canada la nona, nel 2009 in tutti e due i paesi ha conquistato il secondo posto nella classifica dei maggiori investitori. · Inoltre nel 2009 “China was the largest M&A investor abroad in Energy & Power and the second largest for Materials” 31. Per quanto riguarda i driver che spingono tali investimenti stando a quanto riporta l'EIU, si può notare come questi abbiano come obiettivo la necessità di far fronte alla fame di materie prime di Pechino. Ben il 45% delle operazioni di M&A sull'estero condotti dagli operatori cinesi ha interessato questo settore. Il 33% invece ha investito all'estero per poter accedere a nuovi mercati. Solo il 12 per cento ha avuto come obiettivo l'acquisizione di nuove tecnologie e Know how. Nel dettaglio il 23 percento degli accordi si è registrato nel comparto dell'estrazione minerarie e dei metalli. Il 24% gas e petrolio. Il 15 percento nei servizi finanziari e l'8% nel comparto Energy and Utilities. In altre parole si conferma il dato più generale che riguarda tutte le tipologie di IDE cinesi sull'estero e cioè che Pechino sta investendo in maniera crescente nel settore primario e nel terziario. 31 I dati sono tratti dalla Thomson Reuter e dall'EIU. La fonte dei grafici è il già citato studio dell'Economist Intelligence Unit A scomporre il dato a livello di singole aree geografiche o paesi appare evidente come l'Asia sia in testa alle destinazioni di M&A, come già detto in precedenza, qui interessa rilevare come nella regione queste siano indirizzate soprattutto verso il comparto finanziario di Hong Kong e il comparto minerario ed estrattivo australiano., che ha “attracted the most amount of Chinese money at US$28bn, or one-fifth of the total, and the deals (including failed bids) were overwhelmingly concentrated in the metals and mining sector (69%). Of the top-ten destinations representing 81% of the total deal value, seven were developed countries, with Kazakhstan, South Africa and Russia accounting for the other 14%”. 32 Un dato rappresentativo dei settori di elezioni degli investimenti cinesi all'estero. Distribuzione geografica degli investimenti e recenti operazioni di M&A A tutt'oggi la principale destinazione degli investimenti diretti esteri è concentrata in Asia. Distribuzione dei flussi degli IDE per distribuzione geografica 2003-2008 (in milioni di dollari) Region 2003 2004 2005 2006 2007 2008 TOTAL 2854,65 5498,39 12261,17 17633,97 26506,09 55907,17 Asia 1505,03 3013,99 4484,17 7663,25 16593,15 43547,50 Africa 74,81 317,43 391,68 519,86 1574,31 5490,55 Europe 145,03 157,21 395,49 597,71 1540,43 875,79 1038,15 1762,72 6466,16 8468,74 4902,41 3677,25 America 57,75 126,49 320,84 258,05 1125,71 364,21 Oceania 33,88 120,15 202,83 126,36 770,08 1951,87 Latin America North Fonte MOFCOM Distribuzione dello stock di IDE cinesi per paese di destinazione 2003-2008 (in milioni di dollari) Region 2003 2004 2005 32 Economist Intellice Unit, A Brave New World, aprile 2010. 2006 2007 2008 TOTAL 33222,22 44777,26 57205,62 75025,55 117910,50 183970,71 Asia 26603,46 33479,55 40954,31 47978,05 79217,93 131316,99 Africa 491,22 899,55 1595,25 2556,82 4461,83 7803,83 Europe 487,45 676,65 1272,93 2269,82 4458,54 5133,96 Latin 4619,32 8268,37 11469,61 19694,37 24700,91 32240,15 548,50 909,21 1263,23 1587,02 3240,89 3659,78 472,26 543,94 650,29 939,48 1830,40 3816 America North America Oceania Fonte MOFCOM A voler scomporre i dati a livello di singolo paese (facendo riferimento esclusivamente allo stock degli investimenti) non mancano alcune sorprese. Per quanto riguarda l'Asia, se si escludono Hong Kong e Macao, veri e propri paradisi fiscali cinesi, che distorcono ampiamente i dati, i paesi in cui negli anni Pechino ha maggiormente investito sono (in ordine decrescente partendo dall'ultimo dato disponibile, quello del 2008) Singapore Kazakistan, Pakistan e Mongolia. Se si guarda ai paesi maggiormente industrializzata della regione la Corea del Sud è solo al quinti posto e al nono posto il Giappone. Nel contempo Cinindia continua ad essere abbastanza anemica se si considera che Nuova Delhi è solo al sedicesimo posto tra le mete privilegiate degli investimenti diretti cinesi. Interessante il fatto che l'Afghanistan compaia tra i primi venti paesi. Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Asia per Paese (in milioni di dollari) Paese 2003 2004 2005 2006 2007 2008 1. Singapore 164,83 233,09 325,48 468,01 1443,93 3334,77 2. Kazakhstan 19,71 24,78 245,24 276,24 609,93 1402,3 3. Pakistan 27,48 36,45 188,81 148,24 1068,19 1327,99 4. Mongolia 13,42 75,95 130,63 314,67 592,17 895,56 5. KoreaRep 235,38 561,92 882,22 949,24 1214,14 850,34 6. Saudi Arabia 0,24 2,09 58,45 272,84 404,03 620,68 7. Indonesia 54,26 121,75 140,93 225,51 679,48 543,33 8. Vietnam 28,73 160,32 229,18 253,63 396,99 521,73 9. Japan 89,31 139,49 150,70 223,98 558,27 509,69 10. Myanmar 10,22 20,18 23,59 163,12 261,77 499,71 11. Thailand 150,77 181,88 219,18 232,67 378,62 437,16 12. Cambodia 59,49 89,89 76,84 103,66 168,11 390,66 13. United Arab 31,17 46,56 144,53 144,63 234,31 375,99 Emirates 14. Laos PDR 9,11 15,42 32,87 96,07 302,22 305,19 15. Tagikistan 5,12 21,54 22,79 30,28 98,99 227,17 16. India 0,96 4,55 14,62 25,83 120,14 222,02 17. Kirghizia 15,79 19,26 45,06 124,76 139,75 146,81 18. Yemen Rep 12,76 31,02 77,77 63,76 107,23 140,54 19. Korea D,P,R 1,17 21,74 31,04 45,55 67,13 118,63 20. Afghanistan 0,43 0,45 0,45 0,67 0,77 114,69 Fonte MOFCOM Incrociando i dati sulla distribuzione geografica degli investimenti con quelli per settore può essere utile provare a riportare le più importanti operazioni di M&A condotte da aziende cinesi nella regione 33 Acquirente Shandong Ruyi Science & Technology Target Data Paese Valore % Renown Inc. Jul 10 Japan 45.7 mn 41.18% 33 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis Group Co. Ltd. China Daye Non- Philippines Ferrous Metals Mining Mining Alliance Philippines n/a n/a Jul 10 Philippines n/a n/a C&C Media Mar 10 Japan 21 mn 100% Insigma SOLXYZ Mar 10 Japan 2.9 mn 5% Linktone InnoForm Group Mar 10 Singapore 70 mn 75% Hong Kong 180.23 mn 20% Feb 10 Hong Kong 88 mn 90% may-09 Thailand n/a > 49% Ltd. International Jul 10 Ltd. Toledo Jinchuan Group Mining Corporation PLC Beijing Perfect World Network Technology CITIC 1616 Group Companhia de Telecomunicacoes de Feb 10 Macau C-Travel International Travel service unit of Ltd. Wing On Travel ACL Bank Public Co. ICBC Ltd. CNPC & BP Oil field (Rumaila) may-09 Iraq n/a n/a Suning Appliance LAOX may-09 Japan 8.38 mn 27.36% may-09 Hong Kong 73 mn 70% may-09 Singapore 1.02 bn 45.51% Sept-09 Hong Kong 53 mn 2.3% Sept Japan 49.9 mn 100% Hong Kong 817.36 mn > 29.9% Hong Kong 70 mn 100% Bank ICBC East Asia (Canada unit) Singapore CNPC Petroleum Co. Ltd. China Investment Poly Corporation A-Power of (Hong Kong) Investments Ltd. Energy Generation Systems EVATECH Ltd. Air China China Bank Cathay Pacific Airways Aug.09 Construction AIG Finance Kong) Ltd. (Hong Aug.09 Se si ripete la stessa operazione per il continente africano emerge chiaramente come la destinazione di gran lunga prevalente negli investimenti cinesi sia il Sud Africa e poi seguono Nigeria, Zambia e Sudan, sebbene staccati di lunga misura. Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Africa per Paese (in milioni di dollari) Paese 2003 2004 2005 2006 2007 2008 1. South Africa 44,77 58,87 112,28 167,62 702,37 3048,62 2. Nigeria 31,98 75,61 94,11 215,94 630,32 795,91 3. Zambia 143,70 147,75 160,31 267,86 429,36 651,33 4. Sudan 0,55 171,61 351,53 497,13 574,85 528,25 5. Algeria 5,70 34,49 171,21 247,37 393,89 508,82 6. Mauritius 12,59 12,63 26,81 51,16 115,90 230,07 7. Tanzania 7,46 53,80 62,02 111,93 110,92 190,22 8. Madagascar 28,13 40,63 49,94 54,34 76,01 146,52 9. Niger 12,50 14,03 20,44 32,99 134,53 136,5 10. Congo DR 0,24 15,69 25,11 37,61 104,40 134,14 11. Egypt 14,29 14,28 39,80 100,43 131,60 131,35 12. Ethiopia 4,78 7,87 29,82 95,60 108,88 126,45 13. Guinea 14,34 25,77 44,22 54,63 69,97 96,37 14. Gabon 24,05 31,27 35,36 51,28 55,59 88,14 15. Libya 0,86 0,87 33,06 28,57 70,83 81,58 16. Kenya 25,53 28,46 58,25 46,23 55,13 78,36 17. Congo 5,65 13,32 62,90 65,40 75,42 18. Angola 0,30 0,47 8,79 37,23 78,46 68,89 19. Botswana 2,10 3,80 18,12 25,52 43,39 65,26 20. Zimbabwe 36,74 38,06 41,63 46,15 59,15 60,01 Fonte MOFCOM A mappare le maggiori operazioni di M&A condotte da imprese cinesi nella regione emerge quanto segue 34: Acquirente China Iron Target Shandong and Steel Group Wuhan Iron & Steel (Group) Corporation (WISCO) Jinchuan Group and CAD Fund Data Paese Valore % Jul 10 Sierra Leone 1.5 bn 25% Jun 10 Mozambique 800 mn 40.00% May 10 South Africa 227 mn 51.00% May 10 Zambia 1 bn n/a Platmin Congo May 10 Congo (DRC) 284 mn 100.00% Miraco May 10 Egypt 57.48 mn 32.50% Mar 10 Uganda 2.5 bn 33% Jan 10 Niger 53.3 mn 37% African Minerals (AML) Jan 10 Sierra Leone 247 mn 12.5% Munali Aug-09 Zambia n/a may-09 Zambia n/a African Minerals Ltd.’s Tonkolili iron ore Project Riversdale’s Zambeze coal Reserve Wesiswe China Development Kafue Gorge Lower Power Bank Zijin Plant Mining and CAD Fund Midea Tullow Oil Plc's project in CNOOC China Uganda National Nuclear Corporation (CNNC) China Ideal Mining Railway Materials Commercial Azelik uranium mine of Corp (CRM) Jinchuan Group NFC Africa Mining Luanshya Copper Mines Co. Ltd. (LCM) More than 70% 85% 34 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis Per quanto riguarda l'Europa la Russia è di gran lunga il principale destinatario degli investimenti diretti cinesi. All'interno dell'Unione Europea i maggiori attrattori di investimenti diretti esteri da parte delle imprese cinesi sono di gran lunga Germania ed Inghilterra, cui seguono, a distanza, Olanda, Francia e Svezia. Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Europa per Paese (in milioni di dollari) Paese 2003 2004 2005 2006 2007 2008 1. Russia 61,64 123,48 465,57 929,76 1421,51 1838,28 2. Germany 83,61 129,21 268,35 472,03 845,41 845,5 3. UK 75,15 108,46 107,97 201,87 950,31 837,66 4. Netherlands 5,90 8,97 14,95 20,43 138,76 234,42 5. France 13,12 21,68 33,82 44,88 126,81 167,13 6. Sweden 6,07 6,44 22,46 20,02 146,93 157,59 7. Spain 101,81 127,67 130,12 136,72 142,85 145,01 8. Italy 19,18 20,84 21,60 74,41 127,13 133,6 9. Luxemburg 67,02 122,83 10. Poland 2,72 2,87 12,39 87,18 98,93 109,93 11. Ireland 0,24 0,04 0,04 25,30 29,23 107,77 12. Hungary 5,43 5,42 2,81 53,65 78,17 88,75 13. Romania 29,75 31,10 39,43 65,63 72,88 85,66 14. Georgia 4,84 22,15 32,09 42,93 65,86 15. Denmark 74,43 67,20 96,59 36,48 36,75 38,08 16. Czech Rep 0,33 1,11 1,38 14,67 19,64 32,43 17. Ukraine 0,06 1,31 2,78 6,54 13,51 15,92 Fonte MOFCOM Le più importanti acquisizioni in Europa di imprese cinesi35 Acquirerente CIC Target Diageo Data 21 Jul '09 Paese UK Valore $396M Sinopec Group Addax Petroleum 24 Jun '09 Switzerland $7.24B Geely Volvo Aug 10 Sweden 1.5 bn di dollari 100% Jul 10 France n/a 49% Apr 10 Russia 300 mn 10.26% Feb 10 Azerbaijan 3 bn 5.6% Feb 10 Israel 60 mn 100% Feb 10 Russia 75 mn 75% Jul-09 Spain 14.5 bn 75.00% Jul-09 Jun-09 UK Switzerland 1.5 bn 7.5 bn n/a 100.00% Nov-09 Norway n/a n/a Oct-09 UK 875 mn 100.00% Sept-09 Sweden 410 mn n/a Sept-09 UK 651.4 mn n/a aug-09 UK 879 mn n/a July-09 Norway n/a 100% July-09 Finland 71 mn 30% ICBC Tencent Technology CNOOC and Sinopec Yifang Digital Technology China International Marine Containers (CIMC) CNPC Chinalco Sinopec CNOOC AXA-Minmetals Assurance Company Digital Sky Technology Azerbaijan oil field of Devon Energy Pegasus Technologies Ltd. Friede Goldman United (F&G) Repsol YPF (Argentine unit) Rio Tinto Addax Petroleum Statoil ASA's assets Emerald Energy Plc. Sinochem Group Beijing Automotive Koenigsegg Industry Holding (BAIC) Sinochem Gulfsands Group Petroleum Plc. Sinochem Emerald Energy Group Plc. Telenor's China Mobile Pakistani subsidiary Shenzhen Kaifa Technology Co. Elcoteq SE Ltd. % 35 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis Zhejiang Wantong Aluminum Industrial Co. Ltd. Greencool Co. TCL Chalkis TCL Neo Neon Dalla Pieta Euro-Hose Tuyaux de Nevers Thomson TV division Le Cabanon– Conserves de Provence Alcatel mobile handset division LCX-Leblanc Chromex China National Adisseo Bluestar China National Rhodia Silicones Bluestar Shenyang Heavy NFM Machinery Technologies Group Tianshui Spark Machine Tool Somab Company Hebei Hongye Two Cast Europe Machinery Co Weichai Power Moteurs Ltd Baudouin Longsheng Shandong Export and Plysorol SAS Import Corp. + Honest Timber Gabon July-09 Italy 14.63 mn 100% 2004 Francia n/a 100% 2003 Francia n/a 67% JV 2004 Francia n/a >55% 2004 Francia n/a 2004 Francia n/a 20% 2005 Francia n/a 100% 2006 Francia n/a 100% 2008 Francia n/a 70% 2008 Francia n/a 81% 2008 Francia n/a n/a 2009 Francia n/a 100% 2009 Francia n/a 100% Se si scompongono i dati degli investimenti in America Latina e si può notare come questi siano profondamente distorti dagli afflussi di capitale cinese nei paradisi fiscali delle isole Cayman e delle Isole Vergini Britanniche. Se si eliminano tali dati, emerge come a guidare la classifica siano sia costituito di cinque paesi il gruppo, anche abbastanza compatto, che guida la classifica: Basile, Perù, Argentina, Messico e Venezuela. Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in America Latina per Paese (in milioni di dollari) Paese 2003 2004 2005 2006 2007 2008 1. Cayman Is 3690,68 6659,91 8935,59 14209,19 16810,68 20327,45 2. Br,Virgin Is, 532,64 1089,38 1983,58 4750,40 6626,54 10477,33 3. Brazil 52,19 79,22 81,39 130,41 189,55 217,05 4. Peru 126,28 125,82 129,22 130,40 137,11 194,34 5. Argentina 1,05 19,27 4,22 11,34 157,19 173,36 6. Mexico 97,18 125,29 141,86 128,61 151,44 173,08 7. Venezuela 19,39 26,78 42,65 71,58 143,88 155,96 8. Ecuador 0,55 2,19 18,12 39,04 49,18 88,6 9. Cuba 13,95 14,85 33,59 59,91 66,49 72,05 10. Guyana 14,04 12,86 5,60 8,60 68,60 69,5 11. Panama 0,16 0,41 34,77 36,92 55,31 67,38 12. Chile 0,75 1,48 3,71 10,84 56,80 58,09 13. Bolivia 0,08 21,06 23,03 28,62 Fonte MOFCOM Per avere un quadro della situazione è utile analizzare le maggiori operazioni di M&A condotte da imprese cinesi nella regione Le più importanti operazioni di M&A nella regione36 Acquirente Paese Valore % Venezuela n/a 66.6% May 10 Argentina 3.1 bn 50% May 10 Brazil 1.72 bn 100.00% May 10 Brazil 3 bn 40.00% Apr 10 Brazil 5 bn 70% Mar 10 Brazil 1.2 bn 100% Mar-10 Brazil 1.2 bn 100.00% Mar-10 Guinea 1.35 bn 47.00% Bridas Corp. Mar-10 Argentina 3.1 bn 50.00% Quadra Mining Ltd Mar-10 Chile 1.05 bn 10.00% Shunde Rixin An iron-ore mine in Chile Dec-09 Chile 1.9 bn 70.00% WISCO MMX Dec-09 Brazil 400 mn 21.52% Sep-09 Venezuela 16 bn n/a Jul-09 Brazil 280 mn 23.00% China Target Data Railway Crystallex International Engineering Corporation’s Corporation Cristinas Project CNOOC Bridas Corp. Las Jun 10 Plena Transimissoras' 7 State Grid assets Sinochem Statoil ASA's Asset in Group Brazil Coast Wuhan Iron & Steel (Group) Steel Corporation Mill in Rio de Comercio de Janeiro (WISCO) East China Mineral Expl & Dev Bureau East China Mineral Explr. Grid Corporation WISCO Itaminas Tinto-Guinea CNOOC CNPC Minerios Joint Venture with Rio Chinalco State Itaminas Orinoco river heavy oil belt MMXSudeste (MMX) 36 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis Se si scompongono i dati circa gli investimenti diretti esteri effettuati da imprese cinesi in Nord America, a livello si singoli paesi, appare chiaro quanto prima si sosteneva. Gli Stati Uniti sono al secondo posto della classifica distanziati di molto dal Canada, ricco di materie prime. Questo dato va comunque bilanciato con i risultati del survey condotto dell'EIU, dove gli imprenditori intervistati indicano negli USA il paese in cui è più difficile investire per loro. I survey dell'EIU tuttavia non riposta una ulteriore scomposizione dei dati e cioè il tipo di azienda, in particolare se si tratta di aziende di Stato o private. Non avendo a disposizione i dati è ipotizzabile che le maggiori difficoltà di ingresso nel mercato degli investimenti americani le incontrino le imprese di Stato piuttosto che le imprese private. In questo senso si può leggere il successo dell'operazione Lenovo su IBM rispetto al fallimento della CNOOC su Unocal. Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Nord America per Paese (in milioni di dollari) Paese 2003 2004 2005 2006 2007 2008 1. Canada 46,18 58,79 103,29 140,72 1254,52 1268,43 2. United 502,32 665,20 822,68 1237,87 1880,53 2389,9 185,22 337,26 208,43 105,84 1,45 States 3. Bermuda Fonte MOFCOM Ad analizzare le maggiori operazioni di M&A nella regione pare confermarsi l'ipotesi poc'anzi espressa 37. Acquirente Target Data Paese Valore % Hummer Jun '09 US $100M 100% Morgan Stanley jun '09 US $1.2B 9.9% Sichuan Tengzhong Heavy Industrial Machinery CIC 37 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis Wuhan Iron & Consolidated Steel Thompson CIC CIC Jun '09 Canada $240M Blackstone Group Jun '09 US $500M Teck Jul '09 Canada $1.5B 17.2% Delphi Aug '09 US n/a n7A AIA Group Jul 10 US n/a n/a Selwyn Resources Ltd. Jun 10 Canada 96.3 mn 50% Alibaba Vendio Services Jun 10 US n/a 100% CIC Penn West Energy May 10 Canada 817 mn 45% May 10 US 175 mn n/a Beijingwest Industries Fosun Group, CC Land Holdings, Pacific Alliance Group Yunnan Chihong Zinc & Germanium Co. Ltd. Anshan Steel Steel Development Company (SDCO) Zijin Mining Inter-Citic Minerals Apr 10 Canada 18.6 mn 19.9% Sinopec Syncrude Apr 10 Canada 4.65 bn 9.03% Jinchuan Group Crowflight Minerals Apr 10 Canada 150 mn n/a General Moly Inc. Mar 10 US 80 mn 25% Mochi Media Jan 10 US 80 mn 100% Chariot Resources Mar-10 Canada 231.9 mn 100.% General Moly Inc. Mar-10 US n/a 25% Feb-10 Canada 1.7 bn 60% Feb-10 US 75 mn 75% Khan Resources Feb-10 Canada 52.9 mn n/a SouthGobi Energy Oct-09 Canada 500 mn n/a Sichuan Hanlong Group Shanda Interactive Entertainment Ltd. China Sci-Tech Sichuan Hanlong Group Sinopec China International Marine C. China National Nuclear Co. CIC 2 Oil Sands of Athabasca Oil Sands Friede Goldman United (F&G) Resources Ltd. CNPC Jien Nickel Mackay River & Dover oil projects Canadian Royalties Inc. Aug-09 Canada 1.7 bn Aug-09 Canada 160 mn 60% Jien: 75%; Goldbrook: 25% Jien Nickel Victory Nickel Inc. June-09 Canada 2.7 mn 14.7% CNOOC InterOil's LNG project June-09 Canada 500 mn 20% - 35% Sinopec & Oil field in Angola CNOOC (Marathon Oil) June-09 USA 1.3 bn 20% June-09 USA 3 bn 30% June-09 USA n/a n/a CNOOC Jubilee (Kosmos’ oil field in Africa) Sichuan Tengzhong Heavy Industrial Machinery Co. Ltd. Hummer (General Motors) Con l'assoluto primato dell'Australia quale attrattore degli investimenti diretti esteri cinesi (ma lo stesso discorso vale anche per il numero di acquisizioni e partecipazioni), in Oceania, appare ancora di più chiaro come le materie prime siano uno dei driver fondamentali che guidano la policy di investimento cinese all'estero. Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Oceania per Paese (in milioni di dollari) Paese 2003 2004 2005 2006 2007 2008 1. Australia 416,49 494,58 587,46 794,35 1444,01 3355,29 2. Papua New 10,22 3,31 8,43 61,30 258,11 289,93 33,22 35,18 51,27 51,17 69,65 2,00 36,16 44,16 Guinea 3. New 44,25 Zealand 4. Marshall_Isl ands Quanto affermato emerge anche se si analizzano le più recenti e più importanti operazioni di M&A condotte da imprese cinesi nella regione 38: Acquirente Shenzhen Zhongjin Lingnan Nonfemet Target Data Paese Valore % Perilya Mining 5 Feb '09 Australia $29.8M 50,1% 24 Feb '09 Australia $438M Hunan Valin Iron & Fortescue Metals Steel Group China Minmetals OZ Minerals 1 Apr '09 Lynas Corp 30 Apr '09 Australia Fisher & Paykel 26 May '09 China Nonferrous Mining Group Haier Group Metal Australia New Zealand $1.21B $186M >51 $29M 20% 38 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis CIC Goodman Group Jun-09 Sinochem Nufarm 159 mn 8% 30 Jul '09 Australia n/a 100% Yanzhou Coal Mining Felix Resources 17 Aug '09 Australia $2.95B 100% HNA Group Jul 10 Australia 70-78.8 mn 100% Jul 10 Australia 42.9 mn Hotels ( Sichuan Taifeng Group Bright Dairy & Food Co. Ltd. IMX Resources and its subsidiary Synlait Milk Jul 10 Hebei Xinghua Iron and Dynasty Metals Australia 51.00% 34% Jun10 Australia 3.67 mn 19.90% Jun 10 Australia 200 mn 8.00% May 10 Australia 20.7 mn 26.00% Apr 10 Australia Metro Coal Ltd. Apr 10 Arrow Energy Ltd. Apollo Minerals Ltd. (Group) 58.4mn 5.45 mn China Armco Metals & Zealand 49% respectively Australia Ltd. Iron New 19.9%, Jun10 Steel Wuhan Australia Steel Corporation Riversdale (WISCO) Guangdong Foreign Trade Group Mungaga Gold mines Henan Yuguang Lead and Kimberley Gold Metals and Sorby China National Coal Import & Export Corp. PetroChina and Shell Lady China Sci-Tech Annie Copper Project Xiangguang Copper Rocklands Mine Corp. (MCC) Mining Group Allco Hainan Airlines Yunnan Finance Group’s leasing business Copper ActivEX Ltd.'s Pentland Australia Ltd. (CYU) Project CNPC & Shell Arrow Energy Ltd. China Sci-Tech of CuDeco Ltd. China Metallurgical Group Resourcehouse China Ltd. Lady Annie Project China Metallurgical Group Resourcehouse Copper 12.48 mn 15%, 25% and 5 mn respectively Australia 28 mn 51% Mar 10 Australia 3.2 bn 50% Mar 10 Australia 119.4 mn 100% Mar 10 Australia n/a 15% Feb 10 Australia 200 mn ≤5% Jan 10 Australia 150 mn 100% Jan 10 Australia 3 mn 70% Mar-10 Australia 3.1 bn 50.00% Mar-10 Australia 135 mn 100.00% Feb-10 Australia 200 mn 5% Zijin Mining Indophil Resources NL Jan-10 Australia 498 mn n/a Baosteel Aquila Resources Ltd. Oct-09 Australia 260.5 mn 15% Yanzhou Coal Felix Resources Ltd. Oct-09 Australia 3.2 bn 100% May-09 Australia 5.15 bn 10% May-09 Australia n/a 36.28% Apr-09 Australia 1.354 bn 100% Sept-09 Australia 71 mn 70% Meridian Minerals Ltd. July-09 Geology Group Co. Ltd. Wuhan Iron & Steel Co. JV with Centrex for iron July-09 (WISCO) ore project Australia 8.2 mn 45% Australia 175.52 mn 60% June-09 Australia 45.52 mn 15% May-09 Australia 140 mn 19.9% May-09 Australia 515 mn 10% May-09 Australia 3.93 mn 19.95% Waratah Coal Inc (Coal MCC mine project) Anshan Iron & Steel Gindalbie Metals Ltd. Five Minmetals mines from OZ Minerals China Guangdong Nuclear Power Energy Metals Ltd. Holding Corporation (CGNPC) Northwest Mining and Guangdong Foreign Trade Group Guangsheng Metals Group Kagara Non-ferrous Pan Australian Resources Ltd. China Metallurgical Group Waratah Coal Inc (Coal Corp. (MCC) mine project) Jien Nickel Metallica Minerals Chi investe? A questo punto risulta più semplice capire chi sia ad investire, quali siano gli attori principali che stanno facendo per la prima volta nella sua storia della Cina un investitore internazionale. A fare la parte da leone sono le grandi imprese di Stato cinesi, il cui protagonismo è stato con forza perseguito dal Consiglio di Stato attraverso la politica del “Go Global”, che da una parte ha comportato anche una progressiva, sino a recentemente, riforma della normativa che regola i movimenti di capitali cinesi verso l'estero, nel senso di una maggiore liberalizzazione, sebbene restino ancora forti i controlli. Dall'altra ad una vera e propria selezione dall'alto di quelle imprese che potenzialmente potevano aspirare a giocare un ruolo globale. Il loro rafforzamento pertanto è stato direttamente gestito dallo Stato, nonostante le smentite ufficiali, attraverso un percorso di fusioni e smembramenti che ha, alla fine, creato dei veri e propri i colossi di Stato cinesi. Il criterio, utilizzato, è stato quello di, per usare l'espressione orientaleggiante adottata dalle autorità cinesi per descrivere tale politica, di “tenere ben saldo il grande e lasciare andare il piccolo”. Il che ha portato ad una significativa riduzione del numero delle imprese di Stato A gestire le imprese di Stato è una sorta di IRI cinese cui fanno capo cento cinquanta imprese 39(si tratta ovviamente delle imprese sotto il controllo del governo centrale, per 39 China National Nuclear Corporation, China Nuclear Engineering & Construction (Group) Corporation, China Aerospace Science and Technology Corporation, China Aerospace Science and Industry Corporation, China Aviation Industry Corporation Ⅰ, China Aviation Industry Corporation Ⅱ, China State Shipbuilding Corporation, China Shipbuilding Industry Corporation, China North Industries Group Corporation, China South Industries Group, China Electronics Technology Group Corporation, China National Petroleum Corporation, China Petroleum & Chemical Corporation, China National Offshore Oil Corp., State Grid Corporation of China, China Southern Power Grid Co., Ltd., China Huaneng Group, China Datang Corporation, China Huadian Corporation, China Guodian Corporation, China Power Investment Corporation, China Three Gorges Project Corporation, Shenhua Group Corporation Limited, China Telecommunications Corporation, China Network Communications Group Corporation, China United Telecommunications Corporation, China Mobile Communications Corporation, China Electronics Corporation, China FAW Group Corporation, Dongfeng Motor Corporation, China First Heavy Industries, China National Erzhong Group Co., Harbin Power Plant Equipment Group Corporation, Dongfang Electric Corporation, Anshan Iron and Steel Group Corporation, Baosteel Group Corporation, Wuhan Iron and Steel (Group) Co., Aluminum Corporation of China Limited, China Ocean Shipping (Group) Company, China Shipping (Group) Company, China National Aviation Holding Company, China Eastern Air Holding Company, China Southern Air Holding Company, Sinochem Corporation, China National Cereals, Oils & Foodstuffs Corp., China Minmetals Corporation, China General Technology (Group), Holding, Limited, China State Construction Engineering Corp., China Grain Reserves Corporation, State Development & Investment Corp., China Merchants Group Limited, China Resources (Holdings) Co., Ltd., China Travel Service (Holdings) H.K., Ltd., State Nuclear Power Technology Corporation Ltd., China Commercial Aircraft Corporation Ltd., China Energy Conservation Investment Corp., China Gaoxin Investment Group poter avere un quadro complessivo dell'intervento pubblico nell'economia in Cina, a queste andrebbero aggiunte le imprese controllate dai governi locali, nonché quelle in cui entità pubbliche hanno partecipazioni sia di maggioranza ). L'obiettivo di lungo periodo che è stato affidato alla SASAC, quando la strategia del Go Global divenne operativa, era quello di portare entro il 2015, cinquanta imprese cinesi nella classifica di Fortune 500, un obiettivo assolutamente a portata di mano se si considera che nella classifica del 2010 ce ne sono già quaranta sei (State Grid, China National Petroleum Corporation, China Mobile Communications Corporation, China Railway Construction, China Southern Power Grid, Dongfeng Motor, China State Construction Engineering, Sinochem, China Telecommunications, China Communications Construction, China National Offshore Oil Corp, China FAW Group, China South Industries Group, Baosteel Group, China Huaneng Corporation, China International Engineering Consulting Corporation, China National Packaging Corporation, China Commerce Group, China Huafu Trade and Development Group Corp., China Chengtong Holding, China Huaxing Group Company, China National Coal Group Corp., China Coal Research Institute, China National Machinery Industry Corporation, China Academy of Machinery Science & Technology, Chinese Academy of Agricultural Mechanization Sciences, Sinosteel Corporation, China Metallurgical Group Corp., China Iron & Steel Research Institute Group, ChemChina Group Corporation, China National Chemical Engineering Group Corp., China National Light Industry (Group) Corp., China Light Industrial Corporation for Foreign Economic and Technical Co-operation, China National Arts & Crafts (Group) Corporation, China National Salt Industry Corp., Huacheng Investment & Management Co., Ltd., China Hengtian Group Co., China Textile Academy, China National Materials Industry Group, China National Building Material Group Corporation, China Nonferrous Metal Mining (Group) Co., Ltd., General Research Institute for Nonferrous Metals, Beijing General Research Institute of Mining & Metallurgy, China International Intellectech Corporation, China Far East International Trading Corporation, China International Enterprises Co-operation Corp., China National Real Estate Development Group, China Academy of Building Research, China North Locomotive and Rolling Stock Industry (Group) Corporation, China South Locomotive and Rolling Stock Industry (Group) Corporation, China Railway Signal and Communication Corporation, China Railway Engineering Corporation, China Railway Construction Corporation, China Communications Construction Company, Ltd., China Putian Corporation, China National Postal and Telecommunications Appliances Corporation, China Satellite Communications Corporation, Datang Telecom Technology & Industry Group, CHINA WATER INVESTMENT GROUP CORP., China National Agricultural Development Group Corporation, China State Farms Agribusiness Corporation, China National Textiles Group Corporation, China National Foreign Trade Transportation Corp., China National Silk Imp. & Exp. Corp., China National Light Industrial Products Imp. & Exp. Corp., China National Complete Plant Import & Export Corporation (Group), China National Service Corporation for Chinese Personnel Working Abroad, China National Biotec Corporation, China Forestry Group Corporation, China National Pharmaceutical Group Corporation, CITS Group Corporation, China Xinxing Corp. (Group), China Poly Group Corporation, China New Era Group, Zhuhai Zhenrong Company, China Architecture Design and Research Group, China Electronics Engineering Design Institute, Sino-Coal International Engineering Design & Research Institute, China Haisum International Engineering Investment Corp. (Group), China Metallurgical Geology Bureau, China National Administration of Coal Geology, Xinxing Ductile Iron Pipes Group Co., Ltd., China Travel Sky Holding Company, China Aviation Oil Holding Company, China Aviation Supplies Holding Company, China Power Engineering Consulting (Group) Corporation, China Hydropower Engineering Consulting Group Co., Sinohydro Corporation, China National Gold Group Corporation, China National Cotton Reserves Corporation, China Printing (Group) Corporation, Panzhihua Iron and Steel (Group) Company, Luzhong Metallurgical Mining Group, Changsha Research Institute of Mining and Metallurgy, China Lucky Film Corporation, China Guangdong Nuclear Power Corp., China Changjiang National Shipping (Group) Corp., Shanghai Ship and Shipping Research Institute, China Hualu Group Co., Ltd., Alcatel Shanghai Bell Co., Ltd., IRICO Group Corporation, Wuhan Research Institute of Posts & Telecommunications, Shanghai Institute of Pharmaceutical Industry, Overseas Chinese Town Enterprises Co., Nan Kwong (Group) Company Limited , Xian Electric Manufacturing Corporation , China Gezhouba Water & Power (Group) Co., Ltd. , China Railway Materials Commercial Corp. Group, China Metallurgical Group, Aviation Industry Corporation Ⅰ, China Aviation Industry Corporation Ⅱ, China Minm etals, China North Industries Group, Sinosteel, Shenhua Group, China Guodian) e ben tre nella top ten. Per avere un punto di paragone basti considerare che solo nel 2007 erano ventiquattro le imprese cinesi presenti, nessuna tra le prime dieci e solo tre tra le prime trenta. A queste bisogna aggiungere quelle controllate dallo Stato, in particolare Sinopec al settimo posto nella classifica Fortune 500 è controllata al 75% dallo Stato, tramite la China Petrochemical Corporation, il più grande produttore e distributore di prodotti petroliferi raffinati. China National Petroleum Corporation (al decimo posto) e interamente controllata dallo Stato, stesso discorso vale per la China National Offshore Oil Corporation (259 posto e che controlla anche PetroChina). A queste bisogna inoltre aggiungere le quattro grandi banche di Stato: Industrial and Commercial Bank of China (ottantasettesimo posto), Agricultural Bank of China (141), China Construction Bank (143), la Bank of China. Anche il gigante assicurativo China Life Insurance (118) è , come si legge sul sito, dal 1999 sotto il diretto controllo del Consiglio di Stato 40 E poi Shanghai Automotive, Citic Group, China FAW Group, COFCO, Hebei Iron & Steel Group, China United Network Communications, People's Insurance Co. of China, China Resources National, China Datang Group, Wuhan Iron & Steel, Aluminum Corp. of China di cui lo Stato detiene la maggioranza. Complessivamente la Cina è al terzo posto nella classifica mondiale per numero di multinazionali della classifica Fortune 500 alle spalle degli Stati Uniti (139) e del Giappone (71) e davanti a Francia (39) e Germania (37) Quello che interessa qui rilevare è che la politica del Go Global, messa in cantiere sul finire degli anni novanta inizia ad essere maggiormente implementata a partire solo dal 2002 con il X piano quinquennale in concomitanza con l'ingresso di Pechino nell'Organizzazione Mondiale del Commercio ed è stata introdotta anche nell'XI piano quinquennale. Visti i risultati appare abbastanza evidente come il Consiglio di Stato non abbia lesinato nessun tipo di supporto ai suoi campioni nazionali: a livello politico, accompagnando le sue imprese nei quattro angoli del globo e si può ipotizzare (visto che le smentite su questo fronte sono costati) un ingente supporto finanziario. Sono quindi queste le imprese che dominano gli investimenti internazionali di Pechino 40 Una curiosità: negli anni cinquanta con il consolidarsi del regime comunista in Cina il sistema assicurativo venne completamente eliminato: bastava il partito! 1 2 3 Le prime 40 MNC per Le prime 40 MNC per Le prime 40 MNC per profitti stock di IDE all'estero, assets all'estero all'estero, dall'estero, 2008 2008 2008 China National 1 China National Petroleum 1 China Petroleum Corporation Corporation Corporation China China Resources (Holdings) 2 China Petrochemical Corporation Petrochemical 2 Corporation Co.,Ltd. Aluminum corporation of 3 China China Communications Mobile 3 National Petroleum Sinochem Corporation Corporation 4 5 China Resources 4 China Ocean Shipping 4 (Holdings) Co.,Ltd. (Group) Company China Ocean Shipping 5 China Merchants Group China Resources (Holdings) Co.,Ltd. 5 Legend Holdings Ltd. (Group) Company 6 7 China National Offshore 6 China Oil Corporation Corporation China National 7 Cereals,Oils & Foodsuffs Petrochemical 6 Aluminum China Ocean Shipping (Group) Company corporation of 7 Huawei Technologies China Corp. 8 Sinochem Corporation 8 China Unicom Corporation 9 CITIC Group 9 China State 8 Construction 9 Engineering Corporation Zhuhai Zhenrong Company China National Cereals,Oils & Foodsuffs Corp. 10 China Merchants Group 10 Sinochem Corporation 10 China Minmetals Corporation 11 SinoSteel Corporation 11 Huawei Technologies 11 China Shipping (Group) Company 12 China Shipping (Group) 12 China National Cereals,Oils 12 China National Automotive Fuel Company & Foodsuffs Corp. Group Corporation China National Aviation 13 CITIC Group 13 Holding Corporation 13 China State Construction Engineering Corporation 14 China Minmetals 14 Legend Holdings Ltd. 14 CITIC Group Corporation 15 16 17 China National Chemical 15 China National Offshore Oil 15 China National Travel Service Corporation Corporation (HK) Group Corporation China State Construction 16 Shum Engineering Corporation Company Limited China Beijing Enterprises Group 17 Shanghai Company Limited Corporation Mobile 17 Communications Yip Holdings 16 SinoSteel Corporation Baosteel Group Corporation 18 China Huaneng Group 18 China Shipping (Group) 18 Shougang Corporation Company 19 China Unicom 19 GDH Limited 19 Corporation 20 Shum China National Aviation Holding Corporation Yip Holdings 20 Company Limited Beijing Foreign 20 Trade&Economy Holding China Merchants Group Co.,Ltd 21 Legend Holdings Ltd. 21 China National Service (HK) Travel 21 China National Group Corporation Offshore Oil Corporation 22 China National Service (HK) Travel 22 China Power Group Corporation Investment 22 China electronics Corporation Corporation 23 24 GDH Limited 23 China National Foreign 24 Trade Guangzhou Yuexiu Holdings 23 Beijing Limited Company Limited SinoSteel Corporation 24 Transportation China Enterprises National Group Chemical Corporation (Group) Corporation 25 China Metallurgical 25 China Huaneng Group 25 Group Cop. 26 Holding Co.,Ltd Huawei Technologies 26 China Minmetals 26 Corporation 27 Shanghai Beijing Foreign Trade&Economy Baosteel 27 Shenzhen Shanghai Automotive Industry Corporation Investment 27 China National Textiles Import & 28 Group Corporation Holdings Co.,LTD Shanghai China Automotive 28 Industry Corporation Export Corporation National Trade Foreign 28 GDH Limited Transportation (Group) Corporation 29 30 31 China Power Investment 29 China Corporation Corporation State Grid Corporation of 30 China China Holding Corporation Shougang Corporation 31 National Chemical 29 Aviation ZTE Corporation 32 China Investment Poly Wuhan Iron and Steel (Group) Corporation Group 31 Corporation 32 Power Corporation National China China Taigang Group International Trade Co.,LTD Communications 32 China Huaneng Group Construction Company Ltd. 33 Shenzhen Investment 33 Holdings Co.,LTD 34 35 Guangzhou Yuexiu 34 Shanghai Baosteel Group 33 China Corporation Construction Company Ltd. Shanghai Automotive 34 Holdings Limited Industry Corporation China Nonferrous Metal 35 Shougang Corporation Communications Haier electrical Appliance Corp.Ltd 35 ZTE Corporation Mining & Construction (group) Co.,Ltd. 36 Beijing Foreign 36 Trade&Economy Holding China Metallurgical Group 36 Anshan Iron Cop. Corporation & Steel Group Co.,Ltd 37 Shanghai Overseas 37 United Investment China electronics 37 Shum Yip Holdings Company Corporation Limited State Grid Corporation of 38 Guangdong Foreign Trade Corp. Group Corporation China Ltd Haier China Telecom Co.,LTD 38 39 Anshan Iron & Steel 38 electrical 39 39 Appliance Corp.Ltd 40 Jinchuan Group LTD. Co.,LTD 40 China-Singapore Suzhou 40 Industrial Park Ventures Co., Ltd Fonte MOFCOM Shenzhen Investment Holdings Nanjing Co.,Ltd. Iron & Steel United Nota: in giallo le imprese di Stato, in verde le imprese a partecipazione pubblica. Fondi di Sovrani e China Investment Corporation (CIC) Volendo dare una definizione non ortodossa dei Fondi Sovrani si può dire che questi sono il sottoprodotto degli squilibri economici e commerciali a livello globale. Si tratta infatti delle risorse accumulate in massima parte attraverso l'esportazione di materie prime e risorse energetiche (è il caso dei paesi del Golfo o della Norvegia, come il Fondo ADIA di Abu Dhabi, il kuwaitiano KIA e il fondo del Qatar, QIA) anche definiti fondi commodity o dei surplus commerciali, anche definiti fondi non-commodity come nel caso cinese con CIC o di Singapore con GIC; eccedenze di proprietà dello Stato e da esso gestite (separatamente dalle riserve monetarie) al fine di investirli soprattutto all'estero. Volendo fare ricorso a qualche definizione più ortodossa si può dire che i fondi sovrani sono dei “fondi di investimento di proprietà statale che effettuano operazioni per lo più riguardanti attività finanziarie estere – opportunamente diversificate – con obiettivi di lungo periodo”41. Per il Dipartimento del Tesoro americano sono “Fondi d’investimento governativi, alimentati da riserve in valuta estera, ma gestititi separatamente dalle riserve ufficiali in valuta”. Mentre per il Fondo monetario internazionale per Fondi sovrani si fa riferimento a “sono speciali Fondi d’investimento creati e posseduti da Stati Sovrani al fine di detenere attività in valuta estera con un orizzonte temporale d’investimento di lungo periodo”. Più caustica ed efficace la definizione che ne danno Paolo Savona e Patrizio Regola ne “Il ritorno dello Stato padrone” che li definiscono come “l'estensione estera di tipo finanziario della sovranità di uno Stato” (a rigore questa stessa definizione potrebbe essere data per gli investimenti diretti esteri per le imprese di Stato cinese). Per una definizione più dettagliata si può ricorrere a quella elaborata dall'SWF Institute: “A Sovereign Wealth Fund (SWF) is a state-owned investment fund composed of financial assets such as stocks, bonds, real estate, or other financial instruments funded by foreign exchange assets. These assets can include: balance of payments surpluses, official foreign currency operations, the proceeds of privatizations, fiscal surpluses, and/or receipts resulting from commodity exports. Sovereign Wealth Funds can be structured as a fund, pool, or corporation. The definition of sovereign wealth fund exclude, among other things, foreign currency reserve assets held by monetary authorities for the traditional balance of payments or monetary policy purposes, state-owned enterprises (SOEs) in the traditional sense, government-employee pension funds, or assets managed for the benefit of individuals.” Non sono un fenomeno nuovo - anzi il primo fondo venne istituito dal Kuwait nel 1953: è il 41 M. Lossani, Fondi sovrani. Economie emergenti e squilibri globali, Brioschi, 2010 Kuwait Investment Board, che in seguito diventerà la Kuwait Investment Authority (Kia) - , ma hanno conquistato l'interesse internazionale per la velocità con cui ne sono stati istituti altri negli ultimi anni. Tuttavia ben presto per le dimensioni che assumono e per la segretezza che li avvolge (sono pochissimi i fondi che applicano una vera e propria politica di trasparenza, probabilmente il solo in questo senso può essere considerato quello Norvegese che sin dalla sua istituzione nel 1990 si è imposto regole severissime: qualsiasi operazione condotta viene resa pubblica e gli investimenti non vanno mai al di sopra del 5%) iniziano a sollevare apprensioni e preoccupazioni. Preoccupazioni a volte anche eccessive, un rapporto della Chatam House del 2007 ne prevedeva un modus operandi aggressivo e spregiudicato e dava per certo che i Fondi sovrani sarebbero stati i grandi protagonisti del XXI secolo. In aggiunta a tali considerazioni è il loro essere a tutti gli effetti fondi di Stato a impensierire: il timore è che più che fare investimenti secondo una logica puramente economica possano essere lo strumento finanziario per perseguire obiettivi politici, conquistare posizioni strategiche, entrare in possesso di tecnologie sensibili, acquisire strumenti di ricatto nei confronti dello stato ospitante. Sin dalla loro rinascita, che può essere indicata all'inizio del decennio, si moltiplicano pertanto le richieste di una qualche forma di regolamentazione. Ai primi tentativi di acquisizione in Europa qualche anno fa fu una vera e propria levata di scudi: Berlino espresse il suo disappunto per una eventuale partecipazione in Continental, a Parigi ci si precipitò a stilare una lista di imprese ritenute di rilevanza strategica nazionale e quindi non scalabili – tra esse anche la Danone – mentre l'allora Commissario alla Commercio Mandelson lanciò la proposta di una golden card europea da lanciare sul tavolo per impedire un tentativo di scalata ostile. In una intervista dello scorso anno al Sole24Ore è lo stesso presidente della China Investment Corpotation a testimoniare come prima della crisi il clima in Europa non fosse dei più accoglienti. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e i tentativi di allestire una regolamentazione rigida per imbrigliarne i movimenti siano stati abbandonati a favore di un codice di condotta, stilato in ambito Fondo Monetaria, con la partecipazione di alcuni fondi, cui ciascun paese può volontariamente aderire. Veniamo al CIC. La China Investment Corporation viene istituita in tempi brevissimi nel 2007, quando, pare lecito poter ipotizzare, le tensioni al ribasso del dollaro andavano manifestandosi come un trend duraturo più che un caso sporadico. Il rischio per Pechino era quello di vedersi sfuggire tra le dita il valore delle proprie riserve valutarie in dollari. Di qui la necessità di cercare di “materializzare” quelle riserve in assets o partecipazione a fondi o istituti finanziari che gestiscono assets, per tentare in qualche modo di impedire la svalutazione del proprio patrimonio monetario. Il fondo ha una dotazione al suo esordio di 200 miliardi di dollari. Si compone di due unità: la Central Huijin, che gestisce le partecipazioni sul mercato finanziario domestico e il Global Investment Portfolio, che cura gli investimenti all'estero. La mission del Fondo è quella di “to realise the diversification of the state’s foreign exchange assets and achieve a relatively high risk-adjusted long-term rate of return, through its investment activities outside the Mainland-principally portfolio investments with a small percentage of direct investments-operating entirely in accordance with commercial principles.” Per cercare di placare le ansie create dal suo ingresso nel mercato la dirigenza del fondo ha ripetuto, praticamente in continuazione, come essi perseguano obiettivi economici e non di tipo politico; hanno, per primi, aderito alle regole di condotta elaborate in sede FMI; hanno – sul modello dei fondi arabi – escluso la possibilità di investire nel settore degli armamenti, tabacco e del gioco d'azzardo (anche Cuccia era solito dire che mai Mediobanca avrebbe investito in giornali e case da gioco) e si sono impegnati alla massima trasparenza. Gli investimenti di CIC · Il 7 novembre 2010 l'annuncio della costituzione di una filiale ad Hong Kong, con l'obiettivo di “fully utilize Hong Kong’s position as an international financial centre as well as its world-class investment and financial services to develop and expand CIC’s investment activities outside the Mainland.” · Il 13 maggio del 2010 viene reso noto la costituzione in Canada di una joint-venute tra il CIC e Penn West. Pechino acquisisce il 45% della società per un valore di 817 milioni di dollari. Obiettivo lo sfruttamento delle sabbie bituminose nello stato di Alberta. · Nel novembre dello scorso anno ha acquisito il 20% di Gcl-Poly Energy per un valore di 705 milioni di dollari, attiva nella produzione di energia rinnovabile e che si definisce “one of the leading polysilicon and wafer suppliers in the world, delivering high quality and low cost silicon products to the solar industry” e “a top green energy supplier in China”. · Nel novembre del 2009 CiC annuncia l'acquisto del 15% di AES Corporation per un ammontare di 1,58 miliardi di dollari, un colosso globale nella produzione e nella distribuzione di energia elettrica (con un forte interesse per le rinnovabili), presente in 29 paesi. Il fondo inoltre ha sottoscritto una lettera d'intenti con AES per un ulteriore futuro investimento di 571 milioni di dollari per lo sviluppo di impianti eolici. · Sempre nel novembre dello scorso anno il Fondo ha reso noto l'acquisizione del 14, 91 percento, per un valore di 858 milioni di dollari di Noble Group Limited, la più grande compagni asiatica per il trading delle materie prime e che si definisce “market leader in managing the global supply chain of agricultural, industrial and energy products”, con attività in 38 paesi ed 11.000 dipendenti. · CIC ha investito anche 1,9 miliardi di dollari in PT Bumi Resources, la più grande società mineraria indonesiana. · Nell'ottobre del 2009 l'annuncio di un investimento di 500 milioni di dollari in SouthGobi Energy Resources Limited, estrazione carbonifera. Opera in Mongolia ed ha come mercato di riferimento la Cina. · Nell'ottobre del 2009 CIC annuncia l'acquisto (cosiddetta Fasi 1) del 45% di Nobel Oil Group, società petrolifera russa, per un investimento di 350 milioni di dollari ed ha in programma (Fase 2) un ulteriore investimento per 150 milio di dollari. · Nel settembre del 2009 il Fondo rende noto il completamento dell'investimento di 939 milioni di dollari nella società petrolifera kazaka Kazmunaigaz. · A luglio del 2009 l'annuncio di uno dei maggiori investimenti: 1,5 miliardi di dollari in Teck Resources Limited, la più grande compagnia mineraria del Canada. · Sempre a luglio del 2009 viene reso noto l'investimento di 5 miliardi di dollari in Morgan Stanley. Mente dall'ingresso di CIC in Morgan Stanley il titolo ha perso oltre il 55%. Pechino ha pagato 50 dollari ad azione. Dopo meno di un anno il titolo ne valeva 13. Rilevante l'investimento di Citic, la maggiore società pubblica di brokeraggio cinese, e partecipata da CIC, in Bear Stears: il 6% della banca acquistato da Citic si è svalutato del 71%. Bear Stears sull'orlo del tracollo sarà poi acquisita da JP Morgan. · Nel maggio del 2007 CIC aveva investito 3 miliardi di dollari, equivalenti a 31 dollari per azione, in Blackstone fondo di private equity da cui dipendevano oltre 2 milioni di posti di lavoro in America. Dopo poco più di un anno Blackstone era quotato a 6 dollari per azione. Queste prime mosse, rivelatesi al momento non felici, avevano accresciuto l'apprensione circa la possibilità che Pechino potesse avere come obiettivo quello di controllare addirittura i gangli vitali dell'economia americana. “Nel nuovo secolo, la recessione dell'economia occidentale, gli elevati debiti pubblici, il rischio di bancarotta pubblica, e il trapasso del potere economico dall'Occidente all'Oriente segnano l'inizio di una storia altra. Nel secondo quinquennio del nuovo secolo, il fondo sovrano di Pechino (…) ha investito decine di miliardi di dollari nelle grandi aziende americane, ha iniziato insomma la scalata dell'economia reale degli Stati Uniti”42 Tuttavia quando a Lou Jiwei, presidente di CIC, viene chiesto se continueranno ad investire nel settore finanziario la risposta è secca e abbastanza inusuale per un investitore internazionale: “Non sono così coraggioso. Come posso fidarmi di un Paese come gli Stati Uniti in cui le regole sulla finanza cambiano ogni settimana? Stiamo continuando a fare investimenti all'estero, ma non abbiamo più il coraggio di investire in istituzioni finanziarie, perché non sappiamo quali problemi ci porteremo dietro” 43 Il dato interessante è che in piena crisi in più d'una occasione ci si era lanciati in analisi/auspici di un intervento salvifico del sistema finanziario americano da parte dei capitali cinesi e più in generale della possibilità che Pechino potesse trainare la riprese, anche in questo caso le parole di Lou sono chiarissime “Non credo proprio che potremo svolgere un ruolo di guida” Almeno in questa fare, dunque, pare eccessivo poter definire le operazioni del CIC una scalata dell'economia americana. O anche europea. Dall'analisi degli investimenti resi noti, si può infatti notare come ad oggi il fondo non stia facendo altro che investire nei settori delle materie prime e dell'approvvigionamento energetico. Tuttavia emerge un dato interessante. CIC, sebbene, come dichiarino i suoi responsabili non persegua finalità politiche, è sicuramente a conoscenza delle linee di sviluppo messe in cantiere per il futuro dalla dirigenza politica del paese, in questo senso gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili, stanno a significare che realmente a Pechino si stia imboccando la strada di una rivoluzione “verde”. Questo implica che visto che la Cina è il primo paese al mondo per consumo energetico, di fatto assicura a CIC il rendimento delle società partecipate e quindi il rendimento del proprio investimento. In altre parole, il fondo sta investendo in settori sicuri perchè legati e funzionali alla domanda cinese. E' proprio questo punto che fornisce un ulteriore elemento sulle finalità di CIC. Visti i tracolli finanziari americani e vista la volatilità dei mercati, le partecipazione in questi settori è altamente rischiosa. Al contrario trent'anni di crescita economica e di delocalizzazioni hanno fatto della Cina il più grande hub manifatturiero del mondo, meglio investire in quei settori che possono ulteriormente spingere la crescita cinese ed al contempo assicurare grandi ritorni per gli investitori. Questo significa, pare lecito ipotizzare, che nel futuro gli investimenti di CIC siano condotti secondo questa logica: investire in quelle aziende che comunque nei loro piani industriali prevedono una crescita legata allo sviluppo economico cinese. 42 G. Scibona, Il mondo delle idee. Dai Greci al nostro tempo, Armando Editore, 2010 43 “Il Fondo cinese. Usa Inaffidabili”, Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2008. Conclusioni Sulla base delle osservazioni e delle analisi condotte in questo studio, pare lecito poter affermare che il secolo cinese non è ancora alle porte. La forza con cui Pechino, infatti, si è lanciata sul mercato internazionale, per la prima volta nella sua storia, come investitore, deriva dalle difficoltà che gravano sulla Cina. I numeri dei suoi investimenti sono ancora relativamente piccoli, ma certo la progressione è impressionante Materie prime, energia, servizi finanziari per poter accompagnare le proprie piccole e medie imprese nella conquista di mercati internazionali, tecnologie da poter impiegare in patria, sono il primo obiettivo degli investimenti diretti esteri cinesi. In secondo luogo Pechino deve riuscire in qualche modo a liberarsi dalla trappola del dollaro in cui si è cacciata: le sue enormi riserve valutarie rischiano di deprezzarsi considerevolmente al calare del valore del dollaro e in caso di inflazione. Per fare ciò, Pechino non può che servirsi delle sue aziende di Stato, che tuttavia, proprio per questa loro natura incontrano costantemente difficoltà nel portare a compimento il compito loro assegnato: devono muoversi con cautela, visto che nei paesi in cui operano c'è sempre il rischio, soprattutto nei paesi sviluppati, che venga invocata una protezione contro la minaccia cinese incombente. Se così stanno le cose, sembra possibile affermare che è vero che le imprese di Stato cinese, che come si è visto guidano la campagna di investimenti all'estero, sono alle dirette dipendenze del potere politico e pertanto soggiacciono a una policy governativa, tuttavia questo non significa che tale policy abbia come obiettivo quello di conquistare posizioni economiche tali da poter condizionare strategicamente e politicamente i paesi in cui investe. Detto in altre parole Pechino non investe per poter minacciare l'Occidente. Pertanto non sarebbe molto oculato, per i paesi sviluppati, chiudere completamente le porte a tali investimenti, d'altro canto i settori in cui gli investimenti cinesi possono arrecare un danno strategico al paese ospitante sono relativamente pochi e possono essere controllati. Inoltre, come scrive l'Economist, se le compagnie cinesi vogliono avere successo all'estero nelle fasi post acquisizione “will have to adapt. That means hiring local managers, investing in local research and placating local concerns—for example by listing subsidiaries locally. Indian and Brazilian firms have an advantage abroad thanks to their private-sector DNA and more open cultures.”. Il che significa che per devono lasciarsi ulteriormente contaminare dal modello capitalistico occidentale (che fa tutt'uno è bene ricordarlo con democrazia e nomocrazia), il che inoltre significa che più entrano nel mercato internazionale, più potrebbero potrebbero essere costrette a svincolarsi dal controllo diretto dello Stato. In conclusione si può dire che gli investimenti diretti esteri cinesi, condotti dalle imprese di Stato, potrebbero essere una minaccia se puntassero all'acquisizione di un controllo di assets strategici, ma tale minaccia può essere gestita, sono invece una opportunità economica utile a dare linfa finanziaria ad un occidente dove un modello di capitalismo, il paradigma hayekiano, è entrato in crisi, ma non, per fortuna, il capitalismo, né lo stesso occidente.