Ricordi di un angelo sporco
Transcript
Ricordi di un angelo sporco
Per Hanna Lundmark, cresciuta in un’umile famiglia nel nord della Svezia, il freddo e la neve sono i primi ricordi, e con essi la povertà, «più che un ricordo, lo spazio dove era rimasta per tutta la sua adolescenza». È la carestia che la costringe a lasciare la sua misera casa ai piedi delle montagne e a imbarcarsi per un mondo sconosciuto. Una grande nave a vapore partita da Sundsvall e diretta in Australia la lascerà nel porto della capitale dell’Africa Orientale Portoghese, dove la sorte le ha riservato una smisurata ricchezza. Potente e misteriosa proprietaria di un bordello, Hanna vive in una realtà a lei incomprensibile, dove ognuno è rinchiuso nella sua personale gabbia di paura, i bianchi nascondono il proprio passato, i neri non ti guardano negli occhi e nessuno sembra mai dire la verità. Solo Carlos, lo scimpanzé strappato al mondo delle scimmie che veste una giacca bianca e accende i sigari ai clienti, desidera davvero la sua vicinanza. Anello di congiunzione tra due mondi cui non appartiene, Carlos incarna l’interrogativo centrale di questo toccante e provocatorio romanzo di Henning Mankell: cosa è necessario perché un essere umano possa essere definito tale? Sospesa tra i ricordi e un futuro che non è in grado di disegnare, Hanna si muove in un luogo degli opposti, e lentamente capisce che, se vuole ottenere l’impossibile, deve diventare un’altra persona. HENNING MANKELL (1948) vive tra la Svezia e il Mozambico. Tradotto in 40 lingue con più di 40 milioni di copie vendute, è tra i più noti autori scandinavi nel mondo. Oltre ai dieci episodi della serie del commissario Wallander, Marsilio ha pubblicato i gialli Il ritorno del maestro di danza e Il cinese, i romanzi Scarpe italiane, Comédia infantil, Il figlio del vento, e il libro testimonianza Io muoio, ma il ricordo vive. Da Scarpe italiane è in lavorazione un film diretto da Kenneth Branagh, con protagonista Anthony Hopkins. www.henningmankell.com ROMANZI E RACCONTI Dello stesso autore Le inchieste del commissario Wallander Assassino senza volto I cani di Riga La leonessa bianca L’uomo che sorrideva La falsa pista La quinta donna Delitto di mezza estate Muro di fuoco Piramide L’uomo inquieto Gialli Il ritorno del maestro di danza Il cinese Romanzi Comédia infantil Il figlio del vento Scarpe italiane Testimonianze Io muoio, ma il ricordo vive Henning Mankell Ricordi di un angelo sporco traduzione di Giorgio Puleo Marsilio Titolo originale: Minnet av en smutsig ängel Copyright © by Henning Mankell 2011 Published by agreement with Leopard Förlag, Stockholm and Leonhardt & Høier Literary Agency A/S, Copenhagen © 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2012 ISBN 978-88-317-3353-3 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzatata Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter Scopri la community www.giallosvezia.it Ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare... Platone Prologo Africa Hotel, Beira, 2002 Un giorno del freddo mese di luglio del 2002, un uomo che si chiamava José Paulo fece un buco in un pavimento di legno marcio. Non cercava né una via di fuga né un nascondiglio, aveva solo pensato di usare le assi per accendere un fuoco, perché erano anni che il gelo africano non era stato così intenso. José Paulo non aveva famiglia, ma si era assunto la responsabilità della sorella e dei suoi cinque figli dopo che una mattina il cognato Emilio era sparito improvvisamente, lasciando dietro di sé un paio di scarpe malandate e un certo numero di conti non pagati. I debiti erano quasi tutti con Donna Samima, la proprietaria di una bettola illegale nelle vicinanze del porto dei pescatori, dove venivano serviti tontonto e birra fabbricati con una gradazione alcolica incredibilmente alta. Emilio passava il suo tempo a bere e a parlare dei vecchi tempi, quando lavorava nelle miniere d’oro sudafricane. Ma molti sostenevano che non avesse mai messo piede in Sudafrica, e ancor meno che avesse mai avuto un regolare lavoro in vita sua. Nessuno si aspettava la sua scomparsa, ma non fu nemmeno una sorpresa. Se l’era semplicemente svignata alle prime ore dell’alba, quando tutti dormivano. Nessuno sapeva dove se ne fosse andato. E nessuno 10 avrebbe sentito la sua mancanza in modo particolare, forse giusto qualcuno dei suoi familiari. Non si sa se mancasse a Donna Samima, ma lei esigeva che i debiti venissero pagati. Emilio, il chiacchierone, il bevitore, lasciava a malapena qualche traccia di sé quando era nelle vicinanze. Il fatto che adesso fosse scomparso non faceva alcuna differenza. José Paulo viveva con la famiglia di sua sorella nell’Africa Hotel a Beira. Una volta, in un tempo che adesso sembrava lontano e incomprensibile, era considerato l’albergo più signorile dell’Africa coloniale. Veniva paragonato al Victoria Falls Hotel, al confine fra la Rhodesia Settentrionale e la Rhodesia Meridionale, come i due paesi venivano chiamati prima di ottenere l’indipendenza e diventare rispettivamente Zambia e Zimbabwe. I bianchi venivano all’Africa Hotel da luoghi lontani per sposarsi, festeggiare, o per dimostrare che appartenevano a un’aristocrazia che non credeva che il proprio paradiso coloniale potesse dissolversi. La domenica pomeriggio, nell’albergo venivano organizzati tè danzanti, gare di swing e tango, e in molti si facevano fotografare davanti alla sua grande entrata. Ma il sogno del paradiso coloniale era condannato a dissolversi. Un giorno, i portoghesi lasciarono le loro ultime roccaforti. Dopo che i vecchi proprietari se ne furono andati, iniziò anche il degrado dell’Africa Hotel. Le stanze e le suite abbandonate furono occupate da africani poveri. Conservavano le loro poche cose nei pianoforti svuotati, nelle vasche da bagno, nei boudoir. I listelli di legno degli splendidi parquet venivano divelti e bruciati nei giorni più freddi dell’inverno. Alla fine, erano diverse migliaia le persone che vivevano in quello che un tempo era stato l’Africa Hotel. Così, un giorno di luglio, José Paulo iniziò a staccare i listelli del parquet. La stanza era avvolta dalla morsa del 11 gelo. L’unica fonte di calore era una piastra di ferro che veniva usata per cuocere il cibo. Un tubo per stufe portava fuori il fumo attraverso un buco ricavato alla bell’e meglio nella finestra. L’odore acre del legno marcio aveva subito pervaso la stanza. In un primo momento José aveva pensato che fosse il cadavere di un topo sotto al pavimento a diffondere quel fetore. Ma, smuovendo un altro listello, aveva trovato solo un taccuino, un piccolo quaderno rilegato in pelle di vitello. Lettera dopo lettera riuscì a leggere lo strano nome impresso sulla copertina nera. Hanna Lundmark. Sotto il nome, l’anno: 1905. Ma quello che c’era scritto non era in grado di capirlo. Era una lingua che non conosceva. Allora si rivolse al vecchio Afanastasio, che abitava nella camera 212, in fondo al corridoio, e che tutti consideravano un saggio, perché in gioventù era sopravvissuto all’incontro con due leoni affamati lungo una strada desolata nelle vicinanze di Chimoio. Ma Afanastasio non era in grado di capire il testo. Così José andò a consultare la vecchia Lucinda, che abitava in quella che un tempo era stata la reception. Ma neppure lei conosceva quella lingua. Afanastasio consigliò a José Paulo di gettare il taccuino. «Si direbbe un diario, è rimasto sotto il pavimento a lungo» disse. «Qualcuno l’ha nascosto ai tempi in cui quelli come noi potevano stare qui dentro solo come servitori, addetti alle pulizie o facchini. Sicuramente contiene una storia terribile. Brucialo, usalo per scaldarti quando farà troppo freddo.» José Paulo tornò nella sua camera con il diario. Ma, senza sapere perché, non lo bruciò. Invece, gli trovò un 12 nuovo nascondiglio. Sotto il davanzale della finestra c’era una cavità dove aveva l’abitudine di nascondere i soldi che riusciva a guadagnare di tanto in tanto. Adesso, le poche banconote stropicciate si spartivano lo spazio con il tac cuino dalla copertina di pelle nera. José Paulo non lo tirò mai più fuori. Ma neppure lo dimenticò. 13 Parte prima I missionari lasciano la nave 1. L’anno è il 1904. Il mese, giugno. Un’alba tropicale di caldo soffocante. Qui, in questo presente lontano, una nave a vapore battente bandiera svedese si è fermata, cullata da onde lievi. A bordo, l’equipaggio conta trentuno persone. Una di loro è una donna. Si chiama Hanna Lundmark, nata Renström, ed è imbarcata come cuoca. All’inizio, però, le persone che avevano intrapreso il viaggio verso l’Australia con un carico di durame e assi dalla Svezia destinati ai pavimenti di saloni e soggiorni di ricchi allevatori di pecore, erano trentadue. Un membro dell’equipaggio è appena morto. Era il nostromo, ed era il marito di Hanna. Un uomo giovane che amava la vita. Nonostante gli avvertimenti del comandante, un giorno, mentre la na ve faceva rifornimento di carbone in un porto nel deserto a sud di Suez, era sceso a terra e aveva contratto una delle febbri mortali sempre in agguato sulle coste africane. Quando si rese conto che sarebbe morto, cominciò a urlare di terrore. Non rivolse un’ultima parola a nessuno dei marinai che erano al suo capezzale, né al comandante Svartman, né al carpentiere Halvorsen. E neppure a Hanna, che doveva 15 rimanere vedova dopo appena un mese di matrimonio. Il giovane morì tra urla e lacrime di paura. Si chiamava Lars Johan Jakob Antonius Lundmark. Hanna continua a piangerlo dentro di sé, stordita dagli avvenimenti. È l’alba del giorno dopo. La nave è ferma, presto ci sarà una sepoltura in mare. Il comandante Svartman non vuole aspettare. A bordo non c’è del ghiaccio per mantenere freddo il cadavere. Hanna è a poppa e tiene un bugliolo in mano. È bassa di statura, ha un bel seno e occhi gentili. I suoi capelli sono castani, raccolti in uno stretto nodo sulla nuca. Non è bella. Ma in qualche strano modo irradia schiettezza. Qui e adesso. Lei si trova qui. In mare, a bordo di una nave a vapore con due fumaioli. Carica di legname, diretta in Australia. Porto di partenza: Sundsvall. La nave si chiama Lovisa. È stata costruita nel cantiere di Finnboda, a Stoccolma. Ma il suo porto è sempre stato sulla costa del Norrland. All’inizio apparteneva a una società armatrice di Gävle, fallita in seguito a speculazioni sbagliate. Poi era stata venduta a Sundsvall. A Gävle si chiamava Matilda, come la moglie dell’armatore, che amava suonare C hopin al pianoforte con le sue dita maldestre. Adesso si chiama Lovisa, dal nome della figlia più giovane del nuovo armatore. Forsman è uno dei comproprietari. È stato lui a fare in modo che Hanna Lundmark avesse un lavoro a bordo. A casa Forsman c’è un piano che nessuno ha mai suonato. Lui però rimane in ascolto ogni volta che l’accordatore viene per uno dei suoi regolari controlli. E adesso il nostromo Lars Johan Jakob Antonius Lundmark è morto, ucciso da un attacco furioso di febbre. 16 Sembra che il mare si sia fatto pietra. La nave rimane immobile come se stesse trattenendo il respiro. È proprio così che immagino la morte, pensa Hanna d’un tratto. Una calma improvvisa, inaspettata, che viene dal nulla. La morte è come il vento. Un rapido spostamento sottovento. Andare sottovento verso la morte. Poi più niente. 17 2. In quell’istante, Hanna viene raggiunta da un ricordo. Un’immagine che scaturisce dal nulla. Ricorda suo padre, la sua voce, che alla fine era ridotta a un bisbiglio. Sembrava avesse voluto chiederle di conservare le sue parole come un segreto prezioso. Un angelo sporco. Ecco cosa sei. L’aveva detto proprio prima di morire. Stava cercando di lasciarle qualcosa, anche se – o forse proprio per quello – non possedeva praticamente niente. Hanna Renström, figlia mia, tu sei un angelo, un angelo sporco, ma pur sempre un angelo. Che cosa ricorda in realtà? Quali erano state esattamente le sue parole? L’aveva chiamata povera o sporca? Aveva lasciato che fosse lei a decidere? Adesso, mentre le torna alla mente quel momento, crede che l’abbia chiamata un angelo sporco. Il ricordo è lontano, ormai pallido. È così distante da suo padre e dalla sua morte. Allora, in quella casa isolata vicino alle acque scure e fredde del fiume Ljungan, nel silenzio dell’entroterra del Norrland. Lì è morto, ripiegato su se stesso per il dolore, in un letto di fortuna in una cucina che non riusciva a trattenere il calore. È morto circondato dal freddo, pensa Hanna. Il freddo 18 era intenso in quel gennaio del 1899, quando smise di respirare. Adesso è il mese di giugno del 1904, sono passati più di cinque anni. Il ricordo del padre e le parole sull’angelo spariscono così rapidamente come si sono presentati. In pochi secondi, Hanna è tornata dal passato. Sa che i viaggi più straordinari sono sempre dentro di noi, dove non esistono né tempo né spazio. Forse i ricordi hanno cercato di assisterla? Le hanno gettato una fune per aiutarla a scavalcare il muro anestetizzante del dolore? Ma non può fuggire. La nave è diventata una fortezza inespugnabile. Non ha scampo. Suo marito è veramente morto. La morte: come un artiglio. Che rifiuta di lasciare la presa. 19 3. La pressione del vapore nelle caldaie è stata abbassata. I pistoni sono immobili, la macchina riposa. Hanna è vicina al parapetto con il suo bugliolo. Lo deve svuotare in mare. Mentre usciva dalla cambusa, Lars, il ragazzo che le dà una mano in cucina, aveva cercato di prenderglielo. Ma Hanna lo aveva tenuto stretto, lo aveva difeso. Anche se quel giorno suo marito verrà sepolto in fondo al mare, avvolto nella tela di una vela, non vuole venire meno ai propri doveri. Quando alza lo sguardo dal bugliolo pieno di gusci d’uovo, l’aria calda le graffia il viso. Da qualche parte nella foschia a tribordo c’è l’Africa. Non riesce neppure a intravedere il minimo accenno di terra, ma crede di sentirne l’odore. Gliene ha parlato l’uomo che adesso è morto. Di quel l’odore vaporoso, quasi corrosivo, di putrefazione, che aleggia dovunque ai tropici. Lui aveva già viaggiato molto, diretto in tanti posti diversi. Aveva avuto il tempo di imparare qualcosa. Ma non la cosa più importante, come sopravvivere. Non avrebbe mai portato a termine quel viaggio. Era morto a ventiquattro anni. Hanna ha la sensazione che abbia voluto metterla in guardia, ma non sa da cosa. 20