capitolo - Fear Saga

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capitolo - Fear Saga
FEA R
PRI MO EPI SODI O
IN A LBIS
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© Francesco Cappellotto
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rom an z o ad epi so di
sette ragazzi, quattro elementi,
un soffitto sconosciuto e un percorso
in bilico fra la vita e la morte
-
p hoto f r o m N e i l Vi n c e nt Mo n s a lud’s s eries , R o o m 36 - Al l Wr ight s r e se r ve d
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Sono frastornato, steso inerme, nel bel mezzo di un canneto. Apro
gli occhi e fisso il cielo. Un cielo azzurro senza nemmeno la traccia
di una nuvola. Intorno a me il silenzio, solo il sibilo di una leggera
brezza tropicale che fa risuonare i bastoni che mi incastonano in
una terra a me sconosciuta.
Sento dei passi, veloci e fitti che si fanno strada nella verde sterpaglia. È un labrador e si sta avvicinando a me. Come una sfinge
si blocca, fissandomi con i suoi occhi scuri. Trovo la forza per rialzarmi, inconsapevole di dove mi trovi e di come abbia fatto ad
arrivare in un posto del genere. Un posto che sembra un paradiso
terrestre, salvo il fatto che sento il calore del mio stesso sangue
sgorgare da una ferita sulla schiena. Barcollante, riesco a camminare. Mi faccio spazio fra le fronde di verdi piante tropicali, faticando nell’anteporre un passo all’altro, sprofondando con delle
scarpe eleganti in una sabbia finissima e calda. Alzo lo sguardo
e di fronte a me si stagna il relitto di una fusoliera di un aereo in
fiamme, con gente che scappa urlante in ogni dove. In un soffio, il
paradiso si è trasformato in un inferno.
Questo è il sogno ricorrente che mi perseguita da anni. Dopo aver
seguito passo passo le sei lunghe stagioni di Lost, la serie televisiva
con la esse maiuscola, la Divina Commedia del ventunesimo secolo,
dopo aver gioito per il ritrovamento di compagni dispersi, essermi
chiesto cosa facessero orsi polari e stazioni scientifiche in un isola
dispersa al di là del mare, dopo aver visto la luce che sempre brilla nell’anima di ognuno di noi, non poteva essere altrimenti. Chiamatemi nerd, chiamatemi fanatico o più semplicemente sfigato. Io
sono Samuel Goldfish e, come dico sempre, sono quel che sono. Nei
miei sogni l’unico Jacob sono io. Regno incontrastato nell’unico antro della mia intimità dove è certo che sono e potrò sempre essere
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felice e contento.
Sin da piccino sono un teledipendente: quando partivano a trasmettere la pubblicità io mi bloccavo, qualsiasi fosse il casino che
stavo combinando, e mi zittivo nel fissare la grande scatola di immagini colorate. Sarà forse per il fatto che durante i consigli per gli
acquisti le emittenti alzano il volume a palla proprio per attirare sibillinamente l’attenzione del potenziale acquirente, oppure per tutti
quegli oggetti che prendono vita in una realtà dove tutto è possibile,
come un ippopotamo blu che sponsorizza i pannolini o una tigre
col fazzoletto da motociclista al collo che mangia i cereali zuccherati. Col tempo ho cominciato a seguire i famigerati cartoni animati
giapponesi, che solo ultimamente sono stati oggetto di una particolare rivalutazione data dalla moda dello j-pop, venendo sdoganati
internazionalmente col nome di anime e godono di un rispetto mai
visto prima. Nonostante ciò sono cresciuto a mio parere normale,
senza crisi d’identità sessuale e senza gettare sassi dai cavalcavia
delle autostrade, come andava di moda profetizzare fra i pedagoghi
negli anni novanta.
Crescendo ho subìto anche l’amore per il cinema: era inevitabile,
avrò visto più di trenta volte film cult della mia generazione come
The Goonies e La Storia Infinita, ma i lungometraggi proprio per
definizione sono lunghi e per una persona iperattiva come me lo
erano fin troppo.
Così ho scoperto il magico mondo dei telefilm americani, dai venti
ai quaranta minuti pratici e puliti, dove la storia veniva spezzettata
in più riprese. E qui rientra in gioco anche il fatto non da poco della
fidelizzazione, l’idea di poter reiterare settimanalmente l’emozione
provata durante la visione del prodotto. Questo è un modo come un
altro per giustificare le ore ed ore che ho speso su questa mia passione, ma finchè qualcuno guarda le scorribande amorose di Ross e
Monica, cerca una via di fuga da una prigione di massima sicurezza
o aiuta due fratelli a sconfiggere i demoni è un conto; più preoccupante diventa quando si entra in un meccanismo di caccia alle
anticipazioni, di analisi tramite moviola dei particolari tralasciati
in una prima visione, di creazione di congetture sul come potrebbe
protrarsi, se non che concludersi, la vicenda narrata. Più preoccupante per chi ti guarda e ti addita come un appestato appartenente
ad una setta satanica, ma molto più intellettualmente stimolante e
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coinvolgente per me che ne faccio parte. Così al momento di decidere l’indirizzo di studi universitari scelsi ovviamente di iscrivermi
a Teorie e discipline dello spettacolo, entrato già in possesso di un
sottobosco di conoscenze teoretiche e lessicali del grande sistema
dell’intrattenimento.
Ciò non toglie che io riesca a condurre senza troppi problemi una
vita normale, dove consegno le pizze per pagarmi l’alloggio e riesco
perlomeno ad intavolare una conversazione sensata con l’altro sesso: qui i serial giusti hanno molto meno proseliti che noi maschietti,
a meno che non si parli di lupacchiotti o maghetti sessualmente frustrati. Non posso nascondere però che la mia personalità è stata plasmata profondamente dal modo in cui interpreto il semplice seguire
un telefilm. Sono un cinico calcolatore, un computer che analizza
tutto ciò che lo circonda, un tipo alla The Mentalist: assumo degli
input, calcolo mentalmente ogni possibile combinazione degli stessi
e agisco di conseguenza. A volte posso sembrare al limite dell’autismo ma tutto ciò mi sta tornando molto utile in loco d’esame, tanto
da essere riuscito a superare a pieni voti tutti quelli effettuati fino ad
ora. E solo Dio sa quanto risparmio perdendo un’ora ogni volta che
entro in un supermercato.
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co in scaffali di fabbrica, scomparsi. I miei libri di storia dei nuovi
media che si contendono con la biancheria dell’intera settimana lo
spazio sul tavolo, volatilizzati. Persino le mensole colme di modellini di Galactica ed Enterprise, come se non fossero mai esistite. Al
loro posto, un ammasso di scatoloni da supermercato goffamente
ammassati, pieni di chissà quale oscuro contenuto. E dietro di loro
campeggia un altro letto sfatto, del tutto simile a quello da cui mi
sono appena alzato.
Ma che diavolo sta succedendo?
Un fastidioso suono simile ad un timer mi ricorda che non devo
più immettere alcun numero in un vecchio commodor 64 e che è ora
di abbandonare il mondo onirico per tornare alla realtà. Sbuffo, con
gli occhi ancora chiusi. È l’alba di una nuova giornata, se davvero
il sole si alza alle otto e mezza del mattino. Allungo il braccio e con
una manata placo il suono rindondante del mio aguzzino meccanico. Come sempre dovrò fare tutto di corsa, aprire gli occhi, capire
che sono nella mia stanza, inforcare un paio degli slip disseminati
sul pavimento e correre in bagno, pena che il mio compagno d’appartamento mi superi sul tempo ed occupi la doccia per una buona
mezzora. Oggi devo essere pronto ad espugnargliela, sento che è un
gran giorno e devo cominciarlo nel migliore dei modi.
Bene, ultima accoccolata al cuscino di vere piume d’oca, tutte
compresse in una federa azzurro sgargiante riportante la scritta Bazinga a caratteri cubitali, e giuro che apro le palpebre. Uno sguardo
al poster della giovane e sfortunata Laura Palmer - che mi è quasi
costato il femore nell’appenderlo giusto sopra il mio letto - e pronto
all’azione.
Tutto sarebbe stato normale se solo Laura, tutta attillata nel suo
vestitino rosa da ballo della scuola, fosse ancora al suo posto. Strizzo gli occhi per assicurarmi che le mie pupille, contraendosi per la
seppur esigua quantità di luce che irradia la mattinata, abbiano visto bene. Sopra il mio guanciale si presenta infatti un alto soffitto
spiovente completamente spoglio, tutto costellato di travi di legno
ben accantonate l’una all’altra, in puro stile baita di montagna. Mi
alzo di scatto seduto sul letto, anch’esso di legno finemente intarsiato, lontano anni luce dalla branda di ferro che la padrona dell’appartamento dei primi del novecento ci aveva fornito in dotazione.
Tutte le mie cose che solitamente ricoprono le pareti della mia tana
sono sparite. I miei cofanetti dvd tutti incassati in ordine alfabeti-
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Ciò è la prova che non sono solo. Qualcosa però mi dice che non si
tratta di Apollo, il mio reale compagno d’appartamento, altrimenti
sarebbe di certo venuto a scuotermi per scaricarmi addosso le stesse
ansie che mi stanno attanagliando in questo momento. Ma io non
mi dò per vinto: con la curiosità che mi ha fatto guadagnare il nome
scout di Stambecco Curioso - lo stambecco è un chiaro riferimento
alla mia non troppo possente prestanza fisica - continuo ad aggirarmi fra queste quattro mura alla ricerca di qualche suggerimento
probatorio del mio stato.
Certo che questa stanza è davvero strana, data la totale assenza di
finestre. L’unica luce viene dalla vetrata sopra la porta, che irradia
l’oscurità della stanza di una luce elettrica, seppur calda. Come se
mi fossi materializzato in un sottotetto mansardato, il cui architetto
avrebbe potuto collocare perlomeno delle finestrelle formato mignon, per dare la possibilità di creare all’occorrenza un giro d’aria.
Fortuna che non abbia piazzato una polverosa moquette, sennò a
quest’ora la mia allergia alla polvere mi avrebbe fatto dannare. Ma
credo non sia questo il momento giusto per commentare gli sbagli
architettonici di un posto che non ho ancora nemmeno capito dove
si trovi.
Altra cosa particolare è l’assenza di qualsivoglia mobilio, armadio
o tappeti. Persino la sveglia che ho appena ammutolito è poggiata
sul pavimento di doghe in vero legno. Se l’ambiente fosse tappezzato di materassi parietali potrebbe davvero fungere da ottimo istituto
d’internamento. Qui non c’è proprio nulla, il che mi porta a decidere che è giunta l’ora di uscire, sperando di essere più fortunato
nell’estendere il raggio del campo di ricerca perlomeno al corridoio
illuminato. Mi dirigo quindi verso la porta, sperando che non sia
chiusa a chiave come mi aspetterei che fosse. Afferro la maniglia
sferica all’americana e giro il polso in un movimento rotatorio. Per
mia sorpresa, e con un filo di disappunto che mal cela un briciolo di
timore, la serratura è aperta.
Mi arrotolo intorno alla vita il lenzuolo bianco preso in prestito
dal mio letto per non sembrare troppo inopportuno. Se qualcuno mi
vedesse in questo momento il pensiero lo porterebbe di certo a quei
film in stile American Pie dove il ragazzo rimane puntualmente nudo
sul cornicione della casa di lei. O anche ad un quarto di lottatore di
sumo. Diciamo pure un quinto. Fatto sta che affacciandomi pian
Allora, facciamo mente locale. Ieri sera abbiamo fatto maratona
di True Blood a casa di Nico, me lo ricordo bene perchè mentre ci
chiedavamo dubbiosi perchè i canini succhiasangue spuntassero al
posto degli incisivi laterali, Freddy si è messo a sbavare sciroppo di
amarena facendo finta di essere un vampiro pure lui ed inevitabilmente mi ha sporcato i jeans. Poi siamo usciti - coi pantaloni ancora
a chiazze - per un gelato e rincasando abbiam fatto tappa al Central
Perk perchè brulicava di gente. Alla luce di ciò:
a) ho conosciuto una ragazza e ora mi trovo ancora a casa sua.
Evento più unico che raro, non sarei nemmeno riuscito ad addormentarmi stanotte.
b) mi hanno fatto bere uno oscuro miscuglio di assenzio con qualche altra strana droga e sono tutt’ora succube di allucinazioni. Ne
dubito, non sarei così razionale da creare queste mie solite ed interminabili elocubrazioni mentali.
c) mi hanno rapito - e forse stuprato! - e ora sono rinchiuso in un
albergo sperduto stile Overlook Hotel in attesa che qualcuno paghi
il riscatto. No, non sarei qui a girare liberamente per la stanza, in
cerca di chissà cosa, un indizio sui miei aguzzini o semplicemente
una fibra tessile sintetica e non per coprire le mie vergogne. Anche
se uno dei miei sogni è sempre stato quello di girare anche io con
un triciclo in cerca di due inquietanti sorelle gemelle che volessero
giocare con me.
Se non fosse per il chiarissimo ricordo di essere arrivato tranquillamente a casa per finire la serata riverso sulla vasca, nell’intento di
pulire lo sciroppo di amarena misto a saliva dai jeans ormai da buttare, opterei per la pittoresca ipotesi c. Però il sedere lo sento ancora
intatto. Allora, ripeto, dove diavolo sono?
Facendo slalom tra gli scatoloni arrivo al letto antistante il mio
e sento che è ancora caldo, quindi il suo ospite si è alzato da poco.
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piano dalla porta socchiusa per spiare che cosa mi stesse aspettando
all’esterno, mi trovo di fronte ad un piccolo corridoio. Una specie di
pianerottolo, illuminato da una lampadina penzolante dal soffito,
una di quelle che si accendono tirando la catenella tipo sciaquone
del bagno. La mia è l’unica stanza di questo bizzarro piano che finisce con una scala a chiocciola. A piedi nudi cerco di raggiungerla
con cautela, compiendo passi lunghi e al rallentatore come se stessi
evitando delle mine anti uomo per fare il minimo rumore possibile.
A dispetto dei miei non sempre aggraziati movimenti riesco a non
far emettere alle assi del pavimento il benchè minimo scricchiolio.
Scendendo i gradini con la stessa tecnica mi ritrovo in un altro
corridoio, più lungo, e questa volta con più porte. È come se fossi
in una specie di dormitorio studentesco: le pareti qui sono tutte colorate, viola, verde, blu e c’è persino un divano quasi sfondato con
di fronte un tavolino da carte. Ora sembra che mi sia trasferito da
un bivacco di montagna ad un ostello, come quello che ho visitato a
San Diego, in California, in occasione del mitico Comic-Con, la più
grande fiera di fumetti e telefilm sulla faccia della terra. Quella volta
speravo di incontrare qualche ospite di peso, come Morena Beccarin o Evangeline Lily e non mi sono sbagliato: ho ancora a casa l’autografo di Jorge Garcia, Hugo di Lost. Più peso di così...
Analizzando il perimetro trovo finalmente una finestra, coperta
da delle tende bianche, che forse mi avrebbero fatto più comodo di
un paio di lenzuola come perizoma provvisorio, ma ormai la frittata
è fatta.
D’un tratto il silenzio è interrotto bruscamente da un rumore di
phon che mi ha fatto fare un salto indietro privandomi di tre anni
di vita. Una di queste stanze è un bagno e ci deve essere qualcuno
dentro, a meno che questa casa non ospiti il fantasma di Mirtilla
Malcontenta. Il rumore viene dalla porta bianca da cui si disperde
una piccola nuvoletta di vapore. Con il cuore in gola mi avvicino prestando l’orecchio per cercare di carpire qualche altro rumore oltre al
rombo continuo e incessante. Ora, non so come Orazio Kane o Gilbert Arthur Grisson riescano a stimare l’altezza e corporatura di una
persona col solo ascoltare i suoi movimenti e l’angolazione da cui
emettono i suoni, fatto sta che oltre al phon non sento nient’altro.
Entro o non entro? Chi ci sarà dentro? Aguzzino o vittima? Aguzzino o vittima? Certo, se fosse un altro prigioniero come me non credo
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che la prima cosa a cui penserebbe fosse farsi una bella doccia calda,
facilitando il lavoro a qualche emulatore di Psycho. D’altro canto se
si trattasse di un rapitore per appellarsi tale dovrebbe fare un po’
più di attenzione nel rinchiudere le persone in una oscura soffitta
di legno senza nemmeno dare un giro di chiave prima di pensare
all’igene personale.
Bene, ho deciso: entro. Ma anzichè aprire lentamente la porta per
spiare dalla feritoria chi si sta asciugando i capelli, opto per un’entrata ad effetto, via il cerotto via il dolore. Dò così un calcio secco
alla porta dimenticando che sono scalzo e quasi non mi prendo il
pomolo sul piede.
« Ehi, tu chi sei? Che ci faccio io qui? » esordisco rumorosamente
senza nemmeno riuscire a vedere oltre alla coltre di vapore chi sia il
mio interlocutore. Con una frase del genere avrei dovuto dimostrare
di essere sicuro di me stesso, di non avere la minima paura e forse
di avere anche una pistola con me. Speravo di incutere un po’ di
autorità.
« Amico, ma sei scemo? »
Speranza vana.
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« Ma scusa non ti sei chiesto dove diavolo ci troviamo? Hai già
guardato nelle altre stanze? Magari siamo stati rapiti entrambi e ci
han rinchiuso in questa specie di dormitorio... » cerco di farlo rinsavire.
« Amico, amico, calma! Ci avranno prelevato, per me non è la prima volta » sorride come sollevato, come se il pazzo dei due fossi io
ed avessi bisogno di calmarmi.
« Come sarebbe a dire ‘non è la prima volta?’ Ti sei già trovato in
una situazione del genere? »
« Ma certo, al secondo anno. É quasi all’ordine del giorno per noi
ΣΩΦ! Saranno stati quelli della ΓΛΒ, ne sono certo. Almeno gli ho
scroccato una bella doccia e poi gli devasterò un po’ la dispensa. »
Continua ad asciugarsi i capelli piegato con la testa sul bocchettone d’aria calda. Il bagno assomiglia a quelli degli spogliatoi dei campi da calcio: 4 docce una di fianco all’altra divise da piccoli separè
da un lato, tre latrine affiancate antistanti ai grandi lavelli dall’altro.
Il vapore sta scemando solidificandosi in goccioline sui grandi specchi sopra i lavandini, svelando una scritta fatta con delle ditate sul
vetro:
Una cosa è certa: il ragazzo che si stava asciugando i capelli
nell’asciugamani a ventola sul muro non poteva essere un rapitore.
Senza volergli togliere nulla, a prima vista non sembra avere un’aria
molto sveglia. È alto, possente, di un biondo cenere e due occhi azzurri molto lucenti, ma lo sguardo non è quello di un Nobel. Assomiglia un po’ al principe William dopo un corso di training autogeno. Non che l’erede al trono britannico sia scemo, ma ha la stessa
aria di una mucca che fissa il treno passare. È matematicamente
impossibile che abbia organizzato un piano criminale che comporti
un rapimento con riscatto, e proprio non me lo vedo a scuoiare poveri studenti a mò di Hostel. Ora è fermo là che mi fissa, con un fare
interrogatorio come se stesse aspettando una risposta sensata alla
sua domanda.
« Scusami, sai... Mi sono appena svegliato al piano superiore e...
» ho balbettato.
« Sì lo so, io ero sul letto di fronte al tuo » esordisce, con una naturalezza atavica come se fosse la normalità aprire gli occhi e trovarsi
sotto un soffitto sconosciuto. « Io sono Joseph, piacere! Vuoi farti
una doccia anche tu? L’acqua è bollente, sembra un bagnoturco. »
« Ehm, sì... no, cioè... io sono Samuel. Ma scusa tu hai idea di dove
ci troviamo? »
« Beh, no... »
Molto bene. Questo tipo è sulla mia stessa barca e la prima cosa a
cui pensa è farsi una doccia calda senza porsi tante domande. Non
so se ammirarlo o pensare che gli manchi davvero qualche venerdì.
Che abbia quella strana malattia mentale che ti inibisce i centri del
dolore o roba del genere e non ti fa provare alcun sentimento di
paura o preoccupazione? È così muscoloso, sembra un quaterback
americano e stando agli autori di telefilm i quarterback ricoprono
sempre il ruolo dei ritardati di turno, che pensano solo al baseball,
alle gallinelle e alla birra.
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ΓΛΒ - FOTTETEVI!
« Gamma-delta-beta? » domando accigliato.
« Sì, quegli stronzi ce l’hanno a morte con noi, da quando abbiamo imbrattato la facciata della loro confraternita. Avranno visto
bene nel rapire me, il braccio destro del presidente, ma non sanno
con chi hanno a che fare. »
« Confraternite? Ma di che stai parlando? » proprio non capisco
dove voglia arrivare.
« Ma ci sei? Fai sul serio? Eddai lo sanno tutti qui al campus che
le confraternite ogni tanto prendono in ostaggio membri delle case
rivali, è una tradizione vecchia come il sistema. Fa parte della guerra per il comando dell’ateneo. »
Questo Joseph sembra davvero convinto di quello che sta dicendo. Sembra di stare in un film alla Animal House, una delle migliori interpretazioni di John Belushi fresco da Saturday Night Live,
prima della sua consacrazione con The Blues Brothers. Oltre alla
famosissima overdose, è chiaro. Ed io che non sapevo nemmeno che
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ci fossero confraternite qui da noi. Avevo sentito di associazioni studentesche, sì, ma le confraternite mi mancavano. Strano che l’ente
di diritto allo studio le appoggi, forse può essere una soluzione alle
sovraffollate case dello studente, d’altronde credo che siano economicamente autosufficienti o quasi.
« Scusa ma se è così io che c’entro? Non faccio parte di nessuna confraternita, perchè avrebbero dovuto prendere anche me? »
mi pare una domanda lecita. Passando prima la mano fra i capelli
ormai asciutti per poi stringersi bene l’asciugamano bianco che gli
cingeva la vita, mi si avvicina come un professore che deve spiegare
l’equazione più semplice del mondo ad una matricola di ingegneria.
« Sarai un E.S.C., un elemento sotto controllo. Forse eccelli in
qualche campo e vogliono che ti unisca a loro, che tu diventi un
iniziato. » Non mi sono mai lamentato dei miei risultati accademici
ma l’unico campo in cui eccello veramente è quello dei telefilm. Ma
non credo che questo possa giovare al prestigio di una confraternita
come la ΓΛΒ anche se davvero non so quale sia il metro di giudizio
di giovani scavezzacollo come quelli che si vedono su MTV.
« Se ascolti me non dovresti unirti a loro. Sono delle serpi. Piuttosto scegli noi, i campioni di beer-pong degli scorsi 5 anni e organizzatori dell’annuale Miss maglietta bagnata, non te ne pentirai.
Quindi ora cerchiamo qualcosa da mettere addosso e andiamo a far
razzia nella cucina di questi bastardi. »
In fin dei conti il suo ragionamento ci può stare, un po’ bizzarro
ma comunemente le stesse confraternite non poggiano le proprie
basi su principi del tutto sobri. E l’ultima cosa che vorrei fare in una
situazione come questa, dove tutto può succedere, è girare ancora a
lungo con questo lenzuolo a mò di pannolone. Seguo così lo strano
Joseph fuori dai bagni in quella che sembra una retata alla Arancia Meccanica, entrando prima in una camera e poi nell’altra: tutte
presentano gli stessi letti in rovere di quelli in cui ci siamo svegliati
noi, questa volta con delle minuscole cabine armadio. In esse c’erano alcuni abiti appesi, un po’ qua e un po’ là, come se fossero abbandonati in attesa di essere indossati da persone come noi. Non sono
perfettamente stirati e profumati, ma per lo meno sono meglio di
una foglia di fico. Il problema è la taglia: le prime due stanze credo
ospitino dei nani, tutte taglia esse ed il colosso credo abbia bisogno
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almeno di una XXL, a meno che non voglia sembrare uno degli ippopotami di Fantasia strizzati nei loro tutù rosa.
Solo dietro la terza porta trovo quello che fa per me: un paio di jeans a sigaretta stracciati sulle ginocchia ed una maglietta a maniche
lunghe di quelle che andavano di moda anni fa, con il busto bianco
e le maniche monocolore di un verde carico. Ai piedi inforco un paio
di All Star nere con stampata la sagoma di una fiamma che parte
dalla punta fino al tallone. Se portassi ancora i capelli lunghi basterebbe stirarmeli per essere lanciato a pieni voti nel mondo degli idol
j-pop del sol levante. Finalmente più comodo con me stesso e con
il mondo che mi circonda, sento Joseph che fa confusione nell’altra
stanza, come se avesse divelto un armadio o cose del genere ma a
quanto ho capito la delicatezza di quel ragazzo è stata totalmente
sovrastata dall’orgoglio di appartenenza ai ΣΩΦ. Mi guardo attorno un po’ dubbioso. Se ci troviamo veramente in una confraternita
allora dalla finestra si dovrebbe vedere l’ateneo, o perlomeno qualcosa di famigliare nei suoi dintorni. Mi ci avvicino un po’ titubante
come se fosse troppo bello per essere vero, volenteroso che la storia che mi ha messo in testa quel bisonte biondo sia vera. Scosto
le tende per aprire le finestre dai vetri bianchi offuscati e dietro di
esse mi appare una luce abbagliante. Con mio grande disappunto,
le ante celavano un anfratto scavato nel muro contenente tre lampade alogene ad alto voltaggio che con i particolari vetri temperati
simulano un’illuminazione naturale a giorno. Qualcosa continua a
non tornarmi. Ma forse potrebbe essere una semplice installazione
per sopperire all’inefficenza del solito architetto.
« Pronto per la pappa? » mi domanda da dietro le spalle Joseph, tutto contento dei suoi nuovi pantaloncini verde militare ed una
maglia da hockey che ad un comune mortale potrebbe fungere da
pigiama, con il sorriso di un monello pronto a fare l’ennesima marachella.
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un poco i miei iniziali sospetti catastrofici o se mi porti a pensare
che è il mondo che sta impazzendo.
Scendiamo quindi le scale leggermente scricchiolanti senza farci
troppi problemi e ci ritroviamo in un ampio ambiente, simile ad un
grande soggiorno, una hall dall’aspetto confortante. Divani mezzi
sfasciati - o meglio, vissuti - sono posizionati ad elle di fronte ad
un caminetto ad una prima occhiata mai utilizzato, se non come
bersaglio per una quantità indefinita di lattine di birra, tutte riportanti un foro al centro. Mi sto per convincere anche io che siamo
in una di quelle confraternite amerciane, magari del Texas, dove
il passatempo più divertente è sparare alle lattine appoggiate alle
staccionate dalla veranda. Alle pareti, bandiere e stendardi di ogni
tipo: riconosco quella californiana con il classico orso simbolo dello
stato omonimo, quella catalana con l’asino e un drappo tutto verde
riportante il disegno di un elfo con un quadrifoglio sulla bombetta,
che inequivocabilmente raffigura quel San Patrizio irlandese tanto
caro a tutti i bevitori. Sopra al caminetto un televisore al plasma da
grossomodo 50 pollici, un impianto stereo fatto in casa con tutti i fili
scoperti e un ammasso di consolle videogame fra le quali, con mio
enorme piacere, riconosco un primissimo Nintendo NES e un ormai
vintage Atari. Che stia abbassando un po’ la guardia? Questo posto
sta assomigliando sempre di più al paese dei balocchi per ogni geek
che si rispetti...
Oltre, una massiccia tavolata da dieci posti del tutto simile a quello di una birreria bavarese è sovrastata da un lampadario con plafoniere verdi, di quelli che di solito si utilizzano per i tavoli da biliardo. Da quella direzione, dove l’odore biscottato sembra più intenso,
sentiamo un lieve vocio.
« Ma che hai fatto, dovevi imburrare di più lo stampo! » dice una
stridula ma dolce voce femminile. « Dà qua, lascia fare a me. »
Joseph si porta un dito sulle labbra per indicarmi di fare silenzio. Accascia poi le spalle contro il muro e inizia a muoversi al rallentatore, millimetro per millimetro, nell’intento di avvicinarsi allo
spigolo per spiare di chi si trattasse. Gli manca solo un elmetto in
testa e sarebbe pronto per una missione in modalità ambush di quei
videogiochi di guerra come Call of Duty. Le voci sono giovani, non
credo che le loro età differiscano di molto dai miei 26 anni. Il che
per me è un bene, ma forse per il maggiore Joseph potrebbe rappre-
Con i nostri vestiti nuovi - almeno per noi - ci addentriamo nell’ala
ancora inesplorata. Se qualcuno ci stesse osservando il pensiero non
potrebbe non condurlo all’immagine di Don Quixote e Sancho Panza, nell’avventurarsi nei meandri di questo strano luogo. Joseph si
muove con passo sicuro, fermamente convinto delle sue strampalate idee di cospirazioni studentesche, mentre io, molto più guardingo
e razionale sulle vere motivazioni che hanno determinato la nostra
presenza qui ed ora, mi strascico dietro di lui. Spero solo di evitare
di dover combattere contro dei mulini a vento, in quanto non sarebbe troppo nel mio stile.
Attraversiamo tutto il corridoio e una volta girato l’angolo ci rendiamo conto che la pianta di questo piano non è altro che un enorme ferro di cavallo, che conduce ancora una volta ad altre stanze
e ad altri bagni. In corrispondenza simmetrica del salottino dove
mi sono trovato nel scendere da quella specie di soffitta si presenta
un’altra scala, molto più sontuosa e di stile vittoriano, con corrimano di legno antico tutto lucidato, che questa volta conduce ad un ulteriore piano inferiore. Qui si inizia a sentire nell’aria un profumo di
cibarie, sembrerebbero delle brioches appena sfornate. È la stessa
aroma che riempie il bar dell’universià la mattina presto, senza però
quell’insopportabile nube di fumo di sigaretta che aiuta le endorfine
degli esaminandi di turno ricurvi nei tavolini all’esterno, nel tentativo chi di un’ultima ripassata totale, chi di farsi spiegare almeno
un capitolo sperando nella fortuna che gli venga chiesto il fatidico
argomento a piacere.
« Muffin appena sfornati, con scaglie di cioccolato, serviti con
succo di arancia e caffè lungo » mi sussurra Joseph all’orecchio. Un
naso da segugio, non c’è che dire, dato da un fiuto da Sherlock Holmes e uno stomaco alla Chuck dei Goonies. Fatto sta che c’è altra
gente oltre a noi e basandosi sulle prelibatezze appena elencate sta
amabilmente cucinando in tutta tranquillità. Non so se ciò allevia
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sentare un ostacolo contro la sua missione di ammutinamento della
casa dei crudeli ΓΛΒ.
« Tu dimmi se me ne devo rimanere qui a prendere ordini da una
biondina appena conosciuta su come cucinare una teglia di muffin,
proprio io che ho la cucina nell’anima » controbatte una voce maschile.
« Non credo quanto il seguire alla lettera la ricetta stampata sul
retro della confezione voglia dire avere la cucina nel sangue. Coraggio, dai qua! »
Nel bel mezzo di questa amabile conversazione Joseph volta la
testa verso di me, con l’indice ed il medio stesi indica prima i suoi
occhi e poi i miei. Credo voglia dirmi di stare a guardare, ma per
quanto poco possa conoscerlo so che non mi si prospetterà niente di
normale di qui a breve. Con uno scatto felino si getta in mezzo alla
stanza ed afferra una forchetta dal tavolo apparecchiato, per puntarla a braccio teso contro le due voci, indaffarate a scrostare una
dozzina di muffin bruciacchiati da una teglia fumante.
« Fermi dove siete, maledetti ΓΛΒ. Sono io quello con il coltello
dalla parte del manico ora! Cosa vi aspettavate, che fossi una matricoletta da quattro soldi che non sa badare a sè stesso? » Proprio
come avevo detto io, non c’era da aspettarsi nulla di normale.
I due hanno delle facce completamente sbalordite, la fotocopia
di quella che ha fatto Joseph prima in bagno, quando io gli ho fatto
più o meno lo stesso agguato, forse in modo meno colorito. Lei è
la classica mingherlina bionda dai capelli lunghi e mossi, con una
frangetta tagliata dritta appena sopra gli occhi, seduta sul bancone della cucina in un accappatoio bianco. Lui un asiatico, stando
ai caratteristici occhi stretti e tirati e dalla carnagione olivastra;
se ne stava con una traversa bianca e le mani in altro inforcate in
due grandi guanti da cucina, più accigliato dell’uscita del biondo
pseudo-marines piuttosto che di avere una forchetta puntata contro. Con un’aspressione un po’ vergognata per la situazione surreale
spunto quatto quatto dall’angolo, con la mano alzata muovendola a
mò di saluto indiano, come un sibillino messaggio di non fate caso
a lui, veniamo in pace.
Lo sgomento sulla faccia della biondina si trasforma in un grosso
sorriso a 36 denti, corredato di due dolci fossette sulle gote.
« Allora ci siete anche voi! » esordisce disaccavallando le gambe
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per scendere con una spintarella dall’accessoriatissimo piano cottura.
« Ciao ragazzi io sono Norma Baker » esclama porgendo di taglio
il palmo della mano aperto verso Joseph che la guarda dubbioso,
non aspettandosi tanta affabile cortesia da qualcuno che già pregustava dover atterrare ed appendere con del nastro adesivo sulla
facciata della residenza in cui ci troviamo. Sempre puntando la forchetta con la mano sinistra ricambia la stretta con la destra, un po’
titubante con la solita espressione alla principe William.
« Sono stata la prima ad entrare qui dentro, o meglio a svegliarmici. Scusate l’abbigliamento e l’acconciatura un po’ arruffata ma
non riesco a trovare il mio beauty. E dire che la produzione mi aveva
assicurata che ci avrebbero fatto trovare tutti i nostri oggetti personali già qui al nostro arrivo. »
Ora la stretta di mano è rivolta a me. Ricambio e mi sento tirare
verso di lei, pronta a donarmi due amichevoli baci sulle guance.
« Che carino che sei, sembri un pulcino indifeso, mica mordo! »
dice strizzandomi le gote come la solita vecchia zia che ognuno di
noi vuole sempre evitare ai pranzi di famiglia. Ad occhio, così senza
un filo di trucco sembrerebbe dimostrare non più di 23 anni, anche
se mi supera in altezza di dieci centimetri buoni. Chissà se fa così
con tutti o è solo perchè io ho ancora le guance paffutelle da quindicenne. Mi cinge la vita con un braccio come fanno gli ottimi padroni
di casa per spingere gli ospiti ad accomodarsi e farli sentire a casa
propria e ci avviciniamo verso il bancone.
« Lui è... » fa una pausetta di riflessione conscia di non ricordarsi
il nome « Coigi! »
« Kojiro... » puntualizza l’asiatico, stringendo ancor più gli occhi
con fare rassegnato, ritraendo le mani ancora alzate e tornando a
trafficare con la teglia guardando di traverso Norma.
« Coigi, Kijiro, sai che differenza... Dice di essere un ottimo cuoco
ma quasi stava bruciando dei semplici muffin. Buh, forse sarà abile
a fare del sushi o dei ravioli al vapore, ma di prima mattina credo
che nessuno vorrebbe sentire odore di unto in cucina, no? »
Da un momento all’altro mi aspetto che questa tenera e piccola
biondina prenda un colorito viola da asfissia: ma quanto parla? Riesce a respirare tra una parola e l’altra? Una cosa del genere l’ho vista
solo in un episodio di Una mamma per amica, dove madre e figlia
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fanno la maratona a chi spara più parole in un secondo, parlando
chiaramente di assorbenti e preservativi come se fossero burro di
arachidi e fagioli in scatola. Se pagassero gli attori ad ogni parola
pronunciata quelle due sarebbero ormai miliardarie.
« A me piacciono i muffin! » le va dietro Joseph, come mosso
dall’istinto primordiale di mangiare-mangiare-mangiare.
« Ottimo! Allora ce ne sono per tutti, basta solamente raschiare
via la parte bruciacchiata con un coltellino, dicono che sia cancerogena ma suvvia, chi ci crede a queste cose! Io posso mangiare di
tutto e rimango sempre in linea. Vedete? E non pensate che sia bulimica, no, no: l’unica volta che ho vomitato è stata ad un rave party dove mi ci hanno trascinata, credo che ci fosse un odore troppo
nauseabondo di marijuana o quelle cose così e sono stata male. Non
è una bella cosa da dire ma mi sono ripromessa di essere sempre
sincera ed affrontare questa avventura senza maschere, spero non
mi nominerete solo per questa facezia. »
Sta prendendo fiato, meglio approfittarne.
« Ad ogni modo io sono Samuel Goldfish e lui è Joseph... »
« Mayoff. Joseph Mayoff. E mi piacciono i muffin... » Ecco credo
che dopo l’istinto primordiale del mangiare ora si sta smuovendo in
lui anche quello della riproduzione, visto la faccia da pesce che ha
assunto nel presentarsi alla eterea ragazzina. O forse è soltanto la
fame. Devo smetterla di etichettare le persone, diamogli una seconda possibilità.
« Oh! Sam e Joe, che bei nomi! Norma invece non si può contrarre, verrebbe fuori qualcosa come Ormy o Nò, ma è troppo volgarotto, io sono una ragazza troppo dolce per essere appellata Nò, non
trovate? »
Kojiro alza gli occhi a mandorla dalla sua opera culinaria senza
nemmeno muovere la testa e mi fissa, come a volermi dire telepaticamente Vi prego fate qualcosa, è da questa mattina che parla e
non ce la faccio più...
« Norma, tu hai detto... » cerco di riprendere la parola.
« Sì, sì, Norma! E lui potremmo chiamarlo Koj, non è un tipo di
molte parole, può sembrare un poco burbero, ma è così caruccio
pure lui » mi interrompe giusto per far prendere aria alla bocca.
« Norma! Norma! Ferma. Prima hai detto qualcosa sul farti nominare, no? »
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« Sì, certo, prima o poi tocca a tutti, non avete mai visto le scorse edizioni? Ma in che mondo vivete? E poi la produzione avrebbe
dovuto far firmare anche a voi quelle miriadi di carte tra consensi
informativi e regolamenti... Non ditemi che non avete letto nulla,
bisogna sempre leggere prima di firmare i contratti, sì! » dice come
sempre tutto d’un fiato, quasi facendoci perdere i filo del discorso.
« Scusa ma di che cosa stai parlando? » Mi volto verso Joseph e
vedo la mia stessa espressione interrogativa nel suo volto « I Gamma-delta-beta fanno pure i contratti per l’iniziazzione? »
Norma fa un sorrisino ed emette un piccolo soffio, come un gemito di chi ha capito l’inghippo della questione « Ma quali Gammadelta-beta, sciocchino, la produzione del Grande Fratello! »
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del programma, con dei ganci, qualcuno ti iscrive e poi la produzione ti pedina per capire come sei senza farsi scovare. Sarebbe anche
logico, ciò porterebbe in televisione ancora più realismo tagliando
fuori coloro che recitano ciò che in verità non sono solo per entrare nel mondo di lustrini e paillettes una volta eliminati dalla casa.
D’altronde, dopo parti, omicidi, sesso e violenza in televisione non
c’è più limite a niente. L’unica cosa che ancora regge sono il divieto
di bestemmiare o imprecare. Non per essere puritani ma almeno un
briciolo di rispetto per sè stessi e per gli altri, altrimenti potremmo
tornare tutti quanti all’età della pietra e fare quello che ci pare.
Però a me questa storia del reality non mi convince per nulla. Per
motivi didattici so che in un set del genere si dovrebbero vedere
perlomeno le telecamere appese al soffitto, che poi non rientrano
nell’inquadratura televisiva finale. L’abiente dovrebbe essere tappezzato di vetri a specchio al di là dei quali si trovano i cameraman,
mentre la cosa più strana che ho visto fin ora è la finestra fittizia coi
neon dietro, che stando al mio grado di analisi situazionale ancora
non ho bastantemente rielaborato. Per concludere non abbiamo alcun microfono appeso al collo, quindi credo di poter smontare senza troppe riserve tale probabilità.
« ...e così mi sentivo seguita giorno e notte, credo anche che mi
avessoro messo sotto controllo il telefono. » Mentre mi sto perdendo in questa mia elucubrazaione mentale sento di sottofondo il
mormorio della ‘riservata’ Norma che continua a vomitare sentenze
sulla sua storia pre Grande Fratello.
« Fratello, qui siamo dentro a qualcosa di più losco di un semplice
reality. » continua Kojiro con un’apparente aria noncurante tradita
dal tono di voce basso e lievemente preoccupato. « Voglio dire, io mi
sono risvegliato in una camera totalmente sconosciuta, quasi asettica, se non fosse per la carta da parati verdina a fiorellini. »
Assumo anche io un’espressione un po’ corrucciata « Si io e Joseph ci siamo ritrovati nudi nei letti della soffitta dell’ala destra, tanto
normale non sembra neppure a me. » Perlomeno uno con cui parlare seriamente credo d’averlo trovato.
« Hai presente il libro di Agatha Christie Dieci Piccoli Indiani?
Secondo me siamo all’interno di un gioco sadico architettato da
qualcuno per farci ammazzare l’un l’altro. »
Pittoresca espansione della mia ipotesi di rapimento, non c’è che
Kojiro afferra il primo muffin caldo e lo porge di fronte al naso
della rana dalla bocca larga.
« Devo fare da cavia?! Sentiamo un po’... » Con le ditina affusolate
spezza un angolino di muffin al cioccolato e se lo porta alla bocca,
leccandosi i polpastrelli dalle briciole. Tutta soddisfatta spalanca gli
occhi e ritrae la testa tra le spalle come in preda ad un dolce brivido.
« Mmm, sono deliziosi! Joe prendine uno anche tu, vieni. »
Senza farselo ripetere due volte Joseph si avvicina e inizia a fagocitare quei dolcetti ad ampi bocconi, quasi fossero anni che non
mangiasse. Messi così l’uno vicino all’altro sembrano un po’ una
contessina che cammina sugli specchi e il classico elefante in cristalleria, ma sembrano già fatti l’uno per l’altra. In compenso l’asiatico si avvicina verso di me pulendosi le mani con uno straccio,
lasciando che i due albini si gustassero le prelibatezze che aveva
sfornato. Assomiglia davvero ad un clichè di cuoco di un ristorante
tradizionale, persino con la bandana in testa per tenersi all’indietro
i finissimi capelli mediolunghi di un intenso nero corvino. Sotto la
traversa però nasconde una maglia rossa a maniche lunghe hi-tech
e un paio di jeans larghi dal cavallo basso. Una specie di incontro tra
futuro e passato, uno iato tra un moderno Super Mario ed un cuoco
dell’epoca Edo.
« Quella non è tutta apposto, amico. Hai sentito? Crede che ci
troviamo all’interno del Grande Fratello... »
In effetti la sparata del Grande Fratello non mi ha lasciato per
nulla indifferente. Questa mi mancava. Vada l’ipotesi del rapimento,
passi pure l’idea delle confraternite rivali, ma il Grande Fratello... E
poi sapevo che per poterci partecipare si dovevano superare provini
su provini, io non ho mai nemmeno avuto l’intenzione di tentare di
fare una cosa del genere. A meno che non sia una nuova variante
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dire. Un po’ come in quel film, My Little Eye, dove dei ragazzi venivano gettati in una baita di montagna ed erano oggetto di scommesse miliardarie su chi dava di matto per primo e cominciava ad ammazzare tutti gli altri. Ne resterà soltanto uno, come Highlander.
Devo dire che è incredibile come ogni singolo componente di questo
gruppo si sia fatto un’idea personalissima sul nostro stato attuale,
una diversa dall’altra.
« Avete già controllato tutta la casa? » chiedo a Kojiro che mi sta
ancora fissando in attesa di una risposta.
« No, non siamo qui da molto neppure noi. Ho preferito non dare
nell’occhio ed essere accondiscendente con Norma. Se scoprisse che
non siamo davvero in un reality credo che possa cominciare a dare
di matto. Roba seria, tipo attacchi di panico. Sono nel ramo della
medicina e ti posso assicurare che quella è la candidata ideale ad
avere una bella crisi di nervi istantanea. »
Non ha tutti i torti. E con questa affermazione mi fa rendere conto che sto parlando con una persona equilibrata e che pensa subito al gruppo prima che a sè stesso. Anche se ancora non riesco a
comprenderlo appieno: non so perchè ma gli asiatici sono sempre
rimasti un mistero ai miei occhi, sarà per il viso tutto tirato o che
ne sò, ma è come se non facessero trapelare appieno le emozioni
che stanno davvero provando. Però parla benissimo l’italiano, devo
dargliene atto. Sarà autoctono o figlio di una coppia mista. E per
dirla tutta di solito è strano sentirsi dire da uno vestito da skater che
studia medicina. Di solito i suoi colleghi sono sempre in camicia e
maglione, figli di papà e tutto il resto. Anche dal fisico atletico e ben
piazzato sembrerebbe più un lavoratore di fatica, un vero cuoco o
perlomeno un lavapiatti - lo so, non riesco a farmi uscire dalla testa
l’immagine di lui alla direzione di un take away tradizionale che tagliuzza listelle di porro e insulta nel suo dialetto natio i ragazzi delle
consegne, che reagiscono a loro volta come se appena minacciati da
un boss della yakuza giapponese.
« Hai già controllato le finestre? Al piano di sopra sono finte. » gli
chiedo sicuro di una risposta positiva.
« Si me ne sono accorto. E guarda qui. » Senza dare troppo nell’occhio inizia a passeggiare per la stanza e per posizionarsi in tutta naturalezza di fronte ad una finestra sull’angolo, dietro alla tavolata.
Incrocia le braccia sul petto e con la mano che gli spunta da sotto
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l’ascella scosta di poco la tenda.
« Visto? Doppia copertura plastificata sulla vetrate. Le rende praticamente infrangibili. » dice picchiettando con la nocca dell’indice
su uno dei vetri quadrati che vanno a comporre delle finestre in tipico stile americano, a baionetta.
Al di là del vetro si intravede una specie di giardino, ma è troppo
sfuocato per capire se sia una boscaglia o una serra malconcia. Ed
ovviamente non c’è traccia di maniglie per poterla aprire. Quindi
chiunque ci avesse mai portato in questo posto di certo non aveva
intenzione di farci uscire di nostra volontà così come ci ha lasciati
liberi di pascolare all’interno.
« C’è una porta? » domando scioccamente come ultima speranza.
« Non lo so, ma sai cosa vorrebbe dire aprire la porta d’entrata
della casa per Norma?... »
Caspita questo è più calcolatore di me. In confronto a lui sembro
un pivellino al primo corso di criminologia generale. Avrà di certo
seguito lezioni di psicologia medica o psichiatria per arrivare a creare dei ragionamenti così contorti ma nel contempo geniali.
Mi giro verso Norma ed è ancora lì con le gambe accavallate nello
spumoso accappatoio bianco a civettare con Joseph, ormai pazzo di
lei, mentre lo imbocca come si fa coi piccioni in piazza San Marco
a Venezia, non curante della matassa che stiamo cercando di sbrogliare io e Kojiro.
« Credo tu abbia fatto bene, dobbiamo comportarci con naturalezza rimanendo però ben saldi sul chi va là » affermo con fare alla
detective di un romanzo noir, fissando ancora i due che si imbrattano la faccia di gocce al cioccolato. « Dobbiamo osservarci intorno,
fino a quando non decideremo tutti e quattro sul da farsi. »
« Tutti e cinque. » mi corregge l’interlocutore.
Mi volto di scatto verso di lui e lo vedo con la faccia enigmatica girata verso le scale da dove siamo scesi anche noi. Una figura
fragile e dai lunghi capelli scuri è ferma sul primo scalino, avvolta
scialbamente anche lei in un lenzuolo. Trema come una foglia, ha
lo sguardo spento, quasi spiritato nel fissare il vuoto di fronte a lei.
Una lacrima le riga il volto di una giovinezza e purezza quasi eterea.
Ad un tratto, gira la testa verso di noi e spalanca i due occhioni azzurri.
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« Morti... » sentenzia con voce spezzata dal pianto. « Siamo tutti
morti... »
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Se non mi fossi ripromesso di essere sempre cinico e a grandi tratti
stronzo, direi di aver appena assistito al dejà vù della scena iniziale
di Twin Peaks, dove l’appena stuprata Ronette Pulaski strascina i
piedi a piccole falcate sconvolte sul ponte di ferro cittadino, in cerca
di aiuto. Certe volte mi chiedo davvero cosa ne sarebbe stato di me
se fossi nato negli States: avrei già all’attivo quindici sceneggiature
alla tenera età di 26 anni. Un enfant prodige in stile Mozart, con la
sola differenza che non farei mai un inchino con le spalle al pubblico emettendo una sgradevole flatulenza, come ha ben sottolineato
Milos Forman col suo biographic Amadeus.
Ad ogni modo la tipa è ancora ferma lì. Kojiro fa un passo cauto
verso di lei, con i palmi delle mani rivolti di fronte a sè e nervi saldi.
Ha la classica indole da medico, che lavora anche quando non dovrebbe essere in servizio. Anche i due piccioncini hanno smesso di
tubare e si avvicinano a noi tutti curiosi.
« Ehi ciao, come va? Io sono Norma » esordisce la Barbie girl accortasi nel trambusto generale che le attenzioni non erano più rivolte solo ed unicamente a lei. Dopo l’uscita del siamo tutti morti non
sembra volerci deliziare con nessun altra esibizione in stile L’Esorcista, tipo che ne so, bava che scende dalla bocca o discesa libera
dalle scale a quattro zampe.
Come se gliel’avessi chiamata, Ronette inizia a riversare gli occhi
verso l’alto e a ciondolare la testa all’indietro. Con uno scatto felino
Kojiro si fionda verso di lei e la prende al volo nel momento in cui
stava cadendo in preda ad uno svenimento.
« Qualcuno corra in dispensa, mi senbra d’aver visto una cassetta
del pronto soccorso » ordina con voce ferma Kojiro, prendendo in
braccio il corpo privo di sensi della giovane ragazza per coricarlo sul
divano.
« Vado io! » si rende subito utile Norma. Joseph è incantato alla
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visione di un seno fuoriuscito nello spostamento dal lenzuolo che
cingeva le spalle della sconosciuta, quindi è meglio che vada io a
dare una mano nella ricerca di qualche sale che le faccia riprendere
i sensi.
Seguo la bionda attraverso tutta la cucina e entriamo in una stanzetta piena zeppa di scaffalature, colme di qualsivoglia cibaria. Dai
corn flakes a barattoli di fagioli, una quantità industriale di cibarie
quasi fosse la dotazione di un bunker antiatomico: c’è da mangiare
per mesi, e non oso pensare cosa contenga la cella frigorifera visibile
attraverso un grande vetro parietale. Chiunque ci voglia rinchiusi
in questo posto ci vuole di certo nutriti e ben in carne, altro che
squoiati ed appesi a gocciolare sangue come delle inermi carcasse
bovine che farebbero rabbrividire ogni vegano. Una sorta di Hänsel
e Gretel postmoderno, magari prima o poi arriverà una fattucchiera
in lingerie a tastarci il ditino se è diventato bello paffutello per poter
cibarsi di noi. Ma sono qui per cercare dei farmaci di primo soccorso, non per inventare remake aggiornati di storie classiche per bambini. Di solito stanno in alto ma Norma è accucciata su un angolo
che rovista tra scatole di preservativi ed assorbenti interni.
« Dev’essere qui dietro, questa è la zona dell’igene personale ma
forse potrebbe tornarci utile qualcosa. » Se l’è davvero presa a cuore
questa questione dello svenimento, a meno che la sua convinzione
dell’essere ancora dentro un reality non la spinga a dar prova della
sua generosità, vera o falsa che sia. Io sono molto più tranquillo,
confido che Kojiro sarà indubbiamente a conoscenza delle procedure d’emergenza in casi come questi, tipo alzare le gambe così che il
sangue circoli meglio o cose del genere.
« Credi che delle bende possano servirle? Oppure c’è dell’acetone
per unghie, sfido chiunque a non risvegliarsi con quell’odore pazzesco. » Il bello è che lo dice credendo fermamente in quello che le
esce dalla bocca.
« Credo che vada meglio quella... » le rispondo indicando la mensola sopra di lei, dove c’è una valigetta rossa con una croce bianca
riportante la scritta primo soccorso a caratteri cubitali.
« Oh, sì, sì, primo soccorso, ecco questa voleva Koji! » sorride
istericamente afferrando il malloppo e correndo come se fosse una
prova contro il tempo, quasi si trattasse di una questione di vita o
di morte.
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Io rimango un attimo a fissare ancora questo magazzino e lascio la
mente vagare a piede libero - come se non lo avessi fatto fino ad ora.
La cella frigorifera è perfettamente funzionante e sembra vagamente
una sala operatoria con un’illuminazione a giorno e una pulizia a dir
poco sterile. Le porte si aprono tramite un pulsante sul muro e sono
a scorrimento elettrico. Al loro interno sono ammassati una miriade
di tagliate e pezzi di carne, salami, affettati. Persino del pesce, ma
non quello confezionato, filetti di sogliole, orate e branzini già ripuliti e pronti per essere cotti e serviti in tavola con una spruzzata di
limone. Qui si potrebbero preparare dei pranzi luculliani per giorni
e giorni. Quello che mi salta all’occhio è però l’apparecchiatura, così
moderna ed efficente che stona altamente con il resto della casa decisamente più retrò e vissuta. Gli angoli del soffitto della dispensa
presentano delle chiazze scure date dall’avanzare della muffa, forse
dovuta all’umidità di questo angusto spazio. Di là invece la carta da
parati sembra sì vissuta, ma non esibisce alcun segno dello scorrere del tempo. Come se tutti questi ambienti fossero stati costruiti
o arredati in momenti differenti. Mi sa che ci troviamo di fronte a
qualcosa di molto più serio che un semplice gioco.
Dei passi pesanti mi distolgono in un attimo dalla mia osservazione.
« Di là è tutto apposto, la ragazza si è ripresa... » annuncia Joseph, esordiendo con una tenacia che non riesce a mantenere prima
di arrivare alla fine della frase, rimasto a bocca aperta dalla mole
inaudita di cibo che gli si apre di fronte ai suoi occhi.
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trebbe anche essere un abitué di Starbucks.
« Io sono Lilith, piacere. » si presenta dopo una lunga sorsata di
infuso. « Voi sapete dove siamo? »
« Al Grande Fratello, tesoro... » cerca di incalzarla subito Norma
ma mi pare giusto prendere la parola in una situazione così tesa.
« Non lo sappiamo nemmeno noi, Lilith. Ci siamo tutti svegliati
nudi in questo posto, chi in una camera chi in un altra e ci siamo
ritrovati qui. C’è chi pensa che siamo in un reality, chi crede che
siamo nel bel mezzo di una guerra tra confraternite rivali... »
« Già, gli faremo il culo a quei ΓΛΒ! » sottolinea Joseph sentendosi chiamato in causa.
« Oppure siamo stati rapiti e rinchiusi qui dentro per chissà quale
scopo. » concludo con fare dubbioso.
« Allora non siamo morti? Non siamo in un anticamera del paradiso, una specie di purgatorio dove scontare i nostri peccati prima
del trapasso? »
Ma come sarebbe a dire morti? Stiamo rasentando il ridicolo.
Come è possibile che questa ragazza tanto carina e fragile se ne esca
un’affermazione del genere?
« Lo escluderei... Insomma, ho passato giornate migliori, ma credo di essere ancora vivo e vegeto. » sentenzio io cercando di non
deriderla, non si sa mai che non le venga un’altra crisi di nervi. Ma
insomma finchè siamo in un telefilm va bene, tutto sommato anche
Lost è finito in una maniera del genere, ma andiamo, questa è la
realtà, dove sarebbe stato il tunnel di luce bianco che tutti coloro
ad un passo dalla morte dicono di aver visto? A questo punto possiamo anche supporre di esser stati addotti dagli alieni che dopo
averci squoiati per utilizzare le nostre pelli in stile Visitors stanno
mantenendo in vita le nostre coscienze in una vasca di pesci rossi in
modalità di coma indotto...
« Sì, hai pienamente ragione. È che non riesco davvero a spiegarmi questa situazione. Mi sono svegliata tutta spogliata, in un posto
sconosciuto, un po’ etereo, asettico ed ho pensato ad una specie di
cerchio che si chiude, alla vita stessa che ritorna all’inizio... » Vedo
un fondo di disciplina mistica nelle sue parole, ma a maggior riprova prima ho sentito un male cane al piede nello scalciare la porta del
bagno, non credo che in una situazione di post mortem si provino
ancora sensazioni del genere. Se fossimo morti dovremmo essere
Dal piano cottura parte un fischiante sibilio, sinonimo del fatto
che l’acqua messa a scaldare per il tè dal factotum Kojiro è in ebollizione. La situazione si è leggermente distesa, la ragazza mora è
finalmente tornata fra noi comuni mortali e se ne stà seduta sul divano con una coperta sulle spalle, come appena salvata dai vigili del
fuoco da un palazzo in fiamme. Ora è visibilimente più tranquilla,
quasi vergognata della reazione avuta un attimo fa e del trambusto
provocato. Si tiene la testa fra le mani lasciando penzolare lughe
ciocche di capelli mori fra le dita, come concentrata su sè stessa
nell’assumere le forze interiori per familiarizzare con ciò che le sta
attorno.
« Ora è passato tutto, fai un bel respiro profondo e calmati » cerca
di tranquillizzarla Norma sfregandole la mano sulla schiena, come
si consola una sposa negli ultimi ripensamenti prima del grande
passo. Le siedo vicino mantenendomi comunque a debita distanza,
impacciato come sempre in situazioni come questa, non sapendo
se optare per l’atteggiamento troppo espansivo/comprensivo della
bionda o se rimanere sulle mie lasciando che sia lei a trovare un
proprio equilibrio, come Joseph, inglobato come un cane a pancia
in su sulla poltrona rovinata - dubito che si sia posto tali problemi
prima di stravaccarsi in quel modo.
« Scusatemi. Non so cosa mi è preso. » esordisce la ragazza al centro dell’attenzione, tirando su col naso l’ultima lacrima.
« Crisi lipotimica. » le esplica fermamente Kojiro porgendole una
tazza fumante con una bustina in infusione. « Hai perso i sensi per
il forte stress creato dalla situazione attuale. Prendi questo, con un
tè passerà tutto. »
Ma allora anche gli orientali usano le bustine?! Io ho sempre creduto che il rito del tè dove si mischia su un piattino una poltiglia con
quella specie di pennello da barba fosse il vanto delle culture dell’est
asiatico. Questa però è meglio che la tenga per me, visto il tipo po-
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entità di puro spirito, o aura. Io mi sento ancora tutte le pulsioni vitali e soprattutto pensando alle reazioni di Joseph nell’ultima ora e
mezza credo che abbia anche lui tutto funzionante al posto giusto.
« Vi prego, non consideratemi una pazza furiosa, è che forse mi
faccio troppo trasportare dalle paure inconsce. » A queste parole un
rossore di vergogna le riempie le gote vellutate e lucide dalle lacrime
appena versate.
« Stai tranquilla, Lilith. Ora sei con noi e non ti succederà nulla,
chi trova un amico trova un tesoro no? Tu ne hai trovati ben quattro, visto che fortuna, hai il coraggioso Joe, l’enigmatico Koji, il tenero Sam e me, Norma. Sono certa che diventeremo inseparabili.
Sei davvero bellissima. »
« Grazie a tutti ragazzi, e grazie soprattutto a te per avermi soccorsa. » dice guardando con un poco di vergogna Kojiro, seduto su
un puff a cubo di fronte a noi.
« Manovre fondamentali, basilari in ogni corso di infermieristica.
L’importante è non farsi prendere dal panico. Non siamo più nel
Kansas, Doroty » sdrammatizza l’interlocutore.
« Certo, ma nell’assolata California! » urla Joseph come in preda
ad un immotivato patriottismo sfrenato.
« Ma che stai dicendo Joe, perchè la produzione avrebbe dovuto
spostarsi in California quest’anno? La casa è sempre stata a Parigi.
E poi la M6 channel sai soldi che dovrebbe sborsare per il collegamento in diretta ventiquattro ore su ventiquattro dall’America. Per
non parlare del fuso orario poi... » sottolinea Norma con puntigliosità.
M6 channel? California? Parigi? Un brivido mi scende attraverso
tutti i nervi della spina dorsale.
« Fermi tutti... » cerco di far ordine ad un pensiero che è appena
nato in me.
« Kojiro, tu di dove sei? »
« Dalla provincia di Kyoto... »
« Sai l’italiano? »
« Amico, scherzi? Inglese fin che vuoi ma cosa mi serve in Giappone sapere l’italiano? » ribatte lui non curante della situazione che
si sta chiarendo di fronte a noi.
« Norma tu hai detto Parigi. M6 channel è un’emittente Francese? » faccio girandomi di scatto verso le due ragazze.
FOR YOUR CONSIDERATION
© Francesco Cappellotto - [email protected]
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« Ma certo Sam, che domande mi fai? Cosa ti sta prendendo? »
Mi accascio con la schiena sul divano e mi porto le mani sul volto. Non ci posso credere. Non... Non è umanamente possibile. Ho
visto una cosa del genere solo in quella serie vecchissima, Guida
galattica per autostoppisti... Ma non è possibile che stia accadendo
veramente!
« Ehi, amico, ma che stai male pure te? » dice distrattamente Joseph quasi addormantato nel suo loculo scavato con la schiena nella
poltrona.
« Ragazzi, Kojiro è Giapponese. » esplico con la maggior calma
possibile « Norma viene dalla Francia. Tu, Joseph, sei Californiano... »
« Nel sangue bello! Puro Californian boy! »
« Io sono italiano. E tu Lilith di dove sei? »
« Io sono islandese... » risponde con una flebile ansia nella voce.
« Lei è islandese. » concludo io.
« Ragazzi non mi dite che hanno fatto davvero l’edizione internazionale del Grande Fratello, non ci posso credere! Io sono la rappresentante francese, oh mio dio, non è possibile! » si alza in piedi
Norma come se tarantolata, in preda ad una felicità irreprensibile.
« Hai ragione. Quello che stai cercando di dirci... » mi segue serioso
Kojiro, accarezzandosi la testa per togliersi la bandana, conscio del
problema che stiamo scoprendo « è che tutti riusciamo a capirci pur
parlando lingue differenti? »
Bingo.