Il Ruolo degli Investimenti Esteri Cinesi

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Il Ruolo degli Investimenti Esteri Cinesi
Centro Militare di Studi Strategici
Ricerca 2010
IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI
ESTERI CINESI. IMPLICAZIONI IN AMBITO
SICUREZZA, CONSEGUENZE STRATEGICHE
E POLITICHE, POSSIBILITA’ DI SVILUPPO
ECONOMICO
Direttore della Ricerca
Dott. Nunziante MASTROLIA
Indice
Executive Summary ............................................................................................................................. 3
Introduzione ......................................................................................................................................... 5
Gli investimenti diretti esteri: qualche definizione ............................................................................ 11
Consistenza ed evoluzione del fenomeno .......................................................................................... 14
I settori nei quali Pechino investe ..................................................................................................... 20
La dimensione geografica .................................................................................................................. 22
Chi investe? ........................................................................................................................................ 45
Conclusioni ........................................................................................................................................ 56
Executive Summary
Obiettivo dello studio è una analisi delle opportunità o minacce legate al fenomeno degli
investimenti diretti esteri cinesi. Sulla base delle osservazioni e delle analisi condotte in
questo studio, pare lecito poter affermare che il secolo cinese non è ancora alle porte. La
forza con cui Pechino, infatti, si è lanciata sul mercato internazionale, per la prima volta
nella sua storia, come investitore, deriva dalle difficoltà che gravano sulla Cina. I numeri
dei suoi investimenti sono ancora relativamente piccoli, ma certo la progressione è
impressionante
Materie prime, energia, servizi finanziari per poter accompagnare le proprie piccole e
medie imprese nella conquista di mercati internazionali, tecnologie da poter impiegare in
patria, sono lo specchio delle difficoltà interne. In secondo luogo Pechino deve riuscire in
qualche modo a liberarsi dalla trappola del dollaro in cui si è cacciata: le sue enormi
riserve valutarie rischiano di deprezzarsi considerevolmente al calare del valore del dollaro
e in caso di inflazione.
Per fare ciò, Pechino non può che servirsi delle sue aziende di Stato, che tuttavia, proprio
per questa loro natura, incontrano costantemente difficoltà nel portare a compimento il
compito loro assegnato: devono muoversi con cautela, visto che nei paesi in cui operano
c'è sempre il rischio, soprattutto nei paesi sviluppati, che venga invocata una protezione
contro la minaccia cinese incombente.
Se così stanno le cose, sembra possibile affermare che è vero che le imprese di Stato
cinese, che, come si è cercato di mettere in evidenza nel seguente studio, guidano la
campagna di investimenti all'estero, sono alle dirette dipendenze del potere politico e
pertanto soggiacciono a una policy governativa, tuttavia questo non significa che tale
policy abbia come obiettivo quello di conquistare posizioni economiche tali da poter
condizionare strategicamente e politicamente i paesi in cui investe. Detto in altre parole
Pechino non investe per poter minacciare l'Occidente.
Pertanto non sarebbe molto oculato, per i paesi sviluppati, chiudere completamente le
porte a tali investimenti, d'altro canto i settori in cui gli investimenti cinesi possono arrecare
un danno strategico al paese ospitante, sono relativamente pochi e possono essere
controllati. Inoltre, come scrive l'Economist, se le compagnie cinesi vogliono avere
successo all'estero nelle fasi post acquisizione “will have to adapt. That means hiring local
managers, investing in local research and placating local concerns—for example by listing
subsidiaries locally. Indian and Brazilian firms have an advantage abroad thanks to their
private-sector DNA and more open cultures.”. Il che significa che devono lasciarsi
ulteriormente contaminare dal modello capitalistico occidentale (che fa tutt'uno è bene
ricordarlo con democrazia e nomocrazia), il che inoltre significa che più entrano nel
mercato internazionale, più potrebbero potrebbero essere costrette a svincolarsi dal
controllo diretto dello Stato.
In conclusione si può dire che gli investimenti diretti esteri cinesi, condotti dalle imprese di
Stato, potrebbero essere una minaccia se puntassero all'acquisizione di un controllo di
assets strategici, ma tale minaccia può essere gestita, sono invece una opportunità
economica utile a dare linfa finanziaria ad un occidente dove un modello di capitalismo, il
paradigma hayekiano, è entrato in crisi, ma non, per fortuna, il capitalismo né lo stesso
occidente.
Introduzione
La gravità delle crisi economica che da ormai due anni sta colpendo il mondo non consiste
solo nei danni economici, rilevanti, che essa sta arrecando. Ha anche un risvolto più
pernicioso e più preoccupate. Essa, infatti, rappresenta la fine di un modello di sviluppo: il
neoliberismo (o paradigma hayekiano). Il crollo di questo modello tra trascinando con sé
quelle che fino a qualche anno fa erano l'orgoglio dell'Occidente che aveva trionfato nella
Guerra Fredda: il primato della legge, la democrazia, il capitalismo e l'economia di
mercato.
“La crisi ha rivelato le fragilità del sistema economico americano ed ha evidenziato le
capacità del modello di governo cinese nell'affrontare tempestivamente situazioni
impreviste e difficili.”1 Gli Stati Uniti, questa volta, si son presi la febbre, a Pechino per ora
neanche uno starnuto2. Questo è un dato di fatto. L'elemento singolare tuttavia è che, in
1 L. Napoleoni, Maonomics, Rizzoli, Milano, 2010
2
I dubbi sulla tenuta della salute economica del paese, tuttavia, si addensano. L'inflazione ritorna
a preoccupare sfiorando la soglia di sicurezza posta dal governo al 3%. Ma soprattutto cresce il timore
per un collasso del settore immobiliare: anzi per Kenneth Rogoff, economista di Harvard, è solo una
questione di tempo: “stiamo per assistere al collasso nel settore immobiliare [cinese] e questo colpirà il
sistema bancario”. I prezzi delle case sono saliti alle stelle, a Pechino un appartamento costa tremila euro
al metro quadro, quanto il reddito medio annuale. Si stima che siano sessantacinque milioni che case
rimaste senza acquirente Il timore è che la bolla possa sgonfiarsi improvvisamente affossando così il
settore dell'edilizia che assorbe in massima parte la manodopera non specializzata proveniente dalle
campagne, di qui il divieto di acquistare seconde case e la proposta di una tassa sugli immobili, per
frenare la speculazione immobiliare. Si teme, in altre parole, uno scenario americano per Pechino: default
bancari, credit crunch e via discorrendo. Inoltre, il mondo del lavoro cinese è in subbuglio. Si sciopera per
ottenere salari migliori, migliori condizioni sul posto di lavoro, nel complesso un trattamento più umano e
dignitoso. Alla Foxcom, azienda che produce componenti elettroniche per i maggiori marchi globali del
settore, tra cui la Apple, per rivendicare aumenti salariali e più umane condizioni di lavoro non si è trovato
altro mezzo che il suicidio e non per una particolare propensione asiatica al togliersi la vita, ma perché
questa diventa l’unica via di fuga quando tutte le possibilità di espressione di dissenso e disagio sono
ostruite. Non può essere una forma di protesta, ma il rifiuto di un molto dal quale non si può evadere se
non con la morte. In una prima fase l'azienda è ricorsa a metodi abbastanza ridicoli per provare a
mettere un freno al fenomeno: grate alle finestre, reti di protezione, l'assunzione solo a chi sottoscriveva
un impegno formale a non suicidarsi, spettacoli ed intrattenimento con clown per “tirare su” il morale dei
lavoratori. Ma ovviamente nulla è servito. Solo successivamente la direzione aziendale ha deciso di
aumentare i salari di circa il 30%. Così anche nelle altre imprese (Honda, Hyundai, Kentucky Fried
Chicken e Toyota) in cui si sono verificati gli scioperi si è giunti ad aumenti salariali fino al 60%. Il governo
è dalla parte dei lavoratori. Il premier Wen Jiabao li ha definiti “figli della nazione, che con il loro sangue e
sudore stanno costruendo il Paese e vanno trattati membri della nostra stessa famiglia”. Lo stesso
Quotidiano del Popolo è intervenuto a più riprese schierandosi al fianco degli scioperanti per chiedere
salari migliori: “le paghe dei lavoratori devono essere aumentate per proteggere la stabilità della nazione”.
La motivazione di tale sponsorship politica è duplice: da una parte gli incrementi salariali hanno come
effetto quello di aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori, cosa perfettamente il linea con la decisione
di far correre l'economia sulla base dei consumi interni. Dall'altra perchè il partito comunque ha timore
che il malcontento possa esplodere. In questo doppio senso va letta anche la decisione di introdurre, per
ora solo in alcune aree del Paese, il salario minimo, prima nell'area di Pechino dove si passa da da 800 a
960 yuan (quasi 96 euro). L’enorme provincia centrale dell’Henan – che ospita almeno 100 milioni di
residenti – ha aumentato le paghe del 33%, arrivando fino a 600 yuan. Si pone tuttavia un problema, chi
ha diritto al salario minimo? Solo i residenti. La questione, infatti, si lega legata a filo doppio al fenomeno
dei migranti. Nessuno ne conosce il numero con esattezza, ma si stima che possano essere oltre i
un'Occidente economicamente ingolfato e politicamente disorientato, alla ricerca
spasmodica di un modo per uscire dalla crisi, si sta insinuando il dubbio che ci sia una
diretta connessione tra la salute economica cinese e il suo impianto politico-istituzionale e
si inizia a guardare all'esperienza cinese quasi come il nuovo paradigma3.
La diagnosi è più o meno questa: “l'euforia della vittoria del comunismo ha accecato
l'Occidente al punto da convincerlo che (il modello) che possiede è già perfetto”4 mentre a
Pechino “dopo il 1989 (…) si è continuato a studiare il marxismo insieme a tutte le altre
teorie economiche. Ebbene, questo lavoro ha portato alla creazione di un modello nuovo,
moderno, improntato al più severo pragmatismo. (…) Il capitalismo made in China usa
duecento milioni (E. Izraelewicz, La Sfida, 2005) - una migrazione che per numero non ha precedenti
nella storia universale - i lavoratori che dalle zone interne del Paese si spostano sulla costa, o che
comunque lasciano il proprio luogo di residenza per cercare lavoro, entrando così in una sorta di
anonimato giuridico. E' la questione dell' hukou, un sistema di registrazione familiare, introdotto da Mao
nel 1958 “che lega la persona al luogo in cui è nata impedendole di trasferirsi altrove. Fino all'inizio delle
riforme degli anni Ottanta era impossibile per un contadino trasferirsi altrove, era legato alla terra come
un servo della gleba, se riusciva a raggiungere un centro urbano correva il rischio di essere arrestato e
rispedito al suo villaggio con il foglio di via. Negli ultimi anni le autorità hanno deciso di chiudere tutti e
due gli occhi e circa duecento milioni di abitanti delle campagne si sono riversati nelle città dove le nuove
industrie nascenti e il boom edilizio richiedono manodopera. Ma il sistema di registrazione familiare,
l'hukou, è ancora in vigore e condanna gli immigrati alla discriminazione e all'arbitrio dei loro datori di
lavoro che spesso li pagano quando e se ne hanno voglia”. Le richieste di una riforma in senso
occidentale (l'introduzione di una carta di identità) si vanno intensificando eppure nulla pare muoversi. Il
controllo delle grandi masse è una preoccupazione millenaria del potere politico in Cina, per questo è ben
difficile che una riforma possa vedere presto la luce. Più conveniente politicamente ed economicamente
portare lo sviluppo nelle zone interne del Paese. E' qui infatti che molte delle aziende, tra cui la Foxcom,
oltre ad aumentare i salari per venire incontro alle richieste dei lavoratori, stanno iniziando anche a
delocalizzare parte delle loro attività nelle zone interne e nel Nord Ovest. Una decisione che ricalca la
volontà del governo di “armonizzare” lo sviluppo cinese, promuovendo anche la crescita delle aree
interne (si parla di investimenti in infrastrutture per cento miliardi di dollari). Eppure sino oggi, pare, che
poco o nulla sia stato fatto. Tuttavia ora riequilibrare lo sviluppo interno, limitare le fluttuazioni
dell'immensa massa di lavoratori migranti, per evitare che una vera e propria bomba sociale si inneschi,
diventano delle necessità non più dilazionabili. Perché? Perché a Pechino hanno pianificato – XI piano
quinquennale – di scollegare il grosso della crescita economica dalle esportazioni sui mercati
internazionali, per fare affidarsi gradualmente ai consumi interni. Tale intento è stato accelerato dal calo
della domanda delle voracissime bocche americane ed europee. La leadership pare consapevole del
fatto che tale decoupling potrebbe comportare un costo altissimo, nella fase di transizione, in termini di
disoccupazione di una manodopera non specializzata e a basso costo: in pratica grossa parte dei settori
che per trent’anni hai trainato la crescita cinese. Inoltre, a Pechino sanno che non possono trasformare
dall’oggi al domani le braccia a basso costo in bocche voraci. A ciò si aggiunga quello che preoccupa
maggiormente i leader: la disoccupazione intellettuale, la crisi impedirà alla stragrande maggioranza di
laureati e diplomati di trovare posti di lavoro all'altezza delle proprie aspettative. La paura è che questa
intellighenzia déclassé, quanto meno nelle aspettative, possa guidare una protesta e fare da detonatore
al malcontento della massa di lavoratori semplici espulsi dal mercato del lavoro. “Negli anni 70, la
soluzione di Mao fu di spedire i laureati nelle campagne; Hu Jintao, invece, ha deciso di parcheggiarli nell’
impresa come stagisti”. Non solo nelle imprese di Stato, ma anche nelle Forze Armate. Il 21 giugno del
2009 il Quotidiano del Popolo annunciava la volontà dell’Esercito di Liberazione nazionale di reclutare
120.000 diplomati con un’ età compresa tra i 18 e i 20 anni, ma il limite di età può essere innalzato fino a
24 anni per i laureati. Un evento unico per la consistenza dei numeri: più di sei milioni di studenti che si
sono diplomati la scorsa estate e un milione che ancora apsetta di essere collocato dallo scorso anno.
3 Un atteggiamento - scrive Bill Emmott - che non è solo il portato della crisi “molte persone che pure
vivono in una società democratica, covano una strisciante ammirazione per il modo in cui le dittature (…)
riescono a prendere le decisioni e far si che le cose avvengano, a ottenere, cioè, qualcosa di simile al
successo di Mussolini nel far arrivare i treni in orario”, B. Emmott, Asia contro Asia, pag. 85
4 L. Napoleoni, Maonomics
tutto ciò che funziona (dall'impresa privata al controllo sui capitali) ed è quindi più flessibile
e più attuale di quello occidentale. Il modello cinese sa adattare l'economia a cambiamenti
epocali e repentini, quali il processo di globalizzazione, e questa flessibilità aiuta la Cina a
diventare la super potenza del villaggio globale e a ridefinire i parametri della modernità”5.
Sembra proprio che lo Spirito del Mondo abbia cambiato casa, la traslatio imperii si muove
rapidamente e, l'Occidente pare, forse per la prima volta, sentirsi dalla parte sbagliata
della Storia.
Deng avrebbe, dunque, visto più lontano di tutti gli altri: il colore dei gatti non ha nessuna
importanza, ciò che conta è che lavorino per restaurare la grandezza del socialismo
cinese 6, o meglio dell’ex Impero di Mezzo. Se così stanno le cose, la via della salvezza
per l’Occidente non può che consiste nell' “abbandonare il nostro modello economico e
politico ormai logoro”7 e curarsi con l'amara “medicina” del modello cinese.
Questo, d'altronde, significherebbe prendere atto che l'Occidente si è illuso che il binomio
democrazia-mercato potesse essere il sacro Graal della crescita economica. I fatti
sembrano parlar chiaro: “da quel lontano 1989 le condizioni di vita medie dei cinesi sono
migliorate radicalmente, mentre nell'Est europeo e nei territori della vecchia Unione
Sovietica, dove la democrazia di stampo occidentale ha attecchito, povertà e
analfabetismo sono tornati alla ribalta” 8.
Se nel bel mezzo della crisi, si argomenta, la Cina ha continuato a veleggiare spensierata,
ciò sarebbe dovuto proprio alla sua conformazione politica. “L'ultima crisi del capitalismo
globale sembra dirci che, almeno in questa fase di evoluzione, c'è bisogno di uno Stato
ben presente, e l'esperienza cinese dimostra che l'economia funziona meglio se la guida
rimane nelle mani di chi rappresenta il più possibile gli interessi del popolo e non delle
élite” 9. La sintesi asiatica di autoritarismo politico e capitalismo economico – binomio
rinsaldato e vivificato dai valori asiatici o confuciani - sarebbe dunque il vero Graal
dell'eterna crescita. D'altronde, si sostiene, la compatibilità di tale binomio “era già stata
dimostrata in altri paesi, come il Cile, la Corea del Sud, Taiwan e Singapore”10, dove si
era elaborato un “modello di Stato, più simile al Giappone dei Meiji che alle democrazie
5 Ivi
6 Nelle parole di Deng “La democrazia può svilupparsi solo gradualmente, e noi non possiamo copiare i sistemi
occidentali. Se lo facessimo sarebbe un disastro. La nostra costruzione socialista può essere realizzata solo sotto una
leadership, in modo ordinario e in un ambiente di stabilità e unità”, citato in F. Mazzei, V. Volpi, La rivincita della
mano visibile, Università Bocconi Editore, Milano, 2010, pag. 159.
7 Napoleoni, Ivi
8 Ivi
9 Ivi
10 R. Harvey, Breve storia del neoliberismo,
occidentali”11 in cui “uno Stato autoritario ma non totalitario”12 è “capace di coniugare
spazi di libertà concessi alla società civile e tollerare le forme di dissenso, ma non
consentire una vera alternanza”13. Ottenendo la quadradura del cerchio: la necessità
della crescita economica con l'esigenza, vitale, di conservare i valori confuciani e salvare
così l'anima. La Cina, pertanto, sarebbe l'ultimo e più grandioso alfiere di un confucian
style, in grado di indicare la vera strada per la modernità.
Quest'ansia nel ricercare un'alternativa politica al modello occidentale è, in maniera
indiretta, una conferma del fatto che la crisi che da due anni sta ferendo il mondo, è
innanzitutto di natura politica. La diagnosi però non è del tutto corretta. Ad essere entrato
in crisi è non è la grammatica occidentale – nomocrazia, democrazia, modernità e
secolarismo – quando piuttosto è invecchiato un certo linguaggio. In altre parole non è la
piattaforma informatica ad essere entrata in crisi, ma solo uno dei software compatibili con
tale piattaforma: il software hayekiano.
Il fatto che si tenda a condannare l'intero impianto occidentale14 è pertanto un errore
macroscopico. Un errore che però non deve né essere guardato con sufficienza, né
sottovalutato, potrebbe essere il segnale di qualcosa di più profondo e cioè che la crisi sta
lavorando in maniera profonda le coscienze prese orami dall'angoscia e, come ha
giustamente notato Dominique Moïse, dalla paura di cui sono preda le società aperte che
in massima parte corrispondono con lo stesso Occidente. E' l'occidente ad aver paura e
tale paura consiste nella “perdita di controllo sul futuro” 15. E' un punto che va tenuto a
mente. E come si collega la paura con la crisi della democrazia? 16 Scrive Moïse “quando
le democrazie predicano valori che non praticano più perdono la propria superiorità morale
e, con essa, la propria forza d'attrazione” 17.
E' questa la ragione che, probabilmente, aiuta a spiegare le reazioni anche dure con cui, in
Europa (il caso Continetal) e Stati Uniti (il caso Unocal) sono stati respinti i tentativi di
acquisizione da parte delle compagnie di Stato cinesi. Non era solo questione di
implicazioni strategico-industriali. Era anche un modo per evitare il contagio di un
11 G. Borsa (a cura di), L'Asia orientale fra democrazia ed autoritarismo, Asia Major 1995, Bologna, Il Mulino, 1995,
citato in M. Gilardi, Singapore. Quale democrazia?, pag. 19
12 ibidem
13 ibidem
14 L'attacco spesso è condotto in maniera rabbiosa contro l'esistente, in questo senso, non è impossibile
sostenere che le tante andate di anti politica che a più riprese gonfiano nell'opinione pubblica non
abbiano solo come oggetto i malaffari e i peccati dei rappresentanti, ma la rappresentanza in sé. Per certi
versi quindi, l'anti politica, in nuce, porta con sé antidemocrazia.
15 D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti Libri, 2009, pag. 139
16 Crisi che si estrinseca in maniera più diretta nell'antipolitica, ma in maniera più soft sebbene altrettanto
grave nella disaffezione verso la politica “oggigiorno cittadini su entrambe le sponde dell'Atlantico
provano un orgoglio nettamente ridotto per i loro modelli democratici e i loro leader eletti”, D. Moïsi,
Geopolitica delle emozioni, pag. 142
17 Ivi
capitalismo, che nonostante i successi economici, si riteneva – giustamente – uno stadio
di evoluzione e non un modello da acquisire. Le difficoltà della crisi economica hanno
mutato il modo di vedere tali investimenti, sia perchè la liquidità cinese può essere una
boccata d'ossigeno per le imprese occidentali che stentano a riprendersi, sia perchè la
crisi ha insinuato il dubbio in occidente che forse il modello cinese o più in generale il
modello di capitalismo di Stato o “Stato sviluppista” può ancora insegnare qualcosa ai
paesi sviluppati.
Lo stesso ragionamento – in termini opposti ovviamente – è stato fatto in Cina. La crisi era
l'opportunità – visti i crolli del capitalismo “alla Wall Street”, di affermare il modello cinese.
A più riprese i leader del partito comunista cinese, infatti, hanno affermato che per la Cina
la crisi sarebbe stata una grande opportunità, tanto che Xia Bin, Direttore dell’Istituto di
ricerche finanziarie del Consiglio di Stato, si è spinto a pronosticare che tra cinque/otto
anni, la Cina potrebbe essere grata agli Stati Uniti per questa crisi finanziaria.
Il fatto che il premier Wen Jiabao già nel 2009 a Davos dichiarasse fiducioso che questa
crisi per Pechino sarebbe stata una grande opportunità, testimonia come si fosse diffuso
un certo ottimismo in alcuni strati della leadership cinese su un avvento repentino del
secolo cinese: le difficoltà economiche e i titoli dei listini falcidiati dalla crisi erano
un'occasione per accelerare lo sviluppo cinese e rinsaldare ed espandere il proprio
modello di capitalismo nel cuore dei paesi sviluppati, avvantaggiandosene ulteriormente.
Le cose non stanno del tutto così. Anzi la crisi sta portando al pettine tutti i nodi del
modello economico cinese: non solo gli squilibri geografici interni, le difficoltà sociali (in
questo senso la marcia a tappe forzate per la creazione di un sistema sanitario nazionale),
ma soprattutto gli enormi squilibri finanziari: l'enorme massa di riserve valutarie
accumulata per poter rastrellare dal mercato dollari e tenere così basso il cambio dello
yuan in modo da favorire le esportazioni, è una valanga che rischia di abbattersi
innanzitutto sulla Cina stessa, nel caso in cui il dollaro dovesse svalutarsi o in caso di una
inflazione rampante.
Ma non si tratta solo di nodi economici. Il punto essenziale è l'aspetto politico. Intimamente
le democrazie non si fidano dei sistemi autoritari. Così anche quando Pechino tenta un
investimento del tutto legittimo, come il tentativo di incrementare in suo investimento in Rio
Tinto, visto è la Cina è uno dei maggiori importatori mondiali di ferro, può essere
facilmente additata come il Dragone che tutto vuole fagocitare.
Ma la questione politica è un problema anche interno, questo perchè – per dirla in maniera
netta – mentre i sistemi democratici sono riformabili, i sistemi autoritari no e questo perchè
il binomio capitalismo-democrazia resta inscindibile. Se così stanno le cose è chiaro che
una riforma del capitalismo cinese implicherebbe una riforma del sistema politico cinese, il
che non significa altro che l'attuale o la futura leadership deve lavorare per poter preparare
la “sua morte politica” o meglio lavorare per aprire ad altre forze l'arena politica scalzando
il partito comunista cinese dal suo ruolo di primazia assoluta.
Nell'analisi che segue si è cercato di collegare queste valutazioni più generali alla
questione degli investimenti diretti esteri per cercare di capitale l'evoluzione del modello
cinese in connessione con la crisi. Infatti, il ruolo di una Cina come grande investitore
internazionale è un fenomeno recentissimo, che tuttavia ha subito un'accelerazione
impressionante. La tesi che si è provato a sostenere in questo studio è che tale
accelerazione sia solo in parte connessa con l'opportunità di accedere ad assets
industriali, tecnologici e Know-how, diventati più a portata di mano – economicamente e
politicamente – a causa della crisi, mentre può trovare una maggiore ricchezza esplicativa
se la si legge come il tentativo di liberarsi – in maniera oculata e composta – dal peso di
quella valanga di dollari che grava sulla testa di Pechino. Per fare ciò Pechino può
utilizzare le proprie imprese di Stato, nei confronti delle quali è sempre aperta una linea di
finanziamento direttamente collegata alle proprie riserve valutarie. In secondo luogo nel
2007 viene costituito a tale scopo il fondo sovrano cinese la Chiana Investment
corporation.
Tale necessità di fuggire – cautamente – dal dollaro Pechino la sta facendo conciliare con
le sue esigenze economiche. La Cina è diventata negli ultimi trent’anni il più grande hub
manifatturiero del mondo e le sue esigenze economiche derivano da questo dato. Pertanto
gli investimenti diretti esteri sono finalizzati ad assicurarsi innanzitutto quelle materie prime
che sono funzionali al mantenimento della macchina economica in funzione, sia attraverso
l'acquisizione o partecipazione di società direttamente impregnate nel settore o
indirettamente attraverso acquisizioni di fondi che hanno nel proprio portafoglio tali attività
sia attraverso l'acquisizione di servizi finanziari che sono comunque finalizzati all'esigenza
della macchina manifatturiera interna. Di qui il fatto che Pechino – almeno ad oggi –
colloca solo una piccolissima parte dei propri investimenti diretti esteri nei paesi sviluppati,
mentre investe massicciamente nei paesi ricchi di materie prime – Africa ed Australia in
primis. Questo dato emerge con chiarezza se si escludono – e la decisione può certo
sembrare un po' arbitraria – tutti gli investimenti diretti esteri che Pechino colloca nei
paradisi fiscali, dei cui successivi impieghi non è possibile tracciare il percorso e tali vanno
considerati – a parte le note Isole Vergini Britanniche o le Cayman – anche Hong Kong e
Macao.
In sintesi, dato che Pechino, attraverso la strategia del Go Global, può avvalersi
direttamente dei proprio campioni nazionali quali attori globali e quali strumenti di
investimento diretto estero, si può affermare che la Cina investa all'estero per poter
soddisfare le sue esigenze interne.
Gli investimenti diretti esteri: qualche definizione
Una definizione molto efficace di investimenti diretti esteri (IDE) (o Foreign Direct
Investment, FDI) definisce gli IDE quali un “investimento internazionale effettuato, da parte
di un soggetto residente in un dato paese (investitore diretto estero), in una impresa
residente presso un altro paese (impresa oggetto di investimento diretto). Tale
investimento ha l’obiettivo di ottenere un interesse durevole, cioè esso mira ha stabilire
una relazione di lungo termine tra il soggetto partecipante e l’impresa partecipata nonché
un grado di influenza significativo nelle gestione dell’impresa”18.
La definizione del Fondo Monetario Internazionale è leggermente diversa e fa riferimento
all'IDE come “an investment in an economy other than that of the investor, the investor's
purpose being to have an effective voice in the managment of the interprise”. Con ciò si
vuole sottolineare come tale investimento deve essere di una certa percentuale, che lo
stesso FMI fissa di almeno il 10% delle azioni ordinarie dell'impresa partecipata, al fine di
poter “exert a significant influenze (potentially or actually exercised) over the key policies
of the underlyung project” 19
L'UNCTAD pone l'accento su un altro aspetto l'IDE è “an investment involving a long-term
relationship and reflecting a lansting interest and control of a resident entity in one
economy (foreign direct investor or parent enterprise) in an enterprise resident in an
economy other than that of the foreign direct investor” 20. In questa definizione si pone in
risalto, per differenziare gli investimenti diretti esteri dalle operazioni di portafoglio, il
carattere temporale: lungo termine per gli IDE, breve termini per le operazioni di
portafoglio.
In sintesi quindi le caratteristiche essenziali di un IDE sono la lunga durata e il controllo
totale o la possibilità di poter prendere parte alle decisioni dell'impresa partecipata.
Classificazione degli IDE
Per avere un quadro preciso del fenomeno è utile procedere ad una classificazione dei
vari tipi di IDE.
Una prima classificazione che riguarda la tipologia di investimento è quella che suddivide
18 N. Acocella, LE STATISTICHE SUGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI E SULL’ATTIVITA’ DELLE
IMPRESE MULTINAZIONALI, Presidenza del Consiglio dei Ministri, luglio 2002.
19 I. A. Moosa, Foreign Direct Investment: Theory, Evidence, and Practice, Palgrave Macmillan, 2002
20 UNCTAD, World Investment Report (WIR), 2010
gli IDE in orizzontali e verticali
Per IDE orizzontali si intende un'operazione di investimento che afferisce alla produzione
di un bene dello stesso settore merceologico che si produce in patria, all'estero. Esempio,
l'apertura di uno stabilimento Iveco in Cina.
Perchè produrre in loco e non commercializzare? La decisione di procedere ad un
investimento di tipo orizzontale è spesso legata a motivazioni di ordine extra economico:
aggirare barriere tariffarie, poter accedere ad agevolazioni (fiscali e non), rispondere a
particolari policy di sviluppo economico decise dal paese ospitante: è il caso del
trasferimento tecnologico o della necessità di aumentare l'occupazione. Sono investimenti
dunque che hanno come obiettivo la conquista di un mercato cui sarebbe più difficile o
impossibile accedere esportando direttamente il prodotto. Sono quindi investimenti
market-seeking.
IDE verticali, fanno riferimento ad investimenti che riguardano una o più fasi della
produzione di un bene. Sono in altre parole il cuore dell'attuale fase di globalizzazione
economica: è l'esplosione dell'antica catena di montaggio (racchiusa all'interno di uno
stesso stabilimento nel quale entravano le materie prime ed usciva il prodotto finito) e la
frammentazione della produzione (e dei servizi correlati) a livello globale a seconda dei
vantaggi comparati offerti dai vari mercati. L'obiettivo principale di questo tipo di
investimenti è, pertanto, quello di ridurre i costi di produzione: trasferimento di quelle fasi
della produzione il cui costo in patria è maggiore rispetto al altri paesi. Il che può fare
riferimento sia al trasferimento delle fasi labour-intensive, sia alla delocalizzazioni dei
servizi, si pensi al caso indiano. In questo senso gli IDE possono essere considerati come
investimenti che tendono a ridurre i costi di produzione (cost saving).
Tuttavia è anche possibile che una impresa tenda a delocalizzare alcune fasi della
produzione per cercare una produzione di qualità, potere avere accesso a saperi e Know
how o marchi (inteso come “saper fare” e non come acquisizione di tecnologie). Un
esempio in questo caso potrebbe essere quello della cinese Haier che dopo l'acquisizione
di una impresa italiana di elettrodomestici (in particolare frigoriferi) da vendere nel mercato
europeo, ha iniziato ed esportarli anche in Cina, dove tuttavia sarebbe di gran lunga più
conveniente produrli. Dov'è dunque il vantaggio? Nell'attrazione che ha sui potenziali
consumatori il marchio made in Italy: in questo senso tali investimenti potrebbero essere
definiti quality-seeking.
Una ulteriore forma di classificazione degli IDE fa riferimento al grado di coinvolgimento
dell'investitore estero nelle attività o nel controllo dell'impresa ospite.
Investimenti di tipo greenfield, con questo termine si fa riferimento alla costruzione ex novo
di un impianto di produzione in un paese diverso dal paese di origine.
Mentre per investimenti brownfield, si fa riferimento all'acquisizione di un impianto già
esistente o la partecipazione al suo capitale. In questo secondo caso, a seconda della
percentuale di partecipazione, gli IDE si possono distinguere in fusioni o acquisizioni
(M&A); Joint-venute o Non equity Pact: franchising (contratti di agenzia per la
commercializzazione) o licensing (contratti di licenza per la produzione).
A seconda poi degli obiettivi che l'investitore persegue gli IDE possono essere suddivisi in:
Investimenti resource seeking: acquisizione di materie prime o comunque fattori della
produzione
Investimenti market seeking: poter avere accesso a mercati, come si accennava in
precedenza, protetti ad esempio da barriere commerciali o per i quali è più conveniente la
commercializzazione in loco piuttosto che la semplice esportazione del prodotto
Investimenti efficiency-seeking
razionalizzazione delle attività internazionali, per
migliorarne la competitività globale ogni affiliata si specializza in una fase del processo
produttivo (o in un particolare bene)
Strategic asset seeking: per avere accesso a nuove tecnologie e Know-how
Consistenza ed evoluzione del fenomeno
Rispetto al crollo degli investimenti diretti esteri durante la fase più cruda della crisi
economica a cavallo del 2008-2009 si è registrato un modesto recupero, sebbene
abbastanza irregolare. Ciò ha generato un cauto ottimismo tra gli osservatori internazionali
circa le possibilità a breve di un ritorno della situazione alla fase pre-crisi, senza tuttavia
raggiungere il picco del 2007, quando la quota degli IDE è arrivata a 2.100 miliardi
Secondo le stime presentate nell'ultimo rapporto Unctad World Investment Report 2010 i
flussi globali di investimenti diretti esteri per l'anno in corso dovrebbero toccare quota
1.200 miliardi di dollari, per poi proseguire la loro fase di ascesa nel 2011 e salire fino a
1.300-1.500 miliardi di dollari , per poi attestarsi nel 2012-2013 tra i 1.600-2000 miliardi di
dollari, senza comunque raggiungere i livelli pre-crisi.
La contrazione dovuta alla crisi è stata infatti pesantissima: nel 2009 si è registrato, infatti,
un calo del 37%, 1.114 miliardi di dollari, con una flessione degli IDE in uscita (outbound)
del 43%, scendendo fino a 1.101 miliardi di dollari. Nel 2008 si era avuta una flessione del
16%.
Le economie in transizione e in via di sviluppo ha attirato la metà dei flussi di IDE a livello
mondiale, e hanno investito un quarto del globale dei flussi in uscita. E sono proprio questi
paesi che stanno trainando la riprese dei flussi di IDE a livello globale: sia per i loro
investimenti all'estero sia perchè continuano a rimanere paesi di destinazione interessanti
per gli investitori internazionali.
Fra i principali destinatari degli IDE, la Cina è ormai stabilmente al secondo posto, con 95
miliardi di dollari, dopo gli Stati Uniti nel 2009, a quota 130 miliardi di dollari (324,6 nel
2008). Ma è un fenomeno che nel complesso vede protagonisti (come destinazioni di IDE)
tutti i paesi in via di sviluppo, basti considerare che tra le prime sei principali destinazioni
degli IDE la metà riguarda paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda le operazioni di
M&A a livello internazionale i paesi sviluppati continuano a fare la parte da leone, sebbene
la partecipazione dei paesi in via di sviluppo e delle economie in fase di transizione sia
cresciuta considerevolmente negli ultimi anni passando da un 27% del 2007, dati
UNCTAD, ad un 31% nel 2009.
Oltre due terzi dei cross-border M & A continua a coinvolgere i paesi sviluppati, ma la
quota dei paesi in via di sviluppo e delle economie di transizione, è salita dal 26 per cento
nel 2007 al 31 per cento nel 2009.
A ciò va aggiunto il fatto che nel 2009 più del 50% degli investimenti di tipo greenfield sono
stati fatti nei paesi in via di sviluppo e delle economia in transizione.
Sul fronte degli investimenti in uscita, Hong Kong (vera e propria piattaforma finanziaria
cinese), la Cina e la Federazione russa, in questo ordine, compaiono ormai all'interno della
classifica dei primi 20 investitori nel mondo.
I Flussi di IDE verso Sud, Est e Sud-Est asiatico hanno fatto registrare il loro maggior calo
dal 2001, anche se sono quelli che stanno mostrando i primi segni di ripresa dopo la crisi.
L'afflusso verso la regione è diminuito del 17 per cento nel 2009, a 233 miliardi dollari, a
causa principalmente del calo delle fusioni e acquisizioni, che è stato particolarmente
grave nel settore dei servizi (-51 per cento). Nel complesso gli IDE in uscita dalla regione
sono diminuite dell'8 per cento a 153 miliardi dollari, con cross-border M & A acquisti in
calo del 44 per cento. In controtendenza rispetto al quadro regionale i dati che riguardano
la Cina i cui investimenti all'estero continuano a crescere, soprattutto nei settori delle
materie prime e, viste le stangate che la crisi ha causato sui listini internazionali,
aumentano anche gli investimenti sotto forma di M&A.
Flussi di IDE in entrata, 1980–2009
(in miliardi di dollari)
Fonte: UNCTAD, World Investment Report, 2010
Come si accennava in precedenza, più della metà degli investimenti diretti esteri continua
a dirigersi verso i paesi in via di sviluppo e i paesi in via di transizione. Mentre le
operazioni di M&A continuano ad essere effettuate soprattutto nei paesi sviluppati. Tutta
via come emerge abbastanza chiaramente dal grafico sopra, si nota che, per usare
l'espressione di Friedman, il mondo sta davvero diventando piatto. A partire dal 2007 i
paesi sviluppati hanno perso drasticamente il proprio primato come destinatari degli
investimenti internazionali. Mentre i paesi in via di sviluppo o le economie in transizione
hanno tenuto botta.
A livello globale i flussi di IDE in uscita nel 2009 sono diminuiti del 43 per cento
assestandosi a quota a 1.101 miliardi di dollari, in parte seguendo il trend decrescente
degli IDE in entrata. In particolare si segnala una
forte riduzione del ruolo dei paesi sviluppati quali
investitori internazionali, a seguito della crisi.
Si registrano comunque alcuni segnali di ripresa.
Nel primo trimestre del 2010 i flussi di IDE, stando
ai dati UNCTAD, in uscita hanno fatto registrare una
aumento del 20% rispetto allo stesso periodo del
2009. Per avere un'idea di quanto forte sia stato
l'impatto della crisi, può essere utile raffrontare i due
grafici a lato. Entrambi fanno riferimento al flusso in
uscita di investimenti esteri. Sono in pratica la
classifica dei maggiori investitori internazionali
(fonte UNCTAD, WIR, 2010, e il secondo
WIR 2008). Nel 2005 la Cina non compariva
nella
top
ten
dei
maggiori
investitori
internazionali. E' solo nel 2006 che, per la
prima volta, il rapporto UNCTAD inserisce
Hong Kong. Nel biennio 2008-2009 invece
Pechino entra nella classifica raggiungendo il
quinto posto, anche a voler sommare gli
investimenti all'estero di Hong Kong. Nel
complesso come sembra emergere dai dati, la
crisi
ha
di
fatto
colpito
duramente
gli
investimenti diretti esteri dei paesi sviluppati
(emblematico a tale proposito il caso della
Gran Bretagna, che praticamente precipita nella classifica), mentre si è abbattuta con
minore impeto sui paesi in via di sviluppo e i paesi in transizione. Nel complesso infatti
questo gruppo di paesi ha mantenuto o incrementato la propria posizione. Questo
impressionante balzo in avanti potrebbe avere varie spiegazioni da una parte l'istituzione
nel 2007 della China Investment Corporation (CIC) con una dotazione di 200 miliardi di
dollari, dall'altra l'incremento progressivo della strategia del Go Global, adottata sin dal
2002, e che di recente ha comportato un ulteriore allentamento dei controlli sui capitali in
uscita dalla Cina. Ma c'è anche un'altra spiegazione. E' convinzione diffusa che Pechino
abbia incrementato in maniera così significativa il suo profilo di investitore internazionale
per alleggerire le pressioni che i paesi sviluppati fanno perchè proceda ad un più
consistente aumento della valutazione dello yuan. In altre parole Pechino non rivaluta ma
aiuta la crescita economica dei paesi sviluppati facendo investimenti.
Come si vedrà di seguito i dati smentiscono questa interpretazioni, dato che ad accogliere
i maggiori investimenti diretti esteri cinesi, sia prima che dopo la crisi, non sono i paesi
sviluppati, ma in massima parte i paesi in via di sviluppo. Il che sta probabilmente a
significare che Pechino, più che restituire sotto forma di investimenti, quello che non vuole
dare sotto forma di aumento delle importazioni a danno delle sue esportazioni, intende
diminuire la propria esposizione rispetto al dollaro. In altre parole, al di là di quanto negli
ultimi anni si è scritto circa la vulnerabilità americana dovuta alla enorme potenza di fuoco
delle gigantesche riserve monetarie cinesi (oltre 2.200 miliardi di dollari) e al fatto che
Pechino sia tra i maggiori detentori di T-bond americani (oltre 800 miliardi di dollari), è la
Cina ad essere in difficoltà, imbrigliata com'è in una sorta di trappola del dollaro, trappola
che scatta nel momento in cui negli Stati Uniti parte l'inflazione, cosa che la FED sta
deliberatamente facendo. E' proprio questo timore che ha spinto Pechino nei quattro
angoli del globo negli ultimi anni alla ricerca di investimenti che da una parte
soddisfacessero alcune sue esigenze (materie prima, accesso a nuovi mercati,
acquisizione di tecnologie etc) dall'altra diminuissero la propria esposizione al dollaro. In
maniera abbastanza provocatoria, pertanto, si potrebbe dire che Pechino è costretta ad
investire all'estero e che i suoi successi quali investitore internazionale sono il tentativo di
rimediare ad una sua debolezza. Una ipotesi questa che può essere corroborata sei si
prende in considerazione anche la forza (sebbene le cautele tipiche del mondo della
finanza abbiamo attenuato solo in apparenza i toni) con cui Pechino ha cercato di premere
per andare in direzione almeno di un bilanciamento del ruolo del dollaro a livello
internazionale, basti ricordare le parole in questo senso del governatore della Banca
Centrale Cinese, in favore di un ruolo maggiore da riservare ai Diritti Speciali di Prelievo
emessi dal Fondo Monetario Internazionale. Nonché la concomitante serie di iniziative
condotte da Pechino per la creazione di un'area dello yuan. E' una corsa forsennata se si
considera che anche nel pieno della crisi, mentre i flussi globali di IDE calavano del 20%
quelle cinesi “nearly doubled”21.
Cina: la storia di un investitore
A ricostruire la storia cinese quale investitore internazionale qualche ulteriore conferma in
questo senso può essere tratta. La crescita cinese ha avuto tra i maggiori protagonisti
l'immenso afflusso di investimenti diretti esteri in Cina. A fronte di questa valanga di
investimenti in entrata, gli investimenti in uscita sono rimasti pressoché insignificanti fino a
pochissimi anni fa. Nel 1979 la Cina non investiva all'estero (in questo senso di fa
riferimento ai soli investimenti diretti, non agli aiuti alla cooperazione o gli aiuti ai regimi
comunisti amici, che potrebbero essere definiti aiuti alla rivoluzione).
Nel 2009 lo stock degli investimenti diretti esteri cinesi ammontava (dati UNCTAD) a 229
miliardi di dollari e 600 milioni, era di 27 miliardi di dollari e 768 milioni nel 2000, di 4
miliardi di dollari e 455 milioni nel 1990. A questi dati, tuttavia, andrebbero aggiunti gli
investimenti che fanno capo ad Hong Kong che ammontano (dati UNCTAD) a 834 miliardi
di dollari e 089 milioni di dollari nel 2009, ammontavano a 388 miliardi di dollari e 380
milioni nel 2000 e a 11 miliardi di dollari e 920 milioni nel 1990. A questi vanno aggiunti
anche quelli di Macao che nel 2009, unico dato disponibile ammontano a 1 miliardi di
dollari 211 milioni.
Nel complesso il flusso di IDE in uscita nel 2009 ammonta a 48 miliardi di dollari. Erano
52 nel 2008 e 22,5 nel 2007. Anche i flussi in uscita da Hong Kong sono aumentati (52
miliardi di dollari) rispetto al 2008 (50 miliardi di dollari), senza tuttavia raggiungere i livelli
pre-cresci: nel 2007 erano di 61 miliardi di dollari.
Leggermente diversi di dati del MOFCOM. Per il Ministero del Commercio Estero cinese, il
flusso in uscita degli investimenti diretti cinesi nel 2008 ha raggiungo la cifra di 55, 91
miliardi di dollari, facendo registrare un incremento del 111% in più rispetto all'anno
precedente. Nel 2008, continua il MOFCOM, 8.500 imprese cinesi hanno aperto 12.000
attività all'estero, in 174 paesi, per un stock di 182,97 miliardi di dollari di investimento. Nel
complesso, stima il MOFCOM, il totale degli investimenti all'estero in possesso di operatori
cinesi, ammonta a mille miliardi di dollari.
Gli investimenti finanziari nel 2008 hanno raggiunto la cifra di 14,5 miliardi di dollari, di cui
13,2 appartengono al settore bancario e corrispondono al 94% del totale. A fine 2008 lo
stock di investimenti finanziari accumulato da operatori cinesi ammonta a 36,69 miliardi di
21 K. Davies, On China's rapid growth in outward FDI, China Daily, 3 agosto, 2009.
dollari, di cui, 26, 79 nel settore bancari, 510 milioni nel settore assicurativo, 530 milioni al
settore delle securities e 8,86 rientrano in altri comparti finanziari, per un valore
percentuale, rispettivamente del 73%, 1,4%, 14% e 24,2%
Se si guarda la progressione storica appare chiaro come il fenomeno degli investimenti
diretti esteri cinesi sia in fortissima crescita. Ciò non dimeno in termini assoluti la frazione
degli investimenti cinesi sul totale resta bassissima, si va dallo 0,6 stimato dall'UNCTAD
allo 1,6 del MOFCOM
Fonte: UNCTAD, World Investment Report, 2010
I settori nei quali Pechino investe
Dall'analisi dei dati resi pubblici dal Ministero del Commercio Estero cinese emerge che il
principale settore in cui Pechino investe all'estero è quello terziario, seguito dal settore
primario (materie prima e risorse energetiche) e solo per ultimo il manifatturiero. Questa
suddivisione si spiega facilmente se si tiene presente quanto si affermava prima. Pechino
infatti, grazie al modello di sviluppo adottato negli ultimi trent'anni è di fatto diventato il più
grande hub manifatturiero al mondo, o per dirla con il Financial Times, il più grande opificio
a cielo aperto del mondo. Pertanto Pechino sta investendo all'estero in quei settori che
sono funzionali al mantenimento della sua macchina manifatturiera. A valle, materie prime
e fonti energetiche, acquisendone in maniera diretta o indiretta il controllo. A monte
acquisizione di servizi (finanziari e non) funzionali al suo manifatturiero. In altre parole
Pechino investe all'estero, attraverso le sue imprese di Stato e i suoi fondi di Stato, per
rispondere alle sue esigenze interne.
Distribuzione dello stock degli IDE per settore industriale,2004-2008
(in milioni di dollari)
Industry
2004
2005
2006
2007
2008
Agriculture, forestry, husbandry, fishery
288,66
105,36
185,04
271,71
171,83
Mining
1800,21
1675,22
8539,51
4062,77
5823,51
Manufactury
755,55
2280,40
906,61
2126,50
1766,03
Power and other utilitise
78,49
7,66
118,74
151,38
1313,49
Construction
47,95
81,86
33,23
329,43
732,99
Transport,warehousing & postal service
828,66
576,79
1376,39
4065,48
2655,74
IT
30,50
14,79
48,02
303,84
298,75
Wholesale and retailing
799,69
2260,12
1113,91
6604,18
6514,13
Residential & catering trade
2,03
7,58
2,51
9,55
29,5
3529,99
1667,80
14048
Finance
Real estate
8,51
115,63
383,76
908,52
339,01
Leasing & business service
749,31
4941,59
4521,66
5607,34
21717,23
Science research , service & geo-survey
18,06
129,42
281,61
303,90
166,81
Water,environment & public facility
1,20
0,13
8,25
2,71
141,45
88,14
62,79
111,51
76,21
165,36
2,28
8,92
1,54
0,18
0,75
0,76
5,10
21,8
21163,96
21163,96
55907,17
management
Residential service & other services
Education
Public health & social welfares
0,01
Cultural,sports & entertainment
0,98
0,12
Public management & social organization
0,04
1,73
Total
5497,99
12261,17
Fonte MOFCOM
La dimensione geografica
In precedenza si accennava al fatto che gli investimenti diretti esteri cinesi si dirigono
essenzialmente nei paesi in via di sviluppo. Non è stato sempre così. Negli anni Ottanta
con una economia in piena transizione e con la fame di capitali Pechino continuava ad
esercitare un fortissimo controllo sugli investimenti in uscita. E' solo nel 1992 che si ha il
primo sussulto con 4 miliardi di dollari, il triplo rispetto all'anno precedente. Per tutti gli anni
Novanta, tuttavia, la media degli investimenti diretti esteri in uscita si attesterà su poco più
di 2 miliardi di dollari, a partire dal 2001-2002, come si è messo in evidenza in
precedenza, la svolta, con un tasso di crescita medio annuo del 116%, mentre alla media
mondiale che non andava oltre il 6%
Nella primissima fase della sua vita come investitore (nel periodo che va dal 1979-al 1991)
le destinazioni principali erano gli Stati Uniti e l'Oceania: quasi l'80% degli investimenti in
uscita (mai non oltre un miliardo di dollari) soprattutto nel settore delle materie prime.
Prima di procedere alla scomposizione a livello regionale e di singolo paese dei dati è utile
sottolineare come l'investimento sotto forma di Mergers & Acquisition (M&A) sia diventato
di gran lunga lo strumento più usato, rispetto agli investimenti di tipo greenfield.
I vantaggi sono abbastanza chiari: sono una soluzione rapida per l'acquisizione di
tecnologia avanzata, reti commerciali, marchi e altre attività strategiche all'estero. Il punto
è che questo tipo di investimenti sono stati guardati con crescente sospetto, soprattutto
nella fase pre-crisi. Basti a tale proposito ricordare il caso UNOCAL, che vide l'intervento
del Congresso per stoppare il tentativo di acquisizione da parte della CNOOC. L'impresa
cinese sebbene molto più piccola rispetto alle majors americane, pareva partire
avvantaggiata per una serie di ragioni, comuni alle altre imprese di Stato cinese.
Infatti, “esse possono contare sul sostegno dei loro governi che ne tracciano le politiche di
espansione; e, in secondo luogo, esse non devono preoccuparsi di compiacere i propri
azionisti con risultati finanziari trimestrali sempre più brillanti e dividendi sempre più
elevati. (…) Ben provviste di liquidità, e sostenute dall'autorità politica del governo, le
società cinesi si sono mostrate particolarmente aggressive, riuscendo a sfruttare
opportunità di investimento ovunque si rendessero disponibili. (…) Spesso hanno avuto la
meglio sulle loro più importanti rivali occidentali nella competizione per le riserve e i diritti
di esplorazione, e per la costruzione di infrastrutture petrolifere” 22. Quando nel giugno del
2005 la CNOOC fece la sua proposta di acquisto della Unocal per un valore di 18,5
miliardi di dollari, circa 1,9 miliardi di dollari in più rispetto all'offerta fatta dalla Chevron,
furono in molti a vedere segnato il destino della compagnia americana una delle maggiori
“indipendenti” 23 degli Stati Uniti. Ma la Chevron riesce a “lavorarsi la comunità di
Washington in modo esperto (…).Loro e i loro alleati hanno sollevato un polverone sul
fatto che un'azienda cinese acquistasse attività americane. Sembrava che la CNOOC
dovesse comprare la Exxon che ha una capitalizzazione di mercato di circa 380 miliardi di
dollari e non la Unocal con una capitalizzazione di circa 18 (…) La Cnooc non aveva
dipendenti negli USA, nessuna presenza politica e nessun portavoce, e a quel punto stava
lottando per avere un'azienda americana contro un'azienda americana” 24.
La Cnooc alla fine fu pertanto costretta a ritirarsi “dopo che il Congresso aveva minacciato
di bloccare la vendita della Unocal ad un'azienda non americana. (…) membri del
Congresso avevano apertamente parlato di timori di spionaggio cinese come ragione della
loro opposizione”25. Probabilmente la verità è che “per tutto il 2005 ogni giorno sulla
stampa si parlava della supposta sottovalutazione del renmimbi cinese, erano aumentate
le preoccupazioni sui titoli americani, le frizioni del mercato erano alte come mai in
precedenza con il disavanzo della bilancia commerciale con la Cina che continuava a
salire, e il Congresso non aveva avuto ancora occasione tangibile per esprimersi. Poi
arriva la CNOOC e il Congresso non trova meglio da fare che infilare un dito nell'occhio
dei cinesi. Una tempesta perfetta” 26.
A differenza delle imprese indiane, i grandi gruppi cinesi si sono mossi con poca cautela
tentando, anche sulla scia del successo delle Lenovo, che aveva acquisito la produzione
dei pc della IBM, subito il colpo grosso. Al di là della diversa percezione dell'India rispetto
alla Cina, le imprese indiane hanno trovato minore difficoltà nelle loro operazioni di M&A
all'estero, se si esclude qualche borbottio come nel caso dell'acquisizione di Arcelor da
parte di Mittal. “Fatta eccezione per la Tata Steel, che ha acquisito la Corus Steel inglese,
le aziende indiane si sono astenute dal tentare acquisizioni di alto profilo come quelle
tentate da Lenovo, TLC, CNOOC e Haier. Gli indiani si sono mossi con cautela, facendo
offerte per attività di scala minore e meglio gestibili. Cifre nell'ordine dei 100 milioni di
dollari sono più accettabili rispetto ai 18 miliardi di cinesi. Queste operazioni naturalmente
22 L. Maugeri, L'era del petrolio, Feltrinelli, 2007, pag. 254-255
23 Ivi
24 T. Khanna, 2.4 miliardi di imprenditori. Cina e India nel nostro futuro, Francesco Brioschi Editore, 2008,
pag. 162
25 Ivi
26 Ivi
attirano meno l'attenzione, anche perchè sono sparse nel mondo. I Tata per esempio
hanno acquisito la Tetley Tea in Gran Bretagna, la divisione veicoli commerciali della
Daenwoo in Corea, una acciaieria nel Sudest asiatico e piccole società di software in
America Latina. Mentre l'aggressività delle acquisizioni cinesi è sostenuto dal mandato
politico dello Stato e da capitali illimitati, avendo come obiettivo la reputazione, anziché il
ritorno sui capitali, le acquisizioni indiane debbono rispondere alle tradizionali pressioni
degli azionisti. Quando gli indiani hanno tentato grandi acquisizioni – per esempio la
compagnia petrolifera indiana ha tentato un affare in Kazakhstan – l'operazione è andata a
monte per dissensi all'interno del governo e una divergenza fra il Ceo dell'azienda di Sato
e il ministro per il Petrolio. Questa trasparenza a volte poco funzionale e che provoca
discussioni impegnative su opportunità e strategie, è del tutto inimmaginabile in Cina.
Infine, a differenza della Cina, nel settore privato l'India ha un'esplicita attività di lobbying,
esercitata dalla nave ammiraglia delle sue attività industriali, l'industria del software, che
agisce in modo da preparare il terreno al commercio estero.” 27 Ora, sebbene la
dimensione della acquisizioni indiane sia cresciuta di molto, si pensi agli investimenti fatti
nel settore automobilistico inglese, questi non trovano la stessa resistenza delle imprese
cinesi.
Il caso Unocal pertanto diventa una amara lezione per Pechino e per i suoi piani di
investimento all'estero. Una lezione di cui pareva aver fatto esperienza. Ma nel 2009 è la
Aluminum Corporation of China (Chinalco) a subire un nuovo smacco nel tentativo di
aumentare la propria presenza nell'anglo-australiana Rio Tinto: dal 9 al 18% con un
investimento di 19, 5 miliardi di dollari. Nel maggio del 2009 la Rio Tinto respinge l'offerta.
La reazione cinese è dura e scomposta, prima la neonata Anti-Trust cinese, blocca
l'accesso al mercato cinese al colosso anglo-australiano, in quanto colpevole di posizione
dominante o, per usare le parole del Ministro dell'Industria Chen Yanhai, "a strong
monopolistic color.", nel giugno dello stesso anno, con l'accusa di sottrazione di segreti di
Stato – che in caso di condanna in Cina può portare anche alla pena di morte – viene
arrestato il numero uno di Rio Tinto in Cina Stern Hu, di etnia cinese, ma di nazionalità
australiana. Perchè una reazione così dura? Perchè Pechino ha un interesse pressoché
vitale nel “ break the stranglehold that Rio, BHP Billiton (BHP) and Brazil's Vale (VALE)
have on global pricing for iron ore and other key commodities that China desperately
needs -- and will need for decades.”
Il precedente dell'affare Unocal, pare comunque aver da una parte moderato l'aggressività
cinese, dall'altra indotto Pechino a evitare, per quanto possibile, investimenti che possono
27 Ivi, pag. 163
levare ondate di proteste nei paesi sviluppati.
Nel 2009, mentre le economie sviluppate sono rimaste impantanate a causa della crisi
finanziaria globale, le aziende cinesi hanno fatto un numero record di acquisizioni
internazionali, raggiungendo un totale di 298 accordi. A differenza della situazione pre crisi
questa volta i capitali cinesi sono stati i benvenuti (per ragioni di sopravvivenza verrebbe
da dire), sebbene continuino ad essere poco digeriti gli investimenti diretti delle aziende di
Stato e continuino a sussistere le classiche fonti di preoccupazione. Infatti “much of the
scrutiny has focused on natural resources, the sector where large Chinese companies
have been most acquisitive and where many countries are sensitive to foreign investment,
regardless of the source. However, there is plenty of evidence of an emerging wave of
Chinese investment aimed at securing technology and other intellectual capital—for
everything from car manufacturing to green technologies—as well as the management
expertise to transform mainland companies into truly world-class players (though these
deals are only beginning to show up in the data for acquisitions worth more than US$50m).
This is raising concerns that go beyond the security of natural-resources supply and touch
on more fundamental economic concerns. Of specific worry is the potential for
manufacturing and jobs to be relocated to China. There is also a growing resentment
among foreign companies that feel they are not being granted equal access to Chinese
assets and markets, and hints that this could fan—or indeed, perhaps already is fanning—
the flames of protectionism. Of course, China has its own views on the matter, with officials
frequently commenting that other countries’ criticisms are unjustified and stem from
frustrations about problems in their own economies.” 28
Ma sorgono anche altri problemi, come rilevato dall'Economist Intelligece Uniti “In our
survey of 110 Chinese executives, 82% of respondents identified lack of management
expertise in handling outbound investment as the biggest challenge for Chinese
companies. Only 39% feel they know what is required to integrate a foreign acquisition.
Only 39% of survey respondents said they had identified specific companies that would be
attractive to them within their chosen geographic markets—increasing the risk that
Chinese buyers could succumb to the temptation to buy assets that have become
available as a result of the global financial crisis, rather than focusing on carefully
researched targets” 29.
Ma il punto più importante è che la lezione Unocal ha modificato l'approccio delle
compagnie cinesi che stanno moderano i propri obiettivi. Dall'analisi degli accordi al di
28 Economist Intellice Unit, A Brave New World, aprile 2010.
29 Ivi
sopra di 50 milioni di dollari in un arco di tempo che va dal 2004 al 2009, l'EIU ha rilevato
che “half the deals involved 50-100% ownership of the targets and a further 13% involved
substantial (minority) stakes of 25-50%. But there are many signs of a realisation that this
may not be the best approach for a number of reasons, not least because it can set off
alarm bells among the foreign public and regulators. Among survey respondents who said
they were definitely or likely to make an overseas investment, 47% would prefer to strike
either joint ventures (29%) or alliances (18%) while only 27% said they would do so
through acquisitions”30
Se comparato a livello globale anche gli investimenti sotto forma di M&A sono solo una
piccola quota rispetto ai grandi investitori internazionali. Solo a partire dal 2005, infatti,
questi superano i dieci miliardi di dollari, ma a partire da allora la progressione è stata
impressionante, come si rileva dai dati dell'EIU:
·
Negli ultimi dieci anni Pechino ha fatto acquisti all'estero sotto forma di M&A per un
ammontare di 187 miliardi di dollari, pari al 2,2% di tutte le M&A a livello globale
·
nel 2009 questi hanno raggiunto i 42,6 miliardi di dollari, il 40% in meno rispetto ai
73 miliardi di dollari (l'EIU, spiega questo calo scrivendo che i dati del 2008 erano
“inflated by China Unicom’s acquisition of China Netcom’s Hong Kong-based
operations.”). Ora, nonostante la flessione del valore assoluto, vista la concomitante
contrazione degli altri investitori internazionali, con questa cifra Pechino si è
aggiudicata il 7,3% degli investimenti M&A a livello cross border.
·
Il 2009, come si accennava in precedenza, anche l'anno recond come numero di
accordi 298.
·
Con i suoi 42,6 miliardi di
dollari
spesi
nel
2009
Pechino ha conquistato la
terza posizione per M&A e
livello globale, dietro a Stati
Uniti e Francia: un vero
balzo in avanti rispetto alla
dodicesima posizione che
occupava.
·
Nel 2009 il 52% di questi
investimenti ha avuto come
30 Ivi
destinazione l'Asia, (il 53% negli ultimi dieci anni)
·
A livello di singoli paesi ad attrarre maggiormente le M&A cinesi sono state Hong
Kong, Svizzera, Australia, Canada. In Australia Pechino negli dieci anni ha
occupato la settima posizione ed in Canada la nona, nel 2009 in tutti e due i paesi
ha conquistato il secondo posto nella classifica dei maggiori investitori.
·
Inoltre nel 2009 “China was the largest M&A investor abroad in Energy & Power
and the second largest for Materials” 31.
Per quanto riguarda i driver che
spingono tali investimenti stando a
quanto riporta l'EIU, si può notare
come questi abbiano come obiettivo
la necessità di far fronte alla fame di
materie prime di Pechino. Ben il
45%
delle
operazioni
di
M&A
sull'estero condotti dagli operatori
cinesi ha interessato questo settore.
Il 33% invece ha investito all'estero
per poter accedere a nuovi mercati.
Solo il 12 per cento ha avuto come
obiettivo
l'acquisizione
di
nuove
tecnologie e Know how.
Nel dettaglio il 23 percento degli
accordi si è registrato nel comparto
dell'estrazione
minerarie
e
dei
metalli. Il 24% gas e petrolio. Il 15
percento nei servizi finanziari e l'8% nel
comparto Energy and Utilities. In altre
parole si conferma il dato più generale
che riguarda tutte le tipologie di IDE
cinesi sull'estero e cioè che Pechino sta
investendo in maniera crescente nel
settore primario e nel terziario.
31 I dati sono tratti dalla Thomson Reuter e dall'EIU. La fonte dei grafici è il già citato studio dell'Economist
Intelligence Unit
A scomporre il dato a livello di singole aree geografiche o paesi appare evidente come
l'Asia sia in testa alle destinazioni di M&A, come già detto in precedenza, qui interessa
rilevare come nella regione queste siano indirizzate soprattutto verso il comparto
finanziario di Hong Kong e il comparto minerario ed estrattivo australiano., che ha
“attracted the most amount of Chinese money at US$28bn, or one-fifth of the total, and the
deals (including failed bids) were overwhelmingly concentrated in the metals and mining
sector (69%). Of the top-ten destinations representing 81% of the total deal value, seven
were developed countries, with Kazakhstan, South Africa and Russia accounting for the
other 14%”. 32 Un dato rappresentativo dei settori di elezioni degli investimenti cinesi
all'estero.
Distribuzione geografica degli investimenti e recenti operazioni di M&A
A tutt'oggi la principale destinazione degli investimenti diretti esteri è concentrata in Asia.
Distribuzione dei flussi degli IDE per distribuzione geografica 2003-2008
(in milioni di dollari)
Region
2003
2004
2005
2006
2007
2008
TOTAL
2854,65
5498,39
12261,17
17633,97
26506,09
55907,17
Asia
1505,03
3013,99
4484,17
7663,25
16593,15
43547,50
Africa
74,81
317,43
391,68
519,86
1574,31
5490,55
Europe
145,03
157,21
395,49
597,71
1540,43
875,79
1038,15
1762,72
6466,16
8468,74
4902,41
3677,25
America
57,75
126,49
320,84
258,05
1125,71
364,21
Oceania
33,88
120,15
202,83
126,36
770,08
1951,87
Latin
America
North
Fonte MOFCOM
Distribuzione dello stock di IDE cinesi per paese di destinazione 2003-2008
(in milioni di dollari)
Region
2003
2004
2005
32 Economist Intellice Unit, A Brave New World, aprile 2010.
2006
2007
2008
TOTAL
33222,22
44777,26
57205,62
75025,55
117910,50
183970,71
Asia
26603,46
33479,55
40954,31
47978,05
79217,93
131316,99
Africa
491,22
899,55
1595,25
2556,82
4461,83
7803,83
Europe
487,45
676,65
1272,93
2269,82
4458,54
5133,96
Latin
4619,32
8268,37
11469,61
19694,37
24700,91
32240,15
548,50
909,21
1263,23
1587,02
3240,89
3659,78
472,26
543,94
650,29
939,48
1830,40
3816
America
North
America
Oceania
Fonte MOFCOM
A voler scomporre i dati a livello di singolo paese (facendo riferimento esclusivamente allo
stock degli investimenti) non mancano alcune sorprese. Per quanto riguarda l'Asia, se si
escludono Hong Kong e Macao, veri e propri paradisi fiscali cinesi, che distorcono
ampiamente i dati, i paesi in cui negli anni Pechino ha maggiormente investito sono (in
ordine decrescente partendo dall'ultimo dato disponibile, quello del 2008) Singapore
Kazakistan, Pakistan e Mongolia. Se si guarda ai paesi maggiormente industrializzata
della regione la Corea del Sud è solo al quinti posto e al nono posto il Giappone. Nel
contempo Cinindia continua ad essere abbastanza anemica se si considera che Nuova
Delhi è solo al sedicesimo posto tra le mete privilegiate degli investimenti diretti cinesi.
Interessante il fatto che l'Afghanistan compaia tra i primi venti paesi.
Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Asia per Paese
(in milioni di dollari)
Paese
2003
2004
2005
2006
2007
2008
1.
Singapore
164,83
233,09
325,48
468,01
1443,93
3334,77
2.
Kazakhstan
19,71
24,78
245,24
276,24
609,93
1402,3
3.
Pakistan
27,48
36,45
188,81
148,24
1068,19
1327,99
4.
Mongolia
13,42
75,95
130,63
314,67
592,17
895,56
5.
KoreaRep
235,38
561,92
882,22
949,24
1214,14
850,34
6.
Saudi Arabia
0,24
2,09
58,45
272,84
404,03
620,68
7.
Indonesia
54,26
121,75
140,93
225,51
679,48
543,33
8.
Vietnam
28,73
160,32
229,18
253,63
396,99
521,73
9.
Japan
89,31
139,49
150,70
223,98
558,27
509,69
10.
Myanmar
10,22
20,18
23,59
163,12
261,77
499,71
11.
Thailand
150,77
181,88
219,18
232,67
378,62
437,16
12.
Cambodia
59,49
89,89
76,84
103,66
168,11
390,66
13.
United
Arab 31,17
46,56
144,53
144,63
234,31
375,99
Emirates
14.
Laos PDR
9,11
15,42
32,87
96,07
302,22
305,19
15.
Tagikistan
5,12
21,54
22,79
30,28
98,99
227,17
16.
India
0,96
4,55
14,62
25,83
120,14
222,02
17.
Kirghizia
15,79
19,26
45,06
124,76
139,75
146,81
18.
Yemen Rep
12,76
31,02
77,77
63,76
107,23
140,54
19.
Korea D,P,R
1,17
21,74
31,04
45,55
67,13
118,63
20.
Afghanistan
0,43
0,45
0,45
0,67
0,77
114,69
Fonte MOFCOM
Incrociando i dati sulla distribuzione geografica degli investimenti con quelli per settore
può essere utile provare a riportare le più importanti operazioni di M&A condotte da
aziende cinesi nella regione 33
Acquirente
Shandong
Ruyi
Science & Technology
Target
Data
Paese
Valore
%
Renown Inc.
Jul 10
Japan
45.7 mn
41.18%
33 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato
della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis
Group Co. Ltd.
China
Daye
Non- Philippines
Ferrous Metals Mining Mining
Alliance
Philippines
n/a
n/a
Jul 10
Philippines
n/a
n/a
C&C Media
Mar 10
Japan
21 mn
100%
Insigma
SOLXYZ
Mar 10
Japan
2.9 mn
5%
Linktone
InnoForm Group
Mar 10
Singapore
70 mn
75%
Hong Kong
180.23 mn
20%
Feb 10
Hong Kong
88 mn
90%
may-09
Thailand
n/a
> 49%
Ltd.
International Jul 10
Ltd.
Toledo
Jinchuan Group
Mining
Corporation PLC
Beijing Perfect World
Network Technology
CITIC 1616 Group
Companhia
de
Telecomunicacoes
de Feb 10
Macau
C-Travel
International Travel service unit of
Ltd.
Wing On Travel
ACL Bank Public Co.
ICBC
Ltd.
CNPC & BP
Oil field (Rumaila)
may-09
Iraq
n/a
n/a
Suning Appliance
LAOX
may-09
Japan
8.38 mn
27.36%
may-09
Hong Kong
73 mn
70%
may-09
Singapore
1.02 bn
45.51%
Sept-09
Hong Kong
53 mn
2.3%
Sept
Japan
49.9 mn
100%
Hong Kong
817.36 mn
> 29.9%
Hong Kong
70 mn
100%
Bank
ICBC
East
Asia
(Canada unit)
Singapore
CNPC
Petroleum
Co. Ltd.
China
Investment Poly
Corporation
A-Power
of
(Hong
Kong)
Investments Ltd.
Energy
Generation Systems
EVATECH
Ltd.
Air China
China
Bank
Cathay Pacific Airways Aug.09
Construction AIG
Finance
Kong) Ltd.
(Hong
Aug.09
Se si ripete la stessa operazione per il continente africano emerge chiaramente come la
destinazione di gran lunga prevalente negli investimenti cinesi sia il Sud Africa e poi
seguono Nigeria, Zambia e Sudan, sebbene staccati di lunga misura.
Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Africa per Paese
(in milioni di dollari)
Paese
2003
2004
2005
2006
2007
2008
1.
South Africa 44,77
58,87
112,28
167,62
702,37
3048,62
2.
Nigeria
31,98
75,61
94,11
215,94
630,32
795,91
3.
Zambia
143,70
147,75
160,31
267,86
429,36
651,33
4.
Sudan
0,55
171,61
351,53
497,13
574,85
528,25
5.
Algeria
5,70
34,49
171,21
247,37
393,89
508,82
6.
Mauritius
12,59
12,63
26,81
51,16
115,90
230,07
7.
Tanzania
7,46
53,80
62,02
111,93
110,92
190,22
8.
Madagascar 28,13
40,63
49,94
54,34
76,01
146,52
9.
Niger
12,50
14,03
20,44
32,99
134,53
136,5
10.
Congo DR
0,24
15,69
25,11
37,61
104,40
134,14
11.
Egypt
14,29
14,28
39,80
100,43
131,60
131,35
12.
Ethiopia
4,78
7,87
29,82
95,60
108,88
126,45
13.
Guinea
14,34
25,77
44,22
54,63
69,97
96,37
14.
Gabon
24,05
31,27
35,36
51,28
55,59
88,14
15.
Libya
0,86
0,87
33,06
28,57
70,83
81,58
16.
Kenya
25,53
28,46
58,25
46,23
55,13
78,36
17.
Congo
5,65
13,32
62,90
65,40
75,42
18.
Angola
0,30
0,47
8,79
37,23
78,46
68,89
19.
Botswana
2,10
3,80
18,12
25,52
43,39
65,26
20.
Zimbabwe
36,74
38,06
41,63
46,15
59,15
60,01
Fonte MOFCOM
A mappare le maggiori operazioni di M&A condotte da imprese cinesi nella regione
emerge quanto segue 34:
Acquirente
China
Iron
Target
Shandong
and
Steel
Group
Wuhan Iron & Steel
(Group) Corporation
(WISCO)
Jinchuan
Group
and CAD Fund
Data
Paese
Valore
%
Jul 10
Sierra Leone
1.5 bn
25%
Jun 10
Mozambique
800 mn
40.00%
May 10
South Africa
227 mn
51.00%
May 10
Zambia
1 bn
n/a
Platmin Congo
May 10
Congo (DRC)
284 mn
100.00%
Miraco
May 10
Egypt
57.48 mn
32.50%
Mar 10
Uganda
2.5 bn
33%
Jan 10
Niger
53.3 mn
37%
African Minerals (AML)
Jan 10
Sierra Leone
247 mn
12.5%
Munali
Aug-09
Zambia
n/a
may-09
Zambia
n/a
African
Minerals
Ltd.’s
Tonkolili iron ore Project
Riversdale’s
Zambeze
coal Reserve
Wesiswe
China Development Kafue Gorge Lower Power
Bank
Zijin
Plant
Mining
and
CAD Fund
Midea
Tullow Oil Plc's project in
CNOOC
China
Uganda
National
Nuclear Corporation
(CNNC)
China
Ideal Mining
Railway
Materials
Commercial
Azelik uranium mine of
Corp
(CRM)
Jinchuan Group
NFC Africa Mining Luanshya Copper Mines
Co. Ltd.
(LCM)
More
than
70%
85%
34 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato
della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis
Per quanto riguarda l'Europa la Russia è di gran lunga il principale destinatario degli
investimenti diretti cinesi. All'interno dell'Unione Europea i maggiori attrattori di investimenti
diretti esteri da parte delle imprese cinesi sono di gran lunga Germania ed Inghilterra, cui
seguono, a distanza, Olanda, Francia e Svezia.
Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Europa per Paese
(in milioni di dollari)
Paese
2003
2004
2005
2006
2007
2008
1.
Russia
61,64
123,48
465,57
929,76
1421,51
1838,28
2.
Germany
83,61
129,21
268,35
472,03
845,41
845,5
3.
UK
75,15
108,46
107,97
201,87
950,31
837,66
4.
Netherlands
5,90
8,97
14,95
20,43
138,76
234,42
5.
France
13,12
21,68
33,82
44,88
126,81
167,13
6.
Sweden
6,07
6,44
22,46
20,02
146,93
157,59
7.
Spain
101,81
127,67
130,12
136,72
142,85
145,01
8.
Italy
19,18
20,84
21,60
74,41
127,13
133,6
9.
Luxemburg
67,02
122,83
10.
Poland
2,72
2,87
12,39
87,18
98,93
109,93
11.
Ireland
0,24
0,04
0,04
25,30
29,23
107,77
12.
Hungary
5,43
5,42
2,81
53,65
78,17
88,75
13.
Romania
29,75
31,10
39,43
65,63
72,88
85,66
14.
Georgia
4,84
22,15
32,09
42,93
65,86
15.
Denmark
74,43
67,20
96,59
36,48
36,75
38,08
16.
Czech Rep
0,33
1,11
1,38
14,67
19,64
32,43
17.
Ukraine
0,06
1,31
2,78
6,54
13,51
15,92
Fonte MOFCOM
Le più importanti acquisizioni in Europa di imprese cinesi35
Acquirerente
CIC
Target
Diageo
Data
21 Jul '09
Paese
UK
Valore
$396M
Sinopec
Group
Addax
Petroleum
24 Jun '09
Switzerland
$7.24B
Geely
Volvo
Aug 10
Sweden
1.5 bn di
dollari
100%
Jul 10
France
n/a
49%
Apr 10
Russia
300 mn
10.26%
Feb 10
Azerbaijan
3 bn
5.6%
Feb 10
Israel
60 mn
100%
Feb 10
Russia
75 mn
75%
Jul-09
Spain
14.5 bn
75.00%
Jul-09
Jun-09
UK
Switzerland
1.5 bn
7.5 bn
n/a
100.00%
Nov-09
Norway
n/a
n/a
Oct-09
UK
875 mn
100.00%
Sept-09
Sweden
410 mn
n/a
Sept-09
UK
651.4 mn
n/a
aug-09
UK
879 mn
n/a
July-09
Norway
n/a
100%
July-09
Finland
71 mn
30%
ICBC
Tencent
Technology
CNOOC and
Sinopec
Yifang Digital
Technology
China
International
Marine
Containers
(CIMC)
CNPC
Chinalco
Sinopec
CNOOC
AXA-Minmetals
Assurance
Company
Digital Sky
Technology
Azerbaijan oil
field of Devon
Energy
Pegasus
Technologies Ltd.
Friede Goldman
United (F&G)
Repsol YPF
(Argentine unit)
Rio Tinto
Addax Petroleum
Statoil ASA's
assets
Emerald Energy
Plc.
Sinochem
Group
Beijing
Automotive
Koenigsegg
Industry Holding
(BAIC)
Sinochem
Gulfsands
Group
Petroleum Plc.
Sinochem
Emerald Energy
Group
Plc.
Telenor's
China Mobile
Pakistani
subsidiary
Shenzhen Kaifa
Technology Co.
Elcoteq SE
Ltd.
%
35 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato
della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis
Zhejiang
Wantong
Aluminum
Industrial Co.
Ltd.
Greencool Co.
TCL
Chalkis
TCL
Neo Neon
Dalla Pieta
Euro-Hose
Tuyaux de Nevers
Thomson TV
division
Le Cabanon–
Conserves de
Provence
Alcatel mobile
handset division
LCX-Leblanc
Chromex
China National
Adisseo
Bluestar
China National
Rhodia Silicones
Bluestar
Shenyang
Heavy
NFM
Machinery
Technologies
Group
Tianshui Spark
Machine Tool
Somab
Company
Hebei Hongye
Two Cast Europe
Machinery Co
Weichai Power
Moteurs
Ltd
Baudouin
Longsheng
Shandong
Export and
Plysorol SAS
Import Corp. +
Honest Timber
Gabon
July-09
Italy
14.63 mn
100%
2004
Francia
n/a
100%
2003
Francia
n/a
67% JV
2004
Francia
n/a
>55%
2004
Francia
n/a
2004
Francia
n/a
20%
2005
Francia
n/a
100%
2006
Francia
n/a
100%
2008
Francia
n/a
70%
2008
Francia
n/a
81%
2008
Francia
n/a
n/a
2009
Francia
n/a
100%
2009
Francia
n/a
100%
Se si scompongono i dati degli investimenti in America Latina e si può notare come questi
siano profondamente distorti dagli afflussi di capitale cinese nei paradisi fiscali delle isole
Cayman e delle Isole Vergini Britanniche. Se si eliminano tali dati, emerge come a guidare
la classifica siano sia costituito di cinque paesi il gruppo, anche abbastanza compatto, che
guida la classifica: Basile, Perù, Argentina, Messico e Venezuela.
Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in America Latina per Paese
(in milioni di dollari)
Paese
2003
2004
2005
2006
2007
2008
1.
Cayman Is
3690,68
6659,91
8935,59
14209,19
16810,68
20327,45
2.
Br,Virgin Is,
532,64
1089,38
1983,58
4750,40
6626,54
10477,33
3.
Brazil
52,19
79,22
81,39
130,41
189,55
217,05
4.
Peru
126,28
125,82
129,22
130,40
137,11
194,34
5.
Argentina
1,05
19,27
4,22
11,34
157,19
173,36
6.
Mexico
97,18
125,29
141,86
128,61
151,44
173,08
7.
Venezuela
19,39
26,78
42,65
71,58
143,88
155,96
8.
Ecuador
0,55
2,19
18,12
39,04
49,18
88,6
9.
Cuba
13,95
14,85
33,59
59,91
66,49
72,05
10.
Guyana
14,04
12,86
5,60
8,60
68,60
69,5
11.
Panama
0,16
0,41
34,77
36,92
55,31
67,38
12.
Chile
0,75
1,48
3,71
10,84
56,80
58,09
13.
Bolivia
0,08
21,06
23,03
28,62
Fonte MOFCOM
Per avere un quadro della situazione è utile analizzare le maggiori operazioni di M&A
condotte da imprese cinesi nella regione
Le più importanti operazioni di M&A nella regione36
Acquirente
Paese
Valore
%
Venezuela
n/a
66.6%
May 10
Argentina
3.1 bn
50%
May 10
Brazil
1.72 bn
100.00%
May 10
Brazil
3 bn
40.00%
Apr 10
Brazil
5 bn
70%
Mar 10
Brazil
1.2 bn
100%
Mar-10
Brazil
1.2 bn
100.00%
Mar-10
Guinea
1.35 bn
47.00%
Bridas Corp.
Mar-10
Argentina
3.1 bn
50.00%
Quadra Mining Ltd
Mar-10
Chile
1.05 bn
10.00%
Shunde Rixin
An iron-ore mine in Chile Dec-09
Chile
1.9 bn
70.00%
WISCO
MMX
Dec-09
Brazil
400 mn
21.52%
Sep-09
Venezuela
16 bn
n/a
Jul-09
Brazil
280 mn
23.00%
China
Target
Data
Railway Crystallex
International
Engineering
Corporation’s
Corporation
Cristinas Project
CNOOC
Bridas Corp.
Las Jun 10
Plena Transimissoras' 7
State Grid
assets
Sinochem
Statoil ASA's Asset in
Group
Brazil Coast
Wuhan Iron &
Steel
(Group) Steel
Corporation
Mill
in
Rio
de
Comercio
de
Janeiro
(WISCO)
East
China
Mineral Expl &
Dev Bureau
East
China
Mineral Explr.
Grid
Corporation
WISCO
Itaminas
Tinto-Guinea
CNOOC
CNPC
Minerios
Joint Venture with Rio
Chinalco
State
Itaminas
Orinoco river heavy oil
belt
MMXSudeste (MMX)
36 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato
della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis
Se si scompongono i dati circa gli investimenti diretti esteri effettuati da imprese cinesi in
Nord America, a livello si singoli paesi, appare chiaro quanto prima si sosteneva. Gli Stati
Uniti sono al secondo posto della classifica distanziati di molto dal Canada, ricco di
materie prime. Questo dato va comunque bilanciato con i risultati del survey condotto
dell'EIU, dove gli imprenditori intervistati indicano negli USA il paese in cui è più difficile
investire per loro. I survey dell'EIU tuttavia non riposta una ulteriore scomposizione dei dati
e cioè il tipo di azienda, in particolare se si tratta di aziende di Stato o private. Non avendo
a disposizione i dati è ipotizzabile che le maggiori difficoltà di ingresso nel mercato degli
investimenti americani le incontrino le imprese di Stato piuttosto che le imprese private. In
questo senso si può leggere il successo dell'operazione Lenovo su IBM rispetto al
fallimento della CNOOC su Unocal.
Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Nord America per Paese
(in milioni di dollari)
Paese
2003
2004
2005
2006
2007
2008
1.
Canada
46,18
58,79
103,29
140,72
1254,52
1268,43
2.
United
502,32
665,20
822,68
1237,87
1880,53
2389,9
185,22
337,26
208,43
105,84
1,45
States
3.
Bermuda
Fonte MOFCOM
Ad analizzare le maggiori operazioni di M&A nella regione pare confermarsi l'ipotesi
poc'anzi espressa 37.
Acquirente
Target
Data
Paese
Valore
%
Hummer
Jun '09
US
$100M
100%
Morgan Stanley
jun '09
US
$1.2B
9.9%
Sichuan
Tengzhong
Heavy
Industrial
Machinery
CIC
37 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato
della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis
Wuhan Iron &
Consolidated
Steel
Thompson
CIC
CIC
Jun '09
Canada
$240M
Blackstone Group
Jun '09
US
$500M
Teck
Jul '09
Canada
$1.5B
17.2%
Delphi
Aug '09
US
n/a
n7A
AIA Group
Jul 10
US
n/a
n/a
Selwyn Resources Ltd.
Jun 10
Canada
96.3 mn
50%
Alibaba
Vendio Services
Jun 10
US
n/a
100%
CIC
Penn West Energy
May 10
Canada
817 mn
45%
May 10
US
175 mn
n/a
Beijingwest
Industries
Fosun Group,
CC Land
Holdings, Pacific
Alliance Group
Yunnan Chihong
Zinc &
Germanium Co.
Ltd.
Anshan Steel
Steel Development
Company (SDCO)
Zijin Mining
Inter-Citic Minerals
Apr 10
Canada
18.6 mn
19.9%
Sinopec
Syncrude
Apr 10
Canada
4.65 bn
9.03%
Jinchuan Group
Crowflight Minerals
Apr 10
Canada
150 mn
n/a
General Moly Inc.
Mar 10
US
80 mn
25%
Mochi Media
Jan 10
US
80 mn
100%
Chariot Resources
Mar-10
Canada
231.9 mn
100.%
General Moly Inc.
Mar-10
US
n/a
25%
Feb-10
Canada
1.7 bn
60%
Feb-10
US
75 mn
75%
Khan Resources
Feb-10
Canada
52.9 mn
n/a
SouthGobi Energy
Oct-09
Canada
500 mn
n/a
Sichuan
Hanlong Group
Shanda
Interactive
Entertainment
Ltd.
China Sci-Tech
Sichuan
Hanlong Group
Sinopec
China
International
Marine C.
China National
Nuclear Co.
CIC
2 Oil Sands of
Athabasca Oil Sands
Friede Goldman United
(F&G)
Resources Ltd.
CNPC
Jien Nickel
Mackay River & Dover
oil projects
Canadian Royalties
Inc.
Aug-09
Canada
1.7 bn
Aug-09
Canada
160 mn
60%
Jien: 75%;
Goldbrook: 25%
Jien Nickel
Victory Nickel Inc.
June-09
Canada
2.7 mn
14.7%
CNOOC
InterOil's LNG project
June-09
Canada
500 mn
20% - 35%
Sinopec &
Oil field in Angola
CNOOC
(Marathon Oil)
June-09
USA
1.3 bn
20%
June-09
USA
3 bn
30%
June-09
USA
n/a
n/a
CNOOC
Jubilee (Kosmos’ oil
field in Africa)
Sichuan
Tengzhong
Heavy
Industrial
Machinery Co.
Ltd.
Hummer (General
Motors)
Con l'assoluto primato dell'Australia quale attrattore degli investimenti diretti esteri cinesi
(ma lo stesso discorso vale anche per il numero di acquisizioni e partecipazioni), in
Oceania, appare ancora di più chiaro come le materie prime siano uno dei driver
fondamentali che guidano la policy di investimento cinese all'estero.
Stock degli investimenti diretti esteri cinesi in Oceania per Paese
(in milioni di dollari)
Paese
2003
2004
2005
2006
2007
2008
1.
Australia
416,49
494,58
587,46
794,35
1444,01
3355,29
2.
Papua New 10,22
3,31
8,43
61,30
258,11
289,93
33,22
35,18
51,27
51,17
69,65
2,00
36,16
44,16
Guinea
3.
New
44,25
Zealand
4.
Marshall_Isl
ands
Quanto affermato emerge anche se si analizzano le più recenti e più importanti operazioni
di M&A condotte da imprese cinesi nella regione 38:
Acquirente
Shenzhen
Zhongjin
Lingnan Nonfemet
Target
Data
Paese
Valore
%
Perilya Mining
5 Feb '09
Australia
$29.8M
50,1%
24 Feb '09 Australia
$438M
Hunan Valin Iron & Fortescue
Metals
Steel
Group
China Minmetals
OZ Minerals
1 Apr '09
Lynas Corp
30 Apr '09 Australia
Fisher & Paykel
26 May '09
China
Nonferrous
Mining Group
Haier Group
Metal
Australia
New
Zealand
$1.21B
$186M
>51
$29M
20%
38 La tabella che segue, insieme alle altre che ricostruiscono le maggiori operazioni di M&A sono il risultato
della fusione di più fonti: Financial Times, Sole240re, The Beijing Axis
CIC
Goodman Group
Jun-09
Sinochem
Nufarm
159 mn
8%
30 Jul '09 Australia
n/a
100%
Yanzhou Coal Mining Felix Resources
17 Aug '09 Australia
$2.95B
100%
HNA Group
Jul 10
Australia
70-78.8 mn 100%
Jul 10
Australia
42.9 mn
Hotels (
Sichuan Taifeng Group
Bright Dairy & Food Co.
Ltd.
IMX Resources and its
subsidiary
Synlait Milk
Jul 10
Hebei Xinghua Iron and Dynasty Metals Australia
51.00%
34%
Jun10
Australia
3.67 mn
19.90%
Jun 10
Australia
200 mn
8.00%
May 10
Australia
20.7 mn
26.00%
Apr 10
Australia
Metro Coal Ltd.
Apr 10
Arrow Energy Ltd.
Apollo Minerals Ltd.
(Group)
58.4mn
5.45 mn
China Armco Metals
&
Zealand
49%
respectively
Australia
Ltd.
Iron
New
19.9%,
Jun10
Steel
Wuhan
Australia
Steel
Corporation Riversdale
(WISCO)
Guangdong Foreign Trade
Group
Mungaga Gold mines
Henan Yuguang Lead and Kimberley
Gold
Metals
and Sorby
China National Coal Import
& Export Corp.
PetroChina and Shell
Lady
China Sci-Tech
Annie
Copper
Project
Xiangguang Copper
Rocklands
Mine
Corp. (MCC)
Mining
Group
Allco
Hainan Airlines
Yunnan
Finance
Group’s
leasing business
Copper ActivEX Ltd.'s Pentland
Australia Ltd. (CYU)
Project
CNPC & Shell
Arrow Energy Ltd.
China Sci-Tech
of
CuDeco Ltd.
China Metallurgical Group Resourcehouse
China
Ltd.
Lady
Annie
Project
China Metallurgical Group Resourcehouse
Copper
12.48
mn 15%,
25%
and 5 mn
respectively
Australia
28 mn
51%
Mar 10
Australia
3.2 bn
50%
Mar 10
Australia
119.4 mn
100%
Mar 10
Australia
n/a
15%
Feb 10
Australia
200 mn
≤5%
Jan 10
Australia
150 mn
100%
Jan 10
Australia
3 mn
70%
Mar-10
Australia
3.1 bn
50.00%
Mar-10
Australia
135 mn
100.00%
Feb-10
Australia
200 mn
5%
Zijin Mining
Indophil Resources NL
Jan-10
Australia
498 mn
n/a
Baosteel
Aquila Resources Ltd.
Oct-09
Australia
260.5 mn
15%
Yanzhou Coal
Felix Resources Ltd.
Oct-09
Australia
3.2 bn
100%
May-09
Australia
5.15 bn
10%
May-09
Australia
n/a
36.28%
Apr-09
Australia
1.354 bn
100%
Sept-09
Australia
71 mn
70%
Meridian Minerals Ltd.
July-09
Geology Group Co. Ltd.
Wuhan Iron & Steel Co. JV with Centrex for iron
July-09
(WISCO)
ore project
Australia
8.2 mn
45%
Australia
175.52 mn
60%
June-09
Australia
45.52 mn
15%
May-09
Australia
140 mn
19.9%
May-09
Australia
515 mn
10%
May-09
Australia
3.93 mn
19.95%
Waratah Coal Inc (Coal
MCC
mine project)
Anshan Iron & Steel
Gindalbie Metals Ltd.
Five
Minmetals
mines
from
OZ
Minerals
China Guangdong Nuclear
Power
Energy Metals Ltd.
Holding Corporation
(CGNPC)
Northwest Mining and
Guangdong Foreign Trade
Group
Guangsheng
Metals Group
Kagara
Non-ferrous Pan
Australian
Resources Ltd.
China Metallurgical Group Waratah Coal Inc (Coal
Corp. (MCC)
mine project)
Jien Nickel
Metallica Minerals
Chi investe?
A questo punto risulta più semplice capire chi sia ad investire, quali siano gli attori
principali che stanno facendo per la prima volta nella sua storia della Cina un investitore
internazionale. A fare la parte da leone sono le grandi imprese di Stato cinesi, il cui
protagonismo è stato con forza perseguito dal Consiglio di Stato attraverso la politica del
“Go Global”, che da una parte ha comportato anche una progressiva, sino a
recentemente, riforma della normativa che regola i movimenti di capitali cinesi verso
l'estero, nel senso di una maggiore liberalizzazione, sebbene restino ancora forti i controlli.
Dall'altra ad una vera e propria selezione dall'alto di quelle imprese che potenzialmente
potevano aspirare a giocare un ruolo globale.
Il loro rafforzamento pertanto è stato direttamente gestito dallo Stato, nonostante le
smentite ufficiali, attraverso un percorso di fusioni e smembramenti che ha, alla fine,
creato dei veri e propri i colossi di Stato cinesi. Il criterio, utilizzato, è stato quello di, per
usare l'espressione orientaleggiante adottata dalle autorità cinesi per descrivere tale
politica, di “tenere ben saldo il grande e lasciare andare il piccolo”. Il che ha portato ad una
significativa riduzione del numero delle imprese di Stato
A gestire le imprese di Stato è una sorta di IRI cinese cui fanno capo cento cinquanta
imprese 39(si tratta ovviamente delle imprese sotto il controllo del governo centrale, per
39 China National Nuclear Corporation, China Nuclear Engineering & Construction (Group) Corporation,
China Aerospace Science and Technology Corporation, China Aerospace Science and Industry
Corporation, China Aviation Industry Corporation Ⅰ, China Aviation Industry Corporation Ⅱ, China State
Shipbuilding Corporation, China Shipbuilding Industry Corporation, China North Industries Group
Corporation, China South Industries Group, China Electronics Technology Group Corporation, China
National Petroleum Corporation, China Petroleum & Chemical Corporation, China National Offshore Oil
Corp., State Grid Corporation of China, China Southern Power Grid Co., Ltd., China Huaneng Group,
China Datang Corporation, China Huadian Corporation, China Guodian Corporation, China Power
Investment Corporation, China Three Gorges Project Corporation, Shenhua Group Corporation Limited,
China Telecommunications Corporation, China Network Communications Group Corporation, China
United Telecommunications Corporation, China Mobile Communications Corporation, China Electronics
Corporation, China FAW Group Corporation, Dongfeng Motor Corporation, China First Heavy Industries,
China National Erzhong Group Co., Harbin Power Plant Equipment Group Corporation, Dongfang Electric
Corporation, Anshan Iron and Steel Group Corporation, Baosteel Group Corporation, Wuhan Iron and
Steel (Group) Co., Aluminum Corporation of China Limited, China Ocean Shipping (Group) Company,
China Shipping (Group) Company, China National Aviation Holding Company, China Eastern Air Holding
Company, China Southern Air Holding Company, Sinochem Corporation, China National Cereals, Oils &
Foodstuffs Corp., China Minmetals Corporation, China General Technology (Group), Holding, Limited,
China State Construction Engineering Corp., China Grain Reserves Corporation, State Development &
Investment Corp., China Merchants Group Limited, China Resources (Holdings) Co., Ltd., China Travel
Service (Holdings) H.K., Ltd., State Nuclear Power Technology Corporation Ltd., China Commercial
Aircraft Corporation Ltd., China Energy Conservation Investment Corp., China Gaoxin Investment Group
poter avere un quadro complessivo dell'intervento pubblico nell'economia in Cina, a
queste andrebbero aggiunte le imprese controllate dai governi locali, nonché quelle in cui
entità pubbliche hanno partecipazioni sia di maggioranza ). L'obiettivo di lungo periodo che
è stato affidato alla SASAC, quando la strategia del Go Global divenne operativa, era
quello di portare entro il 2015, cinquanta imprese cinesi nella classifica di Fortune 500, un
obiettivo assolutamente a portata di mano se si considera che nella classifica del 2010 ce
ne sono già quaranta sei (State Grid, China National Petroleum Corporation, China Mobile
Communications Corporation, China Railway Construction, China Southern Power Grid,
Dongfeng
Motor,
China
State
Construction
Engineering,
Sinochem,
China
Telecommunications, China Communications Construction, China National Offshore Oil
Corp, China FAW Group, China South Industries Group, Baosteel Group, China Huaneng
Corporation, China International Engineering Consulting Corporation, China National Packaging
Corporation, China Commerce Group, China Huafu Trade and Development Group Corp., China
Chengtong Holding, China Huaxing Group Company, China National Coal Group Corp., China Coal
Research Institute, China National Machinery Industry Corporation, China Academy of Machinery
Science & Technology, Chinese Academy of Agricultural Mechanization Sciences, Sinosteel Corporation,
China Metallurgical Group Corp., China Iron & Steel Research Institute Group, ChemChina Group
Corporation, China National Chemical Engineering Group Corp., China National Light Industry (Group)
Corp., China Light Industrial Corporation for Foreign Economic and Technical Co-operation, China
National Arts & Crafts (Group) Corporation, China National Salt Industry Corp., Huacheng Investment &
Management Co., Ltd., China Hengtian Group Co., China Textile Academy, China National Materials
Industry Group, China National Building Material Group Corporation, China Nonferrous Metal Mining
(Group) Co., Ltd., General Research Institute for Nonferrous Metals, Beijing General Research Institute of
Mining & Metallurgy, China International Intellectech Corporation, China Far East International Trading
Corporation, China International Enterprises Co-operation Corp., China National Real Estate
Development Group, China Academy of Building Research, China North Locomotive and Rolling Stock
Industry (Group) Corporation, China South Locomotive and Rolling Stock Industry (Group) Corporation,
China Railway Signal and Communication Corporation, China Railway Engineering Corporation, China
Railway Construction Corporation, China Communications Construction Company, Ltd., China Putian
Corporation, China National Postal and Telecommunications Appliances Corporation, China Satellite
Communications Corporation, Datang Telecom Technology & Industry Group, CHINA WATER
INVESTMENT GROUP CORP., China National Agricultural Development Group Corporation, China State
Farms Agribusiness Corporation, China National Textiles Group Corporation, China National Foreign
Trade Transportation Corp., China National Silk Imp. & Exp. Corp., China National Light Industrial
Products Imp. & Exp. Corp., China National Complete Plant Import & Export Corporation (Group), China
National Service Corporation for Chinese Personnel Working Abroad, China National Biotec Corporation,
China Forestry Group Corporation, China National Pharmaceutical Group Corporation, CITS Group
Corporation, China Xinxing Corp. (Group), China Poly Group Corporation, China New Era Group, Zhuhai
Zhenrong Company, China Architecture Design and Research Group, China Electronics Engineering
Design Institute, Sino-Coal International Engineering Design & Research Institute, China Haisum
International Engineering Investment Corp. (Group), China Metallurgical Geology Bureau, China National
Administration of Coal Geology, Xinxing Ductile Iron Pipes Group Co., Ltd., China Travel Sky Holding
Company, China Aviation Oil Holding Company, China Aviation Supplies Holding Company, China Power
Engineering Consulting (Group) Corporation, China Hydropower Engineering Consulting Group Co.,
Sinohydro Corporation, China National Gold Group Corporation, China National Cotton Reserves
Corporation, China Printing (Group) Corporation, Panzhihua Iron and Steel (Group) Company, Luzhong
Metallurgical Mining Group, Changsha Research Institute of Mining and Metallurgy, China Lucky Film
Corporation, China Guangdong Nuclear Power Corp., China Changjiang National Shipping (Group)
Corp., Shanghai Ship and Shipping Research Institute, China Hualu Group Co., Ltd., Alcatel Shanghai
Bell Co., Ltd., IRICO Group Corporation, Wuhan Research Institute of Posts & Telecommunications,
Shanghai Institute of Pharmaceutical Industry, Overseas Chinese Town Enterprises Co., Nan Kwong
(Group) Company Limited , Xian Electric Manufacturing Corporation , China Gezhouba Water & Power
(Group) Co., Ltd. , China Railway Materials Commercial Corp.
Group, China Metallurgical Group, Aviation Industry Corporation Ⅰ, China Aviation Industry
Corporation Ⅱ, China Minm etals, China North Industries Group, Sinosteel, Shenhua
Group, China Guodian) e ben tre nella top ten. Per avere un punto di paragone basti
considerare che solo nel 2007 erano ventiquattro le imprese cinesi presenti, nessuna tra le
prime dieci e solo tre tra le prime trenta.
A queste bisogna aggiungere quelle controllate dallo Stato, in particolare Sinopec al
settimo posto nella classifica Fortune 500 è controllata al 75% dallo Stato, tramite la China
Petrochemical Corporation, il più grande produttore e distributore di prodotti petroliferi
raffinati. China National Petroleum Corporation (al decimo posto) e interamente controllata
dallo Stato, stesso discorso vale per la China National Offshore Oil Corporation (259 posto
e che controlla anche PetroChina).
A queste bisogna inoltre aggiungere le quattro grandi banche di Stato: Industrial and
Commercial Bank of China (ottantasettesimo posto), Agricultural Bank of China (141),
China Construction Bank (143), la Bank of China.
Anche il gigante assicurativo China Life Insurance (118) è , come si legge sul sito, dal
1999 sotto il diretto controllo del Consiglio di Stato 40
E poi Shanghai Automotive, Citic Group, China FAW Group, COFCO, Hebei Iron & Steel
Group, China United Network Communications, People's Insurance Co. of China, China
Resources National, China Datang Group, Wuhan Iron & Steel, Aluminum Corp. of China
di cui lo Stato detiene la maggioranza.
Complessivamente la Cina è al terzo posto nella classifica mondiale per numero di
multinazionali della classifica Fortune 500 alle spalle degli Stati Uniti (139) e del Giappone
(71) e davanti a Francia (39) e Germania (37)
Quello che interessa qui rilevare è che la politica del Go Global, messa in cantiere sul
finire degli anni novanta inizia ad essere maggiormente implementata a partire solo dal
2002 con il X piano quinquennale in concomitanza con l'ingresso di Pechino
nell'Organizzazione Mondiale del Commercio ed è stata introdotta anche nell'XI piano
quinquennale.
Visti i risultati appare abbastanza evidente come il Consiglio di Stato non abbia lesinato
nessun tipo di supporto ai suoi campioni nazionali: a livello politico, accompagnando le
sue imprese nei quattro angoli del globo e si può ipotizzare (visto che le smentite su
questo fronte sono costati) un ingente supporto finanziario.
Sono quindi queste le imprese che dominano gli investimenti internazionali di Pechino
40 Una curiosità: negli anni cinquanta con il consolidarsi del regime comunista in Cina il sistema assicurativo
venne completamente eliminato: bastava il partito!
1
2
3
Le prime 40 MNC per
Le prime 40 MNC per
Le prime 40 MNC per profitti
stock di IDE all'estero,
assets all'estero all'estero,
dall'estero, 2008
2008
2008
China
National 1
China National Petroleum 1
China
Petroleum Corporation
Corporation
Corporation
China
China Resources (Holdings) 2
China Petrochemical Corporation
Petrochemical 2
Corporation
Co.,Ltd.
Aluminum corporation of 3
China
China
Communications
Mobile 3
National
Petroleum
Sinochem Corporation
Corporation
4
5
China
Resources 4
China
Ocean
Shipping 4
(Holdings) Co.,Ltd.
(Group) Company
China Ocean Shipping 5
China Merchants Group
China
Resources
(Holdings)
Co.,Ltd.
5
Legend Holdings Ltd.
(Group) Company
6
7
China National Offshore 6
China
Oil Corporation
Corporation
China
National 7
Cereals,Oils & Foodsuffs
Petrochemical 6
Aluminum
China Ocean Shipping (Group)
Company
corporation
of 7
Huawei Technologies
China
Corp.
8
Sinochem Corporation
8
China Unicom Corporation
9
CITIC Group
9
China
State
8
Construction 9
Engineering Corporation
Zhuhai Zhenrong Company
China National Cereals,Oils &
Foodsuffs Corp.
10
China Merchants Group
10
Sinochem Corporation
10
China Minmetals Corporation
11
SinoSteel Corporation
11
Huawei Technologies
11
China Shipping (Group) Company
12
China Shipping (Group) 12
China National Cereals,Oils 12
China National Automotive Fuel
Company
& Foodsuffs Corp.
Group Corporation
China National Aviation 13
CITIC Group
13
Holding Corporation
13
China
State
Construction
Engineering Corporation
14
China
Minmetals 14
Legend Holdings Ltd.
14
CITIC Group
Corporation
15
16
17
China National Chemical 15
China National Offshore Oil 15
China National Travel Service
Corporation
Corporation
(HK) Group Corporation
China State Construction 16
Shum
Engineering Corporation
Company Limited
China
Beijing Enterprises Group 17
Shanghai
Company Limited
Corporation
Mobile 17
Communications
Yip
Holdings 16
SinoSteel Corporation
Baosteel
Group
Corporation
18
China Huaneng Group
18
China
Shipping
(Group) 18
Shougang Corporation
Company
19
China
Unicom 19
GDH Limited
19
Corporation
20
Shum
China National Aviation Holding
Corporation
Yip
Holdings 20
Company Limited
Beijing
Foreign 20
Trade&Economy
Holding
China Merchants Group
Co.,Ltd
21
Legend Holdings Ltd.
21
China
National
Service
(HK)
Travel 21
China
National
Group
Corporation
Offshore
Oil
Corporation
22
China
National
Service
(HK)
Travel 22
China
Power
Group
Corporation
Investment 22
China electronics Corporation
Corporation
23
24
GDH Limited
23
China National Foreign 24
Trade
Guangzhou Yuexiu Holdings 23
Beijing
Limited
Company Limited
SinoSteel Corporation
24
Transportation
China
Enterprises
National
Group
Chemical
Corporation
(Group) Corporation
25
China
Metallurgical 25
China Huaneng Group
25
Group Cop.
26
Holding Co.,Ltd
Huawei Technologies
26
China
Minmetals 26
Corporation
27
Shanghai
Beijing Foreign Trade&Economy
Baosteel 27
Shenzhen
Shanghai
Automotive
Industry
Corporation
Investment 27
China National Textiles Import &
28
Group Corporation
Holdings Co.,LTD
Shanghai
China
Automotive 28
Industry Corporation
Export Corporation
National
Trade
Foreign 28
GDH Limited
Transportation
(Group) Corporation
29
30
31
China Power Investment 29
China
Corporation
Corporation
State Grid Corporation of 30
China
China
Holding Corporation
Shougang Corporation
31
National
Chemical 29
Aviation
ZTE Corporation
32
China
Investment
Poly
Wuhan Iron and Steel (Group)
Corporation
Group 31
Corporation
32
Power
Corporation
National
China
China
Taigang Group International Trade
Co.,LTD
Communications 32
China Huaneng Group
Construction Company Ltd.
33
Shenzhen
Investment 33
Holdings Co.,LTD
34
35
Guangzhou
Yuexiu 34
Shanghai Baosteel Group 33
China
Corporation
Construction Company Ltd.
Shanghai
Automotive 34
Holdings Limited
Industry Corporation
China Nonferrous Metal 35
Shougang Corporation
Communications
Haier
electrical
Appliance
Corp.Ltd
35
ZTE Corporation
Mining & Construction
(group) Co.,Ltd.
36
Beijing
Foreign 36
Trade&Economy Holding
China Metallurgical Group 36
Anshan
Iron
Cop.
Corporation
&
Steel
Group
Co.,Ltd
37
Shanghai
Overseas 37
United
Investment
China
electronics 37
Shum
Yip
Holdings
Company
Corporation
Limited
State Grid Corporation of 38
Guangdong Foreign Trade Corp.
Group Corporation
China
Ltd
Haier
China Telecom
Co.,LTD
38
39
Anshan
Iron
&
Steel 38
electrical 39
39
Appliance Corp.Ltd
40
Jinchuan Group LTD.
Co.,LTD
40
China-Singapore
Suzhou 40
Industrial Park Ventures Co.,
Ltd
Fonte MOFCOM
Shenzhen Investment Holdings
Nanjing
Co.,Ltd.
Iron
&
Steel
United
Nota: in giallo le imprese di Stato, in verde le imprese a partecipazione pubblica.
Fondi di Sovrani e China Investment Corporation (CIC)
Volendo dare una definizione non ortodossa dei Fondi Sovrani si può dire che questi sono
il sottoprodotto degli squilibri economici e commerciali a livello globale. Si tratta infatti delle
risorse accumulate in massima parte attraverso l'esportazione di materie prime e risorse
energetiche (è il caso dei paesi del Golfo o della Norvegia, come il Fondo ADIA di Abu
Dhabi, il kuwaitiano KIA e il fondo del Qatar, QIA) anche definiti fondi commodity o dei
surplus commerciali, anche definiti fondi non-commodity come nel caso cinese con CIC o
di Singapore con GIC; eccedenze di proprietà dello Stato e da esso gestite
(separatamente dalle riserve monetarie) al fine di investirli soprattutto all'estero.
Volendo fare ricorso a qualche definizione più ortodossa si può dire che i fondi sovrani
sono dei “fondi di investimento di proprietà statale che effettuano operazioni per lo più
riguardanti attività finanziarie estere – opportunamente diversificate – con obiettivi di lungo
periodo”41. Per il Dipartimento del Tesoro americano sono “Fondi d’investimento
governativi, alimentati da riserve in valuta estera, ma gestititi separatamente dalle riserve
ufficiali in valuta”. Mentre per il Fondo monetario internazionale per Fondi sovrani si fa
riferimento a “sono speciali Fondi d’investimento creati e posseduti da Stati Sovrani al fine
di detenere attività in valuta estera con un orizzonte temporale d’investimento di lungo
periodo”. Più caustica ed efficace la definizione che ne danno Paolo Savona e Patrizio
Regola ne “Il ritorno dello Stato padrone” che li definiscono come “l'estensione estera di
tipo finanziario della sovranità di uno Stato” (a rigore questa stessa definizione potrebbe
essere data per gli investimenti diretti esteri per le imprese di Stato cinese).
Per una definizione più dettagliata si può ricorrere a quella elaborata dall'SWF Institute: “A
Sovereign Wealth Fund (SWF) is a state-owned investment fund composed of financial
assets such as stocks, bonds, real estate, or other financial instruments funded by foreign
exchange assets. These assets can include: balance of payments surpluses, official
foreign currency operations, the proceeds of privatizations, fiscal surpluses, and/or
receipts resulting from commodity exports. Sovereign Wealth Funds can be structured as a
fund, pool, or corporation. The definition of sovereign wealth fund exclude, among other
things, foreign currency reserve assets held by monetary authorities for the traditional
balance of payments or monetary policy purposes, state-owned enterprises (SOEs) in the
traditional sense, government-employee pension funds, or assets managed for the benefit
of individuals.”
Non sono un fenomeno nuovo - anzi il primo fondo venne istituito dal Kuwait nel 1953: è il
41 M. Lossani, Fondi sovrani. Economie emergenti e squilibri globali, Brioschi, 2010
Kuwait Investment Board, che in seguito diventerà la Kuwait Investment Authority (Kia) - ,
ma hanno conquistato l'interesse internazionale per la velocità con cui ne sono stati istituti
altri negli ultimi anni. Tuttavia ben presto per le dimensioni che assumono e per la
segretezza che li avvolge (sono pochissimi i fondi che applicano una vera e propria politica
di trasparenza, probabilmente il solo in questo senso può essere considerato quello
Norvegese che sin dalla sua istituzione nel 1990 si è imposto regole severissime: qualsiasi
operazione condotta viene resa pubblica e gli investimenti non vanno mai al di sopra del
5%) iniziano a sollevare apprensioni e preoccupazioni. Preoccupazioni a volte anche
eccessive, un rapporto della Chatam House del 2007 ne prevedeva un modus operandi
aggressivo e spregiudicato e dava per certo che i Fondi sovrani sarebbero stati i grandi
protagonisti del XXI secolo.
In aggiunta a tali considerazioni è il loro essere a tutti gli effetti fondi di Stato a
impensierire: il timore è che più che fare investimenti secondo una logica puramente
economica possano essere lo strumento finanziario per perseguire obiettivi politici,
conquistare posizioni strategiche, entrare in possesso di tecnologie sensibili, acquisire
strumenti di ricatto nei confronti dello stato ospitante. Sin dalla loro rinascita, che può
essere indicata all'inizio del decennio, si moltiplicano pertanto le richieste di una qualche
forma di regolamentazione. Ai primi tentativi di acquisizione in Europa qualche anno fa fu
una vera e propria levata di scudi: Berlino espresse il suo disappunto per una eventuale
partecipazione in Continental, a Parigi ci si precipitò a stilare una lista di imprese ritenute
di rilevanza strategica nazionale e quindi non scalabili – tra esse anche la Danone –
mentre l'allora Commissario alla Commercio Mandelson lanciò la proposta di una golden
card europea da lanciare sul tavolo per impedire un tentativo di scalata ostile. In una
intervista dello scorso anno al Sole24Ore è lo stesso presidente della China Investment
Corpotation a testimoniare come prima della crisi il clima in Europa non fosse dei più
accoglienti. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e i tentativi di allestire una
regolamentazione rigida per imbrigliarne i movimenti siano stati abbandonati a favore di un
codice di condotta, stilato in ambito Fondo Monetaria, con la partecipazione di alcuni fondi,
cui ciascun paese può volontariamente aderire.
Veniamo al CIC. La China Investment Corporation viene istituita in tempi brevissimi nel
2007, quando, pare lecito poter ipotizzare, le tensioni al ribasso del dollaro andavano
manifestandosi come un trend duraturo più che un caso sporadico. Il rischio per Pechino
era quello di vedersi sfuggire tra le dita il valore delle proprie riserve valutarie in dollari. Di
qui la necessità di cercare di “materializzare” quelle riserve in assets o partecipazione a
fondi o istituti finanziari che gestiscono assets, per tentare in qualche modo di impedire la
svalutazione del proprio patrimonio monetario.
Il fondo ha una dotazione al suo esordio di 200 miliardi di dollari. Si compone di due unità:
la Central Huijin, che gestisce le partecipazioni sul mercato finanziario domestico e il
Global Investment Portfolio, che cura gli investimenti all'estero. La mission del Fondo è
quella di “to realise the diversification of the state’s foreign exchange assets and achieve a
relatively high risk-adjusted long-term rate of return, through its investment activities
outside the Mainland-principally portfolio investments with a small percentage of direct
investments-operating entirely in accordance with commercial principles.”
Per cercare di placare le ansie create dal suo ingresso nel mercato la dirigenza del fondo
ha ripetuto, praticamente in continuazione, come essi perseguano obiettivi economici e
non di tipo politico; hanno, per primi, aderito alle regole di condotta elaborate in sede FMI;
hanno – sul modello dei fondi arabi – escluso la possibilità di investire nel settore degli
armamenti, tabacco e del gioco d'azzardo (anche Cuccia era solito dire che mai
Mediobanca avrebbe investito in giornali e case da gioco) e si sono impegnati alla
massima trasparenza.
Gli investimenti di CIC
·
Il 7 novembre 2010 l'annuncio della costituzione di una filiale ad Hong Kong, con
l'obiettivo di “fully utilize Hong Kong’s position as an international financial centre as
well as its world-class investment and financial services to develop and expand
CIC’s investment activities outside the Mainland.”
·
Il 13 maggio del 2010 viene reso noto la costituzione in Canada di una joint-venute
tra il CIC e Penn West. Pechino acquisisce il 45% della società per un valore di 817
milioni di dollari. Obiettivo lo sfruttamento delle sabbie bituminose nello stato di
Alberta.
·
Nel novembre dello scorso anno ha acquisito il 20% di Gcl-Poly Energy per un
valore di 705 milioni di dollari, attiva nella produzione di energia rinnovabile e che si
definisce “one of the leading polysilicon and wafer suppliers in the world, delivering
high quality and low cost silicon products to the solar industry” e “a top green
energy supplier in China”.
·
Nel novembre del 2009 CiC annuncia l'acquisto del 15% di AES Corporation per un
ammontare di 1,58 miliardi di dollari, un colosso globale nella produzione e nella
distribuzione di energia elettrica (con un forte interesse per le rinnovabili), presente
in 29 paesi. Il fondo inoltre ha sottoscritto una lettera d'intenti con AES per un
ulteriore futuro investimento di 571 milioni di dollari per lo sviluppo di impianti eolici.
·
Sempre nel novembre dello scorso anno il Fondo ha reso noto l'acquisizione del 14,
91 percento, per un valore di 858 milioni di dollari di Noble Group Limited, la più
grande compagni asiatica per il trading delle materie prime e che si definisce
“market leader in managing the global supply chain of agricultural, industrial and
energy products”, con attività in 38 paesi ed 11.000 dipendenti.
·
CIC ha investito anche 1,9 miliardi di dollari in PT Bumi Resources, la più grande
società mineraria indonesiana.
·
Nell'ottobre del 2009 l'annuncio di un investimento di 500 milioni di dollari in
SouthGobi Energy Resources Limited, estrazione carbonifera. Opera in Mongolia
ed ha come mercato di riferimento la Cina.
·
Nell'ottobre del 2009 CIC annuncia l'acquisto (cosiddetta Fasi 1) del 45% di Nobel
Oil Group, società petrolifera russa, per un investimento di 350 milioni di dollari ed
ha in programma (Fase 2) un ulteriore investimento per 150 milio di dollari.
·
Nel settembre del 2009 il Fondo rende noto il completamento dell'investimento di
939 milioni di dollari nella società petrolifera kazaka Kazmunaigaz.
·
A luglio del 2009 l'annuncio di uno dei maggiori investimenti: 1,5 miliardi di dollari in
Teck Resources Limited, la più grande compagnia mineraria del Canada.
·
Sempre a luglio del 2009 viene reso noto l'investimento di 5 miliardi di dollari in
Morgan Stanley. Mente dall'ingresso di CIC in Morgan Stanley il titolo ha perso oltre
il 55%. Pechino ha pagato 50 dollari ad azione. Dopo meno di un anno il titolo ne
valeva 13. Rilevante l'investimento di Citic, la maggiore società pubblica di
brokeraggio cinese, e partecipata da CIC, in Bear Stears: il 6% della banca
acquistato da Citic si è svalutato del 71%. Bear Stears sull'orlo del tracollo sarà poi
acquisita da JP Morgan.
·
Nel maggio del 2007 CIC aveva investito 3 miliardi di dollari, equivalenti a 31 dollari
per azione, in Blackstone fondo di private equity da cui dipendevano oltre 2 milioni
di posti di lavoro in America. Dopo poco più di un anno Blackstone era quotato a 6
dollari per azione.
Queste prime mosse, rivelatesi al momento non felici, avevano accresciuto l'apprensione
circa la possibilità che Pechino potesse avere come obiettivo quello di controllare
addirittura i gangli vitali dell'economia americana. “Nel nuovo secolo, la recessione
dell'economia occidentale, gli elevati debiti pubblici, il rischio di bancarotta pubblica, e il
trapasso del potere economico dall'Occidente all'Oriente segnano l'inizio di una storia
altra. Nel secondo quinquennio del nuovo secolo, il fondo sovrano di Pechino (…) ha
investito decine di miliardi di dollari nelle grandi aziende americane, ha iniziato insomma la
scalata dell'economia reale degli Stati Uniti”42 Tuttavia quando a Lou Jiwei, presidente di
CIC, viene chiesto se continueranno ad investire nel settore finanziario la risposta è secca
e abbastanza inusuale per un investitore internazionale: “Non sono così coraggioso. Come
posso fidarmi di un Paese come gli Stati Uniti in cui le regole sulla finanza cambiano ogni
settimana? Stiamo continuando a fare investimenti all'estero, ma non abbiamo più il
coraggio di investire in istituzioni finanziarie, perché non sappiamo quali problemi ci
porteremo dietro” 43 Il dato interessante è che in piena crisi in più d'una occasione ci si era
lanciati in analisi/auspici di un intervento salvifico del sistema finanziario americano da
parte dei capitali cinesi e più in generale della possibilità che Pechino potesse trainare la
riprese, anche in questo caso le parole di Lou sono chiarissime “Non credo proprio che
potremo svolgere un ruolo di guida”
Almeno in questa fare, dunque, pare eccessivo poter definire le operazioni del CIC una
scalata dell'economia americana. O anche europea. Dall'analisi degli investimenti resi noti,
si può infatti notare come ad oggi il fondo non stia facendo altro che investire nei settori
delle materie prime e dell'approvvigionamento energetico. Tuttavia emerge un dato
interessante. CIC, sebbene, come dichiarino i suoi responsabili non persegua finalità
politiche, è sicuramente a conoscenza delle linee di sviluppo messe in cantiere per il futuro
dalla dirigenza politica del paese, in questo senso gli investimenti nel settore delle energie
rinnovabili, stanno a significare che realmente a Pechino si stia imboccando la strada di
una rivoluzione “verde”. Questo implica che visto che la Cina è il primo paese al mondo
per consumo energetico, di fatto assicura a CIC il rendimento delle società partecipate e
quindi il rendimento del proprio investimento. In altre parole, il fondo sta investendo in
settori sicuri perchè legati e funzionali alla domanda cinese.
E' proprio questo punto che fornisce un ulteriore elemento sulle finalità di CIC. Visti i
tracolli finanziari americani e vista la volatilità dei mercati, le partecipazione in questi settori
è altamente rischiosa. Al contrario trent'anni di crescita economica e di delocalizzazioni
hanno fatto della Cina il più grande hub manifatturiero del mondo, meglio investire in quei
settori che possono ulteriormente spingere la crescita cinese ed al contempo assicurare
grandi ritorni per gli investitori.
Questo significa, pare lecito ipotizzare, che nel futuro gli investimenti di CIC siano condotti
secondo questa logica: investire in quelle aziende che comunque nei loro piani industriali
prevedono una crescita legata allo sviluppo economico cinese.
42 G. Scibona, Il mondo delle idee. Dai Greci al nostro tempo, Armando Editore, 2010
43 “Il Fondo cinese. Usa Inaffidabili”, Il Sole 24 Ore, 4 dicembre 2008.
Conclusioni
Sulla base delle osservazioni e delle analisi condotte in questo studio, pare lecito poter
affermare che il secolo cinese non è ancora alle porte. La forza con cui Pechino, infatti, si
è lanciata sul mercato internazionale, per la prima volta nella sua storia, come investitore,
deriva dalle difficoltà che gravano sulla Cina. I numeri dei suoi investimenti sono ancora
relativamente piccoli, ma certo la progressione è impressionante
Materie prime, energia, servizi finanziari per poter accompagnare le proprie piccole e
medie imprese nella conquista di mercati internazionali, tecnologie da poter impiegare in
patria, sono il primo obiettivo degli investimenti diretti esteri cinesi. In secondo luogo
Pechino deve riuscire in qualche modo a liberarsi dalla trappola del dollaro in cui si è
cacciata: le sue enormi riserve valutarie rischiano di deprezzarsi considerevolmente al
calare del valore del dollaro e in caso di inflazione.
Per fare ciò, Pechino non può che servirsi delle sue aziende di Stato, che tuttavia, proprio
per questa loro natura incontrano costantemente difficoltà nel portare a compimento il
compito loro assegnato: devono muoversi con cautela, visto che nei paesi in cui operano
c'è sempre il rischio, soprattutto nei paesi sviluppati, che venga invocata una protezione
contro la minaccia cinese incombente.
Se così stanno le cose, sembra possibile affermare che è vero che le imprese di Stato
cinese, che come si è visto guidano la campagna di investimenti all'estero, sono alle
dirette dipendenze del potere politico e pertanto soggiacciono a una policy governativa,
tuttavia questo non significa che tale policy abbia come obiettivo quello di conquistare
posizioni economiche tali da poter condizionare strategicamente e politicamente i paesi in
cui investe. Detto in altre parole Pechino non investe per poter minacciare l'Occidente.
Pertanto non sarebbe molto oculato, per i paesi sviluppati, chiudere completamente le
porte a tali investimenti, d'altro canto i settori in cui gli investimenti cinesi possono arrecare
un danno strategico al paese ospitante sono relativamente pochi e possono essere
controllati. Inoltre, come scrive l'Economist, se le compagnie cinesi vogliono avere
successo all'estero nelle fasi post acquisizione “will have to adapt. That means hiring local
managers, investing in local research and placating local concerns—for example by listing
subsidiaries locally. Indian and Brazilian firms have an advantage abroad thanks to their
private-sector DNA and more open cultures.”. Il che significa che per devono lasciarsi
ulteriormente contaminare dal modello capitalistico occidentale (che fa tutt'uno è bene
ricordarlo con democrazia e nomocrazia), il che inoltre significa che più entrano nel
mercato internazionale, più potrebbero potrebbero essere costrette a svincolarsi dal
controllo diretto dello Stato.
In conclusione si può dire che gli investimenti diretti esteri cinesi, condotti dalle imprese di
Stato, potrebbero essere una minaccia se puntassero all'acquisizione di un controllo di
assets strategici, ma tale minaccia può essere gestita, sono invece una opportunità
economica utile a dare linfa finanziaria ad un occidente dove un modello di capitalismo, il
paradigma hayekiano, è entrato in crisi, ma non, per fortuna, il capitalismo, né lo stesso
occidente.