DIFFERENZE DI GENERE NEL MONDO DEL LAVORO E NEL

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DIFFERENZE DI GENERE NEL MONDO DEL LAVORO E NEL
DIFFERENZE DI GENERE NEL MONDO DEL LAVORO E NEL SISTEMA PREVIDENZIALE
Sintesi delle valutazioni espresse nel corso delle Audizioni svolte dalla Delegazione CIDA e dall’esperta in
statistica Dott.ssa Antonietta Mundo presso la Commissione Lavoro della Camera nel febbraio 2016.
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Via Barberini, 36 – 00187 Roma Tel. 0697605111 – Fax 0697605109 www.cida.it [email protected]
Codice Fiscale 80079270585
Calo demografico e sue conseguenze
La speranza di vita nel 2014 è in aumento sia alla nascita (80,28 anni per gli uomini e 84,99
per le donne) sia a 67 anni (84,34 anni per gli uomini e 87,58 anni per le donne).
La popolazione sta invecchiando rapidamente anche perché assistiamo a un’emergenza
demografica.
Negli ultimi 5 anni si è registrata una forte denatalità che mette a rischio la sostenibilità del
sistema previdenziale a ripartizione.
Si riportano di seguito i dati comparativi dell’evoluzione della popolazione italiana al
1/1/82, al 1/1/2015 e la dinamica dell’età dei pensionati al 31/12/2011.
Anche le previsioni fatte dall’ISTAT confermano il trend della denatalità al 2065 della
popolazione italiana.
Istat - POPOLAZIONE RESIDENTE 1.1.1982
100+
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2
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Donne
Uomini
POPOLAZIONE RESIDENTE 1.1.2015
Istat - POPOLAZIONE RESIDENTE AL 1.1.2015
2
POPOLAZIONE RESIDENTE 1.1.2015
Donne
Uomini
100+
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PENSIONATI 31.12.2011 (INPS – CASELLARIO CENTRALE DEI PENSIONATI)
Donne
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3
POPOLAZIONE 1.1.2065 (ISTAT – PREVISIONI 2011-2065) – IPOTESI CENTRALE)
Donne
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Le Donne Millennials protagoniste per incrementare la natalità
Come si è appena detto il quadro demografico è preoccupante: è a rischio nel lungo
periodo la sostenibilità del sistema previdenziale per una possibile futura mancanza
strutturale degli occupati, occorrerebbe prioritariamente convogliare risorse per
incrementare la natalità (Fondo politiche sociali, familiari e non autosufficienza: art.22-ter,
c.3, d.l. 78/09).
L’Italia nel 2012 per la funzione Esspros-Eurostat “famiglia/figli” ha speso il 4,2% del
totale della spesa per protezione sociale (penultimo paese nella graduatoria europea),
contro l’8,4% della media UE27. I primi Paesi sono il Lussemburgo (16,2%) e l’Ungheria
(12,3%), ultimo i Paesi Bassi con una spesa del 3,5% del totale della spesa per protezione
sociale.
Si potrebbero ad esempio migliorare e razionalizzare i servizi alle famiglie: offrire asili
nido pubblici gratuiti e voucher baby-sitter per 1 anno, utilizzabili fino a 3 anni di vita del
bambino, ampliare la platea delle madri beneficiarie, semplificare e razionalizzare la
normativa degli incentivi (assegni, bonus, voucher, ecc.), snellire gli adempimenti
burocratici necessari (domande, documentazione, ecc.).
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BENEFICIARE DI MATERNITA’ OBBLIGATORIA E CONGEDO PARENTALE
(distribuzione percentuale per tipo di lavoro)
ANNO 2011
Maternità obbligatoria femmine
Congedo parentale femmine
0,5%
0,9%
6,0%
6,6% 2,6% 8,2%
92,6%
82,5%




Dipendenti a tempo determinato
Dipendenti a tempo indeterminato
Autonomi
Contribuenti alla gestione separata
Fonte: elaborazioni su dati INPS
RICORSO AL CONGEDO PARENTALE RETRIBUITO:
289.381
Lavoratrici
dipendenti
in maternita nel
2009
5
Anno
2012
14%
Anno
2011
22%
Anno
2010
49%
Anno
2009
41%
L’inadeguatezza dei servizi sociali
La mancanza di una rete adeguata di servizi sociali ed efficaci misure di conciliazione,
l’assenza di sostegno al lavoro di cura svolto dalle donne nella famiglia, sono tutti aspetti
di un contesto sfavorevole soprattutto alla maternità. Nel 2010, il Governo aveva
annunciato che i risparmi derivanti dalla parificazione dell’età pensionabile nel settore
pubblico sarebbero stati destinati interamente a un fondo per il sostegno alla famiglia e al
lavoro delle donne. Così non è stato. I risparmi erano stati stimati in 120 milioni nel 2010,
242 milioni nel 2011, fino al 2020, per un totale di 3 miliardi e 950 milioni.
L’attuale normativa (vedi scheda riportata di seguito) va dunque completamente rivista e
sistematizzata al fine di ampliare il più possibile le platee di riferimento.
Tutte queste risorse andrebbero dunque utilizzate per gli scopi ai quali erano destinate.
Anche tutti i risparmi sulle pensioni realizzati dal decreto «salva Italia», con
l’innalzamento delle età femminili, sono stati infatti utilizzati per coprire il debito
pubblico.
I risparmi quindi non sono stati impiegati per favorire la natalità o garantire la non
autosufficienza, né tantomeno per tutelare e incentivare l'occupazione femminile
attraverso il miglioramento dei servizi sociali.
Solo recentemente sono stati introdotti contributi alle famiglie per le spese familiari, ma
tali misure agevolano fasce troppo ristrette di popolazione.
D’altra parte la situazione dell'occupazione femminile si è aggravata anche a causa della
esiguità di servizi sociali di supporto alle famiglie.
Occorre pertanto dare finalmente attuazione al Fondo di cui alla norma citata (22-ter,
comma 3, del decreto-legge n. 78 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 102
del 2009).
Durata media del congedo parentale e altre misure esistenti per la natalità
•
le lavoratrici dipendenti nei tre anni successivi alla maternità ricorrono mediamente
a 18 settimane di congedo parentale facoltativo (anche un giorno è sufficiente a
registrare negli archivi INPS la durata di una settimana);
•
mediamente l’imponibile previdenziale delle lavoratrici dipendenti in maternità
nell’anno 2011 è stato pari a 10.232 euro annui;
6
•
il costo medio complessivo di 18 settimane di congedo parentale retribuite al 30% è di
1.063 euro lordi (2.479 euro è il 70% della retribuzione lorda cui rinuncia la lavoratrice
e 818 euro sarebbero i contributi mancanti da riscattare su domanda);
•
dal 2013, in alternativa al congedo parentale, era previsto un voucher per baby sitter
o asilo nido di 300 euro mensili per massimo 6 mesi (lav. dipendenti e gestione
separata) e per 3 mesi alle lavoratrici autonome, utilizzabile nel 1° anno di vita del
bambino. Dal 2015 l’importo è stato innalzato a 600 euro mensili ed esteso alle
lavoratrici del settore pubblico;
•
sono previsti assegni di maternità dello Stato/INPS (2.082 euro misura intera non
soggetta alla prova dei mezzi e sotto certe condizioni di contribuzione) per madri
lavoratrici e precarie;
•
assegni di maternità dei Comuni (misura intera euro 1.694,45 =338,89x 5 mesi, con
reddito ISEE fino a € 16.954,95) per madri disoccupate senza contributi da 18 mesi che
non usufruiscono dell’indennità di maternità per congedo obbligatorio
•
nel 2015 assegni dei Comuni per nuclei familiari con 3 figli (141,30 x 13 mensilità =
1.837 euro annui, misura intera, con reddito ISEE pari a 8.555,99 euro)
•
Dal 1.1.2015 al 31.12.2017 un assegno triennale di sostegno alla natalità (bonus bebè):
-
pari a 1.920 euro annui (160 euro mensili) se il nucleo familiare ha un reddito ISEE
non superiore a 7.000 euro annui
-
pari a 960 euro annui (80 euro mensili) se il nucleo familiare ha un reddito ISEE fino
a 25.000 euro annui
•
Assegno al nucleo familiare per lavoratori dipendenti, in relazione alla
composizione familiare e al reddito
•
Assegni familiari per lavoratori autonomi in base alla composizione familiare e al
reddito
Prolungamento del congedo obbligatorio per il padre
Il prolungamento del congedo obbligatorio per il padre sarebbe utile per promuovere un
cambiamento della mentalità italiana: il Paese è ancora caratterizzato da un’elevata
asimmetria dei ruoli nella coppia. Individuale, non trasferibile e ben retribuito: sono le
caratteristiche di un congedo parentale efficace, per avviare un percorso di riequilibrio sul
mercato del lavoro e di maggiore uguaglianza di genere nella famiglia. Con la legge di
stabilità 2016, vengono prorogati, per l’anno 2016, per il padre lavoratore dipendente il
congedo obbligatorio (di due giorni) e quello facoltativo (da utilizzare in alternativa alla
7
madre che si trovi in astensione obbligatoria, sempre entro i cinque mesi dalla nascita del
figlio) ed è rifinanziato il bonus baby-sitter (esteso, in via sperimentale per il 2016, anche
alle madri lavoratrici autonome o imprenditrici). Questa disciplina andrebbe resa
strutturale e soprattutto andrebbero aumentate in modo adeguato le due giornate di
congedo per il padre.
Riconoscimento sul piano contributivo dei periodi di cura familiare
I carichi di cura familiare sono stati considerati per troppi anni appannaggio solo
femminile; questo sottrae maggiormente le donne dal circuito lavoro-produzionefruizione di trattamento pensionistico, costringendole ad interrompere l’attività lavorativa
per periodi più o meno lunghi o a chiedere la trasformazione del contratto di lavoro in part
time, eventi che condizionano pesantemente la misura del trattamento previdenziale.
A condizioni differenti occorre assicurare discipline normative differenti. L’equiparazione
dell’età pensionabile tra uomini e donne deve contenere dei contrappesi almeno fino a
quando la natalità abbia ripreso slancio non vi sia un perfetto equilibrio tra i due generi sia
nel mercato del lavoro sia nell’intercambiabilità dei carichi di lavoro familiari.
Le donne e il mercato del lavoro
Il tasso di disoccupazione giovanile con laurea e post laurea è del 14,1% per i maschi e del
31,6% per le femmine.
In media le donne hanno carriere lavorative meno appaganti di quelle maschili, subiscono
interruzioni di carriera più frequenti e spesso non tornano a lavorare a tempo pieno.
Guadagnano quindi in media il 16% in meno all’ora rispetto agli uomini; su base annuale
il divario raggiunge addirittura il 31%, considerando che il lavoro a tempo parziale è molto
più diffuso tra le donne.
Le donne percepiscono una retribuzione oraria inferiore e accumulano un minor numero
di ore di lavoro nel corso della loro vita rispetto agli uomini e anche le loro pensioni sono
ridotte.
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PENSIONATI PER GENERE E CLASSI DI IMPORTO – ANNO 2011
3.500.000
3.000.000
2.500.000
2.000.000
1.500.000
Numero pensionati
1.000.000
500.000
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Uomini
Classi di importo
Donne
Fonte: elaborazioni su dati Inps
PENSIONATI PER GENERE E CLASSI DI IMPORTO – ANNO 2014
3.500.000
Numero pensionati
3.000.000
2.500.000
2.000.000
1.500.000
1.000.000
500.000
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Uomini
Donne
Classi di importo
Fonte: elaborazioni su dati Inps
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Di conseguenza, tra gli anziani vi sono più donne in stato di povertà rispetto agli uomini.
Per gli uomini il lavoro è una componente fortemente identitaria.
Le donne, anche le più giovani che hanno studiato, presentano in media un minor livello
di identificazione con il lavoro. Hanno una pluralità di1 interessi come mogli, madri,
nonne. Il lavoro non è per loro un interesse esclusivo.
Rispetto agli uomini, cercano una retribuzione sicura, anche se più bassa, sono meno
disponibili a una parte dello stipendio flessibile e proporzionale ai risultati di impresa,
sono meno propense a finanziare progetti innovativi d’impresa.1
Da un’indagine Istat (Statistiche Report - “Conclusione dell’attività lavorativa e transizione
verso la pensione” – Anno 2012) su un aggregato 11 milioni e 40 mila persone, pari al 74,1%
del totale dei 50-69enni (donne 39,5% e uomini 60,5%):
• Le donne e i lavoratori dipendenti mostrano maggiore propensione a terminare il
lavoro appena possibile
• Mediamente le carriere sono più corte per le donne (33,9 anni contro 37,6 anni degli
uomini)
• 541 mila individui tra 50 e 69 anni hanno dichiarato di non avere ancora versato
alcun tipo di contributo previdenziale. Le incidenze più elevate sono tra le donne e
nelle regioni meridionali
• Gli uomini si ritirano dal lavoro al raggiungimento dei requisiti minimi (pensione
anzianità/anticipata) le donne per pensionamento obbligatorio (vecchiaia).
Nel 2018, anno di passaggio a regime e parificazione delle età legali, le pensioni di
vecchiaia saranno un po’ più numerose e l’età media effettiva di pensionamento delle
donne supererà quella degli uomini.
Permangono poi gravi debolezze strutturali nel mercato del lavoro, quali, ad esempio,
barriere all’accesso al lavoro determinate in gran parte dai carichi familiari, diversità nei
percorsi di sviluppo professionale che caratterizzano il lavoro femminile, scarsa presenza
femminile nelle posizioni più elevate, carriere più “lente” e meno accessibili, anche in
relazione alla minore disponibilità di tempo, gap tra titoli di studio e ruoli effettivi;
differenziali retributivi con uomini a parità di ruolo.
La carriera femminile, contraddistinta da un accesso tardivo al lavoro, da rapporti
interrotti e discontinui comporta pensioni mediamente e significativamente più basse
rispetto agli uomini, pur essendo le donne la maggioranza dei pensionati del nostro Paese.
I differenziali di genere nelle pensioni non verranno colmati fintanto che non saranno
superate le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro, nell'organizzazione dei tempi
di vita, e non sarà disponibile una rete adeguata di servizi sociali per l’infanzia e per l’
assistenza a genitori anziani non autosufficienti.
La flessibilità introdotta nel mercato del lavoro, se ha certamente visto crescere la quota di
occupazione femminile in termini assoluti e percentuali, sta precarizzando i percorsi di
vita, di lavoro e quindi i livelli retributivi e contributivi, in particolare delle giovani donne
e, mentre fa rinviare loro la maternità nella fascia di età da 35 a 39 anni (vedi tabella
riportata di seguito), non ne rafforza la permanenza al lavoro, anche per un sistema di
welfare inadeguato e sempre più costoso.
1
Indagine per Federmeccanica del Prof. Daniele Marini Univ. Padova – Sociologia – Monitor sul lavoro Fuori Classe –
Collana Osservatori n. 4 Ottobre 2015
10
DISTRIBUZIONE DELLE LAVORATRICI DIPENDENTI IN MATERNITA’ PER CLASSE DI
ETA’
2007
2008
2009
2010
2011
Età media
32,4
32,6
32,8
32,9
33,1
Età mediana
33
33
33
33
33
fino a 24
da 35 a 39
41%
da 25 a 29
da 40 a 44
40%
21%
2007
2008
31%
19%
4%
19%
4%
4%
1%
1%
0%
2009
8%
7%
7%
0%
0%
37%
30%
20%
6%
5%
38%
29%
20%
6%
5%
39%
28%
27%
da 30 a 34
45 e oltre
2010
2011
Fonte: elaborazioni su dati Inps
Discriminazioni incontrate dalle donne nell’accesso alle posizioni di carriera più elevate
L’accesso al mondo del lavoro per la donna è oggi sicuramente più facile che nel passato.
Vi sono ancora invece forti resistenze a consentire l’accesso delle stesse alle qualifiche più
elevate.
Nel settore del pubblico impiego, dove la componente femminile prevale tra il personale,
il problema dell’accesso della donna alle posizioni di carriera elevate è fortunatamente
meno evidente. In molti comparti del pubblico impiego il più lusinghiero percorso di studi
delle donne viene riconosciuto con una certa presenza femminile nei livelli, anche apicali,
di responsabilità.
Malgrado ciò anche nel pubblico impiego la presenza maschile nelle posizioni di carriera
più elevate risulta spesso maggiore di quella femminile (vedi caso INPS).
11
LO SVILUPPO DELLE CARRIERE DELLE DONNE E DEGLI UOMINI NELLA
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: IL CASO INPS AL 31 DICEMBRE 2007
Qualifica
Qualifica al 31 dicembre 2007 (colonne)
Totale qualifica
all'assunzion
Area A
Area B
Area C
Area Dirigenti Area Professionale all'assunzione (righe)
e (righe)
Uomini Donne Uomini Donne Uomini Donne Uomini Donne Uomini
Donne Uomini Donne U + D
Anzianità Tutte
Area A
380
279
162
215 3.545
4.886
33
12
13
2 4.133 5.394 9.527
Area B
1.227
2.190 5.774
5.978
186
48
14
2 7.201 8.218 15.419
Area C
1.822
2.988
173
61
11
11 2.006 3.060 5.066
Area Dirigenti
70
27
70
27
97
Area
Professionale
-
-
-
Totale
qualifica
al 31.12.2007
(colonne)
380
279
1.389
% sul Totale
1,2
0,9
4,5
-
-
-
2
-
658
413
2.405 11.141
13.852
464
148
696
428 14.070 17.112 31.182
44,4
1,5
0,5
2,2
1,4
7,7
35,7
660
45,1
413
54,9
1.073
100,0
Fonte: elaborazioni su dati Inps
Nel 2007, il personale Inps è composto per il 55% da donne e per il 45% da uomini. I dirigenti
sono il 2% del totale, di cui gli uomini sono due terzi (1,5%9 e la quota femminile (0,5%) è
un terzo. Tra i professionisti (medici, attuari avvocati, e ingegneri/architetti iscritti in albi
professionali), gli uomini sono quasi il doppio (2,2%) delle donne (1,4%). Le aree A, B e C
(esecutiva, di concetto e funzionariato) che all’assunzione erano composte dal 55,6% di
donne e dal 44,4% di uomini, nel 2007 presentano una diversa composizione pari al 56,2%
di donne e del 43,8% di uomini. Infatti, dalle aree A, B e C migrano alle Aree apicali 392
uomini che diventano dirigenti e 38 che diventano professionisti; per contro dalle predette
Aree solo 121 donne raggiungono la dirigenza e 15 la carriera professionale.
Dati statistici sulla presenza femminile nella categoria dirigenziale
Negli ultimi anni, a seguito della crisi, si è assistito da un lato a un ridimensionamento della
popolazione dirigenziale, dall’altro a una modifica significativa della composizione
occupazionale. Nel 2013 sono 539.459 i Manager presenti nel mercato italiano, di cui 113.745
Dirigenti e 425.714 Quadri.
La quota di Manager è molto piccola all’interno della popolazione occupata e dipendente in
Italia: rappresenta, infatti, meno del 5% (su un totale di circa 12 milioni di occupati
dipendenti).
Il confronto internazionale ci vede al di sotto dei Paesi più avanzati. Considerando sia i
Manager dipendenti pubblici che privati, Eurostat li conteggia come l’1,3% della
popolazione italiana occupata, contro il 4,8% della media europea (15 Paesi) e valori dal 3%
in su per i 4 principali Paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito, Spagna).
Le donne Manager sono in crescita (+15,8% per i Dirigenti, +24,1% per i Quadri); questo
trend risulta fisiologico in un universo lavorativo dal quale il genere femminile è stato
assente fino a pochi anni fa, ma che oggi, anche a fronte del forte turnover annuo e delle
12
normative recentemente introdotte sulle "quote rosa", le vede più presenti nel management
aziendale.
Numeri di Manager nel settore privato: ANNO 2012 E TREND 2012-2008 - GENERE
Dirigenti
Uomini
Donne
2012
99.342
16.853
TREND 2012-2008
- 5,0%
+15,8%
Dirigenti
Nord
Centro
Sud e Isole
2012
83.205
24.316
7.232
TREND 2012-2008
-2,4%
-2,7%
-5,4%
Quadri
Nord
Centro
Sud e Isole
2012
280.018
94.838
47.548
TREND 2012-2008
9,1%
12,5%
9,9%
Quadri
Uomini
Donne
2012
305.787
119.694
TREND 2012-2008
+ 5,4%
+24,1
Fonte: Manageritalia-CIDA su dati INPS
La politica può proporre misure legislative per cambiare alcuni stereotipi (come nel caso
dell’introduzione del congedo di paternità o con la legge sulle Quote Rosa) e può fare in
modo che la società si faccia carico dei soggetti deboli come bambini, anziani e disabili,
liberando le donne da quel tradizionale compito di cura che viene loro affidato.
Auspichiamo un nuovo modo di concepire e valorizzare il lavoro, che sia più flessibile, più
orientato al risultato e al merito e meno legato alla presenza fisica sul luogo di lavoro. Si
devono diffondere progetti già avviati, progetti che riguardano la flessibilità dei modelli
organizzativi, il ricambio generazionale, la banca del tempo, la diffusione degli strumenti
informatici, una nuova concezione dello spazio e del tempo lavorativo.
Progetti la cui percorribilità e sostenibilità è comprovata dal fatto che sono già stati attuati
in alcune aziende/amministrazioni, con ottimi risultati.
Per quanto riguarda le dirigenti nell’ultimo periodo, le cose stanno cambiando non solo nel
settore pubblico, dove le donne dirigenti sono salite del 20% ma anche sul fronte privato:
infatti, mentre i dirigenti maschi arretrano del 5%, le femmine aumentano del 16%. Così
oggi le donne manager rappresentano il 15% del complesso della dirigenza, oltre il 16% nel
settore del terziario.
Un miglioramento della presenza femminile nel lavoro qualificato è dovuto soprattutto a
due fattori, le quote rosa e il ricambio generazionale.
L’introduzione delle quote rosa fa registrare un netto miglioramento della presenza
femminile nei consigli di amministrazione (+ 8,4 % dal 2010 al 2013 - European Commission,
database on women and men in decision–making), così come il ricambio generazionale. A fronte
di una disoccupazione giovanile molto elevata nel nostro Paese, le donne giovani a livello
13
dirigenziale aumentano. Tra i dirigenti, infatti, nelle fasce d’età più giovani, le donne hanno
oggi un peso intorno al 25% (25-29enni 23,6%; 30-34enni 26,9%).
Secondo la Banca d’Italia, una donna che lavora crea altro lavoro, aumenta i consumi e fa
crescere il PIL. A parità di altri fattori, una maggiore occupazione femminile determina
“meccanicamente” un maggior prodotto: un tasso di occupazione femminile al 60%
comporterebbe un aumento del PIL fino al 7%.
Questo è valido specialmente se la donna lavora come top o middle manager, perché ha un
guadagno consistente, resta fuori casa molte ore e deve avvalersi di personale di ausilio e
supporto. I consumi aumentano, comunque, all’ingresso nel mondo del lavoro di ogni
donna, a qualsiasi livello.
Per elevare il tasso di occupazione femminile è indispensabile varare misure concrete e ben
definite e, soprattutto, cambiare l’approccio finora seguito nelle politiche pubbliche,
attivando una forte politica di investimenti nel welfare. Una politica di welfare, basata sulle
infrastrutture sociali, dalla scuola, alla sanità, alla cura di anziani e minori, potrebbe
rilanciare l'occupazione femminile.
Attualmente, per evitare il rischio di tornare indietro, occorre introdurre in modo prioritario:
 Un aumento della flessibilità dei tempi di lavoro
 Una maggiore presenza di servizi di supporto alla donna lavoratrice
 Una capillare diffusione del lavoro a distanza.
L’occupazione femminile può aumentare soprattutto se la donna è messa in condizione di
lavorare con le forme di flessibilità dell’organizzazione aziendale.
La riforma pensionistica e le donne
Uno degli obiettivi della riforma delle pensioni è la promozione di una graduale
equiparazione del trattamento pensionistico di uomini e donne. Entro il primo gennaio
2018 è, infatti, previsto che tutte le lavoratrici raggiungano un’età pensionabile pari a
quella degli uomini.
Il percorso sarà graduale. Dopo il 2018 è previsto un graduale innalzamento dell’età
pensionabile (sulla scorta delle aspettative di vita) fino ad almeno 67 anni nel 2021 per tutti.
In generale l’equiparazione del percorso previdenziale dei due sessi è stata uno dei
riferimenti del nuovo sistema pensionistico, anche per via delle indicazioni provenute più
volte da Bruxelles. Il nuovo quadro delle pensioni delle donne si inserisce in un dibattito
pluriennale che mescola le istanze comunitarie di parificazione tra diritti e doveri dei due
sessi con le esigenze di bilancio dello Stato. Ad ogni taglio della spesa previdenziale
l’erario pubblico incassa infatti preziose risorse.
Date le generali condizioni di svantaggio delle donne una parificazione del trattamento
pensionistico dovrebbe necessariamente essere accompagnata da provvedimenti a tutela
delle famiglie. Oggi le donne in Italia non solo guadagnano meno degli uomini a parità di
competenze e responsabilità, ma fanno più fatica a fare carriera e sono supportate in
maniera assai blanda nell’esigenza di coniugare maternità, impegni familiari e lavoro. Per
questi motivi a uguali doveri imposti dalla riforma delle pensioni dovrebbero
corrispondere uguali diritti nella riforma del lavoro.
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TASSO DI ABBANDONO DEL LAVORO DOPO LA MATERNITA’
Generazione 2009 delle lavoratrici dipendenti in maternità
Entro 4 anni dalla maternità ¼ delle donne abbandona il lavoro
Tassi di abbandono
cumulati
289.381
266.439
237.792
224.164
216.982
Anno 2009
7,9%
Anno 2010
17,8%
Anno 2011
22,5%
Anno 2012
25,0%
Generazione
Attive
Attive
Attive
Attive
Anno 2009 Anno 2009 Anno 2010 Anno 2011 Anno 2012
Fonte: elaborazioni su dati Inps
Sarebbe auspicabile pertanto un regime che introduca più congedi parentali e forme di
flessibilità di orario oltre al già richiamato potenziamento di servizi alla famiglia anche per
evitare abbandoni del lavoro dopo la maternità che è oggi un fenomeno preoccupante e
diffuso. Tra le misure da introdurre sono da considerare prioritarie le seguenti:
• ANF e assegni familiari con limiti reddituali più elevati
• orari dopo-scuola prolungati con attività sportive o complementari e durante
l’estate offrire centri estivi gratuiti con mensa e attività ricreative;
• trasporto scolastico pubblico gratuito per tutte le età (scuola, asili e nidi);
• sgravi fiscali consistenti dalle buste paga delle lavoratrici e sgravio contributivo
all’azienda per 3 anni se la madre lavora (no riscatti onerosi);
• riconoscimento del coefficiente di trasformazione in rendita riferito ad un’età
maggiore di 1 anno per ogni figlio avuto, fino ad un massimo di 3 o 5 coefficienti
superiori all’età posseduta.
L’opzione donna
Riteniamo che la possibilità di anticipare il pensionamento a 57 anni e 3 mesi di età (58
anni e tre mesi per le lavoratrici autonome) con almeno 35 anni di anzianità contributiva e
decorsi 12 mesi dalla maturazione di entrambi i requisiti (18 per le lavoratrici autonome),
possa essere una ulteriore risposta alle esigenze di anticipazione del pensionamento per le
lavoratrici donne che, vista l’entità della penalizzazione, ne hanno veramente bisogno.
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A riprova di quanto sopra affermato, si riporta il calcolo effettuato per una lavoratrice con
qualifica di quadro con 57 anni e tre mesi di età, 17 anni e 10 mesi di anzianità al 31.12.1995
ed un’anzianità complessiva al 31.12.2015 di 37 anni e 10 mesi:
Importo mensile lordo retributivo: quota A + quota B =
1.851,79
quota contributivo per gli anni dal 1996 in avanti:
882,20
Totale trattamento pensionistico mensile lordo
2.733,98
per 13 mensilità:
35.541,79
Tasso sostituzione rispetto ultima retribuzione (53.837)
66,02%
Opzione contributivo importo mensile:
1.653,27
Retribuzione media ultimi dieci anni
-1.081
-39,53%
49.206
Come si può rilevare, la suddetta lavoratrice, che sulla base dell’attuale normativa
dovrebbe attendere 4 anni, più l’ulteriore adeguamento Istat, per accedere al
pensionamento di anzianità, utilizzando l’opzione donna avrebbe una penalizzazione di
circa il 40% sull’importo della pensione.
Miglioramento della disciplina sui trattamenti pensionistici di reversibilità
In controtendenza rispetto a coloro che prevedono la fine o il pesante ridimensionamento
dell’istituto della reversibilità, sono state presentate diverse proposte di legge in materia
di cumulabilità dei trattamenti pensionistici di reversibilità, con l’intento di migliorarne la
disciplina.
Certamente l’istituto della pensione di reversibilità, come attualmente concepito, penalizza
in modo eccessivo il superstite e soprattutto la sua componente femminile. Appare dunque
urgente migliorare le condizioni di cumulabilità della pensione di reversibilità con i redditi
percepiti dal beneficiario.
Superstiti
- donne 88%
- uomini 12%
La contribuzione per il
rischio superstite,
basata sulla probabilità
di lasciare famiglia,
dovrebbe consentire al
lavoratore il diritto alla
prestazione completa.
La riduzione della perc.
di reversibilità per
reddito disincentiva il
lavoro femminile
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Reversibilità
pensioni di
guerra
e
rendite Inail
Per i titolari di
pensioni di guerra è
prevista
la
reversibilità anche se
il titolare muore per
cause non collegate a
eventi bellici mentre
per le rendite Inail
non
è
previsto
andrebbe equiparata
la normativa
La Proposta Boeri
Fino al 1992 è mancato un monitoraggio adeguato del sistema previdenziale da parte della
classe politica che non ha effettuato per tempo le necessarie riforme. In particolare non si è
effettuata quella indispensabile separazione tra previdenza e assistenza che ha contribuito
al peggioramento dei conti dell’INPS. Il sistema, anche per questa commistione, è andato in
crisi ed oggi regna una grande confusione al punto che viene messa in discussione perfino
l’entità delle pensioni retributive in essere, mentre permangono all’interno dell’Inps una
miriade di gestioni che vivono regole proprie, si dovrebbe invece tentare di unificarle per
quanto possibile anche in una logica di risparmi gestionali, regolando una volta per tutte le
ricongiunzioni (in alternativa alle ricongiunzioni onerose potrebbe essere inserito il calcolo
pro quota della pensione).
Nel tempo si sono succeduti interventi legislativi che hanno progressivamente aumentato
l’età pensionabile, creando il problema degli esodati, e diminuito il valore delle pensioni
anche mediante l’introduzione del sistema contributivo in sostituzione del sistema
retributivo. Per ultimo si sono applicati contributi di solidarietà e blocchi più o meno pesanti
della perequazione contro i quali si è pronunciata la Corte Costituzionale.
E’ in questo contesto che si è venuta a collocare la recente proposta del Presidente dell’INPS
Tito Boeri che intacca in modo pesantissimo anche i diritti acquisiti.
In un primo tempo Boeri aveva prefigurato un confronto retroattivo tra sistema contributivo
e il sistema retributivo mediante ricalcolo anche delle pensioni in essere che tenesse conto
del differenziale tra la pensione erogata con il sistema retributivo e quella derivante
dall’applicazione del metodo contributivo. Questo tipo di impostazione è stata scartata per
le difficoltà oggettive di ricostruire la posizione assicurativa dei pensionati pubblici ante
1992 (c.d. Quota A, prima della riforma Amato). Pertanto, Boeri ha ripiegato su altro sistema
che è stato al centro della sua proposta “Non per cassa, ma per equità”, corredata da un
articolato di norme.
In questa proposta il ricalcolo delle pensioni in essere, a partire da quelle oltre 3.500 euro
lordi mensili (circa 2.450 netti), sarebbe basato sul differenziale tra l’età di pensionamento
effettiva e quella che Boeri ha calcolato e definisce “l’età normale“.
L’età “normale” di Boeri è più elevata dell’età legale di vecchiaia che via via è stata in vigore
nel mondo del lavoro per gli uomini (da considerare i cinque anni di meno per le donne),
ed è determinata attraverso un complesso meccanismo che detrae a ritroso i mesi di
speranza di vita calcolati dall’Istat partendo dai 66 anni del 2012 (introduzione contributivo
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riforma Fornero) fino al 1974 in cui Boeri calcola l’età “normale” a 63 anni e 7 mesi. Nel 1974
l’età legale di vecchiaia vigente era 55 anni per le donne e 60 anni per gli uomini.
La penalizzazione della quota retributiva della pensione risulterebbe di circa il 2,5%-3% per
ciascun anno di anticipo (100 meno il rapporto tra il coefficiente trasformazione in rendita
contributivo dell’età di effettivo pensionamento, bloccato a 57 anni se l’età è inferiore, diviso
il coefficiente dell’età Boeri).
Questo meccanismo andrebbe a penalizzare anche categorie che hanno goduto di
agevolazioni particolari come gli esodati, gli esposti all’amianto, i minatori e gli altri
lavoratori impegnati in attività usuranti, le donne, le pensioni di anzianità per quote e le
pensioni anticipate, coloro il cui lavoro è legato a brevetti di guida che scadono a 60 anni
(autisti mezzi pubblici, piloti, capitani), i militari. Non penalizzerebbe, invece, a prescindere
dall’importo, coloro che restano o possono restare al lavoro oltre i 67 anni (lavoratori
pubblici in regime di trattenimento, professori universitari, magistrati, ecc.). Le
penalizzazioni servirebbero a coprire la flessibilità in uscita.
Raffronto tra le età legali di vecchiaia degli uomini e delle donne e le nuove età c.d.
"normali" ricalcolate da Inps dal 1974 al 2016 per effettuare le penalizzazioni
delle pensioni vigenti al di sopra di 2.450 euro netti mensili
68
67
66
65
64
63
61
60
59
58
57
56
55
54
53
1974
1975
1976
1977
1978
1979
1980
1981
1982
1983
1984
1985
1986
1987
1988
1989
1990
1991
1992
1993
1994
I sem 1995
II sem 1995
1996
1997
I sem 1998
II sem 1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
2009
2010
2011
2012
2013
2014
2015
2016
ETA'
62
ANNI
Età legale Vecchiaia Uomini
Età limite 57 anni per penalizzazioni
Età legale Vecchiaia Donne
Nuove età c.d. "normali" per penalizzazioni ricalcolate da INPS
Età legale Vecchiaia Uomini
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Senza contare poi che la riforma Boeri taglierebbe alcuni istituti assistenziali (integrazione
al minimo, 14ma, importo aggiuntivo, maggiorazione sociale, ecc.) sulla base della
situazione reddituale della famiglia dei beneficiari (ISEE).
Sulla proposta di Boeri il Governo non ha preso una posizione chiara definendola
interessante, ma non applicabile nell’immediato.
E’ probabile quindi che essa possa essere ripresa, sia pure con qualche adattamento, nel
prossimo futuro aumentando il clima di incertezza e confusione.
Il sistema previdenziale del resto è soggetto ad interventi con una frequenza eccessiva che
non giovano sicuramente al clima di fiducia e alla propensione ai consumi.
Un altro grave effetto della contrapposizione generazionale è dato dalla spaccatura, alla
quale stiamo assistendo con interessi sempre più divergenti, tra giovani e anziani.
Tutto ciò considerato si individuano come indispensabili il finanziamento dell’assistenza
attraverso la fiscalità generale e non più all’interno del sistema pensionistico INPS e un
deciso appoggio alla previdenza complementare per consentire soprattutto alle generazioni
più giovani di costruirsi un futuro pensionistico sereno. Va anche evidenziata la necessità
di avanzare proposte sulle coperture finanziare alternative a contributi di solidarietà, a
blocchi della perequazione o a ricalcoli delle pensioni in essere. Tra queste coperture
alternative potrebbe rientrare a titolo esemplificativo una più incisiva lotta alle evasioni
contributive e alle truffe all’INPS, un efficace recupero crediti e maggiori risparmi gestionali.
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