Effetti dell`olio supplementato con vitamine D3, K1, B6 in diverse

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Effetti dell`olio supplementato con vitamine D3, K1, B6 in diverse
Università Politecnica delle Marche
FACOLTÀ DI AGRARIA
Scuola di Dottorato di Ricerca
Curriculum “Alimenti e Salute”
(XI ciclo)
Effetti dell’olio supplementato con
vitamine D3, K1, B6 in diverse
categorie di soggetti
Dottoranda
Tutor:
Dott.ssa Arianna Vignini
Prof. Natale Giuseppe Frega
A.A. 2010-2012
1. INTRODUZIONE
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1.1 Il tessuto osseo
1.1.1 La struttura (Faglia G, 2002)
Il tessuto osseo fa parte, assieme alla cartilagine, dei tessuti connettivi specializzati per la
funzione di sostegno. L’appartenenza del tessuto osseo ai tessuti connettivi è giustificata
sia per la sua origine dal mesenchima, il tessuto embrionale che funge da matrice per tutti
i tessuti connettivi, sia per la sua costituzione, essendo formato da cellule e da sostanza
intercellulare composta da fibre di collagene e sostanza fondamentale mista. La peculiarità
del tessuto osseo è quella di essere mineralizzato: infatti la sostanza intercellulare è per la
maggior parte impregnata di cristalli minerali, in prevalenza fosfato di calcio. La presenza
di minerali, come pure la abbondanza e la particolare distribuzione delle componenti
organiche della sostanza intercellulare, conferiscono a questo tessuto spiccate proprietà
meccaniche di durezza e di resistenza alla pressione, alla trazione e alla torsione. In virtù
di queste proprietà, il tessuto osseo costituisce un materiale ideale per la formazione delle
ossa dello scheletro, che costituiscono nel loro insieme l’impalcatura di sostegno
dell’organismo.
Inoltre, dato il notevole contenuto in sali di calcio, il tessuto osseo
rappresenta il principale deposito di ione calcio per le necessità metaboliche dell’intero
organismo. La deposizione del calcio nell’osso e la sua mobilizzazione, finemente
controllate da meccanismi endocrini, contribuiscono in modo sostanziale alla regolazione
dei livelli plasmatici di questo ione.
Da un punto di vista macroscopico, si distinguono due varietà di osso:
™ osso spugnoso (Fig.1)
™ osso compatto (Fig.2)
L’osso spugnoso si trova principalmente a livello delle ossa brevi, delle ossa piatte e delle
epifisi delle ossa lunghe: deve il suo nome alla particolare conformazione “a spugna”, con
travate ossee, dette trabecole, variamente orientate e intersecate tra loro e delimitanti
cavità, dette cavità midollari, che in vivo sono ripiene di midollo osseo ematopoietico.
L’osso compatto forma la porzione più superficiale delle ossa brevi, delle ossa piatte e
delle ossa lunghe e costituisce la diafisi di queste ultime (Fig.3) (Faglia G, 2002).
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Fig.1 Osso Spugnoso
Fig.2 Osso Compatto
Fig.3 Schema descrittivo delle componenti ossee.
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1.1.2 Le cellule (Faglia G, 2002)
Le cellule proprie del tessuto osseo sono morfologicamente distinguibili in 4 varietà: le
cellule osteoprogenitrici (dette anche preosteoblasti), gli osteoblasti, gli osteociti e gli
osteoclasti. Di queste, le cellule osteoprogenitrici, gli osteoblasti e osteociti sono in realtà
fasi funzionali consecutive dello stesso tipo cellulare, a sua volta derivato dalla
differenziazione in senso osteogenico della cellula mesenchimale pluripotente dei tessuti
connettivi; sono pertanto considerabili come cellule autoctone dell’osso. Gli osteoclasti, per
contro, derivano da precursori immigrati nel tessuto osseo dal sangue, i cosiddetti
preosteoclasti, i quali a loro volta si differenziano da cellule staminali del midollo osseo
ematopoietico.
A) Le cellule osteoprogenitrici, o preosteoblasti, hanno forma di fuso o ovale e si
collocano nello strato più interno del periostio apposto all’osso, il cosiddetto strato
osteogenico di Ollier, riccamente vascolarizzato. Sono altresì localizzate a livello del tessuto
connettivo lasso che riveste le cavità interne dell’osso, il cosiddetto endostio, in vicinanza
dei capillari sanguigni. Esse sono dotate di capacità proliferativa, che si manifesta in modo
particolare durante l’accrescimento corporeo ma che può esplicarsi anche durante la vita
adulta. Esse sono in grado di produrre e secernere le bone morphogenetic proteins (BMP),
fattori di crescita e di differenziamento autocrini. Quando acquistano capacità
differenziativa le cellule osteoprogenitrici si trasformano in osteoblasti.
B) Gli osteoblasti sono le cellule primariamente responsabili della sintesi della sostanza
intercellulare dell’osso e della sua mineralizzazione. Esse hanno forma globosa o poliedrica
e tendono a giustapporsi le une alle altre a formare delle lamine epitelioidi a ridosso delle
superfici ossee in via di formazione.
Istochimicamente, queste cellule si caratterizzano per la positività alla reazione per la
fosfatasi alcalina. Gli osteoblasti sono uniti tra loro e con gli osteociti vicini tramite
giunzioni serrate (o gap junctions), grazie
alle quali le cellule si scambiano molecole
segnale per la coordinazione dell’attività metabolica e di deposizione della matrice ossea.
L’osteoblasto è la sede di sintesi delle molecole organiche della sostanza intercellulare
dell’osso, le quali vengono successivamente esocitate ed assemblate all’esterno della
cellula. L’osteoblasto presiede anche alla mineralizzazione della sostanza intercellulare,
secondo modalità non del tutto chiarite.
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La produzione della matrice ossea e la sua mineralizzazione avvengono secondo un
orientamento ben preciso: inizialmente l’osteoblasto depone osso dal lato rivolto verso la
superficie ossea preesistente; successivamente ne depone da ogni lato tutto attorno a sé,
di modo che ciascuna cellula si allontana progressivamente dalle circostanti a causa
dell’interposizione di sostanza intercellulare. A questo punto l’osteoblasto rallenta
sostanzialmente la sua attività metabolica e si trasforma in un osteocita, mentre nuovi
osteoblasti si differenziano via via dalle cellule osteoprogenitrici. Quando il processo di
formazione di nuovo tessuto osseo si è esaurito, gli osteoblasti che rimangono a ridosso
della superficie ossea cessano la loro attività, riducono i loro organuli e si trasformano in
una membrana di cellule appiattite, le cosiddette cellule di rivestimento dell’osso (bone
lining cells), a cui si attribuisce un ruolo nel mediare gli scambi tra vasi sanguigni e
osteociti.
Gli osteoblasti producono e secernono fattori solubili, il più studiato dei quali è il fattore di
crescita trasformante (trasforming growth factor)-ß (TGF-ß) che è un potente stimolatore
degli osteoblasti stessi. Esso fa parte della stessa famiglia a cui appartengono le BMP;
agendo in maniera paracrina ed autocrina, è capace di modulare la proliferazione delle
cellule osteoprogenitrici, di promuovere il loro differenziamento in osteoblasti e di
incrementare il metabolismo e le sintesi macromolecolari degli osteoblasti maturi. Oltre al
TGF-ß, gli osteoblasti producono gli insulin-like growth factors (IGF), molecole proteiche
strettamente apparentate tra loro con una spiccata azione di stimolo sulla crescita e sul
metabolismo osteoblastico.
Gli osteoblasti sono coinvolti nei processi di rimaneggiamento dell’osso (Fig.4). Infatti,
queste cellule sono in grado di innescare il riassorbimento della matrice ossea sia
indirettamente, in quanto producono fattori solubili che attivano gli osteoclasti, le cellule
preposte al riassorbimento osseo, sia direttamente, in quanto secernono enzimi proteolitici
capaci di scindere i componenti della matrice organica dell’osso. Tra questi enzimi vi è la
collagenasi, che viene secreta sotto forma di procollagenasi inattiva. La sua attivazione
avviene nell’ambiente extracellulare ad opera di un’altra proteasi, l’attivatore tissutale del
plasminogeno (tPA), anch’esso prodotto dagli stessi osteoblasti. Il tPA attiva una proteasi
ad ampio spettro, la plasmina, presente nel plasma sanguigno come precursore inattivo,
detto plasminogeno. La plasmina opera il clivaggio proteolitico della procollagenasi
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trasformandola nella collagenasi attiva. La collagenasi osteoblastica agirebbe rimuovendo
lo strato di tessuto osteoide non mineralizzato che riveste la superficie dell’osso,
consentendo così agli osteoclasti di aderire alla matrice mineralizzata e dissolverla.
Fig.4 A sinistra, micrografia elettronica a trasmissione di un osteoblasto (in alto) e di un osteocita
neoformato, racchiuso da ogni lato da matrice ossea mineralizzata e in connessione con l’osteoblasto
mediante prolungamenti citoplasmatici. A destra, micrografia elettronica a scansione di un osteocita dal cui
citoplasma si dipartono numerosi prolungamenti, perlopiù diretti verso gli osteoblasti sovrastanti (Da: G.
Marotti, Ital J Anat Embryol 101: 25, 1996)
C) Gli osteociti sono le cellule tipiche dell’osso maturo, responsabili del suo
mantenimento ed anche capaci di avviarne il rimaneggiamento. Sono cellule terminali, con
una autonomia di vita, finemente regolata da meccanismi endocrini. L’osteocita è una
cellula stellata, con un corpo cellulare a forma di lente biconvessa e numerosi
prolungamenti citoplasmatici.
Il corpo dell’osteocita rimane racchiuso in una nicchia scavata nella sostanza intercellulare
ossea, detta lacuna ossea, la cui forma ricalca quella della cellula, mentre i prolungamenti
sono accolti all’interno di sottili canali scavati nel tessuto osseo e definiti canalicoli ossei.
Alle loro estremità, i prolungamenti di un osteocita sono connessi con quelli degli osteociti
circostanti mediante giunzioni serrate (Fig.5) attraverso le quali vengono scambiati
metaboliti e molecole segnale disciolti nel citoplasma. Tra la membrana plasmatica del
corpo cellulare e dei prolungamenti e la matrice mineralizzata si trova uno spazio sottile
occupato da tessuto osteoide che non mineralizza. Attraverso il tessuto osteoide delle
lacune e dei canalicoli ossei, che sono ampiamente comunicanti, l’acqua e le sostanze
disciolte (gas respiratori e metaboliti) riescono a raggiungere tutti gli osteociti, anche quelli
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più distanti dai vasi sanguigni. Per molto tempo si è ritenuto che la morte degli osteociti
fosse alla base del cosiddetto minirimaneggiamento che avviene a livello di singoli osteociti
e che nel suo insieme era ritenuto essere coinvolto nel mantenimento dei livelli circolanti di
ione calcio (calcemia). Secondo tale ipotesi si sarebbero infatti liberati nella lacuna acidi
organici derivati dal metabolismo cellulare (es. acido lattico) ed enzimi lisosomiali: i primi
avrebbero disciolto i cristalli di apatite ed i secondi avrebbero scisso le macromolecole
organiche della sostanza intercellulare, operando la cosiddetta osteolisi osteocitica. Si
riteneva altresì che l’osteolisi osteocitica fosse promossa dal paratormone (PTH), l’ormone
ipercalcemizzante prodotto dalle paratiroidi, il quale interagendo con recettori posti sulla
membrana degli osteociti avrebbe determinato una abbreviazione del loro ciclo vitale. In
epoca recente, tuttavia, il ruolo dell’osteolisi osteocitica è stato ridimensionato: la
mobilizzazione di ioni calcio dalla matrice ossea stimolata dal paratormone è ritenuta
dipendere principalmente dall’azione combinata di osteoblasti ed osteoclasti. Vi sono dati a
favore dell’ipotesi che, nelle zone di riassorbimento della matrice ossea da parte degli
osteoclasti, gli osteociti non muoiano affatto ma vadano ad arricchire il patrimonio di
cellule di rivestimento dell’osso, anche se non è chiaro se esse siano ancora capaci di
trasformarsi nuovamente in osteoblasti attivi.
Fig.5 Micrografia elettronica di un osteocita all’interno di una lacuna ossea. Nel citoplasma sono presenti
mitocondri, lisosomi ed alcune cisterne di reticolo endoplasmico granulare. È evidente un prolungamento
citoplasmatico che si addentra in un canalicolo osseo. Tra la membrana plasmatica dell’osteocita e la matrice
mineralizzata, elettrondensa, si interpone un sottile strato di tessuto osteoide.
D) Gli osteoclasti sono le cellule preposte al riassorbimento osseo. Come già accennato,
essi non sono cellule autoctone del tessuto osseo, in quanto non appartengono alla linea
che deriva dalle cellule osteoprogenitrici. I precursori degli osteoclasti, detti preosteoclasti,
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originano nel midollo osseo ematopoietico e sono apparentati con la linea differenziativa di
una categoria di globuli bianchi, i monociti. I preosteoclasti vengono trasportati dal
torrente circolatorio fino alle sedi in cui debbono avvenire processi di riassorbimento
osseo; qui giunti, essi migrano nel tessuto osseo e si fondono insieme originando gli
osteoclasti attivi, elementi sinciziali capaci di dissolvere la componente minerale e di
digerire enzimaticamente le componenti organiche del tessuto osseo.
Gli osteoclasti maturi sono cellule giganti (100-200 μm), plurinucleate in quanto originate
dalla fusione dei singoli precursori mononucleati: in un singolo osteoclasto possono infatti
essere presenti fino a 50 nuclei, con cromatina lassa e nucleolo ben evidente. Il citoplasma
è acidofilo. L’osteoclasto attivato è aderente alla matrice mineralizzata in via di
riassorbimento ed è solitamente accolto in una cavità, detta lacuna di Howship, che si
forma a seguito dell’azione erosiva della cellula sull’osso. Sul versante della cellula che si
appone all’osso è visibile il cosiddetto orletto increspato, che appare come un ispessimento
della superficie cellulare con una sottile striatura disposta perpendicolarmente alla
superficie stessa. Con metodi istochimici, a livello dell’orletto increspato si può rivelare la
presenza dell’enzima anidrasi carbonica e di pompe a protoni. Ai margini dell’orletto
increspato vi è una porzione di citoplasma di aspetto astrutturato, detta zona chiara
(Figg.6-7). Al microscopio elettronico, la zona dell’orletto increspato si rivela composta da
un gran numero di sottili lamine citoplasmatiche, diverse tra loro per calibro e lunghezza,
che ampliano grandemente l’estensione del plasmalemma. La zona chiara appare invece a
superficie liscia ed è occupata da abbondanti strutture citoscheletriche, in particolare
microfilamenti contrattili: immaginandola nelle tre dimensioni, la zona chiara costituisce
una sorta di cercine periferico all’orletto increspato tramite la quale l’osteoclasto aderisce
strettamente alla superficie dell’osso da riassorbire, delimitando l’ambiente extracellulare
compreso tra la superficie dell’osso e l’orletto increspato, la cosiddetta zona sigillata; qui le
sostanze liberate dall’osteoclasto possono agire sulla matrice ossea senza diffondersi
all’intorno.
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Fig.6 Ricostruzione tridimensionale di un osteoclasto in cui sono evidenti l’orletto increspato che aggetta
nella lacuna di Howship, la zona delle vescicole chiare, la zona dei lisosomi e la zona dei nuclei, contenente
anche mitocondri, apparati di Golgi multipli ed elementi di reticolo endoplasmico granulare. La zona chiara,
ricca di filamenti contrattili, forma un cercine adeso alla matrice ossea tutto attorno all’orletto increspato.
Il riassorbimento della matrice ossea inizia con la dissoluzione della componente minerale
dovuta all’acidificazione del microambiente della zona sigillata. A questo livello l’anidrasi
carbonica, sita sul versante ialoplasmatico del plasmalemma dell’orletto increspato, genera
acido carbonico a partire da CO2 e H2O; le pompe di membrana localizzate sul
plasmalemma dell’orletto increspato trasportano attivamente protoni, derivati dalla
dissociazione dell’acido carbonico e di altri acidi organici di origine metabolica (es. acido
citrico, acido lattico) nell’ambiente extracellulare. L’abbassamento del pH che ne consegue
porta alla dissoluzione dei cristalli di apatite. Nel contempo l’osteoclasto esocita il
contenuto degli enzimi lisosomiali all’esterno: a basso pH le idrolasi lisosomiali si attivano e
digeriscono i componenti organici della matrice ossea. Inoltre, l’osteoclasto libera
l’attivatore tissutale del plasminogeno, il quale a sua volta attiva la plasmina e, per suo
tramite, la collagenasi latente prodotta dagli osteoblasti. Questo ultimo enzima
contribuisce con la sua azione litica alla digestione della sostanza intercellulare organica
dell’osso.
La funzione osteoclastica è finemente regolata da fattori ormonali e locali. In particolare,
gli osteoclasti sono le uniche cellule dell’osso che possiedono i recettori per l’ormone
calcitonina, prodotto dalle cellule parafollicolari (o cellule C) della tiroide, con azione
antagonista al paratormone. La calcitonina è un inibitore del riassorbimento dell’osso,
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essendo capace di indurre il distacco degli osteoclasti dall’osso, la scomparsa dell’orletto
increspato e la riduzione del metabolismo cellulare. Il recettore per la calcitonina è già
espresso dai precursori circolanti degli osteoclasti, e la sua evidenziazione può essere un
valido metodo per la identificazione di queste cellule. Per contro, gli osteoclasti non
esprimono il recettore per il paratormone, che non ha alcun effetto diretto su di essi.
L’azione osteolitica del paratormone sembra esplicarsi per il tramite degli osteoblasti:
questi, sotto stimolo dell’ormone, libererebbero fattori solubili detti OAF (osteoclast
activating factors), che agirebbero sugli osteoclasti attivandoli e promuovendo così il
riassorbimento osseo. La natura chimica degli OAF non è nota: probabilmente alcuni di
questi fanno parte della categoria delle BMP (ad es. la BMP-2 è un potente stimolatore del
differenziamento osteoclastico in vitro). Questa ipotesi sembra avvalorata dai risultati di
esperimenti condotti in vitro, che hanno dimostrato come fattori di stimolo del
riassorbimento osseo, come il paratormone, la vitamina D ed alcune citochine, siano
incapaci di stimolare gli osteoclasti a riassorbire l’osso, a meno che questi non siano
mantenuti in coltura insieme con osteoblasti.
Fig.7 Micrografia elettronica a scansione di un osteoclasto all’interno di una lacuna di Howship i cui margini
sono indicati dalle frecce. (Da: L. Formigli et al. J Oral Pathol Med 24: 216, 1995)
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Idrossiapatite 95%
SOSTANZA MINERALE ( 70%)
Altri: Mg,Na,K,F,Cl
30%
70%
COMPOSIZIONE
OSSEA
Collagene
95%
Fibrille ossee: Proteine 98%
non collageni 5%
SOSTANZA ORGANICA
(30%)
Cellule ossee 2%
La composizione ossea
1.1.3 Sostanza intercellulare
La sostanza intercellulare del tessuto osseo (Fig.8) è formata da una componente organica
e da una componente minerale.
La componente organica si compone di:
A) Fibre connettivali
Le fibre connettivali sono rappresentate per la quasi totalità da fibre collagene, composte
da collagene di tipo I (Fig.9). Parte di queste fibre si organizza in fasci,le fibre perforanti di
Sharpey, che ancorano il periostio al tessuto osseo corticale.
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Le fibre elastiche sono virtualmente assenti nel tessuto osseo, ad eccezione di una piccola
quota di queste nelle fibre perforanti di Sharpey. Le fibre reticolari sono localizzate a livello
della membrana basale che circonda i vasi sanguigni intraossei, ma non sono presenti
nella sostanza intercellulare vera e propria dell’osso.
Fig.8 Sostanza intercellulare
Fig.9 Nell’osso maturo la matrice intercellulare è composta sostanzialmente da fibre, inizialmente sono
soprattutto fibre collagene, poi subiscono un processo di mineralizzazione. In qualche area è possibile
dimostrare la penetrazione delle fibre connettivali nella sostanza ossea. Vedi freccia. OSSO SPUGNOSO.
Ingrandimento 400 X
B) Sostanza fondamentale anista
La sostanza fondamentale anista è composta da:
- Proteoglicani, composti da glicosaminoglicani acidi, solitamente solforati, uniti assieme
da brevi catene proteiche. Quelli meglio conosciuti sono:
x Proteoglicano di tipo I (PG-I), si riscontra sia nella sostanza intercellulare mineralizzata
che in quella non mineralizzata adiacente alle cellule ossee e ai loro prolungamenti, il
cosiddetto tessuto osteoide ;
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x Proteoglicano di tipo II (PG-II), che tende ad associarsi alle microfibrille collagene come
a decorarle. Lo si ritrova nella sostanza intercellulare mineralizzata ma non nel tessuto
osteoide, per cui si ipotizza che abbia un ruolo nell’orientare la deposizione dei cristalli
minerali lungo le microfibrille collagene.
- Glicoproteine, di solito fosforilate o solfatate, includono molecole diverse alcune delle
quali sono ritenute giocare un ruolo fondamentale nel controllo dei processi di
mineralizzazione. Tra queste si annoverano:
x Osteonectina, la glicoproteina più abbondante. È dotata di alta affinità per il calcio, sia
come ione libero che associato in complessi di tipo cristallino. Si ritiene che essa agisca
come elemento di nucleazione dei cristalli minerali, in quanto ritenuta capace di
concentrare il calcio nelle sue adiacenze creando così le condizioni per avviare la
precipitazione del fosfato di calcio.
x Fosfatasi alcalina, un enzima capace di idrolizzare gruppi fosfato legati a substrati
organici (quali ad es. il piridossal-5-fosfato) attivo in ambiente alcalino (pH 8-10). Alcuni
studiosi ritengono che essa potrebbe giocare un ruolo nei processi di mineralizzazione,
mettendo a disposizione gli ioni fosfato per la formazione dei cristalli minerali. Secondo
altri, sarebbe invece coinvolta nella sintesi della matrice organica dell’osso.
x Fibronectina, una molecola di adesione localizzata prevalentemente nella matrice
pericellulare e caratterizzata da una porzione capace di legarsi al collagene. Si ritiene che
la fibronectina sia coinvolta nei processi di migrazione, adesione alla matrice e
organizzazione delle cellule dell’osso.
- Sialoproteine, o BSP (dall’acronimo inglese bone sialo-proteins, sialoproteine dell’osso),
glicoproteine peculiari contenenti residui glicidici di acido sialico. Queste proteine
posseggono una sequenza aminoacidica particolare Arg-Gly-Asp (sequenza RGD) che in
esperimenti in vitro è stata vista mediare l’adesione al substrato di svariati tipi cellulari,
incluse le cellule dell’osso. Si ritiene pertanto che le sialoproteine ossee abbiano la
funzione fisiologica di consentire l’adesione delle cellule alla matrice ossea. Se ne
conoscono più tipi:
x Osteopontina (o BSP-I)
x BSP-II
x Glicoproteina acida dell’osso
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-Proteine contenenti l’acido DŽ-carbossiglutammico (GLA), un aminoacido particolare
derivato dall’acido glutammico con un ulteriore gruppo carbossilico legato al carbonio in
posizione DŽ. Il GLA incluso nella proteina possiede, nella porzione del residuo, due gruppi
carbossilici liberi e ravvicinati che a pH fisiologico sono ionizzati e carichi negativamente, e
pertanto capaci di agire come una sorta di chelanti per i cationi bivalenti quali lo ione
calcio.
Le proteine dell’osso contenenti il GLA sono di due tipi:
x Osteocalcina, o proteina GLA dell’osso, una piccola proteina contenente 3-5 residui di
GLA. Essa viene prodotta dagli osteoblasti sotto il controllo dell'1,25(OH)2D3, passa in
circolo e viene escreta per filtrazione renale. È considerata un marker specifico del
metabolismo osseo. Valori elevati di osteocalcina si riscontrano in genere nelle condizioni
in cui vi sia un rimodellamento osseo ed un aumento dei livelli di 1,25(OH)2D3. Vi sono,
invece, valori diminuiti quando sussiste un difetto di mineralizzazione, una diminuita
attività ossea e bassi livelli di 1,25(OH)2D3. È stato ipotizzato che essa possa giocare un
ruolo di inibizione della mineralizzazione in quanto ritenuta capace di legarsi allo ione
calcio e di renderlo indisponibile per la combinazione con lo ione fosfato, inibendo così
l’accrescimento dimensionale dei cristalli minerali. Questa ipotesi è avvalorata dalla
constatazione che l’osteocalcina abbonda nel tessuto osseo maturo ed è invece scarsa nel
tessuto osseo in via di formazione, nonché dal reperto che questa proteina inibisce la
crescita di cristalli di fosfato di calcio in vitro.
x Proteina GLA della matrice, di peso molecolare maggiore della osteocalcina, è presente
sia nell’osso maturo che in quello in via di formazione, nonché nella cartilagine destinata a
essere sostituita da tessuto osseo, come la cartilagine di accrescimento. Il suo ruolo
biologico non è chiarito.
C) Componente minerale
La componente minerale è rappresentata da cristalli di sali di calcio, prevalentemente
fosfato di calcio a cui si aggiungono quantità minori di carbonato di calcio e tracce di altri
sali (fluoruro di calcio, fosfato di magnesio). Il fosfato di calcio è presente sotto forma di
cristalli di apatite, la cui cella elementare ha la forma di un prisma esagonale appiattito e
formula chimica Ca5(PO4)32+; le due cariche positive sono di norma neutralizzate dal
legame con due ioni ossidrile (OH-), formando così la idrossiapatite, ma si possono
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ritrovare anche altri anioni (ione carbonato nella carbonatoapatite; ione fluoruro nella
fluoroapatite). Il cristallo si origina dall’impilamento delle singole celle elementari ed ha la
forma di un ago lungo e sottile, spesso circa 2 nm e lungo 20-40 nm.
1.1.4 Regolazione della formazione dell’osso
Da quanto detto precedentemente, emerge come vi sia una stretta correlazione funzionale
tra osteoblasti e osteoclasti. L’induzione del riassorbimento osseo da parte degli osteoclasti
richiede infatti la presenza degli osteoblasti, i quali liberano gli OAF (osteoclast activating
factors). Gli osteoblasti sono anche coinvolti nel differenziamento dei preosteoclasti in
osteoclasti maturi, con la produzione di fattori solubili, come il GM-CSF (granulocyte
macrophage colony stimulating factor). È stato detto, infatti, che gli osteoclasti sono
cellule di origine emopoietica. Si differenziano dai precursori nella linea monocitomacrofagica in risposta all’espressione coordinata di molecole regolatorie linea-specifiche,
incluse c-fos, M-CSF RANK (recettore attivatore di NFkB), OPG (osteoprogeterina), il
ligando di RANK (receptor activator of nuclear factor-kb), dove RANK è un recettore
appartenente alla famiglia dei recettori del TNFĮ/TNFĮ, espresso dai prosteoclasti, e il suo
ligando è espresso dalle cellule stromali del midollo osseo. La risposta a questa interazione
tra le due molecole induce la differenziazione del prosteoclasto in osteoclasto. Questo
meccanismo interattivo viene invece bloccato dalla presenza dell’OPG che agisce come
molecola recettoriale competitrice per il legando di RANK, inibendo la formazione
dell’osteoclasto. Gli osteoblasti invece si differenziano dalle cellule stromali del midollo
osseo in risposta all’attivazione del fattore di trascrizione specifico Cbfa1.
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Interazione funzionale tra le cellule ossee
Le cellule endoteliali sono anch’esse coinvolte nella funzione delle cellule proprie dell’osso.
È stato infatti dimostrato in esperimenti in coltura in vitro che le cellule endoteliali ossee
producono fattori solubili, quali gli IGF, che promuovono la crescita delle cellule
osteoprogenitrici e il loro differenziamento in osteoblasti. Le cellule endoteliali rilasciano
inoltre fattori chemiotattici per i precursori circolanti degli osteoclasti, tra cui gli stessi IGF,
ed esprimono molecole di adesione che consentono ai precursori osteoclastici di arrestarsi
e di migrare nel tessuto osseo ove sia richiesta la loro presenza.
Vari tipi di leucociti e di cellule da essi derivate, tra cui i macrofagi e i linfociti T,
producono fattori capaci di influenzare le cellule dell’osso. Tra questi si annoverano:
l’interleuchina 1 (IL-1) e la interleuchina 6 (IL-6), che attivano gli osteoclasti,
probabilmente non in via diretta ma tramite gli osteoblasti; l’interleuchina 3 (IL-3), che
promuove la differenziazione dei preosteoclasti in osteoclasti maturi; il tumor necrosis
factor (TNF) e le prostaglandine (PG), anche essi ritenuti essere induttori del
riassorbimento osseo.
È stato dimostrato che nella matrice ossea mineralizzata rimangono incarcerati numerosi
fattori di crescita prodotti dalle cellule ossee o di provenienza plasmatica, tra cui il TGF-ß e
gli IGF osteoblastici, il platelet-derived growth factor (PDGF), l’epidermal growth factor
(EGF), il fibroblast growth factor (FGF), etc. Questi fattori si liberano quando gli osteoclasti
riassorbono la matrice ossea ed agiscono sulle cellule dell’osso, promuovendo attività
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biologiche diverse, quali ad esempio proliferazione e differenziamento degli osteoblasti ed
angiogenesi.
Durante il ciclo del rimodellamento, quindi, le cellule vecchie e danneggiate sono rimosse
dagli osteoclasti tramite la secrezione di acidi ed enzimi proteolitici sulla superficie ossea.
Successivamente gli osteoclasti migrano dall’area sottoposta all’assorbimento e vanno in
apoptosi. Sono poi rimpiazzati dagli osteoblasti che depongono nuova matrice ossea in
forma osteoide. Durante la formazione dell’osso, parte degli osteoblasti assume matrice
ossea e si differenzia in osteociti che abbiamo già detto essere collegati tra loro tramite
lunghi processi citoplasmatici che corrono attraverso i canali della matrice ossea.
Tutti i fattori locali che sono stati appena trattati, tra cui fattori di crescita, citochine,
prostaglandine, influenzano anche l’espressione di RANK, del suo ligando e dell’OPG,
molecole che insieme formano un sistema paracrino che gioca un ruolo essenziale nella
regolazione ossea,in particolare osteoclastica,in differenziazione e funzione.
Ciclo del rimodellamento osseo
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1.1.5 Metabolismo del tessuto osseo
Il tessuto osseo è un tessuto dinamico che si rimodella costantemente durante tutto l’arco
della vita. Inoltre, come ricordato, esso costituisce una riserva per il calcio, il magnesio, il
fosforo, il sodio e altri ioni necessari alle funzioni omeostatiche dell’organismo.
Svariati fattori, prevalentemente di natura endocrina e metabolica, sono in grado di
influenzarne la formazione dell’osso.
Il paratormone (PTH), prodotto dalle cellule principali delle ghiandole paratiroidi, è
secreto in risposta a bassi livelli di calcemia (v.n. 8,8-10,4 mg/dl).
Il PTH agisce su tre organi bersaglio:
x a livello osseo promuove la mobilizzazione del calcio dallo scheletro con vari
meccanismi: stimola gli osteoclasti ed aumenta il loro numero; stimola gli osteociti a
secernere enzimi proteolitici, che provocano il riassorbimento della matrice proteica;
probabilmente inibisce gli osteoblasti;
x a livello renale diminuisce il riassorbimento del fosforo da parte del tubulo prossimale,
riducendo così la fosforemia; aumenta inoltre il riassorbimento di calcio a livello del tubulo
distale;
x a livello intestinale svolge un’azione indiretta in quanto stimola l'idrossilazione renale
della 25(OH)D3: si ottiene così la 1,25 (OH)2D3, il metabolita più attivo della vitamina D,
che agendo a livello intestinale aumenta l'assorbimento di calcio e fosforo.
In definitiva la sua azione determina:
- ipercalcemia e ipercalciuria
- iperfosforemia e iperfosfaturia.
La calcitonina, prodotta dalle cellule C, o parafollicolari, della tiroide, è secreta in risposta
ad alti livelli di calcemia.
Essa agisce a due livelli:
x a livello osseo: inibisce il riassorbimento periosteocitario, diminuisce il numero e l'attività
degli osteoclasti, previene l'osteolisi indotta dal PTH;
x a livello renale: determina un aumento della clearance renale del calcio e del fosforo.
determinando:
- ipocalcemia e ipocalciuria.
19
L’ormone della crescita (growth hormone, o GH), prodotto dall’ipofisi, agisce sul
fegato inducendovi la produzione di fattori di crescita detti somatomedine, i quali
stimolano la crescita ed il metabolismo dei condrociti della cartilagine proliferante,
promuovendo così l’accrescimento dimensionale delle ossa. Difetti congeniti di produzione
di ormone della crescita provocano il cosiddetto nanismo ipofisario, mentre l’eccesso di
produzione di questo ormone durante lo sviluppo porta alla condizione opposta, nota come
gigantismo. L’ormone della crescita agisce anche promuovendo il riassorbimento di calcio
a livello renale, contribuendo pertanto all’omeostasi plasmatica di questo ione.
Gli ormoni tiroidei (tri- e tetraiodiotironina, T3 e T4), prodotti dalle cellule follicolari
della tiroide, sono capaci di promuovere il metabolismo cellulare e pertanto giocano un
ruolo importante per stimolare la deposizione e la maturazione dell’osso. Anomalie di
produzione di ormoni tiroidei durante lo sviluppo portano a malformazioni ossee di vario
grado, fino al cosiddetto nanismo tiroideo.
Gli ormoni sessuali (estrogeni, testosterone) hanno un’azione positiva sulla
differenziazione e sulla attività funzionale degli osteoblasti, promuovendo il turn-over
osseo. Gli estrogeni in particolare sembrano essere coinvolti nei processi di deposizione
ossea; tra l’altro, essi controllano l’espressione renale dell’enzima cha attiva la vitamina D
e sarebbero in grado di promuovere la morte cellulare programmata degli osteoclasti,
come emerge da esperimenti in vitro. Pertanto influenzano l’omeostasi calcica agendo a
diversi livelli:
1- Sull’osso, sia riducendo la sensibilità degli osteoclasti al PTH e dunque minimizzando
l’attivazione dei processi catabolici a livello delle singole unità di rimodellamento,sia
esaltando la produzione delle fibrille collagene mediata dagli osteoblasti
2- Sulla tiroide, rendendo le cellule C più sensibili alla ipercalcemia e stimolando la
produzione di Calcitonina.
3- A livello intestinale, promuovendo un migliore assorbimento calcico mediato dal PTH.
In situazione di carenza di estrogeni, quindi, è evidente che si assiste ad un aumentato
assorbimento osseo, con aumento dei livelli di Calcio circolante, riduzione della secrezione
di
PTH,
riduzione
della
produzione
di
1,25(OH)2D
e
conseguente
riduzione
dell’assorbimento intestinale di Ca2+. Questi reperti potrebbero contribuire a spiegare la
ragione per cui dopo la menopausa, venendo meno l’azione di stimolo sugli osteoblasti e di
20
freno sugli osteoclasti, si ha una progressiva riduzione della massa ossea con l’eventuale
affermazione di un quadro clinico di osteoporosi.
La vitamina D è una vitamina liposolubile che viene in parte assunta con la dieta
(vitamina D2, o ergocalciferolo) ed in parte sintetizzata endogenamente a partire da un
precursore steroideo, il 7-deidrocolesterolo.
Per vitamina D si intende un gruppo di composti di natura steroidea che a tutti gli effetti
possono essere inquadrati come ormoni.
Le principali vitamine D sono:
x la vitamina D2, o ergocalciferolo, che deriva dall'ergosterolo, composto di origine
vegetale;
x la vitamina D3, o colecalciferolo, che deriva dal 7-deidrocolesterolo (7DHC), composto di
origine animale.
La vitamina D2 si ottiene per irradiazione dell'ergosterolo e va incontro alle stesse
modificazioni metaboliche della vitamina D3. I fabbisogni quotidiani di vitamina D sono di
400-800 unità nell'infanzia e di 100 unità nella vita adulta. In un recente studio è stato
evidenziato come i livelli di 25(OH)D3 e 1,25(OH)2D3 non diminuiscono con l'età in
entrambi i sessi e non subiscono variazioni stagionali. L'apporto alimentare è scarso,
l'assorbimento intestinale avviene a livello digiuno-ileale, dove la vitamina D viene
incorporata da piccole micelle di grasso e di sali biliari.
Per essere attiva la vitamina D3 deve essere idrossilata:
x prima a livello epatico, con formazione del 25 idrossi-colecalciferolo, 25(OH)D3, ad
opera dell'enzima mitocondriale epatico 25-alfa-idrossilasi:
x quindi a livello renale con formazione del 1,25 di-idrossi-colecalciferolo, 1,25(OH)2D3,
ad opera dell'enzima mitocondriale renale 1-alfa-idrossilasi: questo enzima è sensibile
all'ipocalcemia, all'ipofosfatasemia e ad un aumento della concentrazione del PTH.
La vitamina D3 agisce a tre livelli:
x a livello osseo determina un aumento della percentuale di matrice ossea calcificata;
x a livello intestinale aumenta l'assorbimento di calcio e fosforo;
x a livello renale diminuisce l'escrezione di calcio e fosfati.
21
Processo di formazione della vitamina D attiva
La vitamina C è una vitamina idrosolubile che agisce come importante coenzima per la
sintesi del collagene. Essa è un cofattore per gli osteoblasti impegnati nella biosintesi del
collagene della matrice ossea. Deficit gravi di vitamina C, come avviene nello scorbuto,
portano a produzione insufficiente di collagene con conseguente ritardo nella crescita e
difficoltà nella riparazione delle fratture.
La vitamina A è una vitamina liposolubile capace di agire sugli osteoblasti riducendone la
proliferazione ed incrementando l’espressione dei recettori per la vitamina D. Essa agisce
pertanto come fattore differenziante per gli osteoblasti. La carenza di questa vitamina
provoca ritardo nella crescita delle ossa. Per contro, un suo eccesso causa la precoce
chiusura delle epifisi con arresto prematuro della crescita.
L’ossigeno molecolare sembra giocare un ruolo importante per la formazione dell’osso
non solo in quanto indispensabile per la fosforilazione ossidativa, ma anche come fattore
di stimolo sulle cellule ossee. È degno di nota che, in ogni tipo di ossificazione, la
differenziazione delle cellule mesenchimali in cellule osteoprogenitrici e poi in osteoblasti
22
avviene in stretta concomitanza con la genesi di nuovi vasi sanguigni, che possono
assicurare una elevata pressione parziale di ossigeno nelle sedi dove avviene la formazione
di osso. Questo può spiegare l’effetto benefico sull’osteogenesi prodotto dalla
ossigenoterapia iperbarica, che vede tra le sue indicazioni d’uso i ritardi di consolidamento
delle fratture e l’osteoporosi.
Il monossido di azoto (NO) è un radicale gassoso prodotto da molte cellule, incluse le
cellule endoteliali. Recentemente, è stato dimostrato che esso è capace di indurre la
differenziazione degli osteoblasti. È pertanto verosimile che il ruolo dell’endotelio vasale
nei processi di osteogenesi possa essere almeno in parte mediato tramite la liberazione di
monossido di azoto (Faglia G, 2002).
23
Produzione
Ormone paratiroideo
(PTH), peptide
1,25(OH)2D3
(Vitamina D),
steroide
Calcitonina, peptide
Origine
Cellule principali delle
ghiandole paratiroidi
Tubulo prossimale
renale
Cellule parafollicolari della
ghiandola tiroide
Fattori stimolanti
Ipocalcemia
Aumento di PTH
Ipocalcemia
Ipofosfatemia
Ipercalcemia
Fattori inibenti
Ipercalcemia
Aumento di Vitamina D
Diminuzione di PTH
Ipercalcemia
Iperfosfatemia
Ipocalcemia
Intestino
Nessun effetto diretto
Azione indiretta: stimola
l'idrossilazione renale della
Vitamina D
Stimola
notevolmente
l'assorbimento di
Calcio e Fosforo
?
Rene
Stimola la 25 alfaidrossilasi
Aumenta il riassorbimento del
Calcio filtrato
Aumenta l'escrezione urinaria
di Fosforo
?
?
Osso
Stimola il riassorbimento
osteoclastico
Stimola il reclutamento dei
preosteoclasti
Stimola
notevolmente il
riassorbimento
osteoclastico
Inibisce il riassorbimento
osteoclastico
(?) azione fisiologica
normale nell’uomo (?)
Ipercalcemia
Ipofosfatemia
Ipercalcemia
Iperfosfatemia
Ipocalcemia (transitoria)
Organi bersaglio
Effetto totale
Concentrazioni di
Calcio e Fosfati nel
siero e nel liquido
extracellulare
Azioni degli ormoni mineraloattivi
24
1.2 L’osteoporosi
L’osteoporosi è una condizione caratterizzata da riduzione della massa ossea e alterazione
della sua micro-architettura, tali da comportare un aumento della fragilità ossea e della
suscettibilità alle fratture.
La massa ossea presenta variazioni fisiologiche in rapporto all’età e al sesso; possiamo per
comodità espositiva e didattica considerare alcune fasi:
- una fase di incremento, che segue a grandi linee l'andamento della crescita staturale
(anche se ha una durata maggiore):
Πcaratterizza le prime due decadi di vita;
Πha il momento di massima ascesa durante l'adolescenza;
Œ è analoga nei due sessi, anche se a partire dalla pubertà c'è una differenziazione
progressiva.
- un periodo di consolidamento, caratterizzato da una continua, lenta ascesa fino ai 25-40
anni di età, durante il quale si raggiunge il cosiddetto "picco di massa ossea", cioè la
massima quantità d'osso relativa a ciascun individuo: la differenza tra i due sessi è a
questo punto evidente,essendo il valore raggiunto nel sesso maschile maggiore di circa il
30%.
- da questo momento in poi la massa ossea si riduce ed inizia la fase di decremento, che
prosegue per tutta la vita. Qui le differenze in base al sesso sono ancora più marcate;
nelle donne, infatti, la diminuzione:
Œ è più precoce e coincide con la menopausa, allorché viene meno l’increzione
estrogenica
Πsembra assumere un andamento spezzato, secondo un modello lineare (prima della
menopausa)/esponenziale inverso (dopo la menopausa) (figura 10).
Per i suddetti motivi (“picco” più basso, perdita post-menopausale accelerata, maggiore
durata della vita media) l’osteoporosi interessa prevalentemente il sesso femminile.
25
Fig.10: Curva di discesa dei valori di contenuto minerale osseo a livello appendicolare in femmine (a) e
maschi (b) in rapporto all'età cronologica: valori dei singoli soggetti e valore medio. (c) Curva di perdita del
contenuto minerale osseo dell'avambraccio in 162 donne sane sia in pre- che in post-menopausa. Dopo i 50
anni il grafico è in relazione all'età aggiustata per la menopausa.
1.2.1 Epidemiologia
È la più comune malattia metabolica dell’osso: in base a studi condotti negli USA su ampie
casistiche, ne sono affetti il 25% delle donne e il 18-20% degli uomini al di sopra dei 70
anni. In Italia secondo l’ESOPO (Epidemiological Study On the Prevalence of
Osteoporosis), vasto studio epidemiologico condotto nel 2001 su 16000 soggetti in 83
centri specialistici sparsi su tutto il territorio, il 23% delle donne di oltre 40 anni e il 14%
degli uomini con più di 60 anni è affetto da osteoporosi. Le indicazioni che emergono sono
abbastanza lontane da quelle fornite dalla fotografia scattata dall’ultima indagine ISTAT,
secondo cui si dichiara ammalato di questa patologia solo il 4,7% della popolazione totale
e il 17,5% delle persone con oltre sessantacinque anni. Questa discrepanza si spiega con il
26
fatto che la malattia è molto spesso asintomatica, ma certo sottolinea anche l’importanza
di una diagnosi puntuale.
L’osteoporosi, insieme ad altre patologie croniche osteo-articolari, è stata messa al primo
posto nelle priorità sanitarie dell’OMS per la decade 2000-2010.
1.2.2 Fisiopatologia
La perdita di tessuto osseo è un fenomeno fisiologico connesso con l’invecchiamento;
come ricordato, a partire dai 40 anni la massa ossea inizia a ridursi e si calcola che tale
riduzione possa raggiungere il 50% a livello dei corpi vertebrali e il 25-30% a livello delle
ossa lunghe in un’età compresa tra i 60 e 70 anni.
Questo fenomeno avviene in misura maggiore nelle donne dopo la menopausa: la
riduzione della densità minerale ossea a carico delle vertebre inizia 1-2 anni prima della
completa cessazione del ciclo mestruale. Il 30% della massa ossea trabecolare viene persa
nei primi 15-20 anni dopo la menopausa. La maggiore riduzione della densità minerale
ossea avviene nei primi 5 anni, intorno al 2%; dal quinto anno la perdita è dell’1% annuo.
I soggetti con una riduzione maggiore del 3% per anno hanno forte rischio di sviluppare
osteoporosi, e sono circa il 25% delle donne in post-menopausa (Figg.11-12)
Quello della massa ossea globale è un valore importante: infatti nei soggetti con una
massa adeguata i fenomeni osteoporotici saranno meno gravi che in quelli con una massa
ossea scarsa. Si è visto così che in soggetti di razza nera la massa ossea raggiunge valori
superiori piuttosto che in soggetti di razza bianca o gialla, nei maschi piuttosto che nelle
femmine, e appare deficitaria nei soggetti ipogonadici e malnutriti.
Alcuni studi ipotizzano che questi deficit siano in relazione ai livelli di calcitonina, in quanto
i livelli circolanti di tale ormone sono più bassi nella donna che nell’uomo, la risposta degli
stimoli secretivi decresce in entrambi i sessi con l’età e appare particolarmente deficitaria
nei soggetti con osteoporosi.
Altri autori ritengono più rilevante il ruolo degli estrogeni. Questi, dopo la cessazione della
funzione gonadica, si riducono di livello nel sangue. Poiché gli estrogeni sono in grado di
inibire i processi di riassorbimento osseo agendo sugli osteoclasti sia per azione diretta sui
recettori cellulari specifici, sia per azione mediata stimolando la secrezione di calcitonina e
inibendo la produzione di alcune citochine, la carenza di estrogeni determina un aumento
dell’attività osteoclastica e quindi del turnover osseo. Ne deriva un incremento del flusso di
27
calcio dal comparto scheletrico ai liquidi extracellulari, che determina un’inibizione del PTH
e a cascata dell’attivazione renale della vitamina D e quindi dell’assorbimento intestinale di
calcio, mentre l’escrezione renale di calcio aumenta. Il risultato finale è quindi uno
spostamento dell’equilibrio del bilancio calcico che diviene negativo, con progressivo
depauperamento del patrimonio scheletrico.
Tra gli altri fattori concausali nella patogenesi dell’osteoporosi appare rilevante
l’immobilizzazione, e quindi una vita sedentaria, e una dieta eccessivamente acida. Una
dieta
eccessivamente
ricca
di
proteine,
infatti,
potrebbe
condurre
ad
una
demineralizzazione ossea nel tentativo di tamponare tale carico acido.
La patogenesi dell’ osteoporosi è pertanto multifattoriale e include l’intervento di fattori
ormonali, nutrizionali, fisici, genetici, costituzionali. Alcuni fattori possono essere
considerati determinanti in senso patogenetico, mentre altri possono essere considerati
fattori di rischio della malattia, e quindi occasionali e non strettamente legati alla sua
patogenesi.
Fig.11 Osso normale
Fig.12 Osso osteoporotico
1.2.3 Eziologia
L’osteoporosi si divide in primitiva, che comprende una forma post-menopausale (tipo I),
una forma senile (tipo II) e una forma idiopatica (giovanile e dell’ adulto) e secondaria,
che riconosce molteplici cause
L’80% dei pazienti è portatore della forma senile o postmenopausale; il restante 20% è
interessato da forme secondarie.
a) Forme primitive
ƒ Osteoporosi tipo I
28
L'osteoporosi di tipo I colpisce caratteristicamente donne nella postmenopausa in un'età
compresa tra 50 e 65 anni ed ha come elemento distintivo un'importante perdita di osso
trabecolare, con un risparmio relativo dell'osso corticale. I disturbi più comuni sono i crolli
vertebrali e le fratture dell'avambraccio. È presente un quadro di ipoparatiroidismo, forse
compensatorio dell'aumentato riassorbimento osseo.
ƒ Osteoporosi tipo II
L'osteoporosi di tipo II colpisce una notevole percentuale di soggetti di età superiore a 75
anni di entrambi i sessi. Nell’individuo anziano il riassorbimento osseo è aumentato,
mentre la deposizione sembra mantenersi costante. Si ha perdita sia di osso trabecolare
che corticale e sono quindi frequenti le fratture del collo del femore, dell'omero
prossimale, della tibia e della pelvi. I livelli di paratormone sono, in genere, leggermente
più elevati che di norma.
ƒ Osteoporosi idiopatica
L’osteoporosi del giovane adulto sembra invece essere caratterizzata da un deficit relativo
dell’ attività neoformativa osteoblastica, la cui causa resta a tutt’oggi ignota.
b) Forme secondarie.
Le forme secondarie di osteoporosi sono le meno frequenti.
L’eccesso di corticosteroidi sia di origine esogena sia endogena induce osteoporosi,
attraverso il duplice meccanismo di ridotta formazione e aumento del riassorbimento
dell’osso.
I glicocorticoidi infatti potenziano l’azione del paratormone e dell’1,25(OH)2D3, a livello
osseo deprimono la sintesi del collagene e infine riducono l’assorbimento intestinale del
calcio con un meccanismo indipendente della vitamina D.
L’insufficienza gonadica, quando è presente fin dall’infanzia, provoca un minore sviluppo
dello scheletro e conseguentemente una minore massa ossea; le probabilità che con l’età
si raggiunga un grado significativo di osteoporosi sono rilevanti.
Ci sono anche alcune malattie ereditarie del connettivo che si accompagnano a tale forma
morbosa. Tra queste, la sindrome di Marfan, l’omocisteinuria e l’osteogenesis imperfecta,
forma particolare di osteoporosi geneticamente determinata di cui esistono varianti
dominanti e recessive.
29
Altre condizioni patologiche che possono associarsi alla riduzione di massa ossea sono
epatopatie croniche, cirrosi epatica, sindrome di malassorbimento, gastroresezione,
tireotossicosi e sindrome di Cushing.
Infine, ricordiamo alcuni trattamenti farmacologici prolungati: terapie con L-T4,
corticosteroidi, agenti anticonvulsivanti.
Questi fattori possono contribuire a determinare un quadro osteoporotico in qualsiasi
momento della vita del paziente.
1.2.4 Quadro clinico
È importante ricordare che l’osteoporosi viene definita “malattia” quando si verificano
fratture spontanee per traumi anche lievi o quando la massa ossea, valutata con metodica
mineralometrica, risulta inferiore ad un valore soglia.
In base alle indicazioni formulate dall’OMS una riduzione densitometrica, misurata con
tecnica DXA (Double X-ray Absorptiometry = Assorbimetria a doppio raggio X), di almeno
2,5 deviazioni standard rispetto al risultato medio di giovani adulti sani (T-score < -2,5 =
valore soglia convenzionalmente definito come per diagnosticare la presenza di
osteoporosi) è suggestiva di insorgenza della patologia e si associa ad un significativo
aumento del rischio di frattura nelle donne in post-menopausa (Fig. 10).
Le fratture dovute ad osteoporosi (femore, vertebre ecc.) si associano a compromissione
dello stato di salute, scadimento della qualità di vita e diminuzione dell’attesa di vita.
Benché l’osteoporosi sia una malattia ossea sistemica, le sue manifestazioni cliniche sono
più rilevanti a livello della colonna vertebrale e della pelvi. Talora interessa il polso, l’anca,
l’omero e la tibia.
Il primo sintomo soggettivo è il dolore, dovuto alle fratture che si verificano per piccoli
traumi o anche senza trauma apparente, generalmente alla schiena con irradiazione
segmentaria nel territorio di distribuzione della radice nervosa interessata. Tale dolore è di
solito causato da collasso di un corpo vertebrale soprattutto a livello dorsale basso
lombare, e può essere trasmesso anteriormente a fascia. È caratteristicamente acuto e la
sua comparsa può essere generalmente collegata anamnesticamente ad uno sforzo brusco
o ad un trauma; può simulare un dolore toracico di origine cardiaca o pleurica in caso di
fratture dorsali, mentre quelle lombari possono provocare per alcuni giorni un quadro di
ileo paralitico. È un dolore esacerbato dai movimenti e dalla manovra di Valsalva. Quando
30
diversi corpi vertebrali vengono interessati da fratture, il rachide subisce una tipica
deformazione in cifosi dorsale a grande arco, mentre lo spazio a disposizione dei visceri si
riduce a seguito della riduzione di altezza dei corpi vertebrali del tratto lombare,
determinando una spinta verso l’alto sul diaframma, disturbando così l’efficienza della
meccanica respiratoria. In alcuni casi le ultime coste vengono a raggiungere e toccare la
cresta iliaca, aggiungendo un’ulteriore causa di dolore scheletrico.
La semeiotica clinica della frattura vertebrale in fase acuta è caratterizzata soprattutto
dalla vivace dolorabilità alla percussione dell’apofisi spinosa della vertebra interessata e
talora anche di quelle contigue, segno che ne permette la diagnosi differenziale rispetto
alle rachialgie di altra origine.
1.2.5 Esami diagnostici e diagnosi differenziale
L’esame radiologico, pur essendo una tecnica di esame fondamentale per lo studio
dell’apparato scheletrico, dotato di naturale radio-opacità legata alla presenza di un’alta
concentrazione di sali minerali ad elevato numero atomico, non consente di diagnosticare
precocemente le malattie ossee di tipo metabolico.
La valutazione della massa ossea con la densitometria ha permesso invece di migliorare
sensibilmente la diagnostica di queste. Attualmente sono disponibili apparecchi a raggi X
(Densitometria a raggi X a doppia energia-DXA). Le sedi di esame sono gli spondili lombari
L1-L4, il collo femorale (sedi queste ad elevata componente trabecolare) e l’intero
scheletro. Il risultato della misurazione è espresso in g/cm2, come densità minerale ossea
(BMD) o in g/cm come contenuto minerale calcico (BMC). Il valore della misurazione viene
quindi confrontato, con una curva di normalità, composta da una popolazione sana in età
giovanile (T score = unità di misura rappresentata dalla differenza, espressa in deviazione
standard, tra valore osservato di BMD e valore medio di BMD dei giovani adulti) e viene
così calcolato automaticamente dal computer, il numero di deviazioni standard (DS) del
soggetto in esame, rispetto alla media della popolazione di riferimento. Il T score si riduce
con la riduzione della massa ossea. Pertanto, si parla appunto di osteoporosi se questo
valore è inferiore a -2,5DS. I soggetti normali hanno un T score uguale o superiore a -1
(Fig.13).
La massa ossea si misura con un test, la mineralometria ossea computerizzata
(MOC), che si esegue alla colonna lombare o al femore e verifica se l'osso è normale, se
31
c'è
osteopenia
(inizio
di
demineralizzazione
ossea)
o
osteoporosi
conclamata
(demineralizzazione ossea avanzata).
Quando fare la MOC? Nelle donne post-menopausa, se ci sono fattori di rischio come:
fratture per piccoli traumi; menopausa precoce; osteoporosi nei genitori; dieta povera di
calcio.
Anche la tomografia computerizzata può dare informazioni sulla densità ossea
vertebrale, anche se i dati ottenuti possono essere talvolta sottostimati per la possibile
interferenza del tessuto adiposo midollare. La metodica ha tuttavia costi elevati ed espone
il paziente a livelli elevati di radiazioni.
La scintigrafia ossea viene eseguita usando generalmente come marcatore il metilendifosfonato marcato con 99Tc. La misurazione della captazione del tracciante dopo 24 ore
consente di ottenere utili informazioni sull’esistenza di aree di accelerato turnover osseo,
riconoscibili per una iperfissazione del tracciante. Viene utilizzata per casi di osteoporosi a
turnover elevato.
L’esame istologico dell’osso si basa sull’agobiopsia a livello della cresta iliaca. Questa
indagine riveste importanza soprattutto nella diagnosi differenziale con l’osteomalacia,
affezione caratterizzata da inadeguata mineralizzazione della matrice organica dello
scheletro
adulto,
simile
clinicamente
all’osteoporosi
ma
caratterizzata
però
da
ipofosforemia, ridotti livelli di vitamina D ed aumento della fosfatasi alcalina. Si ricorre
all’agobiopsia anche per la diagnosi differenziale con neoplasie a localizzazione ossea,
soprattutto il mieloma multiplo, leucemie e linfomi nonché le metastasi da carcinoma. In
molti casi di mieloma tuttavia la diagnosi differenziale è facilitata dai reperti sierologici
(ipersedimetria, anemia, alterazioni dell’elettroforesi, proteinuria di Bence-Jones).
Tra gli esami biochimici i livelli di calcemia, fosforemia e fosfatasi alcalina sono
generalmente nel range di normalità. Un aumento temporaneo di fosfatasi alcalina può
evidenziarsi in concomitanza a una frattura. L’OH-Pr urinaria, indice poco specifico del
riassorbimento osseo, può essere lievemente aumentata, specie se il turnover osseo è
molto aumentato. I livelli di osteocalcina, marker dell’attività osteoblastica, come quelli dei
diversi marker specifici del riassorbimento osseo, sono generalmente ai limiti superiori
della norma, risultando talvolta aumentati nelle forme a turnover estremamente elevato. Si
ricorre agli esami biochimici anche per fare diagnosi differenziale con il morbo di Paget,
32
una patologia cronica dello scheletro adulto che si presenta sempre in modo focale,
caratterizzata dall’aumento del riassorbimento osteoclastico a cui fa seguito una reazione
riparativa ossea o fibrosa, disordinata e riccamente vascolarizzata. In questa patologia
abbiamo alti livelli di fosfatasi alcalina.
PRINCIPALI FATTORI DI RISCHIO PER L'OSTEOPOROSI
Genetici o costituzionali (non modificabili)
Sesso (femminile)
Età
Familiarità
Razza (bianca o asiatica)
Menarca tardivo e/o menopausa precoce
Stile di vita e aspetti nutrizionali (modificabili)
Nulliparità
Basso apporto alimentare di calcio
Fumo
Carenza di vitamina D
Abuso di sostanze alcoliche e caffeina
Basso peso corporeo
Ridotta attività fisica (sedentarietà)
Immobilizzazione prolungata
Farmaci (corticosteroidi, anticonvulsivanti)
33
Giovanile
Idiopatica dell'età adulta
Osteoporosi
primitive
Post-gravidica
Post-menopausale
Senile
Osteoporosi
secondarie
sistemiche
Malattie endocrine
Cushing, ipertiroidismo, iperparatiroidismo
etc.
Malattie gastrointestinali
Malassorbimenti, gastrectomia, epatopatie
etc.
Malattie ematologiche
mieloma multiplo, leucemie, etc.
Malattie del tessuto
connettivo
osteogenesi imperfetta, Sindrome di Marfan
etc
Malattie reumatiche
artrite reumatoide, altre malattie del
collageno
Da farmaci
Corticosteroidi, antiepilettici, eparina
etc
Da ridotto stimolo meccanico
Post-traumatiche
Osteoporosi
secondarie
distrettuali
Da disuso
Algo-neuro-distrofie
Classificazione delle osteoporosi
34
Postmenopausale (Tipo I)
Senile (Tipo II)
Da 55 a 75 anni
> 70 anni (F); > 80 anni (M)
6/1
2/1
Attività osteoclastica
aumentata, maggior
riassorbimento
Attività osteoblastica diminuita,
diminuita deposizione
Principalmente trabecolare
Corticale e trabecolare
Rapida, di breve durata
Lenta, di lunga durata
Fattori epidemiologici
Età
Rapporto in base al sesso
(F/M)
Fisiologia o metabolismo
dell'osso
Patogenesi del
disaccoppiamento
Perdita ossea totale
Velocità della perdita ossea
> 2 deviazioni standard sotto la inferiore alla norma (riferita all'età ed
norma
al sesso)
Densità ossea
Segni clinici
Vertebre (schiacciamento),
polso, anca (intracapsulare)
Vertebre (cunei multipli), parti
prossimali dell'omero e della tibia,
anca (extracapsulare)
Perdita dei denti
Cifosi dorsale
Calcemia
Normale
Normale
Fosforemia
Normale
Normale
Normale (aumentata in
presenza di fratture)
Normale (aumentata in presenza di
fratture)
Aumentata
Normale
Diminuita
Aumentata
Secondariamente diminuita per
la diminuzione di paratormone
Primitivamente diminuita per la
diminuita risposta enzimatica
Diminuito
Diminuito
Sedi di frattura
Altri segni
Dati di laboratorio
Fosfatasi alcalina
Calciuria
Attività del paratormone
Conversione renale della Vit.
D: da 25(OH)D3 a 1,25
(OH)2D3
Assorbimento gastrointestinale di calcio
Caratteristiche dei due tipi principali di osteoporosi primitive
35
Fig. 13 Criteri OMS per la diagnosi di osteoporosi
1.2.6 Approccio terapeutico
Le forme secondarie di osteoporosi rispondono al controllo della malattia di base. In tutti
gli altri casi la prevenzione è molto importante: il rischio di osteoporosi può essere ridotto
aumentando il valore massimo di massa ossea in età giovanile o riducendo le perdite
ossee successive. Quindi è bene incoraggiare l’esercizio fisico,che è in grado di migliorare il
tenore calcico osseo.
Evitare le abitudini che facilitano il processo osteoporotico, come il fumo e l’abuso di
alcool, nonché prestare attenzione nell’assunzione di farmaci che inducono perdite di
calcio. Si dovrebbe mantenere un adeguato apporto di calcio: la dose raccomandata è di
1200-1500 mg al giorno negli adolescenti e 800 mg negli adulti.
Negli anziani e nei soggetti con malassorbimento di calcio può essere utile associare la
vitamina D (800 U al dì).
Nelle forme acute occorre il riposo a letto, evitando però un’immobilizzazione prolungata e
tenere al caldo la zona interessata, nonché l’uso di analgesici a dosi adeguate. Nella fase
di riabilitazione possono essere vantaggiosi la fisioterapia e l’uso di un corsetto rigido.
La terapia di fondo dell’osteoporosi primitiva si basa sull’uso di farmaci di diverse famiglie,
ma ancora non è del tutto standardizzata.
1.2.7 Farmaci che inibiscono il riassorbimento osseo
a) ESTROGENI. Agiscono direttamente sull’osso attraverso recettori ad alta affinità. Se la
terapia è iniziata poco dopo la menopausa, è in grado di ridurre in modo significativo la
perdita ossea accelerata che si verifica in tale fase della vita delle donne: si stima che
36
possa ridurre del 50% l’incidenza di fratture correlate all’osteoporosi. Se la terapia con
estrogeni è iniziata quando la patologia è già in atto,è ancora efficace seppur in minor
misura. Gli antiestrogeni (TAMOXIFENE) hanno effetto antiestrogeno sulla mammella, ma
effetti estrogenaci a livello osseo e sui lipidi plasmatici.
b) CALCITONINA. Ormone peptidico a singola catena a 31 aminoacidi, inibisce il
riassorbimento osseo legandosi ad un recettore specifico sugli osteoclasti ed inibendone
l’attività. Ha proprietà analgesiche e pochi effetti collaterali. È in grado di incrementare la
massa ossea vertebrale in donne con osteoporosi postmenopausa soprattutto quando è
presente un turn-over osseo elevato; sembra tuttavia meno efficacie degli estrogeni nel
ridurre la perdita di osso corticale.
c) BIFOSFONATI. Sono analoghi del pirofosfato con una potente azione inibente sul
riassorbimento osseo. I bifosfonati vengono assorbiti su cristalli di idrossiapatite nelle ossa,
rallentando così sia la velocità di crescita sia il dissolvimento, e riducendo il maggior tasso
di ricambio osseo associato. Hanno un ruolo importante nella profilassi e nel trattamento
dell’osteoporosi, anche di quella indotta da corticosteroidi; l’acido alendronico e risedronico
(come sale sodico) sono considerati i farmaci di scelta per queste condizioni mentre l’acido
etidronico (come sale disodico) può essere impiegato se i primi non sono adatti o non
sono tollerati. I bifosfonati sono impiegati anche nella terapia della malattia di Paget e
dell’ipercalcemia neoplastica. L’agente di questa famiglia più studiato è l’acido etidronico
(come sale disodico) Bisogna però considerare che il dosaggio di questo farmaco che
inibisce il riassorbimento, può alterare anche la mineralizzazione ossea la mineralizzazione
se viene somministrato in modo continuato o ad alte dosi (per esempio nel trattamento
della malattia di Paget). Si preferisce, quindi, somministrarlo in modo intermittente per
due settimane ogni tre mesi, arricchendo la dieta con dei supplementi di calcio nei periodi
intervallari (Rugarli C, 2005).
1.2.8 Vitamine D, B6, K e metabolismo osseo
Numerosi sono i fattori sia di tipo endocrino che nutrizionale interessati allo sviluppo e al
mantenimento dello stato di efficienza del tessuto osseo. Tra i primi il paratormone e la
calcitonina, che essendo responsabili della omeostasi del calcio e del fosforo, modulano i
processi nei quali questi due elementi sono coinvolti.
37
Tra i secondi, oltre al calcio, fosforo e magnesio che entrano nella costituzione della
componente minerale dell’osso e lo zinco e il manganese interessati alla stabilizzazione e
quindi al mantenimento del grado di mineralizzazione del tessuto, sono da ricordare le
proteine che forniscono gli aminoacidi per la formazione della componente organica ed
alcune vitamine che, in qualità di cofattori, intervengono nei processi di questi nutrienti.
Una posizione di primaria importanza è occupata dalla vitamina D3 le cui funzioni sono
note da tempo. Questa vitamina nella sua forma attiva, la diidrossi vitamina D3 (1,25(OH)2
colecalciferolo) agisce come un tipico ormone steroideo; infatti una volta fissata al suo
specifico recettore presente nelle cellule bersaglio, penetra nel nucleo e va a stimolare la
sintesi del mRNA che codifica la proteina indicata con il termine “Calcium Binding Protein”
(CaBP) (Kumar R, 1986). Questa proteina è la diretta responsabile degli effetti biologici
che la vitamina D esplica sul metabolismo del calcio e secondariamente del fosforo nei suoi
tre organi bersaglio: a livello dell’intestino agendo da “carrier” favorisce il trasporto del
calcio attraverso la membrana e quindi il suo assorbimento; a livello del rene è implicata
nel riassorbimento del fosforo e del calcio; a livello dell’osso é responsabile del
bilanciamento dei processi di formazione e di riassorbimento del tessuto e quindi del
mantenimento della sua integrità quali e quantitativa; agendo sugli osteoblasti ne provoca
infatti il loro differenziamento promuovendo il processo di mineralizzazione mentre agendo
sugli osteoclasti provoca il riassorbimento del tessuto (Reichel H et al, 1989).
L’importanza della vitamina D nel metabolismo minerale dell’osso è dimostrata dalle gravi
conseguenze che si hanno a carico di questo tessuto non solo nell’organismo in
accrescimento (rachitismo) ma anche nell’adulto (osteomalacia) in seguito all’insufficiente
apporto od utilizzo di essa.
Un’altra vitamina che secondo le più recenti ricerche ha un ruolo importante nel
metabolismo del tessuto osseo è la vitamina K1 (Vermeer C et al, 1995; Suttie JW, 1988;
Olson JA, 1994). È nota da tempo la funzione antiemorragica di questa vitamina; la sua
carenza provoca infatti un allungamento del tempo di coagulazione del sangue, dovuta a
un’alterata sintesi di alcune proteine implicate nel processo: la protrombina, i fattori VII,
IX, X, C e S. È invece un’acquisizione più recente il meccanismo attraverso il quale la
vitamina agisce a livello osseo; il suo derivato idrochinonico costituisce il cofattore di un
enzima miscrosomiale, la DŽ-glutammico carbossilasi, che catalizza la conversione post38
trascrizionale di alcuni residui di acido glutammico presenti nelle proteine su indicate in DŽcarbossiglutammico (GLA) (Furie B et al, 1999).
Le GLA-proteine presenti nel tessuto osseo sono la GLA-proteina dell’osso (BGA), detta
anche osteocalcina e la GLA-proteina della matrice (MGA).
Poiché i residui GLA sono degli agenti chelanti il calcio molto efficienti si ritiene che queste
proteine abbiano una funzione regolatrice nel processo di mineralizzazione dell’osso e di
conseguenza anche la vitamina K1, responsabile della formazione dei GLA residui, possa
essere coinvolta in questo importante processo (Price PA, 1988). Il grado di
carbossilazione dell’osteocalcina circolante viene oggi considerato un test molto più
attendibile per valutare lo stato vitaminico K1 di un individuo rispetto a quello basato sulla
determinazione del tempo di coagulazione e/o del livello di protrombina.
L’intervento della vitamina K1 nel metabolismo dell’osso non si limita alla carbossilazione di
queste proteine; essa sembra interessata anche all’omeostasi del calcio intervenendo sulla
sua eliminazione urinaria; inoltre inibisce la produzione di potenti agenti riassorbenti l’osso
quali la prostaglandina E2 e l’interleukina 6.
L’ipotesi di un intervento della vitamina K1 nel processo di ossificazione e quindi la sua
azione protettiva nella genesi dell’osteoporosi è supportata da numerosi studi sia di tipo
epidemiologico (Tsukamoto Y, 2004) che hanno evidenziato una maggiore incidenza di
fratture in individui con bassi livelli sierici di vitamina K1 e un più elevato rischio di fratture
negli individui con alti livelli sierici di osteocalcina non carbossilata, sia da studi clinici che
hanno dimostrato gli effetti positivi della somministrazione di vitamina K sul grado di
carbossilazione dell’osteocalcina e sulla densità ossea (Binkley NC et al, 1995). Per
ottenere questi risultati sono necessarie quantità di vitamina K1 superiori a quelle per
mantenere un normale tempo di coagulazione del sangue; è probabile che gli enzimi
responsabili della carbossilazione delle proteine extraepatiche come la osteocalcina,
abbiano verso il cofattore K un’affinità minore rispetto a quella della carbossilasi che
interviene nell’attivazione post-trascrizionale dei fattori della coagulazione; da qui la
necessità di averne a disposizione una quantità superiore.
Infine anche la vitamina B6 è implicata nel normale sviluppo e mantenimento del tessuto
osseo in quanto, come piridossal-5fosfato, interviene nella formazione della componente
proteica di tale tessuto. Recenti ricerche hanno infatti evidenziato l’interessamento della
39
vitamina B6 nel metabolismo del tessuto osseo e chiarito il meccanismo o almeno uno dei
meccanismi attraverso i quali la vitamina è in grado di svolgere una azione protettiva nei
riguardi delle fratture ossee da osteoporosi. Già da tempo studi epidemiologici e clinici
avevano dimostrato che alti livelli ematici di omocisteina, che si forma attraverso un
processo di demetilazione dell’aminoacido metionina, dovevano considerarsi un importante
fattore di rischio delle malattie cardiovascolari (Refsum H et al, 1998). Più recentemente è
stato osservato che l’iperomocisteinemia può rappresentare un fattore di rischio delle
patologie a carico del tessuto osseo e in particolare delle fratture di origine osteoporotica
(Van Meurs JB et al, 2004). Un suo derivato, l’omocisteina tiolattone, provoca infatti una
inibizione irreversibile della lisilossidasi, enzima chiave della formazione della struttura del
collagene e di proteine fibrose in generale. Il blocco di questa attività enzimatica (Raisz
LG, 2004) impedisce la modificazione posttrascrizionale a carico della lisina presente nelle
catene polipeptidiche precursori della molecola del collagene e di conseguenza la
formazione dei legami crociati intercatena indispensabili per la formazione della struttura
conformazionale della proteina (Lubec B et al, 1996). La vitamina B6 somministrata
unitamente alla vitamina B12 e all’acido folico essendo in grado di mantenere livelli normali
di omocisteina nel sangue, può svolgere un’azione preventiva e/o protettiva nei confronti
delle alterazioni a carico del tessuto scheletrico e quindi delle conseguenze che queste
alterazioni possono provocare (McKinley MC et al, 2001).
1.3 I radicali liberi
Numerosi lavori nella letteratura biomedica che suggeriscono un ruolo dello stress
ossidativo in diverse patologie umane e nei processi d’invecchiamento. In molti stati
patologici lo stress ossidativo non è la causa principale della malattia ma un fenomeno
secondario, tuttavia non per questo meno importante. Ad esempio il danno ossidativo dei
lipidi nella parete dei vasi sanguigni sembra dare un significativo contributo allo sviluppo
dell’arteriosclerosi. Il danno provocato dall’ossidazione del DNA può contribuire allo
sviluppo delle neoplasie e all'invecchiamento. Un’eccessiva produzione di radicali liberi
probabilmente contribuisce in modo significativo al danno tessutale nell'artrite reumatoide
e nelle patologie infiammatorie dell'intestino, quali il morbo di Crohn e la colite ulcerativa.
Sussiste una crescente evidenza che danni ossidativi si verifichino in malattie
neurodegenerative, quali il morbo di Parkinson, e nei traumi cerebrali. Le cellule possono
40
tollerare uno stress ossidativo blando, che spesso è superato grazie all’esistenza di
efficenti sistemi di difesa antiossidante. Uno stress severo invece può produrre notevoli
sconvolgimenti interdipendenti del metabolismo cellulare (scissioni delle eliche del DNA,
aumento del calcio intracellulare, danno di trasportatori ionici di membrana e/o d’altre
specifiche proteine, perossidazione di lipidi) e portare a trasformazioni della cellula o alla
morte cellulare. Vi sono prove evidenti che diverse patologie, in cui è implicato lo stress
ossidativo (ad es. malattie cardiovascolari e tumore), possono essere prevenute o ritardate
in qualche misura modificando le abitudini alimentari, ad es. aumentando il consumo di
frutta, cereali e vegetali. Ciò ha portato a formulare ipotesi interessanti sull’importanza di
alcune sostanze con potere antiossidante presenti in particolari alimenti. Queste sostanze
sembrano contrastare gli effetti cumulativi del danno ossidativo nell'intero corso della vita
umana. Inoltre ciò spiegherebbe alcuni degli effetti benefici degli alimenti sopra citati.
1.3.1 Specie reattive dell’ossigeno e dell’azoto
Un insieme di molecole classificate genericamente come "specie reattive dell’ossigeno"
(ROS) e "specie reattive dell’azoto" (RNS), sono continuamente generate nel corpo
umano. Tali specie svolgono un ruolo fondamentale nei processi ossidativi e recenti
acquisizioni hanno messo in evidenza anche il loro intervento nella regolazione di diverse
funzioni fisiologiche. Le ROS, che sono state individuate da lungo tempo, comprendono
non soltanto specie radicaliche, ma anche derivati dell'ossigeno non radicalici. La
produzione di molte di queste specie è una conseguenza inevitabile della presenza di
molecole "autossidabili" in un corpo che richiede ossigeno. Per esempio il radicale
superossido (O2.-) ed il perossido di idrogeno (H2O2) possono derivare dall'ossidazione
diretta di numerose biomolecole da parte dell'ossigeno. Molti composti del carbonio sono
altamente suscettibili di andare incontro a fenomeni di autossidazione, in particolare i lipidi
di membrana, ma anche proteine, carboidrati ed acidi nucleici. Un'altra importante
sorgente di radicali dell'ossigeno è rappresentata dalle radiazioni provenienti dall'ambiente,
sia naturali (radon, raggi UV, raggi cosmici ecc.) che provenienti da sorgenti artificiali. In
aggiunta a questa generazione inevitabile, la produzione di alcune di queste sostanze
avviene deliberatamente in vivo. Ad esempio i fagociti (neutrofili, monociti, macrofagi,
eosinofili), responsabili delle risposte immunitarie dell’organismo, generano O2.-, H2O2 e
(nel caso dei neutrofili) acido ipocloroso come meccanismi per eliminare gli organismi
41
estranei. Per ragioni simili possono essere generate anche RNS. Alcune RNS, come il
radicale NO, sono anche utili ma tossiche se presenti in eccesso. Altre, quali il radicale del
biossido di azoto (NO2.) ed il perossinitrito (ONOO-) sono probabilmente sempre dannose.
Infine anche l'esposizione ad agenti tossici o inquinanti (ad es. tetracloruro di carbonio e
prodotti di combustione del tabacco) può contribuire alla presenza di ROS e RNS
nell'organismo.
A) Radicale superossido (O2.)
Può essere generato da reazioni di "autossidazione" (es. catecolamine, tetraidrofolati e
flavine ridotte), per interazione dell'ossigeno respiratorio con gli elettroni che talvolta
sfuggono alla catena respiratoria (in particolare nel passaggio ossidoriduttivo tra coenzima
Q e citocromi) e per produzione diretta in alcune reazioni enzimatiche specifiche. Il
radicale superossido ha un ruolo fondamentale nella risposta immunitaria e/o
infiammatoria, è prodotto, infatti, deliberatamente dai fagociti (neutrofili, monociti,
macrofagi, eosinofili) e li aiuta a inattivare virus e batteri. Sembra che venga prodotto in
vivo anche da cellule diverse dai fagociti, compresi linfociti e fibroblasti. Si ritiene che il
superossido prodotto da tali cellule sia anche coinvolto nelle trasmissioni intracellulari e
nella regolazione della crescita. Può essere molto reattivo nel mezzo organico (membrana
citoplasmatica), ma non nel mezzo acquoso e reagisce rapidamente con poche molecole. Il
radicale superossido non è quindi tossico di per sé se non su alcune molecole di minor
importanza. Per quanto riguarda la capacità di permeare le diverse membrane cellulari,
questo radicale sembrerebbe in grado di diffondere all'interno degli eritrociti, passando
attraverso il canale anionico di membrana, per essere successivamente metabolizzato.
L’esistenza di bersagli sensibili all'O2.- nelle cellule umane rimane da stabilire, sebbene
sembra essere in grado di inattivare il complesso NADH deidrogenasi della catena di
trasporto elettronico mitocondriale. Un’eccezione alla scarsa reattività del radicale
superossido è la sua rapida combinazione con il radicale NO per formare perossinitrito.
B) Perossido di idrogeno (H2O2)
Il perossido di idrogeno, specie non radicalica, viene generata in vivo a partire dal radicale
superossido tramite una reazione non enzimatica oppure catalizzata dalla superossido
dismutasi, oppure prodotto direttamente per opera di numerose ossidasi. Anch'esso è
scarsamente reattivo come il precedente, ma ad elevate concentrazioni può attaccare
42
certe cellule bersaglio. In condizioni normali è rapidamente neutralizzato dall'azione delle
catalasi e delle glutatione perossidasi. Il perossido di idrogeno è in grado di attraversare
velocemente le membrane cellulari e di diffondere in altri distretti cellulari e tessutali,
propagando così i processi degenerativi di perossidazione. Sono stati ipotizzati alcuni ruoli
metabolici, esempi sono il suo utilizzo durante la biosintesi dell'ormone tiroideo e la
regolazione dell'espressione genica tramite la sua influenza sul fattore citoplasmatico di
trascrizione NF-KB.
C) Radicale idrossile (OH-)
Il radicale idrossile può formarsi, con meccanismi diversi, a partire da O2.- e H2O2 per
opera di radiazioni elettromagnetiche a bassa lunghezza d'onda (es. raggi gamma) e
radiazioni UV. È uno dei radicali liberi più reattivi e tossici, è in grado, infatti, di reagire e
danneggiare tutte le macromolecole cellulari (proteine, carboidrati, DNA e lipidi),
alterandone struttura e funzionalità e dando origine a nuovi radicali che possono
propagare all'infinito i danni dei processi perossidativi cellulari. Una volta formato
danneggia qualsiasi cosa si trovi nelle vicinanze e non migra quindi a distanze significative
entro la cellula.
D) L’Ossido Nitrico (NO)
Il radicale NO è sintetizzato dalle cellule endoteliali vascolari, dai fagociti, da alcune cellule
cerebrali e da molti altri tipi di cellule. Ha molte funzioni utili, è infatti un agente
vasodilatatore e probabilmente un importante neurotrasmettitore, ma in eccesso è tossico:
si ritiene che una sua produzione eccessiva rappresenti un importante meccanismo di
danno tessutale in condizioni quali infiammazioni croniche, ictus e shock settico. È forse
anche coinvolto nel killing di parassiti da parte dei macrofagi che possiedono la NO-sintasi
inducibile da varie citochine e INF-
. In generale è scarsamente reattivo con molecole
non radicaliche, ma reagisce rapidamente con il superossido e diversi altri radicali. Un
eccesso di NO è citotossico sia direttamente sia indirettamente in seguito alla formazione
di ONOOE) Perossinitrito (ONOO-)
È prodotto dalla reazione tra NO e O2.- e può causare un danno biologico diretto ossidando
i gruppi –SH di proteine, enzimi, ecc. Inoltre a pH fisiologico può decomporsi producendo
numerosi prodotti dannosi tra cui il radicale del biossido di azoto (NO2.), potente iniziatore
43
di perossidazione lipidica nelle membrane biologiche, il radicale idrossile e lo ione nitronio
(NO2+), un agente attivo nella nitrazione di anelli aromatici. Il perossinitrito, formato a
livello dell’endotelio vascolare, può aggravare l’arteriosclerosi esaurendo gli antiossidanti e
causando la perossidazione delle LDL. Inoltre la nitrazione di aminoacidi aromatici ad
opera del perossinitrito può interferire con la trasduzione del segnale cellulare. Anche il
bilancio tra RNS e ROS è importante per determinare il danno tessutale. L’ossido nitrico
oltre a reagire molto rapidamente con il radicale superossido per generare perossinitrito,
reagisce anche con perossiradicali lipofilici per generare alchilperossinitrati (ROONO). Tali
prodotti appaiono molto più stabili del perossinitrito. Se gli alchilperossidi possono essere
metabolizzati senza rilascio di radicali liberi tossici allora la loro formazione è
potenzialmente benefica perché fa sì che il radicale NO inibisca la perossidazione lipidica. Il
rapporto tra NO e ROS è quindi molto importante: un rapporto NO/O2.- di 1:1 genera
ONOO- e induce la perossidazione lipidica, mentre un eccesso di NO può inibirla
funzionando da "scavenger" dei radicali perossidici. Oltre alle normali reazioni biochimiche
di ossidazione cellulare, contribuiscono alla formazione dei radicali liberi:
· alcune disfunzioni e stati patologici come le malattie cardiovascolari, l'artrite reumatoide,
gli stati infiammatori in genere, i traumi al sistema nervoso, ecc.;
· l’ischemia dei tessuti e conseguente riduzione dell’apporto di sangue;
· le diete troppo ricche di proteine e di grassi animali saturi;
· gli alimenti non tollerati;
· la presenza di un eccesso di ferro che, nella prima fase della trasformazione, fa liberare
dal perossido di idrogeno il radicale ossidrile, che è in grado di attivare reazioni chimiche
ulteriormente dannose;
· l’azione dei gas inquinanti e delle sostanze tossiche in genere (monossidi di carbonio e
piombo prodotti dalla combustione dei motori; cadmio, piombo e mercurio prodotti
dall’attività industriale; idrocarburi derivati dalle lavorazioni chimiche, ecc.);
· il fumo di sigaretta, che è una vera e propria miniera di sostanze chimiche;
· l’eccesso di alcool;
· le radiazioni ionizzanti e quelle solari (ozono in eccesso e raggi UVA e UVB). Le radiazioni
solari inducono sulla pelle processi di fotoossidazione che degradano gli acidi grassi
polinsaturi delle membrane cellulari e conseguente formazione di radicali liberi;
44
· i farmaci;
· l’attività fisica intensa, sia di resistenza organica che di forza muscolare, causa un
incremento notevole delle reazioni che utilizzano l’ossigeno (aumento della respirazione
polmonare e dell’attività dei mitocondri delle cellule muscolari, ecc.) e conseguente surplus
di formazione di perossido di idrogeno. Anche le reazioni biochimiche legate all’accumulo e
rimozione dell’acido lattico dai muscoli affaticati, contribuiscono ad innalzare la soglia dei
radicali liberi.
Secondo alcuni studiosi, la lisi della membrana cellulare da parte dei radicali liberi
(perossili), è una delle cause del dolore muscolare. Lo stesso avviene per i globuli rossi,
contribuendo a determinare o accentuare l’anemia negli atleti. L’atleta allenato è
comunque in grado di fronteggiare la presenza di radicali liberi in maniera nettamente più
efficace del sedentario o di chi pratica attività fisica saltuariamente.
Quando respiriamo, introduciamo ossigeno. Il 95% circa di questo ossigeno viene
utilizzato dalla cellule per produrre energia; mentre la parte rimanente dà origine ai
radicali liberi. Questo è un processo fisiologico, normale, e l’organismo di una persona
sana è attrezzato per fare fronte alla presenza di questi radicali liberi difendendosi con un
proprio sistema anti-radicali, che si chiama sistema antiossidante.
Questo sistema antiossidante comprende meccanismi enzimatici e meccanismi nonenzimatici. Tra i primi vi è la superossidodismutasi, la catalasi e il glutatione ridotto. Tra le
sostanze non enzimatiche ricordiamo la Vitamina E, la Vitamina C, i carotenoidi, i
polifenoli, le antocianine, ecc.
Pertanto, alla formazione di radicali liberi il nostro organismo risponde mediante il suo
sistema antiossidante.
Se però il quantitativo di radicali liberi prodotto è superiore a quello fisiologico, il nostro
sistema antiossidante non è più in grado di neutralizzare questo eccesso, per cui i radicali
liberi aggrediscono le cellule, provocando danni più o meno gravi (stress ossidativo).
L’azione distruttiva dei radicali liberi è indirizzata soprattutto sulle cellule, in particolare sui
lipidi che ne formano le membrane (lipoperossidazione), sui carboidrati e sui fosfati, sulle
proteine (enzimi, recettori, carriers) e sugli acidi nucleici (specialmente sul DNA) dove
alterano le informazioni genetiche.
45
L’azione continua dei radicali liberi si evidenzia soprattutto nel precoce invecchiamento
delle cellule e nell’insorgere di varie patologie gravi come il cancro, malattie dell’apparato
cardiovascolare, diabete, sclerosi multipla, artrite reumatoide, enfisema polmonare,
cataratta, morbo di Parkinson e Alzheimer, dermatiti, ecc.
1.4 Danno ossidativo
ROS e RNS sono in grado di interagire e danneggiare tutte le macrostrutture che
compongono i diversi distretti delle nostre cellule.
Il danno ossidativo
A) Acidi nucleici (DNA e RNA)
Sia le loro basi azotate che le loro componenti saccaridiche si sono dimostrate sensibili
all'attacco di queste sostanze. Diverse ROS e RNS sono in grado di causare alterazioni
strutturali del DNA, attivare o inibire alcune vie di trasduzione del segnale, bloccare la
comunicazione tra cellule, modulare la crescita cellulare, la differenziazione e la morte per
apoptosi o necrosi, danneggiare proteine, quali enzimi di riparazione del DNA e DNA
polimerasi, diminuendo probabilmente la fedeltà della replicazione. La chimica del danno
del DNA, da parte di numerose ROS e RNS, è stata ben caratterizzata in vitro. Il radicale
46
nitrossido ed i prodotti da esso derivati possono causare nitrosazione e deaminazione di
amino gruppi nelle basi del DNA determinando mutazioni puntiformi. Mentre il superossido
ed il perossido di idrogeno non reagiscono con le basi del DNA, il radicale OH. genera una
molteplicità di prodotti a partire da tutte e quattro le basi azotate e attacca anche il
desossiribosio. In contrasto l’O2.- sembra attaccare selettivamente la guanina. Danni
ossidativi del DNA sembrano verificarsi continuamente in vivo a bassi livelli; i prodotti
dell'ossidazione delle basi puriniche e pirimidiniche sono caratteristici dell'attacco da parte
del radicale OH., suggerendo che la sua formazione si verifica in vivo dentro il nucleo,
poiché tale radicale reagisce solo al suo sito di formazione.
B) Proteoglicani
Si tratta di molecole di peso molecolare elevato, che rientrano nella composizione
strutturale
del
parenchima
tissutale.
L’attacco
radicalico
promuove
una
rapida
frammentazione e depolimerizzazione di questi composti danneggiando irreversibilmente la
loro organizzazione strutturale e funzionale.
C) Lipidi
Gli acidi grassi polinsaturi dei fosfolipidi di membrana e del doppio strato lipidico dei
mitocondri sono i più suscettibili nel subire un danno ossidativo. L'iniziazione di una
sequenza di perossidazione in una membrana deriva dall'attacco di una qualsiasi specie
con reattività sufficiente a staccare un atomo di idrogeno da un gruppo metilenico. La
presenza di un doppio legame nell'acido grasso facilita la rimozione dell'idrogeno. Diverse
specie chimiche sono in grado di agire come iniziatori della perossidazione lipidica, quali
l'ossigeno singoletto, il perossido di idrogeno ed i radicali superossido. Un'estesa
perossidazione lipidica nelle membrane biologiche causa perdita di fluidità, cadute nel
potenziale di membrana, aumentata permeabilità agli ioni idrogeno e ad altri ioni e
eventuali rotture che portano al rilascio del contenuto della cellula o degli organelli.
Il gruppo perossidico, formatosi per ossidazione degli acidi grassi, è molto più idrofilico di
quello originario e tende a portarsi nella regione superficiale del doppio strato lipidico,
ripiegando ad U la catena acilica dell'acido grasso. La conseguenza principale di questa
nuova configurazione è l’aumento dell'ingombro sterico del fosfolipide con conseguente
alterazione strutturale e funzionale della membrana nonchè facilitazione dell'azione della
fosfolipasi A2 con ulteriore aggravio del danno cellulare. Anche alcuni prodotti terminali
47
della frammentazione dei perossidi sono citotossici; in particolare aldeidi, quali
malonaldeide (MDA) e 4-idrossinonenale possono causare danni alle proteine e al DNA.
D) Proteine
Le reazioni chimiche risultanti dall'attacco di ROS e RNS alle proteine sono complesse.
L'attacco dei radicali liberi può generare perossidi delle proteine, che possono decomporsi
in modo complesso. È stato evidenziato il danneggiamento di particolari aminoacidi in base
alla formazione di specifici derivati (ad esempio L-diidrossifenilalanina, 8-ossiistidina ecc.).
Diversi ROS possono attaccare gli aminoacidi nelle proteine (in particolare istidina,
arginina, lisina e prolina) producendo funzioni carboniliche. Il danno ossidativo alle
proteine può essere di particolare importanza in vivo, sia di per sé (alterazione di recettori,
enzimi, proteine di trasporto ecc. e possibile formazione di nuovi antigeni che provocano
risposte immunitarie), sia perché può contribuire al danneggiamento secondario di altre
biomolecole (inattivazione di enzimi di riparazione del DNA e perdita di fedeltà delle
polimerasi del DNA nella replicazione). Tra le proteine enzimatiche quelle che risentono
per prime dell'attacco dei radicali liberi e si denaturano sono la fosfofruttochinasi della via
glicolitica ed il complesso 1 della catena respiratoria. L’inattivazione di questi due enzimi
può risultare di grave danno per il metabolismo energetico cellulare. A livello tissutale il
danno ossidativo si esprime quindi attraverso una diminuita efficienza delle cellule a
produrre energia, in particolare ATP. Come conseguenza bisogna dunque aspettarsi una
riduzione delle biosintesi ex novo di proteine e glicoproteine, acidi nucleici, fosfo- e
glicolipidi. La diminuita sintesi di questi composti provoca una minore efficienza dei
processi riparativi, con conseguente progressiva alterazione strutturale della membrana,
che si manifesta con una sempre più accentuata diminuzione della fluidità. L'irrigidimento
delle membrane biologiche è causato anche dalla formazione di legami crociati proteinaMDA-proteina, proteina-MDA-fosfolipide o fosfolipide-MDA-fosfolipide. La diminuita fluidità
del doppio strato lipidico è causa di ulteriori danni metabolici alle cellule. Le proteine di
membrana perdono infatti parte della loro possibilità di movimento con conseguente
minore capacità di assolvere il loro ruolo funzionale e biologico. Si pensi ad esempio alle
proteine enzimatiche, alle proteine recettoriali, ai canali ionici proteici, alle proteine di
trasporto transmembrana ecc. In particolare queste alterazioni strutturali comportano un
aumento sia del Ca2+ sia del K+ all'interno delle cellule.
48
Come conseguenza risultano attivati tutti gli enzimi endocellulari Ca2+-dipendenti, tra cui le
fosfolipasi (A2, A1, C e D) e la digliceride lipasi. L’attivazione di questi enzimi promuove un
aumento del catabolismo delle componenti lipidiche delle membrane e la massiccia
liberazione di acidi grassi, in particolare PUFA (polinsaturi), con conseguente maggiore
probabilità di andare incontro a processi perossidativi. Risultano inoltre attivate le
endonucleasi e le proteasi Ca2+-sensibili, e ciò comporta un’accentuazione dei processi
catabolici a carico rispettivamente degli acidi nucleici e delle proteine cellulari.
L'aumento di K+ endocellulare provoca invece inibizione di alcuni enzimi endocellulari
sensibili alle variazioni della forza ionica K+-dipendente, tra cui le sintetasi degli acidi
nucleici e le protein-sintetasi ribosomali. Il quadro che in definitiva risulta è quello di
un'attività sinergica di questi due ioni nel modulare in senso negativo le capacità delle
cellule a rinnovare le proprie strutture enzimatiche: il Ca2+ contribuisce a promuovere il
catabolismo ed il K+ interviene invece a rallentare le sintesi ex-novo. Tale processo porta
in tempi più o meno lunghi ad una perdita sempre maggiore di efficienza e ad un
invecchiamento sempre più precoce del tessuto danneggiato. Oltre che a livello cellulare e
tissutale, i fenomeni ossidativi giocano un ruolo importante anche a livello dei liquidi
circolanti. Le lipoproteine ematiche sono suscettibili di processi di ossidazione. È stato
dimostrato, che la perossidazione dei lipidi e delle apolipoproteine è la causa principale
delle modificazioni conformazionali sia delle LDL che delle HDL e che queste lipoproteine
ossidate (ox-LDL e ox-HDL) concorrono alla formazione delle lesioni arteriosclerotiche. Le
ox-LDL sono fagocitate dai macrofagi attraverso recettori scavenger non autoregolabili, al
contrario dei recettori normali per le LDL non ossidate; la quantità di lipoproteine
fagocitabili non viene quindi più regolata dalla concentrazione locale di colesterolo e ciò
può portare, in breve tempo, alla trasformazione del macrofago in cellula schiumosa. Le
ox-HDL svolgono un ruolo sinergico nei processi di degenerazione, perdono infatti la
normale capacità di rimuovere i lipidi, in particolare il colesterolo, dalle cellule schiumose
che pertanto possono andare più velocemente incontro alle trasformazioni degenerative,
che portano alla formazione della placca ateromasica. Inoltre sia le ox-LDL sia le ox-HDL
contengono lipoperossidi altamente tossici, che possono essere rilasciati provocando uno
stato di irritazione tra le cellule della parete arteriosa, causando una serie di effetti
collaterali. Le lipoproteine ossidate possono anche innescare una reazione infiammatoria di
49
tipo immunitario, stimolare le cellule endoteliali a rilasciare sostanze biologicamente attive,
modificare l'omeostasi dei prostanoidi e favorire l'aggregabilità piastrinica.
1.5 Meccanismi di difesa
Gli organismi aerobi hanno sviluppato difese antiossidanti per proteggersi dagli effetti
tossici dei livelli correnti di ossigeno atmosferico (circa 21%), pertanto subiscono effetti
dannosi se esposti a concentrazioni superiori. Nel tentativo di proteggersi contro il danno
ossidativo tali organismi, compresi gli esseri umani, utilizzano una serie di sistemi di difesa
antiossidanti, dislocati in modo strategico, nei vari distretti cellulari. All'interno della cellula
sono localizzati gli specifici enzimi, che interagiscono con le specie reattive dell'ossigeno: la
superossido dismutasi, presente nel citosol e nei mitocondri, la catalasi localizzata nei
perossisomi e la glutatione perossidasi. La maggior parte della stabilità e protezione delle
membrane
deriva
dall'azione
degli
antiossidanti
di
membrana
rappresentati
prevalentemente dall'D-tocoferolo, dal E-carotene e dal coenzima Q (Figg. 14, 15).
Fig.14 Struttura chimica di Į-tocoferolo e DŽ-tocoferolo
50
Fig.15 Struttura chimica di ǃ-carotene e coenzima Q
La protezione antiossidante extracellulare si è evoluta principalmente per mantenere il
ferro e il rame in forme non reattive o scarsamente reattive; esempi ne sono la
transferrina e la lattoferrina. Nel plasma sono inoltre presenti proteine, quali le aptoglobine
e l'emopessina, che legano rispettivamente l'emoglobina e il ferro dell'eme e diminuiscono
la loro abilità ad accelerare la perossidazione lipidica. Altri importanti antiossidanti
plasmatici sono: vitamina E (miscela di D-tocoferolo racemico), acido urico, bilirubina,
acido ascorbico e l’acido lipoico in virtù dei suoi gruppi tiolici (Fig.16).
Fig.16 Struttura chimica di acido urico, acido ascorbico, acido lipoico e acido diidrolipoico
51
I meccanismi di difesa operano a diversi livelli, prevenendo la formazione di radicali,
intercettandoli una volta formati, riparando il danno ossidativo una volta prodotto,
aumentando
l'eliminazione
di
molecole
danneggiate,
non
riparando
molecole
eccessivamente danneggiate per minimizzare le mutazioni. La prima linea di difesa contro i
ROS è ovviamente la protezione contro la loro formazione, cioè la prevenzione. In questo
ambito, la chelazione degli ioni metallici, in particolare ferro e rame, è un importante
meccanismo di difesa per prevenire o comunque rallentare l'iniziazione delle reazioni
radicaliche a catena. Le proteine leganti metalli presenti nel plasma, quali ferritina,
transferrina ed altre, sono quindi di importanza fondamentale in questa strategia, che
rappresenta il mezzo principale per controllare la perossidazione lipidica e la
frammentazione del DNA. Tra i meccanismi di prevenzione bisogna inoltre ricordare la
presenza, in alcune cellule, di sistemi di protezione contro le radiazioni incidenti (es.
melanina per le radiazioni UV) e la struttura di alcuni enzimi che pur generando specie
radicaliche sono costruiti in modo da evitarne il rilascio. La seconda linea di difesa è
l'intercettazione, questo è il campo di azione degli antiossidanti in senso stretto. Il
meccanismo di base consiste nell'intercettare, una volta formate, le specie in grado di
provocare danni, bloccando la loro attività. Per i composti radicalici, la disattivazione
consiste nella formazione di prodotti finali non radicalici. Un secondo obiettivo è trasferire
la funzione radicalica lontano dai siti bersaglio più sensibili, verso compartimenti nei quali
un’alterazione ossidativa potrebbe essere meno dannosa. In generale ciò significa
trasferire le sostanze ossidanti dalle fasi idrofobiche alle fasi acquose (ad es. dalla
membrana al citosol o dalle lipoproteine alla fase acquosa del plasma). Gli antiossidanti più
efficienti combinano entrambe le proprietà: dapprima reagiscono con i radicali liberi e poi
sono capaci di interagire con composti solubili in acqua per rigenerarsi. Un prerequisito,
per un’efficiente intercettazione, risiede nel tempo di vita dei radicali, ad es. il radicale
idrossile, a vita estremamente breve, non può essere intercettato con efficienza
ragionevole. Alcuni antiossidanti vengono sintetizzati direttamente dal nostro organismo, si
tratta di sostanze di natura enzimatica e di specie a basso peso molecolare, esempi sono:
superossido dismutasi, catalasi, glutatione perossidasi, antiossidanti tiolici specifici, urati,
glutatione e ubichinolo (coenzima Q ridotto). Altri vengono assunti con la dieta, come ad
esempio tocoferoli, carotenoidi e ascorbato. Infine alcuni composti, anziché presentare
52
un'azione antiossidante diretta, agiscono regolando le difese antiossidanti endogene e/o
inibendo la generazione di ROS e RNS. Dato che i processi di prevenzione e di
intercettazione non sono completamente efficaci, la protezione dagli effetti degli ossidanti
si ha anche mediante riparazione del danno, una volta che si è verificato. I sistemi di
riparazione possono essere sia diretti che indiretti. La riparazione diretta è stata dimostrata
per poche classi di molecole ossidate, come nel caso della rottura di ponti disolfuro ad
opera della disolfuro reduttasi o della rigenerazione della metionina ad opera della
metionina solfossido reduttasi. Nel caso della riparazione indiretta, si ha dapprima il
riconoscimento
e
la
rimozione
o
degradazione
della
molecola
danneggiata
e
successivamente la sua sostituzione. Ci sono sistemi di enzimi multipli coinvolti nella
riparazione del DNA, lipidi e proteine. La riparazione del danno sul DNA, causato da ROS e
RNS, è particolarmente importante, poiché l'attacco costante da parte di queste specie al
genoma nel corso dell'intera vita umana, può contribuire allo sviluppo di tumori spontanei
correlati all'età e anche ai processi di invecchiamento.
L’ACIDO Alfa LIPOICO (ALA) ha due funzioni principali: coenzima del metabolismo
cellulare e antiossidante.
Come coenzima del metabolismo cellulare:
ƒ ha un ruolo centrale nel funzionamento delle deidrogenasi che sono preposte alla
decarbossilazione ossidativa dei chetoacidi;
ƒ nel ciclo di Krebs interviene nella conversione del glucosio e acidi grassi favorendo la
trasformazione dell'acido piruvico in acetiCoA;
ƒ è una componente mobile della membrana interna mitocondriale posta lungo la catena
di trasporto degli elettroni per la sintesi di ATP.
Come antiossidante, rappresenta uno scavenger di radicali liberi nel corso del danno
ossidativo; ha rilevante capacità di rigenerare altri antiossidanti come la Vitamina C, la
Vitamina E, il coenzima Q e il glutatione; incrementa la disponibilità di quello che è
considerato il più potente antiossidante intracellulare: il glutatione.
Esperimenti compiuti su topi sottoposti ad esercizio esaustivo hanno dimostrato che una
dieta arricchita con 150 mg/kg/die di acido lipoico:
- impedisce la diminuzione dell'attività della glutatione-transferasi indotta dall'esercizio
fisico
53
- protegge il muscolo dal danno ossidativo contrasta la perossidazione lipidica delle
membrane.
1.6 La pianta dell’olivo e il suo frutto
1.6.1 L’olivo tra mito e storia
L’olivo è considerato l’albero-tipo del clima mediterraneo al punto che i limiti settentrionali
e occidentali della coltura sono stati scelti dai fitografi per definire la "regione
mediterranea". Ma le origini di quest’albero sono molto più remote. Tracce fossili dell’olivo
spontaneo, nella zona mediterranea, portano la data di milioni di anni fa, prima cioè della
comparsa dell’uomo.
Nell’Antico Testamento è proprio un ramoscello d’olivo, portato nel becco di una colomba,
ad annunciare a Noè la fine del diluvio. Nella mitologia greca la leggenda più nota a
riguardo, è la sfida tra Atena e Poseidone per il possesso della città di Atene. Poseidone fa
sbucare dalla foresta un meraviglioso cavallo, mentre Atena fa nascere dalle viscere della
terra un nuovo albero: l’olivo. Zeus giudica vincitrice la dea sua figlia, sostenendo che il
cavallo è per la guerra mentre l’olivo è per la pace. Impossibile non menzionare infine, i
sacri olivi di Olimpia, con i cui serti si incoronavano i vincitori delle Olimpiadi.
In epoca storica gli Egizi consideravano l’olio d’oliva un dono degli dei, gli Ebrei lo
adoperavano per "ungere" il loro Re. Pare che in Italia la cultura dell’olivo sia stata
introdotta dai Greci che, come già accennato, lo consideravano un dono della dea Atena.
L’olivo veniva usato per cosmesi, medicina e illuminazione, ma il suo posto d’onore era già
in cucina, in ricette che si avvicinavano molto a quelle della nostra attuale "Dieta
Mediterranea". Lo testimoniano i leggendari trattati di Apicus, uno dei primi gastronomi
della storia.
1.6.2 Cenni di botanica
È una pianta che appartiene al genere Olea (famiglia Oleaceae) ed è coltivato
principalmente per l’estrazione di olio alimentare che si ricava dai suoi frutti ed in minor
misura per la produzioni di olive da tavola che, opportunamente trattate, vengono
consumate direttamente.
Il genere olea ha origine nella regione compresa tra l’acrocoro armeno, il Pamir ed il
Turkestan, da dove si è diffuso nell’area del Mediterraneo.
54
Delle varie specie di Olea quella che più ci interessa è l’Olea europea. Si tratta di una
pianta sempre verde, molto lenta nell’accrescimento e nell’entrata in fase di produzione,
ma in compenso di notevole longevità; talvolta vive anche per alcuni secoli e infatti vi
sono piante di olivo alle quali si attribuiscono 2000 e più anni di vita.
L'Olea europaea appartenente alla sottospecie sativa di cui sono state selezionate nel
corso dei secoli una serie di varietà coltivate (cultivar), che sono poi divenute
caratteristiche delle delle diverse zone di produzione del bacino del Mediterraneo. Il
numero delle varietà coltivate è notevole, circa 500. I frutti (drupe) sono di forma ovoidale
e peso variabile compreso tra 2 e 12 g. La drupa è costituita, dall’esterno verso l’interno,
dall’epicarpo, dal mesocarpo o polpa, e dall’endocarpo o nocciolo. Le olive maturano tra
novembre e febbraio e il momento in cui devono essere colte varia secondo la posizione
dell'oliveto, la sua esposizione e in rapporto ai fattori meteorologici e climatici che hanno
influenzato l'annata. Un olivo, in coltivazione tradizionale, può produrre dai 20 ai 30 kg di
drupe per anno. L'oliva è costituita da acqua per circa il 35-40% e da olio per circa il 1535%. Ci sono poi le materie solide (cellulosa, zuccheri, proteine) presenti per circa il 2540%. L'olio è localizzato prevalentemente nella polpa (96% circa) e, in piccola parte, nel
nocciolo (4% circa). Nei due casi è inoltre differente la composizione in acidi grassi, con un
rapporto insaturi/polinsaturi maggiore nella polpa. Il fattore che viene maggiormente
ricercato per la selezione delle cultivar, adatte alla produzione dell’olio di oliva, è
rappresentato dalla resa di estrazione, che deve essere elevata ed è normalmente
compresa tra 14% e 30%.
1.6.3 La nuova classificazione dell’olio d’oliva
L’olio di oliva è il prodotto ottenuto mediante il processo tecnologico di trasformazione
delle olive. Le operazioni eseguite sono: la raccolta, il trasporto, la conservazione, la
politura e il lavaggio, la frangitura, la gramolatura e la separazione dell’olio dalla pasta
oleosa.
Con il termine “olio di oliva” si definiscono in maniera generica tutti gli oli derivanti dalla
lavorazione delle olive; in realtà esso racchiude una gamma di prodotti diversi per qualità
e caratteristiche.
A seguito dell'emanazione del Reg. CEE 2568/91, relativo alle caratteristiche degli oli
d'oliva e degli oli di sansa di oliva nonchè ai metodi ad essi attinenti, l'olio d'oliva viene
55
classificato con riferimento alle sue caratteristiche chimico-fisiche ed organolettiche (panel
test). Con successivo Reg. CEE 356/92 sono state fissate le denominazioni e definizioni
degli oli d'oliva e degli oli di sansa d'oliva, in vigore sino al 31 ottobre 2003.
Con il Reg. Ce 1531/2001 del Consiglio del 23 luglio 2001 sono state fissate le descrizioni e
definizioni degli oli d'oliva e degli oli di sansa di oliva, in vigore dal 1° novembre 2003, che
si riportano qui di seguito:
OLI D'OLIVA VERGINI: Ottenuti dalla sola spremitura delle olive.
Oli ottenuti dal frutto dell'olivo soltanto mediante processi meccanici o altri processi fisici,
in condizioni che non causano alterazioni dell'olio, e che non hanno subito alcun
trattamento diverso dal lavaggio, decantazione, centrifugazione e dalla filtrazione, esclusi
gli oli ottenuti mediante solvente o con coadiuvanti ad azione chimica o biochimica o con
processi di riesterificazione e qualsiasi miscela con oli di altra natura. Detti oli di oliva sono
oggetto della classificazione e denominazioni che seguono:
Acidità
Tipologia
libera
Olio extra vergine di oliva, la cui acidità libera, espressa in acido oleico è al massimo di
0,8 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa
max 0,8%
categoria;
Olio di oliva vergine, la cui acidità libera, espressa in acido oleico è al massimo di 2 g per
100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria;
Olio d'oliva vergine lampante, la cui acidità libera, espressa in acido oleico è superiore a 2
g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria.
max 2,0%
oltre 2,0%
OLIO DI OLIVA RAFFINATO: Olio di oliva ottenuto dalla raffinazione di olio di oliva
vergine con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non superiore a 0,3 g per
100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa categoria;
OLIO DI SANSA DI OLIVA GREGGIO: Olio ottenuto dalla sansa d'oliva mediante
trattamento con solventi o mediante processi fisici, oppure olio corrispondente all'olio
d'oliva lampante, e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa
categoria;
56
OLIO DI OLIVA: Olio ottenuto dal taglio di olio d'oliva vergine diverso dall'olio lampante
e olio d'oliva raffinato, con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non
superiore a 1 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per
questa categoria;
OLIO DI SANSA DI OLIVA RAFFINATO: Olio ottenuto dalla raffinazione di olio di sansa
di oliva greggio, con un tenore di acidità libera, espresso in acido oleico, non superiore a
0,3 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a quelle previste per questa
categoria;
OLIO DI SANSA DI OLIVA: Olio ottenuto dal taglio di olio di sansa di oliva raffinato e di
olio di oliva vergine diverso dall'olio lampante, con un tenore di acidità libera, espresso in
acido oleico, non superiore a 1 g per 100 g e avente le altre caratteristiche conformi a
quelle previste per questa categoria.
I valori previsti dalla normativa, Reg. CEE 2568/91, per la classificazione della categoria
commerciale di un olio d'oliva sono indicati nell'allegano I del regolamento. Qui sono
indicate le caratteristiche chimico-organolettiche degli oli d'oliva.
57
ALLEGATO I DEL REG. 2568/91/CEE - MODIFICATO DA ULTIMO REG. 1989/03/CE
Acidi saturi
Categoria
Acidità
%
Valore dei
perossidi
in posizione
Cere mg/kg
mcq/O2/kg
2 del
K232 K270
trigliceride
DeltaK
Valutazione
Mediana del
difetto (Md)
%
Valutazione
Mediana del
fruttato
(Mf)
1. Olio di
oliva
vergine
M
M
2,50
0,22
M
M
2,60
0,25
M 1,5
-
-
M 350
M 1,8
-
M 15
M 350
M 1,8
-
-
-
m 350
M 2,2
-
M 0,3
M 5
m 350
M 2,2
-
M 1,0
M 15
m 350
M 2,2
-
M 0,8
M 20
M 250
M 1,5
M 2,0
M 20
M 250
M 1,5
M 2,0
-
M 300
M 0,3
M 5
M 1,0
M 0,01
Md=0
Mf>0
M 0,01
Md <= 2,5
Mf>0
-
Md>2,5
-
M 0,16
-
-
M 0,15
-
-
-
-
-
M 0,20
-
-
M 0,18
-
-
extra
2. Olio di
oliva
vergine
3. Olio di
oliva
vergine
lampante
4. Olio di
oliva
raffinato
5. Olio di
oliva
M
1,10
M
0,90
6. Olio di
sansa di
oliva
-
greggio
7. Olio di
sansa di
oliva
M
2,00
raffinato
8 Olio di
sansa
d'oliva
58
M
1,70
Il ciclo dell’olio
Il ciclo dell’olio
1.6.4 Composizione chimica dell’olio di oliva
L’olio d’oliva si presenta allo stato fisico liquido a temperatura ambiente (20 °C), ed è
costituito da un punto di vista chimico per il 98-99% da una miscela di lipidi detta frazione
“saponificabile” e per il rimanente 1-2% da un insieme di composti, i cosiddetti
componenti minori, che rappresentano la frazione “non saponificabile”.
La maggior parte dei lipidi è sottoforma di trigliceridi, formati dall’unione di glicerolo (un
alcool a tre atomi di carbonio) con acidi grassi. Dal tipo e dalla configurazione di questi
dipendono molte delle caratteristiche degli alimenti tra cui il sapore, la consistenza e la
59
digeribilità. Gli acidi grassi di varia lunghezza sono distinti in saturi e insaturi in funzione
della presenza o meno di doppi legami nella loro catena.
L’olio extravergine d’oliva è caratterizzato da una netta prevalenza (73.63 g/100 g di parte
edibile) di acido oleico, un acido grasso monoinsaturo; una minore percentuale
(rispettivamente 13.67 g e 2.23 g/100 g di parte edibile) di acido palmitico e acido
stearico, acidi grassi saturi; ed una discreta percentuale (rispettivamente 7.85 g e 0.99
g/100 g di parte edibile) di acido linoleico e acido linolenico, due acidi grassi polinsaturi.
Questi due ultimi acidi grassi vengono definiti essenziali poiché non possono essere
sintetizzati dall’organismo e debbono necessariamente essere introdotti con la dieta.
L’acido linoleico e l’acido linolenico hanno un importante significato biologico, sono
precursori di fattori protettivi quali le prostaglandine nonchè di altri eicosanoidi (sostanze
ormono-simili) biologicamente importanti per le funzioni che svolgono: influenzano
l’aggregazione piastrinica, la vasodilatazione e costrizione delle arterie coronariche e la
pressione del sangue.
L’equilibrata composizione in acidi grassi e la presenza di sostanze antiossidanti
consentono all’olio extravergine d’oliva di mantenere una buona stabilità.
Le sostanze antiossidanti fanno parte dell’elevato numero dei componenti minori. Oltre ad
essere responsabili della stabilità del sapore, dell’aroma e quindi della palatabilità dell’olio,
esse svolgono azioni favorevoli nei confronti delle numerose patologie come verrà discusso
di seguito. È da sottolineare l’azione sinergica che si stabilisce tra questi componenti.
Questo fa ipotizzare che la loro azione complessiva manifesti un effetto maggiore rispetto
a quello che esercita ciascun componente preso singolarmente.
Questi componenti minori sono rappresentati da:
COMPOSTI DEL CARBONIO: che si formano come prodotti collaterali durante la sintesi
degli acidi grassi. È presente in maggior quantità lo squalene (400-450 mg/100g); e in
quantità minore il E-carotene. Quest’ultimo è dotato di azione vitaminica A e antiossidante. Circa l’80% dello squalene assunto con l’alimentazione viene assorbito,
aumentando così la sintesi del colesterolo. Ciò non comporta un aumento della
colesteromia in quanto viene incrementata la sua eliminazione attraverso le feci. Infine
numerosi studi condotti in Spagna, Grecia ed Italia attribuiscono allo squalene un’azione
preventiva nei confronti del tumore al seno ed al pancreas.
60
CERE: normalmente presenti in minima quantità, raggiungono valori alti negli oli di sansa
per i quali sono un fattore di riconoscimento.
ALCOLI: gli alcoli alifatici sono presenti in piccolissime quantità; in maggior quantità (500
mg/l) sono presenti gli alcoli triterpenici, segno della presenza di olio di sansa decerato.
Alcoli terpenici possono essere presenti sia liberi che esterificati con acidi grassi. Di
particolare interesse è il cicloartenolo la cui azione favorisce l’eliminazione di colesterolo in
seguito ad un aumento della secrezione degli acidi biliari.
STEROLI: sono composti simili al colesterolo e sono sintetizzati in natura a partire dallo
squalene. Sono presenti in notevole quantità: da 110 a 265 mg/100 g di olio. Oltre il 9497% degli steroli è rappresentato da sitosterolo, valori più bassi indicano la presenza di oli
di semi. Altri steroli peculiari dell’olio sono campesterolo e stigmasterolo. Studi
sperimentali ed epidemiologici hanno dimostrato che una dieta ricca di fitosteroli offre una
buona protezione verso tumori al colon–seno e prostata e riducono l’assorbimento
intestinale del colesterolo; inoltre riducono i valori di LDL-colesterolo senza alterare quelli
di HDL-colesterolo, diventando anche fattore protettivo verso le malattie cardiovascolari.
Numerose sono le ipotesi per quanto riguarda il meccanismo d’azione di queste molecole
verso la profilerazione delle cellule tumorali. In particolare l’azione del sitosterolo sulle
cellule neoplastiche si manifesta mediante un aumento dell’apoptosi, cioè della morte
programmata della cellula. Infine recentemente è stata evidenziata una funzione di stimolo
da parte del sitosterolo sulle funzioni del sistema immunitario, in particolare sulla
proliferazione dei linfociti anche se ancora non è noto il meccanismo d’azione.
PIGMENTI COLORATI: sono carotenoidi e clorofilla. La quantità dei carotenoidi è
influenzata da fattori biologici e tecnologici ma mediamente varia da qualche mg a 100
mg/100g di olio. Sono circa 80 i composti ma in particolare sono presenti il E-carotene e la
provitamina A. La presenza di clorofilla è variabile e dipende dal grado di maturazione e
dal sistema di estrazione. La clorofilla svolge un ruolo di eccitamento sul metabolismo, di
stimolo i crescita cellulare e sulla produzione del sangue e di accelerazione dei processi di
cicatrizzazione.
VITAMINE LIPOSOLUBILI: Sono presenti la protovitamina A (ǃ-carotene); vitamina F
(acido linoleico + acido linolenico); vitamina E (Į-tocoferolo con azione antiossidante
61
esaltato dalla azione dei fosfolipidi, la sua presenza è di circa 150-200 mg/100 g);
vitamina C come ascorbil palmitato ed infine vitamina D.
POLIFENOLI: circa il 2-3% della polpa di olive sane e non danneggiate è rappresentato
da sostanza fenoliche sotto forma di glucosidi e di esteri, importanti per la conservazione
dell’olio avendo azione antiossidante. I fenoli sono contenuti nell’olio extravergine d’oliva
di prima spremitura, il contenuto è di 500 mg/l, tale valore è mediamente più alto rispetto
agli oli d’oliva raffinati. L’olio ed in particolare quello vergine contiene oltre all’ Įtocoferolo, una serie di acidi fenolici e di fenoli in gran quantità: idroxitirosolo, tirosolo,
acido siringico, acido vanillico, acido caffeico e l’acido cumarico. L’insieme di tali sostanze
determina una esaltazione della stabilità contro l’ossidazione cui si aggiunge l’attività
complessante sui metalli di alcuni degli acidi fenolici presenti e ciò spiega perché l’olio
extravergine d’oliva sia una delle sostanze grasse che meglio resiste all’ossidazione sia alla
temperatura ambiente che nella cottura. Una importante caratteristica dei polifenoli è
quella di essere biodisponibili, premessa indispensabile perché possano svolgere attività
biologiche nell’organismo. Per biodisponibilità si intende la percentuale del contenuto
totale assorbita e successivamente utilizzata per le sue specifiche funzioni. I polifenoli
svolgono numerosi ruoli protettivi.
ALTRI ELEMENTI: L’olio extravergine contiene l’oleocantale (Decarbossimetil-ligstroside
aglicone), che identifichiamo nel palato con la sensazione di piccante: svolge una funzione
chiave come antiossidante e contrasta i radicali liberi (normali prodotti del metabolismo
cellulare che se presenti in eccesso portano ad un precoce invecchiamento delle cellule ed
all’insorgere di varie patologie).
Sono inoltre presenti: aldeidi, terpeni, esteri, chetoni, ecc. che influenzano la nota
aromatica dell’olio e quindi sono coinvolti nella sua valutazione edonistica.
1.6.5 Caratteristiche dell’olio d’oliva
Caratteristiche tecnico-qualitative dell’olio
Le caratteristiche organolettiche di un olio riguardano il colore, l'olfatto o odore, il gusto ed
il gusto/olfatto. A differenza di molti altri alimenti, le caratteristiche suddette sono
positivamente legate ai composti naturalmente preesistenti nel frutto, mentre sono
negativamente condizionate da alcuni costituenti, la cui genesi ed il cui accumulo sono
62
conseguenti ai processi di alterazione dell'olio (inacidimento ed ossidazione) quando
ancora è presente nel frutto.
Colore - Responsabili di questa caratteristica sono i pigmenti liposolubili: clorofille
(+xantofille) e caroteni. Le prime conferiscono la tonalità giallo-verde, mentre i secondi la
tonalità compresa tra il giallo-rosso (lunghezza d'onda dominante). Poiché con il procedere
della maturazione si assiste ad una perdita di pigmenti liposolubili (clorofille e caroteni) verdi a
vantaggio di pigmenti idrosolubili (antociani) rossi, ne consegue che gli oli più verdi sono quelli
provenienti da olive non ancora completamente nere, tipiche della varietà e delle zone
marginali.
Olfatto - Come è intuibile, i composti responsabili di questa caratteristica sono tutti
volatili. I principali sono: alcoli alifatici, triterpenici e diterpenici, esteri, naturalmente
presenti nel frutto, ed aldeidi, chetoni ed alcoli a 6 atomi di carbonio, saturi ed insaturi, di
neo-derivazione, cioè che si formano al momento della rottura del frutto (molitura). Anche
in questo caso la maturazione incide notevolmente, modificando i rapporti tra questi
costituenti, sicché gli olii possono apparire più o meno pungenti, «fruttati» o dolci, o
addirittura con caratteristiche di mosto parzialmente fermentato.
Gusto - Responsabili di questa caratteristica, oltre i composti già menzionati sono gli acidi
grassi costitutivi ed i polifenoli di recente acquisizione scientifica. Tanto maggiore è la
concentrazione in polifenoli di un olio vergine, tanto migliori, entro certi limiti, sono le sue
caratteristiche organolettiche e stabilità di queste nel tempo; viceversa, tanto minore è il
loro contenuto, tanto più elevato è il grado di alterazione e quindi di scadimento
qualitativo generale attuale e futuro del medesimo.
Gusto/olfatto - È da considerarsi la caratteristica più complessa e completa
coinvolgendo contemporaneamente sia l'olfatto sia il gusto. Poiché questa è l'ultima
operazione, e come tale esamina la persistenza della sensazione ricevuta, viene a
condizionare sostanzialmente il giudizio finale. Essa, come è intuibile, coinvolge sia i
composti volatili sia i non volatili. Una dimostrazione di questa affermazione è fornita con i
dati analitici sensoriali e strumentali riportati nelle tabelle e dalle quali si evidenzia in
particolare che esiste una concentrazione ottimale in polifenoli totali situata tra 200 e 336
mg/kg, determinate ai fini dell'accettabilità del prodotto e prioritaria rispetto al contenuto
in costituenti volatili (Montedoro G, 1985).
63
2. SCOPO DELLA TESI
64
Numerosi sono gli studi epidemiologici che depongono per un ruolo protettivo esercitato
dall’olio extravergine d’oliva. Il modello Mediterraneo offre un valido strumento, come
ampiamente dimostrato in letteratura. L’olio d’oliva è uno degli elementi centrali della dieta
mediterranea e dei suoi vantaggi (Alarcon de la Lastra C, 2001), grazie alle proprietà
antiossidanti, (Masella R et al, 2004; Fito M et al, 2000) antiinfiammatorie (McMahone B et
al, 2004; Simopoulos AP, 2002), di fluidificazione delle membrane biologiche,
antiaggreganti e quindi antiaterosclerotiche (Covas MI et al, 2006).
È stato anche dimostrato che gli acidi grassi monoinsaturi, come l’acido oleico, vengono
assorbiti e utilizzati per la sintesi delle membrane biologiche a cui conferiscono una
maggiore fluidità. Inoltre questi acidi grassi diminuiscono il rischio della perossidazione
lipidica delle lipoproteine circolanti (LDL e HDL), diminuendo in ultima analisi la possibilità
di formazione delle placche aterosclerotiche (Helal O et al, 2012).
Un ruolo protettivo contro l’aterosclerosi è svolto anche dagli antiossidanti che svolgono
un’azione diretta contro i radicali liberi, che si formano nell’organismo e che se presenti in
eccesso possono essere responsabili dell’invecchiamento cellulare e di numerose patologie
(aterosclerosi, alcuni tipi di tumori, diabete, ipertensione, artrite reumatoide e patologie
infiammatorie) (Ozkanlar S et al, 2012).
Il periodo della menopausa è una fase di notevole complessità della vita della donna e
rilevante è la connessione tra fisiologia e fisiopatologia, tra benessere e malattia. La donna
ha di fronte a sé diverse problematiche relative alla propria salute, urgenti ed immediate,
legate alla sintomatologia tipica, ma anche di tipo preventivo, apparentemente non
impellenti e quindi procrastinabili.
Le strategie diagnostiche e terapeutiche sono ormai validate, ma di maggiore impatto
sono le forme di prevenzione che è necessario attuare nei confronti di patologie
cardiovascolari, oncologiche e di osteopenia ed osteoporosi. Come nelle altre fasi della vita
la nutrizione occupa un ruolo di primo piano nell’attuazione di queste misure.
L’osteopenia e l’osteoporosi rappresentano una problematica di primo piano nel quadro
menopausale e quindi anche tutti i possibili interventi per rallentarne la progressione e
ridurre il rischio di evento fratturativo. Raggiungere un adeguato apporto di calcio,
aumentandone l’introito, ma anche favorendone l’assorbimento o influenzando il turn-over
del tessuto osseo (Weaver CM et al, 2002) è possibile con il tradizionale ausilio di alimenti
65
naturalmente ricchi in calcio vitamine D, E, C, K, B6, fitoestrogeni (Lanham-New SA, 2006),
ma recenti ricerche hanno dimostrato la proficua possibilità di utilizzare i cosiddetti “new
foods” per contribuire alla salute dello scheletro e non solo (Bacciottini L et al, 2004).
Nonostante la nostra società sia caratterizzata dal benessere, si assistono ancora fenomeni
di malnutrizione negli adulti, ma soprattutto nei bambini. La malnutrizione acuta (SAM)
nasce come conseguenza di un periodo di improvvisa mancanza di cibo ed è associata con
la perdita di grasso corporeo e del muscolo scheletrico. Coloro che sono colpiti sono già
denutriti e spesso sono suscettibili alla malattia. I neonati e i bambini sono i più vulnerabili
in quanto richiedono un’alimentazione supplementare per la crescita e lo sviluppo, hanno
riserve di energia relativamente limitata e devono dipendere dagli altri. La sotto
alimentazione può avere conseguenze drastiche e di ampio respiro per lo sviluppo del
bambino e la sopravvivenza nel breve e nel lungo termine. Durante l'infanzia, i problemi
alimentari sono piuttosto comuni, e facilmente rilevabili dai pediatri. In alcuni casi si hanno
difficoltà alimentari transitorie, che rappresentano l'espressione di un disturbo minore che
scompare rapidamente. Altri problemi comuni possono includere delle preferenze
alimentari restrittive, come nei bambini chiamati "i palati più esigenti", o che sono in
ritardo nel nutrirsi autonomamente. I problemi più gravi compaiono quando l'insufficiente
alimentazione si accompagna a problemi di mancata crescita.
Per la maggior parte dei bambini, la scarsa crescita è il punto di arrivo di un processo
cronico che coinvolge fattori biologici (medico e/o nutrizionale) e psicologico (sociale e/o
ambientale).
Tutti i bambini con scarsa crescita, tuttavia, hanno una grave malattia organica, che è la
malnutrizione, e mostrano, come conseguenza, una mancanza di micronutrienti (ad
esempio ferro, zinco, vitamine del gruppo B, oligo-minerali, acidi grassi polinsaturi e
vitamine) e una patologia del metabolismo scheletrico.
Nei mammiferi, le ossa vengono rimodellate costantemente attraverso un duplice processo
di riassorbimento osseo mediato dagli osteoclasti e di successiva produzione della matrice
ossea mediata dagli osteoblasti. Questo processo è fondamentale per il normale sviluppo e
mantenimento dello scheletro. Ogni anomalia in questo duplice processo può causare
cambiamenti della forma dello scheletro e della massa scheletrica. La misurazione degli
66
elementi tipici della demolizione della matrice ossea serve a fornire dati analitici relativi alla
velocità del metabolismo osseo.
Pertanto sulla base delle attuali conoscenze e degli studi epidemiologici, le Società
scientifiche propongono delle linee guida dove si raccomanda l’uso di olio extravergine
d’oliva.
L’olio vitaminizzato (VitVOO) è un olio extravergine di oliva arricchito con vitamina D3
(1,25-diidrossi-cholecalciferolo), K1 (fillochinone) e B6 (pyridossal 5' fosfato). In termini
tecnici, si tratta di un processo di “fortificazione” attraverso il quale nutrienti non
energetici (sali minerali e/o vitamine) vengono aggiunti ad un alimento o ad un prodotto
con l’intento di aumentarne il contenuto.
La vitamina K1 (fillochinone) e il gruppo delle vitamine K2 (menachinone) agiscono come
cofattore nella carbossilazione post-trascrizionale delle proteine Gla: in questo processo, i
residui di glutammato sono convertiti in DŽ-carbossiglutammato (Gla).
La vitamina K e le proteine Gla sono note per il loro importante ruolo nella coagulazione
del sangue; inoltre risultano coinvolte nei processi del metabolismo osseo (Vermeer C et
al, 2004). L’osteocalcina (Gla), sintetizzata dagli osteoblasti (Price PA et al, 1976),
costituisce approssimativamente il 20% delle proteine non collageniche presenti nel
tessuto osseo (Hauschka PV et al, 1975; Wallin R et al, 2002). I residui di Gla hanno una
grande affinità per il calcio, con il quale formano complessi essenziali per la funzionalità di
tutte le proteine Gla finora conosciute. Per avere una sufficiente quantità di osteocalcina
carbossilata (cOC), gli osteoblasti hanno bisogno di sufficiente concentrazione di vitamina
K, la cui biodisponibilità deriva essenzialmente dalla dieta (Koshihara Y et al, 1997)
Pertanto, un intake inappropriato porterà alla produzione di osteocalcina sottocarbossilata
(ucOC). La concentrazione sierica di vitamina K varia in relazione con l’apporto dietetico e
non rappresenta un marker affidabile dello stato vitaminico tissutale. Nella popolazione
adulta sana, l’osteocalcina viene carbossilata in quantità variabile, e ciò suggerisce che
l’intake di vitamina K è insufficiente per la carbossilazione completa dell’osteocalcina
(Binkley NC et al, 2000). Si è visto da studi recenti che aumentando l’intake di vitamina K
aumentano significativamente i livelli di osteocalcina carbossilata (Binkley NC et al, 2002).
I metodi di analisi sono stati sviluppati per distinguere tra le frazioni cOC e ucOC
(Gundberg CM et al, 1998; Knapen MH et al, 1996). Il rapporto tra ucOC e cOC (UCR)
67
come quello dei livelli della ucOC circolante vengono utilizzati come indicatori dello stato di
vitamina K e del metabolismo osseo (Vermeer C et al, 2004; Sokoll LJ et al, 1996; Sokoll
LJ et al, 1997); i livelli di UCR sono probabilmente il marker più appropriato (Vermeer C et
al, 2004). I benefici della vitamina K sul metabolismo osseo e la prevenzione delle fratture
ossee sono molto ben descritte nella popolazione adulta (Cockayne S et al, 2006; Szulc P
et al, 1994).
La vitamina D insieme alle vitamine E ed A, ha dimostrato di essere un antiossidante. In
uno studio recente, mentre si studiavano gli effetti antiossidanti della vitamina D nelle
cellule della prostata, è stato scoperto che la forma attiva della vitamina D, 1 alfa, 25diidrossivitamina D3, potrebbe proteggere le linee cellulari umane epiteliali non maligne di
prostata, dalla morte cellulare indotta dallo stress ossidativo. Anche per la vitamina K è
stato trovato un ruolo antiossidante nei riguardi dei lipidi. Infine, la vitamina B6 che è ben
nota nella sua forma biochimicamente attiva, il piridossal-5'-fosfato, è un cofattore di
numerosi enzimi metabolici. Questa vitamina è anche implicata in numerose funzioni del
corpo umano (ad esempio modula la funzione ormonale o può anche agire come un
antiossidante).
Durante il I ANNO di Dottorato lo scopo del nostro studio è stato quello di misurare la
frazione ucOC e il rapporto UCR in donne adulte sane prima (T0) e dopo (T2) 3 mesi di
supplementazione orale di 20 ml/die di VitVOO come precedentemente verificato in uno
studio preliminare su 15 donne per 3 settimane (Vignini A et al, 2008). Considerando
inoltre le proprietà nutraceutiche dell’olio d’oliva, legate all’apporto di acidi grassi essenziali
ed acido oleico e composti antiossidanti (Battino M et al, 2004; Caramia G et al, 1998;
Caramia G et al, 1999a; Caramia G et al, 1999b), sulle stesse pazienti è stato analizzato il
ruolo che l’assunzione sistematica di olio extravergine supplementato potesse svolgere
sulla difesa contro il danno ossidativo, dovuto alla formazione di radicali liberi plasmatici e
sull’eventuale effetto di fluidificazione delle membrane biologiche, nel caso particolare
piastriniche.
Durante il II ANNO di Dottorato lo scopo del nostro studio è stato quello di verificare in
donne in menopausa, prima (T0) e dopo (T1) 1 anno di supplementazione orale di 20
ml/die di olio VitVOO e di un olio extravergine non vitaminizzato usato come placebo
(PlaVOO), l’eventuale beneficio di tale assunzione sulla densità minerale ossea misurata
68
con la MOC, attraverso l’azione svolta dalle componenti vitaminiche di arricchimento; in
particolare
abbiamo
valutato
l’attività
della
vitamina
K,
misurando
la
frazione
sottocarbossilata di osteocalcina e l’UCR.
Durante il III ANNO di Dottorato lo scopo del nostro studio è stato, nella I PARTE, quello
di verificare se 1 anno di supplementazione orale sia con 20 ml/die di VitVOO o 20 ml/die
di PlaVOO, sia in grado di controbattere gli effetti negativi dello stress ossidativo in
soggetti sani in post-menopausa randomizzati in doppio cieco, andando a misurare i
lipoperossidi lipidici (TBARs), gli idroperossidi lipidici, i dieni coniugati, e la capacità totale
antiossidante (TAC).
Nella II PARTE abbiamo valutato il riassorbimento osseo attraverso l’escrezione urinaria di
NTx in bambini di età compresa tra 18-24 mesi con una diagnosi di inappetenza prima e
dopo l'integrazione con VitVOO e olio extravergine non supplementato usato come placebo
(PlaVOO).
Infatti, la scoperta della presenza nell’urina di N-telopeptidi a catena crociata di collagene
di tipo I (NTx) ha reso disponibile un marker biochimico specifico del riassorbimento osseo
umano che può essere analizzato attraverso test immunologici.
69
3. MATERIALI E METODI
70
3.1 Reclutamento dei soggetti in studio
I ANNO
Lo studio ha previsto il reclutamento di 60 donne di età compresa tra 25 e i 45 anni. Criteri
di esclusione: età > 45 anni; BMI >30, assunzione di fumo ed alcool, patologie e terapie
farmacologiche in atto in grado di interferire con l’omeostasi calcica, la deposizione di
calcio all’interno della matrice ossea e con il metabolismo della vitamina D.
Le caratteristiche dei soggetti studiati sono riassunte nella Tabella 1.
Variabili (unità di misura)
Soggetti reclutati (n = 60)
Età (anni)
32.5 ± 7.5
Indice di massa corporea (BMI) (kg m-2)
24.5 ± 2.5
Glicemia a digiuno (mg/dl)
90 r 10
Colesterolo totale (mg/dl)
160 r 20
Colesterolo HDL (mg/dl)
55.1 r 5.3
Trigliceridi (mg/dl)
93.3 r 30.1
Tabella 1: Caratteristiche dei soggetti coinvolti nello studio
Dopo avere firmato il consenso informato i soggetti reclutati hanno iniziato un regime
dietetico che forniva 1400 Kcal giornaliere a cui sono stati aggiunti giornalmente 20 ml
(pari a due cucchiai da tavola) di olio d’oliva extravergine PlaVOO per i primi 3 mesi e 20
ml di olio d’oliva extravergine VitVOO, arricchito con le vitamine
D3 (1,25-diidrossi-
colecalciferolo), K1 (2-metil-3-fitil-1,4-naftochinone), B6 (piridossal-5-fosfato), per i
successivi 3 mesi.
Sono stati quindi considerati i seguenti tempi:
T0: prima del trattamento nutrizionale, i soggetti sono stati sottoposti ad un primo prelievo
di sangue periferico;
71
T1: 3 mesi, in cui è stato effettuato un secondo prelievo di sangue periferico;
T2: 3 mesi, in cui è stato effettuato un terzo prelievo di sangue periferico.
Il prelievo è stato sempre eseguito a digiuno dalla mezzanotte precedente.
Dal campione di sangue intero si è provveduto alla separazione del plasma.
II ANNO E III ANNO (I PARTE)
Lo studio ha previsto il reclutamento di 60 donne di età compresa tra 49 e i 61 anni, in
menopausa. Criteri di esclusione: BMI >30, assunzione di fumo ed alcool, patologie e
terapie farmacologiche in atto in grado di interferire con l’omeostasi calcica, la deposizione
di calcio all’interno della matrice ossea e con il metabolismo della vitamina D. Le
caratteristiche dei soggetti studiati sono riassunte nella Tabella 2.
T0
Età (anni)
T1
VitVOO
PlaVOO
VitVOO
PlaVOO
(n=30)
(n=30)
(n=30)
(n=30)
55.6±2.6
54.6±3.7
Ͳ
Ͳ
25.9±3.1
25.2±2.7
24.2±3.8
25.0±3.1
82.5±9.0
83.5±9.0
83.3±8.7
81.2±9.3
Indice di massa corporea (BMI)
-2
(kg m )
Glicemia a digiuno (mg/dl)
Colesterolo totale (mg/dl)
Colesterolo HDL (mg/dl)
Trigliceridi (mg/dl)
219.6±34.3 218.3±33.5
204.3±27.5 205.6±24.7
58.6±14.1
65.7±13.6a
57.6±15.3
125.2±46.9 127.2±44.3 119.4±48.7 115.2±45.4
ColesteroloLDL(mg/dl) 133.1±33.7
132.4±32.4
127.6±31.5 128.5±31.5
Tabella 2: Caratteristiche dei soggetti coinvolti nello studio
72
64.4±12.5a
Lo studio è stato progettato per 1 anno, monocentrico, randomizzato con placebo in cui
tutti i giorni i soggetti reclutati assumevano 20 ml/die di VitVOO contenente vitamina K1
(0,70 mg/100 ml), vitamina D3 (50 Njg/100 ml) e vitamina B6 (6,0 mg/100 ml) rispetto al
placebo (20 ml/giorno della PlaVOO) confezionati in contenitori anonimi.
La formulazione dell'olio è stata preparata dalla Fattoria Petrini (Monte San Vito, Ancona,
Italia).
Sono stati quindi considerati i seguenti tempi:
T0: prima del trattamento nutrizionale, i soggetti sono stati sottoposti ad un primo prelievo
di sangue periferico e la MOC;
T1: 1 anno, in cui è stato effettuato un secondo prelievo di sangue periferico e la MOC;
Dal campione di sangue intero si è provveduto alla separazione del plasma.
III ANNO (II PARTE)
Questa parte dello studio ha preso in considerazione 50 bambini inappetenti (età 18-24
mesi, 25 M, 25 F) e 50 bambini sani (età 18-24 mesi, 25 M, 25 F). I soggetti selezionati
sono stati randomizzati e divisi in 4 gruppi: C-VitVOO, VitVOO, C-PlaVOO e PlaVOO; i primi
2 sono stati supplementati per 3 settimane con VitVOO mentre gli altri 2 sono stati
supplementati con PlaVOO sempre per 3 settimane.
I campioni di urina, prelevati al tempo T0 (reclutamento) e al tempo T1 (dopo 3 settimane
di supplementazione), sono stati utilizzati per valutare i livelli di NTx al tempo T0 e T1 in
tutti i soggetti analizzati.
3.2 Isolamento del plasma
I campioni di sangue sono stati raccolti in vacutainer contenenti come anticoagulante
l’ACD (36 ml acido citrico, 5 mM KCl, 90 mM NaCl, 5 mM glucosio, 10 mM EDTA pH 6.8). Il
plasma è stato ottenuto mediante centrifugazione a 200 x g per 10 minuti per ottenere il
plasma ricco in piastrine (PRP) a 4 °C e conservato a -80 °C finchè non è stato usato.
Il plasma è stato diviso in 2 aliquote; una parte, prima e dopo supplementazione, è stata
utilizzata per la determinazione dei livelli di cOC e ucOC, degli idroperossidi lipidici, dei
lipoperossidi, dei dieni coniugati e della capacità totale antiossidante. Un’altra parte è stata
utilizzata per l’isolamento delle piastrine sulle quali è stata testata la fluidità di membrana
con le sonde fluorescenti TMA-DPH e DPH.
3.3 Isolamento piastrine
73
Le piastrine sono state isolate dai campioni di sangue attraverso centrifugazioni
differenziali secondo il metodo di Rao modificato (Rao GHR, 1988).
Il plasma ricco in piastrine (PRP) è stato sottoposto ad una centrifugazione di 2000 x g per
20 minuti per isolare le piastrine. Le piastrine sono state quindi sottoposte a lavaggi in
tampone antiaggregante, per rimuovere qualsiasi residuo di eritrociti e di proteine
plasmatiche. Il pellet piastrinico è stato sottoposto a due lavaggi in tampone fosfato PBS
(contenente NaCl 135 mM, KCl 5 mM, EDTA 10 mM, Na2PO4 8 mM, NaH2PO4 H2O 2mM, pH
7.2) e le piastrine sono state immediatamente usate per gli esperimenti.
La concentrazione proteica delle membrane piastriniche è stata determinata con il metodo
di Bradford (Bradford M, 1976).
3.4 Determinazione dell’osteocalcina sottocarbossilata e carbossilata
La frazione di osteocalcina carbossilata e sottocarbossilata (Takara Shuzo Co Ltd., Shiga,
Japan) è stata utilizzata come indicatore dello status della vitamina K ed è stata dosata
tramite un saggio ELISA.
3.5 Idroperossidi lipidici
La determinazione degli idroperossidi lipidici nel plasma è stata eseguita mediante
ossidazione con ioni ferro in presenza di Xilenol orange (FOX) come descritto da Jiang ZY
et al. (Jiang ZY et al, 1992). Dopo incubazione a 37 °C con il FOX, i campioni sono
centrifugati a 4500 rpm per 20 min. L'assorbanza del sovranatante è valutata a 560 nm e i
livelli di idroperossidi sono calcolati con unità di misura Pmolare usando il coefficiente di
estinzione molare (4,3 × 104 M-1cm-1).
3.6 Lipoperossidi
In questa metodica vengono determinate le sostanze reattive all’acido tiobarbiturico
(TBARS); aliquote di plasma sono incubate con 1 ml di acido tricloroacetico 20% (TCA) e 1
ml di acido tio-barbiturico 1% (TBA). Dopo incubazione a 100 °C per 30 min e
centrifugazione a 2000 rpm per 10 min, viene valutata l’assorbanza del sopranatante a
535 nm. I livelli dei TBARS sono espressi in nmoli/mL o nmol/mg utilizzando come
standard la malondialdeide (MDA).
3.7 Misura dei dieni coniugati
I livelli dei dieni coniugati viene valutata monitorando l’assorbanza a 234 nm nei campioni
biologici.
74
3.8 Determinazione contenuto proteico
Il metodo di Bradford è stato utilizzato per la determinazione delle proteine nelle
membrane piastriniche e nel plasma. Si tratta di una determinazione colorimetrica basata
sulla variazione del colore in risposta alla variazione di concentrazione proteica.
Sono stati utilizzati 10 Pl di campione, 790 Pl di acqua e 200 Pl di reattivo di Bradford
composto da acido fosforico, metanolo e come colorante il Coomassie Brilliant Blue. Dopo
10 minuti di attesa al buio è stata letta l’assorbanza allo spettrofotometro utilizzando una
lunghezza d’onda di 595 nm. Come bianco sono stati utilizzati 800 Pl di acqua e 200 Pl di
reattivo di Bradford (Bradford M, 1976).
La concentrazione delle proteine è stata ricavata estrapolando i valori di Densità Ottica
(D.O.) dalla curva standard ottenuta con concentrazioni scalari di BSA (sieroalbumina
bovina).
3.9 Determinazione della fluidità della membrana piastrinica con le sonde DPH
e TMA-DPH
Le membrane piastriniche vengono sospese in tampone fosfato 0.03 M a pH 7.8 (1900 ml)
ed incubate con 3Pl della sonda TMA-DPH e DPH rispettivamente per 5 minuti e 45 minuti
a temperatura ambiente.
Le intensità di fluorescenza delle componenti verticali ed orizzontali della luce emessa sono
state misurate con uno spettrofotometro Perkin-Elmer MPF66 (O d’eccitazione = 365 nm, O
d’emissione = 430 nm). L’anisotropia di fluorescenza statica del TMA-DPH e del DPH, in
condizioni d’equilibrio, viene calcolata usando la seguente formula:
r
I vv G I vh
I vv 2 I vh
dove G è un fattore strumentale che corregge il valore r per un diverso rilevamento della
luce polarizzata verticale (Ivv) ed orizzontale (Ivh ).
L’anisotropia di fluorescenza è inversamente correlata alla fluidità della membrana che
circonda le sonde fluorescenti (Molotkovsky JG et al, 1982; Sheridan NP et al, 1988;
Newmark HL, 1999) (Fig.17).
75
1,6-difenil-1,3,5-esatriene DPH
(CH=CH)3
(CH=CH)3
N+(CH3)3
1-[4-(trimetilamino)fenil]-6-fenil-1,3,5-esatriene TMA-DPH
Fig.17 Azione delle sonde DPH e TMA-DPH
3.10 Mineralometria ossea computerizzata (MOC)
La MOC a livello della falange prossimale del secondo, terzo, quarto e quinto dito della
mano destra è stata misurata con un densitometro DBM ustrasound BP01 Igea spa (Carpi,
Modena, Italia). Le scansioni sono state eseguite al mattino da un tecnico esperto ed i
valori medi della MOC, raccolti in quattro dita, sono stati calcolati. I risultati sono stati
espressi in valore assoluto (g/cm2, contenuto minerale osseo rispetto alla superficie
proiettata) e trasformato in T-score (numero di deviazioni standard sopra o sotto la
media), rispetto a valori normali standard che derivano da una popolazione femminile
italiana. I valori di cut-off sono stati presi in base ai criteri dell'Organizzazione Mondiale
della Sanità per la diagnosi di osteoporosi secondo i seguenti criteri: normale con una MOC
non più di 1 deviazione standard (SD) al di sotto dei valori di un giovane normale (T score
• 1), osteopenia con una MOC tra 1 e 2,5 DS al di sotto dei valori di un giovane normale
76
(T score <-1 e> -2,5), osteoporosi con una MOC al di sotto di 2.5 DS dei valori di un
giovane normale (T score ” -2,5). In conformità con le specifiche dello strumento fornite
dal produttore, il coefficiente di variazione stimata è stato di circa 0,7%.
3.11 Determinazione dell’NTx su urine
Il test determina in maniera quantitativa l’escrezione urinaria di NTx, che è un indicatore di
riassorbimento osseo umano. Alti livelli di NTx nelle urine indicano riassorbimento osseo.
La riduzione di massa ossea avviene quando i livelli di riassorbimento osseo sono superiori
a quelle di formazione di tessuto osseo. Il test per valutare i livelli di NTx urinario è di
immunoassorbimento enzimatico (ELISA). L’NTx nel campione compete con l’NTx in fase
solida per i siti di legame di un anticorpo monoclonale marcato con perossidasi. La
quantità di anticorpo legato alla fase solida è quindi inversamente proporzionale alla
quantità di NTx nel campione. I risultati sono corretti secondo la quantità di creatinina
urinaria ed espressa in equivalenti di collagene osseo in nanomoli per litro (nM BCE) per
millimole di creatinina per litro (creatinina mM).
3.12 Analisi statistica
I risultati sono espressi come media r deviazione standard (SD). Le valutazioni statistiche
sono state svolte mediante analisi della varianza ad una via. Per ridurre la probabilità che
differenze significative risultassero casuali è stato applicato, ai dati, il test di Bonferroni
dopo l’analisi della varianza. Sono state considerate significative differenze con p < 0,05.
77
4. RISULTATI
78
I ANNO
Tutte le pazienti hanno completato lo studio mantenendo il loro peso corporeo, senza
alcun tipo di problema da parte loro per il regime dietetico proposto dalla nutrizionista,
esente da alimenti contenenti vitamina K.
L’osteocalcina sottocarbossilata (ucOC) presente nel plasma risultava minore al tempo T2
rispetto T0 e T1 come pure il rapporto UCR (Tabella 3). I dati erano significativi (p<0.05)
all’indagine statistica.
T0
T1
T2
ucOC (ng/mL)
2.15 ± 1.85
2.42 ± 1.81
0.97 ± 0.46*
UCR (ucOC/cOC)
0.42
0.59
0.15*
Tabella 3: Valori della produzione di ucOC e UCR nei soggetti studiati.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05
Perciò dopo assunzione di olio extravergine di oliva VitVOO è stata osservata
una
diminuzione di circa il 40% della ucOC, altamente indicativa di un benefico effetto sul
metabolismo calcico dell’osso.
Altrettanto interessanti sono stati i risultati ottenuti dallo studio sullo stress ossidativo e
sulla fluidità di membrana utilizzando rispettivamente il plasma e le piastrine dei soggetti
studiati.
Dopo assunzione di olio VitVOO, è stata osservata una diminuzione della produzione di
radicali liberi, maggiore rispetto a quella osservata solo con olio extravergine non
supplementato.
Infatti i TBARs risultano significativamente diminuiti al tempo T2 rispetto al T0 (Figura 18),
così come gli idroperossidi lipidici (Figura 19) e i dieni coniugati (Figura 20).
79
50,000
*
45,000
40,000
T
nmol/mL
35,000
T
30,000
25,000
T
20,000
15,000
10,000
5,000
0,000
T0
T1
T2
Figura 18: Lipoperossidi (TBARs) ai tempi T0, T1 e T2 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.001
10,000
nmol/mgprot
9,000
8,000
*
7,000
6,000
5,000
4,000
3,000
2,000
1,000
0,000
T0
T1
T2
Figura 19: Idroperossidi ai tempi T0, T1 e T2 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05
Numeriarbitratidiassorbanza
4,500
4,000
3,500
3,000
2,500
2,000
1,500
1,000
0,500
0,000
*
T0
T1
T2
Figura 20: Dieni coniugati ai tempi T0, T1 e T2 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.001
80
È stato inoltre dimostrata una fluidificazione delle membrane piastriniche, indicativa di una
minore aggregabilità. La fluidità testata con la sonda fluorescente TMA-DPH (localizzata
sulla superficie della membrana) risultava aumentata dopo supplementazione con VitVOO
(Figura 21); lo stesso andamento è stato evidenziato per la fluidità misurata con la sonda
fluorescente DPH (localizzata nella porzione più idrofoba) (Figura 22). I dati risultavano
significativi all’indagine statistica (p<0.005).
0,201
Anisotropia(r)
0,2
0,199
0,198
0,197
0,196
*
0,195
0,194
0,193
0,192
0,191
0,19
T0
T1
T2
Figura 21: fluidità di membrana delle piastrine dei soggetti presi in esame, con la sonda
fluorescente TMA-DPH ai tempi T0, T1 e T2.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.005
Anisotropia(r)
0.25
0.2
0.15
*
0.1
0.05
0
T0
T1
T2
Figura 22: fluidità di membrana delle piastrine dei soggetti presi in esame, con la sonda
fluorescente DPH ai tempi T0, T1 e T2.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.005
81
II ANNO
Tutte le pazienti hanno completato lo studio mantenendo il loro peso corporeo, senza
alcuna difficoltà, per il regime dietetico esente da alimenti contenenti vitamina K. Dopo 1
anno di supplementazione l’osteocalcina sottocarbossilata (ucOC) risultava diminuita nel
gruppo di donne che avevano assunto l’olio VitVOO rispetto alle donne che avevano
assunto il PlaVOO (Figura 23), come pure il valore di UCR (Figura 24). I dati erano
significativi (p<0.05) all’indagine statistica.
ucOC (ng/mL)
3,50
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
*
supplementati
con
supplementati
con
3,00
2,50
2,00
1,50
1,00
0,50
0,00
T0T1
Figura 23.: Valori della produzione di ucOC nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05
2
*
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
supplementati
con
supplementati
con
UCR (%)
1,5
1
0,5
0
T0T1
Figura 24: Valori dell’UCR nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05
82
Perciò dopo assunzione di olio extravergine di oliva VitVOO, è stata osservata una
diminuzione della osteocalcina sottocarbossilata, altamente indicativa di un benefico
effetto sul metabolismo calcico dell’osso.
Questi dati vengono confermati dalla indagine MOC effettuata sulle pazienti al tempo T1,
con diminuzione del valore di T score a valori meno negativi (Fig 25).
T0T1
0
BMD (u Tscore)
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
supplementati
con
supplementati
con
-0,5
-1
-1,5
-2
-2,5
*
-3
Figura 25: Valori della MOC (BMD) dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01
III ANNO – I parte
Tutti i marker di stress ossidativo (i TBARs, gli idroperossidi lipidici e i dieni coniugati)
valutati nel plasma dei soggetti presi in considerazione hanno mostrato una riduzione
significativa dopo l'integrazione con VitVOO, mentre non vi erano differenze significative
tra i due gruppi al T0. In particolare, i livelli plasmatici di TBARS risultavano diminuiti
significativamente, dopo 1 anno di supplementazione, nei soggetti che assumevano
VitVOO rispetto a coloro che assumevano PlaVOO e quelli a T0 (p <0.05) (Figura 26).
83
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
60,00
TBARs (nmol/mL)
50,00
supplementati
con
supplementati
con
40,00
30,00
20,00
*
10,00
0,00
T0 T1
Figura 26: Lipoperossidi (TBARs) ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05
I livelli plasmatici degli idroperossidi lipidici non hanno mostrato differenze statisticamente
significative in entrambi i gruppi a T0, mentre è stata trovata una diminuzione
significativa, dopo 1 anno di supplementazione, nei soggetti che assumevano VitVOO
rispetto a quelli che prendevano il PlaVOO (p <0,01) (Figura 27).
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
Lipid Hydroperoxide (nmol/mg prot)
12,00
supplementati
con
supplementati
con
10,00
8,00
6,00
4,00
*
2,00
0,00
T0 T1
Figura 27: Idroperossidi ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01
I livelli plasmatici dei dieni coniugati hanno mostrato la stessa tendenza: non vi erano
differenze significative nei due gruppi al T0 e una diminuzione significativa, dopo 1 anno di
84
supplementazione, nei soggetti che prendevano VitVOO rispetto a coloro che prendevano
PlaVOO (p <0.01) (Figura 28).
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
Conjugated Dienes AAU ( O= 232 nm)
6,00
5,00
supplementati
con
supplementati
con
4,00
3,00
*
2,00
1,00
0,00
T0 T1
Figura 28: dieni coniugati ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01
In accordo con i risultati precedentemente menzionati, i valori plasmatici di TAC non
hanno evidenziato differenze significative a T0 (p=NS) mentre un aumento significativo
del gruppo VitVOO rispetto al gruppo PlaVOO a T1 (p <0.01) (Figura 29).
nmol/P L Trolox Equivalents
4,800
*
Pazienti
VitVOO
Pazienti
PlaVOO
supplementati
con
supplementati
con
4,600
4,400
4,200
4,000
3,800
3,600
T0 T1
Figura 29: capacità totale antiossidante ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.01
85
III ANNO – II parte
I nostri risultati hanno mostrato una diminuzione del 25% nella escrezione NTx nei gruppi
supplementati con VitVOO rispetto ai gruppi trattati con PlaVOO. L’integrazione per tre
settimane con VitVOO è in grado di ridurre in modo significativo (p <0,05) i livelli urinari di
NTx nei bambini (Figura 30). Meno NTx nelle urine significa un migliore assorbimento del
calcio nelle ossa. Questo dato conferma ulteriormente i dati in nostro possesso in donne in
età fertile e in menopausa supplementati con VitVOO.
Figura 30: NTx ai tempi T0 e T1 nel plasma dei soggetti presi in esame.
I risultati sono espressi come medie ± SD. *p<0.05
86
5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
87
‘Arricchire’ un alimento significa renderlo più nutriente, senza modificarne il contenuto
energetico. Pertanto la fortificazione è un processo tecnologico attraverso cui nutrienti non
energetici (sali minerali e/o vitamine) vengono aggiunti agli alimenti tradizionali. Tale
intervento può risultare di fondamentale importanza per aumentare l’apporto di specifici
nutrienti nella popolazione, quando siano state dimostrate condizioni di carenza
nutrizionale.
Lo stile di vita nei Paesi industrializzati ha determinato un radicale cambiamento delle
abitudini alimentari: pasti irregolari, snack iperlipidici, dolci ad elevato contenuto di
zuccheri semplici, soft drink, elevato consumo di alcool. Diversi studi hanno rilevato
carenze borderline e/o clinicamente evidenti di alcuni nutrienti (vitamine e sali minerali) e
non nutrienti (fibra) in particolari gruppi di popolazione: bambini, adolescenti, anziani e
donne in età fertile e in menopausa.
L’arricchimento dovrebbe apportare un ragionevole vantaggio senza determinare uno
sbilanciamento della dieta e senza far credere al consumatore che la sola assunzione di
determinati alimenti possa essere sufficiente ad assicurare una dieta adeguata sotto il
profilo nutrizionale.
Secondo l’ADA (American Dietetic Association) infatti la soluzione migliore rimane
comunque la promozione di un’adeguata educazione alimentare affinché l’assunzione di
nutrienti soddisfi i livelli raccomandati per la popolazione (Bloch A et al, 1997; Childs N,
1994; Hasler CM et al, 1996; Del Toma E, 2003).
L’attenzione per l’alimentazione è in costante crescita da quando è emerso in maniera
evidente il legame fra le più frequenti malattie della società del “benessere”, quali obesità,
aterosclerosi, ipertensione, diabete, l’invecchiamento precoce, malattie degenerative ed
osteoporosi, e le abitudini alimentari in continua affermazione nei paesi industrializzati.
In questo quadro, l’olio di oliva, da sempre considerato a metà strada tra alimento e
medicinale, assume un ruolo di primo piano. L’uso alimentare che ne viene fatto nei paesi
mediterranei ha spinto numerosi studiosi ad indagarne i costituenti e gli aspetti nutrizionali
e a valutarne, su basi scientifiche, le reali utilità per lo stato di benessere dell’uomo.
L’olio extravergine di oliva ha una composizione chimica che si avvicina molto al latte
materno: l’unico alimento veramente completo in grado di nutrire in modo esclusivo un
essere umano, senza l’integrazione di altri alimenti.
88
Questo lo rendo il “carburante” ideale ed il più naturale per il nostro organismo: sia come
energetico (9 Kcal/g), che per la funzione regolatrice nei confronti del colesterolo, del
sistema immunitario e del metabolismo nel suo complesso.
I componenti dei lipidi dell’organismo umano sono costituiti per il 65-87% da acido oleico,
per il 17-21% da acido palmitico, e per il 5-6,5% da acido stearico.
Tutto ciò potrebbe spiegare, in qualche modo, da un lato la facile digeribilità ed
assimilazione e dall’altro alcuni dei non pochi effetti benefici dell’olio d’oliva.
Oltre ai lipidi ora riportati, l’olio d’oliva extravergine contiene oltre 200 componenti diversi,
i così detti “costituenti minori” appartenenti a varie classi, quali steroli, squalene, fenoli,
polifenoli, tocoferoli, alcoli alifatici e triterpenici, clorofilla, vitamine A, D, E, K ecc. Tali
componenti, anche se presenti in quantità minime, influiscono in maniera determinante
sulle qualità organolettiche (colore, odore, sapore, acidità), sugli aspetti merceologici, sulla
possibilità di conservazione dell’olio stesso ma sono anche costituenti indispensabili alle
normali attività metaboliche e allo stato di benessere dell’organismo umano.
Per le sue proprietà salutari, il consumo di olio extravergine d’oliva viene dunque
raccomandato fin dall’infanzia. Numerosi lavori hanno evidenziato infatti che l’acido oleico
ha un importante ruolo nell’accrescimento, nella mineralizzazione e nello sviluppo del
tessuto osseo (Martin-Bautista E et al, 2010). Inoltre, come già accennato, nell’olio il
rapporto linoleico/linolenico è simile a quello osservato nel latte materno. L’apporto di
questi acidi grassi è importante durante la gravidanza e fin dai primi giorni di vita per
l’effetto positivo nello sviluppo del tessuto nervoso sia del feto che del neonato.
L’olio extravergine d’oliva esercita numerosi effetti benefici anche sull’apparato digerente
sia in condizioni normali che in alcune patologie. L’olio extravergine oltre ad avere una
elevata digeribilità viene impiegato anche nella dietoterapia in pazienti affetti da calcolosi
biliare, gastriti e da ulcere gastro-duodenali (Grimble RF, 2005).
Numerosi studi epidemiologici hanno dimostrato anche un ruolo importante nella
prevenzione dell’aterosclerosi e delle patologie cardiovascolari (Urpi-Sarda M et al, 2012),
grazie all’azione sia degli acidi grassi, che riducono il rischio della perossidazione lipidica
delle lipoproteine circolanti, che delle proprietà antiossidanti dei componenti minori.
89
L’olio extravergine d’oliva svolge un effetto benefico anche contro l’insorgenza di alcuni tipi
di tumore, in particolare tumore al seno, prostata, al colon e al pancreas (Casaburi I et al,
2013).
Tra i fattori protettivi che esercitano un effetto antitumorale, sono inclusi i fenoli e altri
composti. Infatti studi condotti in vitro hanno dimostrato che i fenoli, lo squalene e il ƨsitosterolo esercitano un effetto chemioprotettivo sulle cellule tumorali (Newmark HL et al,
1999).
L’utilizzo dell’olio extravergine è raccomandato anche nell’alimentazione dell’anziano e
nella prevenzione delle patologie associate all’invecchiamento. Infatti alcuni studi hanno
dimostrato che il consumo abituale di olio extravergine d’oliva esercita un ruolo contro il
declino cognitivo connesso all’invecchiamento (Capurso A, 2001). Il ruolo protettivo è stato
attribuito all’equilibrato contenuto in acidi grassi essenziali e monoinsaturi ed inoltre
all’elevato apporto di antiossidanti, tocoferoli e polifenoli (Bonanome A et al, 1992).
Gli acidi grassi monoisaturi infatti sono coinvolti nel mantenimento dell’integrità strutturale
delle membrane neuronali (Capurso A et al, 2001; Solfrizzi V et al, 1999). Inoltre
l’equilibrato apporto di acidi grassi polinsaturi è importante per il loro ruolo regolatore della
fluidità delle membrane cellulari neuronali, delle membrane sinaptiche.
Infine studi recenti suggeriscono un ruolo benefico dell’olio extravergine d’oliva
nelle
malattie infiammatorie e autoimmuni come l’artrite reumatoide, poiché studi condotti in
vitro hanno dimostrato che i fenoli contenuti nell’olio extravergine d’oliva, regolano la
produzione e il rilascio di sostanze che influenzano il sistema immunitario (Alarcón de la
Lastra C et al, 2001) e l’aggregazione piastrinica.
Inoltre sembra che le popolazioni del bacino mediterraneo, che consumano abitualmente
olio di oliva, siano più protette dal rischio di trombosi rispetto a quelle che invece
consumano grassi saturi di origine animale.
Partendo dai dati a disposizione che confermano l’alta incidenza del deficit di vitamina D
nello sviluppo di osteoporosi e fratture osteoporotiche nei Paesi del Sud europeo, l’utilizzo
per 3 mesi di 20 mL/die di olio VitVOO, un olio arricchito con vitamine D3, K1, B6
(importanti nell’omeostasi del calcio e per la salute dell’osso) ha fornito la possibilità di
verificare gli effetti biochimici e clinici che queste sostanze potevano avere proprio
sull’assimilazione del calcio in donne adulte sane di età compresa tra 25 e 45 anni. I
90
risultati emersi nel primo anno sono estremamente significativi, in quanto la
supplementazione con vitamina K1 ha determinato una diminuzione significativa dei livelli
di osteocalcina sottocarbossilata, migliorando la densità ossea e aumentando la resistenza
alle fratture ossee: un dato altamente indicativo del benefico effetto di questo prodotto
non solo sul metabolismo calcico dell’osso, ma anche nell’ambito della più generale
prevenzione dell’osteoporosi. I dati a disposizione ci incoraggiano ad un approfondimento
sul ruolo preventivo dell’olio vitaminizzato nell’ambito delle condizioni di depauperamento
della massa ossea, anche nei soggetti di sesso maschile come in altre fasce di età.
A corollario del presente studio è stato osservato come l’assunzione di olio VitVOO potesse
indurre modificazioni sia nella formazione di radicali liberi plasmatici che nella fluidità delle
membrane piastriniche. È stata riscontrata una diminuzione della produzione di radicali
liberi, maggiore rispetto a quella osservata solo con extravergine non supplementato,
PlaVOO.
È stata inoltre dimostrata una fluidificazione delle membrane piastriniche, indicativa di una
migliore funzionalità di queste cellule strettamente correlata alla prevenzione di attacchi
trombotici.
Questi dati suggeriscono che l’uso di VitVOO costituisce un efficace supplemento anche
nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.
A livello piastrinico ciò potrebbe comportare un’alterazione dello stato funzionale ed una
maggiore aggregabilità (Watala C et al, 1998; Jokl R et al, 1997) e adesività,
potenzialmente responsabili, nel lungo termine, di complicanze a carico del microcircolo
tissutale e della macrocircolazione (Vercicel E et al, 2004; Ferroni P et al, 2004). È inoltre
appurato nel mondo occidentale un intake alimentare superiore in acidi grassi omega 6
rispetto agli omega 3 (il rapporto effettivo omega 3/omega 6 va da 1:10 a 1:25, mentre è
raccomandata una relazione di 4:1), che favorisce uno stato pro-allergico e proinfiammatorio (Caramia G, 2008). Stato pro-flogistico, iperaggragabiltà piastrinica, stress
ossidativo possono favorire processi degenerativi, (Testa R et al, 2006) soprattutto di tipo
aterosclerotico.
Di recente, Lee e colleghi hanno dimostrato su modelli animali come l’osteocalcina sia in
grado di migliorare la tolleranza glucidica e partecipi alla regolazione del metabolismo
91
energetico (Lee NK et al, 2007). Sono in corso studi per verificare gli effetti del VitVOO in
questo gruppo di soggetti.
Accanto a queste conoscenze “consolidate” sulle proprietà salutari dell’olio extravergine di
oliva si pone l’intuizione e quindi l’interesse, e in questo senso il “fatto nuovo”, verso la
possibilità di sfruttare la facile assimilazione e digeribilità di questo alimento per renderlo il
veicolo ideale per trasportare altre sostanze benefiche senza modificarne il contenuto
energetico.
L’idea di potenziare un alimento già di per se stesso ricco nasce dalla considerazione fatta
da un gruppo di studiosi che notò come, nell’ambito delle patologie degenerative, la
carenza di Calcio e di vitamina D e, più di recente, di vitamina K rappresentassero fattori di
rischio in grado di favorire il depauperamento della densità minerale ossea (Ahmadieh H et
al, 2011).
Considerando, al contempo, la netta prevalenza di soggetti in età avanzata e
l’invecchiamento costante della popolazione europea, apparve chiaro che l’ipotesi
dell’arricchimento poteva costituire un'adeguata misura preventiva, corroborata da diversi
studi a sostegno dell’utilità della fortificazione alimentare.
L’osteoporosi, ovvero la progressiva demineralizzazione dello scheletro, oltre ad essere un
retaggio tipico della terza e quarta età (osteoporosi primaria, senile), coinvolge il periodo
menopausale femminile (osteoporosi primaria, postmenopausale) e può manifestarsi
anche precocemente (osteoporosi secondaria) al seguito di svariate condizioni cliniche
(ipogonadismo e malattie endocrino-metaboliche, ecc.) ed in particolare per l’uso
prolungato di farmaci (corticosteroidi, immunosoppressori) o un iperdosaggio di ormoni
tiroidei o per un’immobilità prolungata.
Considerato che la popolazione anziana è caratterizzata, in Italia, dalla prevalenza del
sesso femminile (dopo i 65 anni il rapporto maschi/femmine, che alla nascita era 1,05,
diventa 0,71), è naturale che l’osteoporosi colpisca maggiormente il sesso femminile,
anche a prescindere dalle concause ormonali che, nelle donne, favoriscono la
demineralizzazione dello scheletro già a partire dal periodo peri-menopausale.
Nei Paesi a più alto sviluppo, dove maggiore è la speranza di vita, l’osteoporosi sta
diventando un problema di sanità pubblica, a causa della morbilità, della mortalità e
dell’alto costo sociale delle fratture e dell’invalidità che spesso ne consegue.
92
In Italia, secondo dati recenti (International Osteoporosis Foundation, 2001), soffrono di
osteoporosi circa 5 milioni di persone (il 4,4% delle donne dai 40 ai 49 anni e ben il 41,3%
delle donne di età compresa fra i 70 e i 79 anni). Di questi pazienti circa 2 milioni sono
considerati ad alto rischio di fratture con punte annue di 78.000 fratture di femore e
100.000 fratture vertebrali. Il costo ospedaliero imputabile alle sole fratture di femore è
stato stimato in non meno di 550 milioni di euro.
Ulteriori studi scientifici hanno dimostrato che per una donna di 50 anni il rischio, nell’arco
della vita, di morire a seguito di una frattura dell’anca è equivalente al rischio di morire per
cancro della mammella ed è superiore a quello imputabile al cancro dell’endometrio
(Matkovic V et al, 1993).
Di fronte ad una patologia ormai in continuo aumento (soprattutto in un Paese ad alta
longevità come l’Italia), è doveroso porre l’accento su strategie atte a limitarne o almeno a
ritardarne le conseguenze morbose. E ciò è tanto più necessario perché l’osteoporosi è
una patologia silenziosa che non si preannuncia con sintomi precoci.
Si ritiene che una deficienza cronica di calcio alimentare nella fase di accrescimento
corporeo possa in seguito determinare una ridotta densità minerale dell’osso rispetto al
picco di massa ossea, raggiunto tra i 20 e i 30 anni (maturità scheletrica). Dopo questo
picco, si verifica, qualunque sia il livello di assunzione di calcio, una graduale riduzione
della densità minerale dell’osso. La migliore protezione nei riguardi di questa riduzione
consiste nell'ottenere un picco di massa ossea il più possibile vicino a quello
geneticamente programmato (Tubili C et al, 1995).
In età avanzata, l’inevitabile prevalenza dei fenomeni catabolici su quelli anabolici riduce i
vantaggi di un più alto apporto di calcio, ma questo resta un fatto necessario per evitare
ulteriori compromissioni del rapporto entrate/uscite del calcio e quindi l’aggravamento
dell’osteoporosi.
Differenti studi mostrano come i reali introiti di calcio nella popolazione siano inferiori
rispetto alle raccomandazioni fornite dagli istituti di sorveglianza e ricerca nazionali ed
internazionali. In un recente studio italiano (Kalkwarf HJ et al, 2003) sulle abitudini
alimentari di un gruppo di soggetti sani di sesso femminile (età compresa fra 18 e 59 anni;
39.6 +/-12.7), l’introito di calcio è risultato inferiore del 30% (656 mg/die nei soggetti più
giovani, fra i 18 e i 30 anni, e 752 mg/die in quelli fra i 30 e i 59 anni) rispetto ai Livelli
93
Raccomandati (LARN, 1996), configurandosi in tal modo un gruppo di popolazione a
rischio di compromissione del regolare sviluppo e del mantenimento della massa ossea.
Complessivamente, l’assunzione di calcio in Italia è inferiore a quella dei Paesi del Nord
Europa, verosimilmente per il minor consumo di latte e di alcuni derivati; analoghe
differenze si rilevano a favore dell’Italia Settentrionale rispetto a quella Meridionale (LARN,
1996).
Recenti studi nutrizionali hanno mostrato come donne con basso introito di latte durante
l’infanzia e l’adolescenza abbiano un tenore di massa ossea inferiore in età adulta e
maggiore rischio di fratture (Kalkwarf HJ et al, 2003).
Molti soggetti non assumono latte e derivati, anche in relazione alla visione negativa
dovuta al contenuto in grassi saturi e colesterolo, intolleranze effettive o meno al lattosio,
incremento di reali o presunte diatesi allergiche nella popolazione (Bus AEM et al, 2003).
Si rivela quindi necessario proporre nuovi alimenti, “new foods” capaci di incrementare
l’introito e l’assorbimento del calcio in questi gruppi di popolazione (Bacciottini L et al,
2004).
In diversi studi è mostrato come l’assunzione supplementare di calcio e vitamina D
prevenga in età postmenopausale la perdita di massa ossea, limitando il turn-over del
tessuto osseo e riducendo il rischio fratturativo (Nieves JW, 2003).
Infatti, un introito inadeguato di calcio e/o di vitamina D hanno influenza sull’azione degli
ormoni regolatori del metabolismo osteo-calcico. La riduzione dell’assorbimento di calcio
comporta un deficit di calcio ionizzato, una stimolazione della secrezione di PTH ed uno
stato di iperparatiroidismo secondario, responsabile di un accelerato rimodellamento
osseo e di una conseguente, perdita di osso ed aumentato rischio di frattura. Questo
stato fisiopatologico, conseguente ad un deficit nutrizionale, può essere corretto con una
quota suppletiva di vitamina D, spesso in combinazione con il calcio (Nieves JW, 2005).
In questi casi è più “semplice”, ma non più corretto, far ricorso alle supplementazioni
farmacologiche piuttosto che ad una dieta individualizzata: i risultati sull’efficacia degli
integratori di calcio sono, tuttavia, contrastanti in rapporto ai distretti ossei esaminati,
all’età dei soggetti studiati ed agli introiti spontanei di calcio alimentare. Nel periodo
postmenopausale, a causa degli specifici momenti patogenetici dell’osteoporosi, l’uso di
integratori a base di calcio non sembra recare vantaggi, mentre nell’anziano tale pratica
94
può rivelarsi utile, specie quando gli introiti di calcio alimentare sono abitualmente
inferiori alle raccomandazioni (Curhan GC et al, 1997; Heaney RP et al, 1994).
Fondamentale è far riferimento, per la donna in menopausa, ad alimenti ricchi in vitamina
D. Tuttavia è importante sottolineare che per arrivare a livelli dei 10-15 più μg/die
raccomandati sarebbe necessario un consumo abbondante di pesce grasso e uova,
alimenti che ne hanno un maggiore contenuto. Sarà dunque difficile arrivare ai livelli
raccomandati se non mediante fortificazione di alimenti o supplementazione, nei gruppi di
popolazione in cui la sintesi endogena non risulta sufficiente a coprire il fabbisogno.
In molti studi effettuati in Europa è riportato come la frequenza di basse concentrazioni
plasmatiche di 25-idrossi-vitamina D sia molto alta, sia in soggetti ospedalizzati che in
salute (Rodriguez-Martinez MA et al, 2002; McKenna MJ, 2005).
Un recente studio ha definito lo stato dell’arte circa la fortificazione dei cibi in vitamina D
in Canada e Stati Uniti: farine cereali e prodotti correlati, latte e derivati succhi di frutta e
bevande, margarine (Calvo MS et al, 2004).
Lo stesso lavoro riporta la constatazione della validità della fortificazione in diversi casi
(Lau EMC, Lynn H, Chan YH, Woo J. Milk supplementation prevents loss in
postmenopausal Chinese women over 3 years. Bone 2002; 32: 536–40; Chee WSS, Suriah
AR, Chan SP, Zaitun Y, Chan YM. The effect of milk supplementation on bone mineral
density in postmenopausal Chinese women in Malasia. Osteoporos Int 2003; 14: 828–34;
Tanner JT, Smith J, Defibaugh P, et al. Survey of vitamin content of fortified milk. J Assoc
Off Anal Chem 1988; 71: 607–10).
Diversi altri micronutrienti, tra cui altre vitamine sono determinanti per lo svolgimento dei
normali processi metabolici dell’osso: vitamine A, K, C e del gruppo B. In particolar modo
un basso introito dietetico di vitamina K è stato correlato con un aumentato rischio di
fratture dell’anca in donne e uomini (Palacios C, 2006; Weber P, 2001; Booth SL et al,
2003). La vitamina K, cofattore di enzimi operanti nella carbossilazione di proteine come
l’osteocalcina, è coinvolta nel metabolismo dell’osso e riduce l’escrezione di calcio urinario
(Booth SL, 1997; Vermeer C et al, 1992). Diversi studi mostrano come l’introito di vitamina
K ed i livelli sierici siano positivamente correlati con la densità minerale dell’osso (Tamatani
M et al, 1998; Szulc P et al, 1993; Hart JP et al, 1985; Booth SL et al, 2003). In pazienti
con problemi fratturativi sono stati riscontrati più bassi livelli sierici di vitamina K. Altri
95
studi confermano che un alto apporto alimentare di vitamina K è correlato con minore
incidenza di frattura (Hodges SJ et al, 1993; Booth SLF et al, 2000; Stone K et al, 1999;
Feskanich D et al, 1999).
Di recente notevole risalto è stato attribuito al ruolo della Vitamina B6 a livello osseo, in
relazione al ruolo di normalizzante dei livelli di omocisteinemia plasmatica. Il derivato
omocisteina tiolattone determina un’inibizione dell’enzima lisil-ossidasi, che svolge
un’azione chiave nella formazione della struttura del collagene ed altre proteine fibrose
con ruolo strutturale. Il blocco enzimatico irreversibile impedisce le modificazioni posttrascrizionali a carico della lisina, presente sulle catene polipeptidiche dei precursori del
collagene e quindi la formazione dei legami crociati, determinanti della struttura ultima
della proteina. La somministrazione combinata di vitamina B6, B12 ed acido folico,
mantenendo nel range di normalità i livelli sierici di omocisteina, può quindi avere un ruolo
determinante nella preservazione della fisiologica omeostasi del tessuto osseo. (Herrmann
M et al, 2007a; Herrmann M et al, 2007b) Recenti studi hanno dimostrato un’elevazione
dei valori di omocisteinemia in menopausa, legata alla condizione di ipoestrogenismo
(Dimitrova KR et al, 2002; Pulvirenti D et al, 2007). Esiste quindi la necessità di adeguati
introiti di questi nutrienti, insieme a quelli di calcio e vitamina D (Miggiano GA et al, 2005;
Bacciottini L et al, 2004).
I risultati del nostro secondo anno di studio mostrano chiaramente come la
supplementazione nutrizionale, da parte di donne in menopausa, mediante olio
extravergine d’oliva VitVOO, fortificato con vitamine D3, K1 e B6 determina, rispetto ad un
regime dietetico libero, e rispetto ad una semplice supplementazione con olio non
arricchito, una riduzione della frazione sottocarbossilata dell’osteocalcina ed un aumento
della densità minerale ossea, come comprovato dal miglioramento del parametro T-Score,
rilevato all’indagine densitometrica, effettuata alla partenza dello studio (tempo T0) ed al
termine (tempo T1).
Peraltro i risultati a nostra disposizione provano che l’intervento dietetico esercita un ruolo
pur sempre determinante nel rallentamento dei processi osteo-riassorbitivi e nella
prevenzione di quadri clinici avanzati e funzionalmente limitanti.
Il terzo anno di studio ha previsto lo studio delle proprietà antiossidanti del VitVOO nello
stesso gruppo di donne in età menopausale.
96
Anche in tal caso sono stati riscontrati dati rilevanti: una riduzione dei radicali liberi e
quindi dello stress ossidativo, comprovata dai livelli di idroperossidi lipidici, dieni coniugati
e TBARS, risultati inferiori dopo supplementazione ed un aumento della capacità totale
antiossidante. Questi risultati, in accordo con la grande quantità di studi in proposito, sono
un’ulteriore conferma del ruolo protettivo attribuito all’olio d’oliva, per l’equilibrato
contenuto in acidi grassi essenziali e monoinsaturi e l’elevato apporto di composti
polifenolici e tocoferoli (Priante G et al, 2002; Manna C et al, 1999; Manna C et al, 1999;
Visioli F et al, 2001; Mulinacci N et al, 2001; Moreno JJ, 2003; Upston JM et al, 1999;
Masella R et al, 2004). Gli acidi grassi monoinsaturi sono coinvolti nel mantenimento
dell’integrità strutturale delle membrane biologiche. L’apporto ottimale di acidi grassi
polinsaturi che consegue al consumo di olio d’oliva è importante per il loro ruolo regolatore
della fluidità delle membrane cellulari e dell’omeostasi strutturale e funzionale, la mobilità
delle molecole proteiche e glicoproteiche in esse presenti e che svolgono funzioni base
della fisiologia cellulare e tissutale (recettoriali, di trasduzione del segnale, di canali ionici).
La dieta occidentale ricca in acidi grassi saturi e colesterolo determina la perdita di tale
flessibilità e quindi una compromissione funzionale. La menopausa è una condizione che
sembra accelerare lo sviluppo dell’aterosclerosi e delle malattie cardiovascolari. In donne
in menopausa sono stati riscontrati aumento dell’omocisteinemia e dello stress ossidativo
in correlazione con aumento dello spessore medio-intimale (Pulvirenti D et al, 2007). Il
nostro studio si pone perfettamente in linea con i principi guida generali di prevenzione
contro le patologie cardiovascolari ed oncologiche, che si basano sulla raccomandazione di
seguire il regime nutrizionale mediterraneo, di cui l’olio d’oliva, per la sua azione protettiva
è l’alimento base (Alarcon de la Lastra C et al, 2001; de Lorgeril M et al, 2008). Questo
vale maggiormente per soggetti a maggiore rischio e che necessitano di più attenti
interventi di profilassi come le donne in età menopausale (Willet WC et al, 1995).
Allo stesso tempo i neonati e i bambini sono altrettanto vulnerabili in quanto richiedono
un’alimentazione supplementare per la crescita e lo sviluppo, hanno riserve di energia
relativamente limitata e devono dipendere dagli altri. La sotto alimentazione può avere
conseguenze drastiche e di ampio respiro per lo sviluppo del bambino e la sopravvivenza
nel breve e nel lungo termine. Infatti la malnutrizione acuta (SAM) nasce come
conseguenza di un periodo di improvvisa mancanza di cibo ed è associata con la perdita di
97
grasso corporeo e del muscolo scheletrico. Molti dei soggetti interessati sono già denutriti
e spesso sono suscettibili alla malattia. Durante l'infanzia, i problemi alimentari sono
piuttosto comuni, e facilmente rilevabili dai pediatri. In alcuni casi si hanno difficoltà
alimentari transitorie, che rappresentano l'espressione di un disturbo minore che scompare
rapidamente. Altri problemi comuni possono includere delle preferenze alimentari
restrittive, come nei bambini chiamati "i palati più esigenti", o che sono in ritardo nel
nutrirsi
autonomamente.
I
problemi
più gravi
compaiono
quando
l'insufficiente
alimentazione si accompagna a problemi di mancata crescita.
Per la maggior parte dei bambini, la scarsa crescita è il punto di arrivo di un processo
cronico che coinvolge fattori biologici (medico e/o nutrizionale) e psicologico (sociale e/o
ambientale).
Tutti i bambini con scarsa crescita, tuttavia, hanno una grave malattia organica, che è la
malnutrizione, e mostrano, come conseguenza, una mancanza di micronutrienti (ad
esempio ferro, zinco, vitamine del gruppo B, oligo-minerali, acidi grassi polinsaturi e
vitamine) e una patologia del metabolismo scheletrico.
La crescita e la maturazione scheletrica sono processi dinamici che iniziano in utero e
finiscono nella terza decade di vita. È stato dimostrato che un basso apporto di calcio
correla ad una bassa massa ossea e quindi ad una maggiore incidenza di fratture e di
osteoporosi (Nieves JW, 2003). Alti livelli di NTx nelle urine indicano un aumento di
riassorbimento osseo. La riduzione della massa ossea avviene quando i livelli di
riassorbimento osseo sono superiori a quelle di formazione di tessuto osseo. Nel presente
lavoro dopo supplementazione con VitVOO i livelli di Ntx risultano diminuiti, quindi bassi
livelli di NTx urinario potrebbero indicare una crescita della massa ossea con conseguente
miglioramento delle condizioni dello scheletro. Questo dato conferma ulteriormente i dati
in nostro possesso in donne in età fertile e in menopausa supplementati con VitVOO.
In conclusione, questi dati confermano l'ipotesi secondo la quale l'uso di VitVOO può
essere un utile trattamento per migliorare la densità ossea e la resistenza alle fratture,
anche in età pediatrica, quando siamo di fronte ad uno scarso accrescimento corporeo.
98
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7. RINGRAZIAMENTI
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Eccomi di nuovo qui dopo 6 anni esatti a scrivere nuovamente i ringraziamenti. La
sensazione che si prova è sempre piacevole, perché questo momento segna la fine di un
percorso e forse l'inizio di qualcosa di nuovo e stimolante. In queste pagine colgo
l'occasione per ringraziare tutte le persone che mi sono state vicine nel raggiungimento di
questo ennesimo traguardo e spero vivamente di non dimenticare nessuno.
Grazie innanzitutto al Prof. Natale Giuseppe Frega, che si è reso disponibile come tutor di
questa tesi e al Dott. Emanuele Boselli che ha sempre saputo rispondere ai miei mille dubbi
e quesiti (“paranoie”) derivanti dal fatto che Agraria non fa parte del mio background
scientifico.
Un grazie alla Prof. Laura Mazzanti che per noi è LA PROF. e basta! Mamma e nonna
Biochimica, che ha gioito insieme a me per i successi e pianto per le frustrazioni e
“batoste”
che
in
questi
quasi
18
anni
di
permanenza
presso
il
suo/nostro
Istituto/Dipartimento abbiamo visto. Ma noi siamo come il giunco, ci pieghiamo ma non ci
spezziamo e siamo sempre pronte a ripartire, con più animo e forza di prima.
Un grazie alle mie colleghe e amiche Laura e Francesca, alle quali si è aggiunta una nuova
Dottoranda Alessia, con le quali oltre al laboratorio condivido momenti di relax, di
“spetteguless”, e di tante rumorose risate.
Un grazie a Cinzia, la quale anche se ha preso un’altra strada ed ha scelto di diventare
ADULTA, è e sarà sempre con me, nei miei pensieri e nel mio cuore.
Come non ringraziare tutti gli studenti, tutor, tesisti, specializzandi e dottorandi che si sono
avvicendati nel nostro laboratorio, che mi hanno sostenuta, stimolata, incoraggiata, così
come tutti i ragazzi/colleghi dell’attuale Diparimento DISCO.
Un grazie alla mia storica amica Giulia, nonché madrina di mia figlia: anche se ognuno di
noi ha preso la propria strada, so che potrò sempre contare su di te, come ho fatto finora.
Ti voglio bene!
Grazie ai miei genitori che mi hanno “regalato la vita”, le colonne portanti che mi hanno
sostenuta non solo nel mio lungo ed interminabile percorso di studi, ma in ogni circostanza
sopportando i miei repentini cambi d’umore. A te mamma, per i tuoi consigli da mamma, e
non da sorella maggiore, e il tuo sostegno, per aver esultato con me dei miei successi e
avermi consolata dopo le grandi e piccole sconfitte; grazie per esserci sempre stata,
nonostante tutti gli impegni da nonna, i pensieri, i problemi. Grazie a te papà, per i consigli
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pratici di vita vissuta, il tuo essere scorbutico ed un po’ troppo diretto è ormai un tuo modo
d’essere, basta saperti prendere, ed io penso di saperlo fare.
Grazie a mio fratello Andrea, che come carattere è un po’ troppo simile a papà, a sua
moglie Viridiana e ai loro splendidi figli Tommaso e Filippo che mi rendono la ZIA più
orgogliosa del mondo.
Un “grazie” pieno d’amore a mio marito Luigi per avermi sostenuta in questo percorso
anche se non presente fisicamente durante la settimana, ma con il cuore e la mente sì.
Ringrazio anche la sua famiglia, Gianna, Franco, Nunzia e Paolo perché mi hanno accolta
così come sono con le mie virtù e i miei difetti.
Un grazie particolare al fulcro della mia esistenza, mia “fan” numero uno, Ludovica,
orgogliosa di avere una “mamma scienziata”.
Per ultima ma non meno importante ringrazio me stessa, per essere riuscita ad ottenere
questo nuovo traguardo, ricordo che è la tesi n° 5, affrontando le difficoltà incontrate
senza mai abbattermi.
Grazie a tutti per essermi stati vicini!
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