La Magia della Fotografia - Liceo Classico "F. Petrarca"

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La Magia della Fotografia - Liceo Classico "F. Petrarca"
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Ritorniamo finalmente, con l’inizio del nuovo anno e tanti interessanti articoli e
novità da proporvi!
Buona lettura!
Continuate ad inviarci i vostri articoli!
La nostra mail è [email protected].
Ricordiamo che il giornalino è anche sul Web, grazie allo spazio ora
offerto dal nuovo sito del Liceo, che ci ha dedicato un’intera parte!
Venite a visitarlo su www.liceo-classico.arezzo.it
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SOMMARIO
Pag.
3 – Poesia
5 – Spazio Giovani
7 – Attualità: Steve McCurry – Viaggio intorno all’uomo
La Magia della Fotografia
È il momento di farla finita
12 – Letteratura: Tolkien contro Hegel – primo round
17 – Storia: I have a dream, we all have a dream
18 – Recensioni: L’Altrove – Philomena di Stephen Frears
Candido o l’ottimismo
21 – Arte: Io Picasso
22 – Racconti: Acqua nei polmoni
La Danza dell’elfo – parte terza
Ombraluce – parte seconda
32 – Esercizi di Stile: Sano & Folle
Gianni – Parte seconda
Dialogo fra leopardi ed un consumatore di meta-anfetamina
38 - Svago
2
POESIA
E vorresti vedermi guerriera,
stretta al presente,
non ancorata.
Vedermi vorresti
con lucido sguardo
solcar le barriere,
Ma io dentro scoppio
e m'infrango
E di mare e nebbia m'offusco
O limpido, pieno Dolce ricordo.
Felicia Aldinucci
Ero sola.
La mia solitudine, il mio passeggiare da sola era, come sempre, piacevole.
Si, perché quando sono sola nessuno mi interrompe e posso osservare ogni piccola o grande cosa
intorno a me, una casa, un fiore, un sasso, e tutto appare stranamente delicato e se anche intorno a
me c’è un forte via vai di persone, io sento solo silenzio,sempre ammettendo che il silenzio si possa
sentire.
Fatto sta che ero sola e camminavo, abbastanza a caso, cioè sentivo di essere in cerca di qualcosa
ma non trovavo niente.
Era un continuo cercare quella cosa, che tutti voi sapete, e la cercavo ovunque anche negli occhi
sconosciuti.
Voglio però precisare che non era un cercare forzato, della scontata serie “chi cerca trova”,è una
cosa che viene più naturale come quando in una stanza piena di persone si cerca di trovare sempre
un volto amico.
Ed è a forza di cercare che ho capito che l’unico volto amico ai nostri occhi siamo noi stessi, che la
grande cosa che io cerco, che muta ogni giorno, non si trova in quello che vedo e che percepisco,
ma sono semplicemente io che la animo e che se smettessi di cercala, cesserebbe di esistere.
Anonimo
Nasconde quel ch'io provo
il mio sorriso,e amaro e buio
mi appare l'avvenire. Amai,
più di quanto si debba amar
qualcuno prima di bruciar la
propria anima, e dalle ceneri
non risorge fenice.
Anima Anonima
3
Colori paralleli
Mi ritrovo tra il bianco e il nero,
ma non assomiglio
affatto
al grigio. Sono solo il funambolo
del sottilissimo, impercettibile
confine tra luce
e tenebre, bombardata da fulmini e saette,
boati ed esplosioni. Eppure,
in questo campo di battaglia,
in questo miscuglio
eterogeneo
di confuse emozioni, mi sembra
di vedere il sorriso della
Felicità.
Sofia Casini
4
Spazio Giovani
Da Mercoledì 29 gennaio riprenderà lo SPORTELLO DI ASCOLTO PSICOLOGICO.
COSA E’?
Lo sportello può essere un’occasione di :
-ascolto
-accoglienza e accettazione
-sostegno alla crescita
-orientamento
-informazione
-gestione e risoluzione di problemi/conflitti
Lo sportello di ascolto è uno spazio in cui le problematiche riportate vengono accolte in modo
competente, non giudicante e nel rispetto della riservatezza.
Insieme si cerca di trovare un percorso idoneo ed efficace per la risoluzione dei problemi.
PER CHI?
È rivolto agli studenti, ai genitori, agli insegnanti e a tutto il personale scolastico.
QUANDO?
Troverete i volantini affissi nelle varie sedi alcuni giorni prima del giorno di sportello che verrà
fatto all’incirca una volta al mese nel pomeriggio.
CON CHI?
I colloqui saranno tenuti dalla dott.ssa Paola Belliconi psicologa e psicoterapeuta e avranno la
durata di 40 minuti.
DOVE?
Presso la sede centrale via Cavour, 44.
COME?
Per accedere allo sportello e’ necessario prenotarsi usando una delle seguenti modalità:
 rivolgendosi alla prof.ssa Ragonese
 chiedendo agli studenti tutor
 contattando la dott.ssa per mail [email protected]
 usando la pagina Facebook dello sportello: sportello liceo classico petrarca
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VUOI DIVENTARE
TUTOR?
IL PROSSIMO ANNO FREQUENTERAI
LA QUARTA?
SEI UN TIPO PROPOSITIVO?
SEI UN TIPO CHE OSSERVA QUELLO CHE HA INTORNO?
TI INTERESSA CHE LA SCUOLA CHE FREQUENTI SIA SEMPRE PIU’ UN POSTO
A MISURA DI VOI STUDENTI? VUOI ESSERE PROTAGONISTA E NON SOLO
SPETTATORE DI QUELLO CHE SUCCEDE NELLA TUA SCUOLA?
VUOI ESSERE COINVOLTO IN PRIMA PERSONA IN QUESTO PROGETTO ?
TI VA DI PARTECIPARE INSIEME AD ALTRI TUOI COETANEI A MOMENTI DI
DISCUSSIONE E DI CONFRONTO?
TI VA DI METTERTI A DISPOSIZIONE DI CHI INIZIERA’ QUESTO PERCORSO IL
PROSSIMO ANNO PERCHE’ POSSA TROVARSI PIU’ A SUO AGIO E INSERIRSI
NEL MODO MIGLIORE?
SE TI SEI UN PO’ INCURIOSITO…. NEL MESE DI FEBBRAIO POTRAI
PARTECIPARE ALLA SELEZIONE E ESSERE TU IL PROSSIMO ANNO UNO DEI
TUTOR!
COME PARTECIPARE?
DOVRAI COMPILARE UN QUESTIONARIO CON IL QUALE DARAI LA TUA
DISPONIBILITA’.
PUOI CHIEDERE MAGGIORI INFORMAZIONI E IL QUESTIONARIO AGLI
STUDENTI DELL’ ULTIMO ANNO CHE STANNO FACENDO ADESSO
L’ESPERIENZA DI TUTOR, ALLA PROF.SSA RAGONESE, ALLA PROF.SSA
MARANGIO OPPURE SCRIVERE SU FACEBOOK A: Sportello Liceo Classico Petrarca.
I QUESTIONARI SARANNO DISPONIBILI ANCHE DAI CUSTODI.
TI ASPETTIAMO!
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ATTUALITA’
STEVE McCURRY - VIAGGIO INTORNO ALL’UOMO
Il 5 Gennaio, davanti all’ingresso della mostra di Steve McCurry ho trovato ad attendermi una
lunga coda di persone e ciò è quanto meno sorprendente in un Paese come l’Italia, dove la cultura
fotografica è ai minimi termini. Forse perchè l’artista in questione è divenuto quasi mitologico,
soprattutto presso i giovani, non tanto in quanto fotografo ma piuttosto come incarnazione del
viaggiatore, dell’avventuriere, del cultore della libertà, dell’esploratore di nuovi mondi? O forse
perché in fondo la tanto denigrata pratica fotografica “tascabile” diffusa dal dilagare degli
smartphone ha prodotto un cambiamento tutto sommato positivo? La fotografia dei giovani, che è
principalmente condivisione momentanea ed istantanea in rete, senza alcuna consapevolezza visiva,
senza una curiosità compositiva di fondo, senza volontà di narrazione, di esposizione o di
testimonianza, potrebbe essere preludio di un avvicinamento alla buona fotografia. La butto lì. Se a
un ragazzo ogni cinquecento non bastasse più scattare continuamente foto con lo smartphone, e
decidesse di avventurarsi nella scoperta della magia fotografica o volesse approfondirla, saremmo a
cavallo. Anche tra i professionisti l’uso dello smartphone non è più un tabù, basti dire che l’agenzia
Magnum ha accolto nel suo staff M. C. Brown, fotografo che documenta eventi storici, anche
catastrofici, come guerre e rivoluzioni, quasi esclusivamente con il suo iPhone e pubblica sulle
testate di tutto il mondo.
Dunque la convergenza di questi due emisferi della fotografia è un dato di fatto.
Va detto che, in effetti, un crescente interesse verso la cultura
fotografica da parte dei giovani italiani si nota, a prescindere
dal “fenomeno McCurry”, però non bisogna farsi facili
illusioni: il nostro Paese è anche storicamente lontano da una
vera cultura fotografica, anche per la quasi totale assenza di
un’educazione visiva, a partire dalle scuole, tanto per dire.
Ma chi è contemporaneo, prima o poi, vuole conoscere e
capire la contemporaneità e poi padroneggiarla. E la
fotografia, checché se ne dica, è ancora il linguaggio più
contemporaneo che ci sia. Oltre le ipotesi, rimane il dato di
fatto: Steve McCurry è il pioniere di una fotografia moderna,
che possiede un potenziale formidabile e promettente,
gravido di energie, di curiosità e di freschezza. Consideratelo
un maestro, capace di raccontare la vita, come un poeta o uno
scrittore. E’ il fotografo che ha fatto del viaggiare la sua
dimensione di vita e che ha approfondito la conoscenza di
culture diverse, rendendosi testimone e interprete, attraverso
il suo obiettivo, di migliaia di accadimenti del nostro tempo
in tutto il mondo; non solo, è anche fautore di una colorata,
incredibile, poliedrica e affascinante galleria di immagini,
nelle quali ha sigillato tutta la magia, l’orrore e l’ amore di
cui l’uomo è capace. Non ama le definizioni, si dichiara semplicemente “fotoreporter”; la sua
fotografia è sperimentale, non esclude il digitale e l’uso di software per il “foto shop”, ma c’e solo
una cosa per lui imprescindibile: i colori, perché “il bianco e nero va sicuramente bene, però la vita
è a colori e per questo la scelta del colore mi sembra molto più logica e naturale. Attraverso il
colore restituisco la vita come appare”, essi sono l’ “anima del mondo”.
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Gli scatti di McCurry mostrano tutte le facce del diamante scintillante, anche se ermetico, che è
l’uomo, e dell’universo che esso può esprimere, per questo la presenza umana nelle sue foto è
imprescindibile, che essa sia dettaglio o soggetto focale dell’inquadratura. Che sia vittima o
carnefice. L’uomo di Steve McCurry è il viaggiatore: Lui in quanto fotografo itinerante, e Noi, gli
osservatori, per i quali egli ha creato, all’interno della mostra, 5 luoghi in cui perdersi, irreali e
stranianti, che provocano un totale coinvolgimento spaziale ed emotivo, oceani dai colori limpidi e
vividi, in cui immergersi e affogare, per poter esperire l’altro e riflettersi in acque ignote. L’uomo è
il protagonista assoluto di questi luoghi e ne sente il tempo; più precisamente devono esser definiti
“non-luoghi”, immateriali come apparizioni celate dietro veli meravigliosi e indimenticabili, di cui
bisogna saper cogliere ogni singolo sguardo, ogni impercettibile movimento, finendo
inconsapevolmente col diventare complici, più che testimoni occasionali della foto: ecco il trucco di
McCurry per approdare al cuore. Ogni stanza dell’esposizione rappresenta uno di questi luoghi, una
tappa del viaggio intorno all’uomo con la sua profondità e con un taglio particolare; in sintesi non è
altro che una percorso di stati d’animo, definiti con parole non esaustive, incerte ed evanescenti, e
per questo anche evocative, astruse e destabilizzanti: Scoperta, Vertigine, Poesia, Stupore,
Memoria.
È la “Scoperta” la prima tappa: si giunge in un luogo affollato e caotico dove si percepisce,
inizialmente, un caliginoso e quasi indistinto affollamento di presenze umane, con le quali è necessario
confrontarsi: è il luogo dove tutti gli incontri sono possibili, dove tutti gli sguardi s‘incrociano
distrattamente, tranne quelli di McCurry e dei suoi soggetti: sguardi penetranti, inquietanti, dolci e
seducenti. È un luogo dove le parole non servono, l'immediatezza del linguaggio visivo basta per
rispettare la sacralità del momento immortalato. Le foto si
materializzano una per volta da teli neri sospesi, come fuochi
fatui, a significare che ogni incontro particolare è una visione,
un sogno, un flashback alla quale partecipano solo l’osservatore
e il soggetto umano impresso sulla “pellicola”. Mettendo
progressivamente a fuoco possiamo isolare il singolo volto
dalla totalità della folla, perché, come sostiene l’artista stesso
“Se aspetti, la gente si dimentica della tua macchina
fotografica e l’anima affiora, diventa visibile, si libra verso di
te.” e così lui può catturarla e “disegnare” la scena nella
celluloide: ad ogni singola presenza vibrante, fosca e indistinta,
siamo sempre più in contatto con la vita e con la nostra anima
distaccandoci dal caos indistinto e prepotente della marea
umana. Verso la fine della stanza la presenza rassicurante
dell’uomo si dissolve, mostrando tracce di passati lontani, sia
temporalmente che geograficamente, materializzati come
oggetti antropomorfi e rovine di antiche civiltà che giacciono lì
a urlare il muto orrore delle conseguenze dell’agire dell’uomo
fin dalla notte dei tempi. La scoperta dunque, verso la fine,
diventa eclissi, scomparsa, spersonalizzazione e perdizione.
La seconda tappa è quella della “Vertigine”: si entra in una vera e propria “galleria degli orrori”, un
luogo destabilizzante in cui regnano atrocità e follie. Tutti questi orrori ci circondano, per ricordarci
di cosa siamo capaci, nonostante i fautori siano gli stessi esseri umani che nella prima stanza si
presentavano attraverso sguardi sinceri, profondi e penetranti. La percezione diminuisce,
l’equilibrio si perde, mancano punti stabili e fermi, il luogo non ha più confini netti e definiti e le
immagini costituiscono solo un minuscolo tassello del mosaico di dolori prodotti dall’essere umano,
soprattutto contro se stesso.
La terza tappa, quella della “Poesia”, è totalmente antitetica alla precedente, dall’alto pende una
figura geometrica di forma irregolare, composta da parallelepipedi scuri sovrapposti, dalla faccia
minore dei quali emerge la foto, proiettata verso lo spettatore seguendo direzioni oscure: qui i sogni
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si materializzano, a partire da una nebulosa di foto, e prendono vita meravigliosi racconti condensati
in singoli scatti, mentre sfogliamo le pagine delle vite di altre persone, scopriamo che il loro vivere
quotidiano non è poi così diverso dal nostro, perché animato dalle stesse esigenze, dalle stesse
necessità e soprattutto dalle stesse speranze. È un caleidoscopio della poesia e della bellezza
espresse dall’uomo.
La 4 tappa, ci insegna lo “Stupore”, raro, prezioso, e purtroppo sopito negli adulti, ma
indispensabile per gli artisti e per i bambini. Il mondo qui rappresentato ha un che di fiabesco e
fantastico, ma non è altro che la nostra realtà: una linea continua, colorata ed esotica di diapositive
che escono dalle pareti, dal pavimento e dalle volte, rendendoci immediatamente e nuovamente
innocenti, piccoli e curiosi, attenti a non perdersi neppure un singolo bellissimo sorriso. Infine la
“Memoria”, quinta e ultima tappa, perchè un viaggio bisogna riviverlo… seduti e attoniti,
ascoltiamo la storia personale, unica e coinvolgente della ricerca di McCurry, dopo 20 anni, della
sua “Gioconda”, la ragazza afghana che col suo sguardo aveva affascinato il mondo, trovandola con
“La pelle segnata dalle rughe, ma esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa", con gli
stessi occhi verdi e feroci. McCurry si muove nella storia e nel tempo, è in grado di catturare il
“qui” e l’”adesso”, per condividerlo con noi in formato pixel. È un pescatore che si siede sulla riva
del mondo e aspetta di immortalare la preda e racchiudere tutto in uno sguardo, in un volto. Come
racconta lui stesso: “Passo un sacco di tempo a guardare facce e facce, e le facce sembrano
raccontarmi una storia. Quando su un volto è scavata qualcosa dell'esperienza di vita, so che la
foto che sto scattando rappresenta molto di più del semplice momento. So che qui c'è una storia.
Per questo la maggior parte delle mie immagini sono di persone. Cerco il momento indifeso,
l’anima più genuina che si affaccia, l’esperienza impressa sul volto di una persona. Cerco di
trasmettere ciò che quella persona può essere, una persona descritta sopra un paesaggio più
ampio, che potremmo chiamare la condizione umana.”: la sua non è fotografia “da parete” e non
può essere tantomeno “sfondo”, perchè ciò neutralizzerebbe la potenza dello sguardo e la nostra
percezione di esso; perciò egli ha invece fatto in modo che tra i due soggetti si instaurassero sempre
relazioni attive, e mai di circostanza, con l’aiuto delle luci e dei materiali e, allo stesso tempo, ha
lavorato sulla percezione dello spazio tra le immagini, che non può essere equiparato ad una pausa,
ma piuttosto ad un sussurro, ad un soffio di vento, ad un silenzio tridimensionale. Ha trasformato
cioè la sua arte in un gioco per l’impressione e per la sensazione umana, senza (permettetemi un
neologismo) “superficializzarla”, cioè senza privarla del significato immenso che egli vuole
trasmettere in partenza. Questo periplo intorno all’uomo ci fa scoprire quali soggetti particolari e
quali mondi specifici e affascinanti siamo tutti indistintamente. Ecco il mondo visto con i suoi
occhi, ecco l’umanità che vuole esprimere, ecco il modo in cui McCurry si esprime: l’”eloquenza
dello sguardo”, cioè la comunicazione attraverso un linguaggio universale fatto di occhi vivi e
variopinti; poi, stracci di quotidianità, le ombre, le sagome, il linguaggio silenzioso delle mani, il
gioco, l’aspettare e l’agire, il fluire della vita umana, il bene e il male, la guerra, la vita che corre e
scorre, la solitudine, la perdizione nei propri pensieri, l’evoluzione in atto…
La sua filosofia artistica ci educa alla tolleranza, all’uguaglianza, alla libertà e al rispetto, ci insegna
lo splendore di una vita multicolore e cosmopolita, la pazienza e la curiosità di vivere, la
consapevolezza di far parte di qualcosa di più grande e complesso e infine, la più importante, la
bellezza totale e devastante dell’uomo, anzi, mi correggo… dell’intero genere umano.
Luca Parlangeli
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La Magia della Fotografia
Come molti sanno, la macchina fotografica è uno strumento in grado di realizzare un’immagine
grazie all’effetto della luce. La parola “fotografia” deriva dal greco: luce (φῶς) e grafia (γραφή),
tradotto
letteralmente
“scrittura
della
luce”.
Utilizzando le scoperte e gli studi già avviati nell’antica Grecia, la fotografia si concretizzò agli
inizi dell’ 800 e si sviluppò arrivando all’immagine a colori e all’utilizzo del digitale, diventando un
mezzo
artistico
capace
di
supportare
e
affiancare
le
arti
visive.
La fotografia si è affermata nel tempo dapprima come procedimento di raffigurazione del paesaggio
e dell'architettura, poi come strumento per raffigurare la nascente borghesia e il popolo. La
maggiore diffusione della macchina fotografica portò ad uno sviluppo della sensibilità estetica e
all'indagine artistica del nuovo strumento, consentendone l'accesso alle mostre e nei musei.
Ebbe inoltre un ruolo fondamentale nello sviluppo del giornalismo e nel reportage e il
miglioramento della tecnologia ne contribuì l'estensione anche nella cattura di immagini dello
spazio e del micromondo; prima di arrivare alla macchina fotografica odierna, lo strumento ha
avuto una lunga storia e ha
subito
moltissimi
cambiamenti.
Uno di questi è lo sviluppo
della pellicola al digitale.
Bisogna ammettere che il
digitale è migliore come
risoluzione, come purezza dei
colori, assenza di grana e di
rumore. Lo si può ingrandire a
dimensioni che con la
pellicola erano solo sogni, si
può notare subito se una foto è
sovraesposta o sottoesposta.
Invece con la pellicola era molto più difficile perché si doveva attendere a lungo prima di avere la
foto e vedere se venivano sovraesposte, storte etc…e se essa risultava sbagliata era difficile
catturare nuovamente il momento o il paesaggio che si desiderava. In termini economici, è più
semplice mantenere una macchina fotografica digitale, poiché la scheda SD si compra una sola
volta, mentre i rullini andavano ricomprati ogni qualvolta finisse il precedente.
Prima le macchine fotografiche erano oggetti d’élite, poiché molto costosi e difficili da usare, al
contrario
adesso
è
quasi
normale
possedere
una
reflex.
Concludo citando le parole di Andreas Feininger: <<Chi non sa fare una foto interessante con un
apparecchio da poco prezzo, ben difficilmente otterrà qualcosa di meglio con la fotocamera dei suoi
sogni.>>
Elettra Sarno
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E' il momento di
farla finita.
E' troppo tempo ormai che circolano per le nostre strade,
viaggiano indisturbati: il centro della nostra città è in pericolo e
non tarderà ad esserlo anche la periferia. Ogni giorno causano
profondi disagi, quelli che hanno trovato una stabilità economica
viaggiano con macchine di lusso che il più delle volte non si
possono nemmeno permettere, altre volte sono completamente
ubriachi, li trovi stesi nei vicoli del centro, picchiano ragazze e si
credono invincibili. Non portano rispetto a questo paese, non
pagano le tasse, il centro è pieno di nuovi negozi a loro intestati.
Stanno minando la nostra economia, il nostro agio, ci mettono
solo paura e terrore, nessuno vuole più girare da solo per paura di
incontrarli e inoltre non portano alcun vantaggio culturale. Siamo
tutti d'accordo che è il momento di fare qualcosa? Nessuno sembra
accorgersene! Nessuno sta facendo qualcosa! Adesso tocca a noi
alzare un grido di protesta:
E' IL MOMENTO DI FARLA
FINITA, o questi italiani razzisti ci distruggeranno.
Ilaria Dalla Noce
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LETTERATURA
TOLKIEN CONTRO HEGEL: primo round
A giudicare dal titolo potreste pensare che ci
sia stato un errore di impaginazione e che
questo sia in realtà un altro sogno poco
raccomandabile, accidentalmente finito fuori
dalla rubrica che spetta a lui e ad i suoi degni
compari: se davvero fosse così mi troverei in
parte scagionato dalla paternità di un
accostamento tanto azzardato e stridente, da
ricondurre piuttosto al mio inconscio, nonché
affrancato
dall’obbligo
di
analizzarlo
dovendone addirittura trarre conclusioni
sensate. Ebbene no, è tutto (si spera)
razionalmente concepito, e pur riconoscendo i
netti limiti della mia conoscenza in merito al
pensiero dei due soggetti in questione intendo
comunque esporre il confronto cui essa mi ha
condotto recentemente, grazie ad un
eccezionale kairòs che ha sovrapposto il mio
studio del suddetto filosofo con l’uscita nei
cinema del secondo capitolo de Lo Hobbit.
Ovviamente non mi permetterei mai di
affrontare un simile proposito impugnando
solamente le conoscenze derivanti dalla
semplice visione di un film, ma devo
ammettere che è stata quest’ultima a
risvegliare ancora una volta in me
l’imperituro amore per il mondo tolkieniano,
la profondissima ammirazione per la capacità
creativa di un filologo decisamente fuori dal
comune ma soprattutto il desiderio di
addentrarmi con maggiore acutezza nel
significato della sua opera. Significato, sì,
perché le vicissitudini della Terra di Mezzo, o
più in generale di Arda, sono pervase da un
messaggio che va ben oltre la semplice lotta
tra bene e male, come potrebbe sembrare a
prima vista anche considerando la natura
fantastica della materia narrata: è anzi un
messaggio che investe l’individuo quasi nella
sua totalità, offrendo di volta in volta
originalissimi spunti di riflessione su molte
delle dinamiche che lo interessano. Nel nostro
caso, la dinamica in questione è il suo
rapporto con la Storia, da confrontare in
seguito con la concezione del filosofo
idealista per antonomasia.
Prima di procedere è tuttavia necessario
rispolverare uno dei capisaldi della poetica
tolkieniana, vale a dire la concezione
dell’allegoria. “Detesto l’allegoria, l’allegoria
cosciente e intenzionale” spiega il nostro
Ronald Reuel all’amico Milton Waldman in
una lettera che ha più i connotati di
un’enunciazione programmatica: nelle pagine
che seguono egli sviscera infatti tutte le
conclusioni, affatto scontate aggiungerei,
necessariamente derivanti da una simile
affermazione, delineando una concezione del
tutto originale dell’attività letteraria creativa.
Anzitutto il termine “allegoria” acquisisce
per lui un significato amplissimo, di respiro
quasi globale: allegoria è tutto ciò di altro
rispetto alla realtà concreta
cui si dà,
letterariamente parlando, vita, affinchè
esprima un qualsivoglia messaggio capace di
trovare riscontro nella realtà stessa, proprio
perché da essa proveniente; una sorta di
parabola insomma, che dall’uomo nasce e agli
uomini intende riferirsi, solitamente attraverso
immagini
o
storie
esteticamente
o
pateticamente efficaci. Cosa significa dunque,
rigettare
l’allegoria
“cosciente
e
consapevole”?
Significa rifiutare di
concepirla come creazione meramente
funzionale alla nostra realtà, come prodotto
che in essa trova il proprio fondamento ed il
proprio fine: l’allegoria di Tolkien vuole
12
avere sussistenza propria, spogliarsi di
qualunque intento didascalico per configurarsi
come un universo a sé stante e solo in seguito
mostrare come il proprio significato possa
essere valido anche per la nostra umanità . Da
una
simile
impostazione
consegue
necessariamente l’obbligo di ideare non solo
un nuovo mondo, ma anche un nuovo
impianto metafisico, nuove civiltà, una nuova
geografia, una nuova glottologia (e su
quest’ultimo aspetto si dovrebbero spendere
innumerevoli pagine, poiché è quello in cui
Tolkien
ha
riversato
maggiormente
la
sua
incontenibile passione di
filologo)
e,
venendo
finalmente all’ambito che ci
interessa, una nuova Storia;
dunque nuove leggi della
Storia, ed un rapporto
alternativo dell’individuo
con essa, il tutto con un
proprio
originale
fondamento.
Prima
di
proseguire, tuttavia, mi
permetto di ritagliare uno
spazio al fine di prevenire
le ingenue obiezioni di quanti potrebbero
avventatamente affermare : “ma questo lo
fanno tutti gli scrittori fantasy eh!” . Bene, se
proprio
si
intende
svilire
Tolkien
costringendolo ad un confronto con quella
dozzinale produzione dei giorni nostri che
rientra nel cosiddetto genere fantasy, si tenga
presente che anzitutto lui è stato il primo non
solo a concepire un progetto simile, ma anche
a realizzarlo con una coerenza ed una
naturalezza raramente superate, sviluppando
in maniera rigorosa le premesse filosofiche e
compenetrandole
ad
una
materia
incredibilmente coinvolgente e pulsante di
vita propria. Ecco, molto sinteticamente, cosa
eleva la sua opera ad una dignità ben
superiore rispetto a quella della semplice
narrativa fantasy. Ma passiamo oltre.
Ritengo che la tematica della Storia in
Tolkien affronti principalmente due questioni:
la possibilità per il singolo, nella sua
minutezza, di intervenire positivamente in
essa, dunque la Libertà, e la Responsabilità
che gli viene lasciata di sfruttare o meno tale
opportunità a fin di bene; a quest’ultima si
associa poi una problematica ulteriore che è
quella della Tranquillità, ovvero il sostanziale
rifiuto della Storia . Ovviamente sarebbe bello
potersi soffermare anche su dinamiche come
la sete di potere, la genesi del Male, il senso
dell’avventura, ma purtroppo mi troverò a
doverle toccare solo superficialmente.
La Libertà, per cominciare: da una lettura
anche parziale della Trilogia dell’Anello o de
Lo Hobbit traspare subito come Tolkien abbia
scelto di affiancare ad una nutrita schiera di
eroi, creature poderose ed incarnazioni del
Male,
tutte
accomunate
da
una
caratterizzazione quasi epica, personaggi che
con l’epos non hanno nulla a che vedere: gli
hobbit,
appunto.
Pigri,
abitudinari,
tradizionalisti, amanti delle comodità e della
buona tavola, garbatamente ma rigorosamente
insofferenti e chiusi nei confronti di
qualunque cosa minacci di turbare la pace
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della loro Contea, queste creature suscitano
inevitabilmente la simpatia del lettore proprio
per il loro vivere esclusivamente di quei
“vizietti”
che nessuno,
per quanto
consapevole della loro talvolta pericolosa
vacuità, si sentirebbe in grado di condannare
in assoluto. Eppure sono proprio queste figure
completamente antieroiche che Tolkien
sceglie di proiettare nelle avventure più
impensabili, nei luoghi più tetri, nelle
battaglie per il destino del mondo, insomma
in scenari che nulla hanno in comune con il
pacioso verdeggiare della Terra di Buck ; è a
loro, gli esseri più limitati e indifesi, che egli
affida in ultima analisi le sorti di ognuno, ma
soprattutto la trasmissione di un messaggio di
respiro veramente universale. La Storia non
vive di grandi nomi, delle gesta di individui
forti e imperturbabili che calcano una strada
chiara e spianata verso l’inevitabile conflitto
con il Male; re, maghi, demoni o condottieri
non sono i soli a imprimere la loro volontà al
corso degli eventi, poiché anch’essi risultano
in qualche modo limitati: è anzi la loro stessa
grandezza a renderli in un certo senso
miopi,statici, incapaci di concepire soluzioni
al di fuori di quelle tragiche o apocalittiche.
Senza che costoro vengano delegittimati, sia
chiaro, Tolkien intende quindi mostrarci come
siano gli umili, i piccoli, quelli che la
tragedia e l’apocalisse non vorrebbero
neanche sentirla nominare ad incidere in
maniera definitiva sulla Storia, a fare
inconsapevolmente della propria genuina
ingenuità la bandiera più fulgida contro il
dilagare delle tenebre. Insomma l’intervento
positivo da parte del singolo, ma di quel
singolo che dalle grandi vicissitudini del suo
tempo sembrava destinato a rimanere avulso,
è possibile, possibile e decisivo. Se Frodo non
si fosse istintivamente offerto di portare
l’Anello a Mordor i grandi re dei Popoli
Liberi avrebbero continuato ad accapigliarsi
per chi dovesse averne l’onore e l’onere; se
Bilbo, in uno dei gesti di umana pietà più alti
e commoventi di cui si abbia nozione in tutta
la letteratura moderna, non avesse scelto di
risparmiare Gollum, per quanto abietto
potesse sembrare, in quell’antro delle
Montagne Nebbiose, lo stesso Frodo si
sarebbe ritrovato senza guida e spacciato
decenni dopo; e gli esempi di questo genere
sono innumerevoli. Anche nel Silmarillion si
può ritrovare, seppure ad un altro livello e con
diverse conseguenze, una dinamica di questo
tipo: in tal caso a vestire i panni dei “buoni a
nulla” agli occhi degli altri sono gli uomini,
malvisti dagli Elfi per la loro rozzezza,
imprevedibilità e soprattutto inclinazione al
Male. I criptici ed imperscrutabili custodi
primordiali della bellezza e dell’ordine del
mondo non hanno fiducia nelle creature
mortali e sentono di doversi fare carico da soli
del fardello che i Valar (le divinità minori)
hanno loro assegnato; ma è proprio la
mortalità che rende gli uomini capaci oltre
che del massimo Male, anche del massimo
Bene: “la mortalità” ripete più volte l’atavica
voce narrante nel corso del libro “è il dono di
Ilùvatar (Dio) agli uomini, la libertà dai
circoli del mondo”. Se tale frustrante
condizione di caducità, che gli Elfi peraltro
tacitamente invidiano, è infatti spesso
responsabile della deviazione verso la volontà
di dominio ed il Male, essa è di contro anche
uno stimolo unico ad agire in senso opposto,
ad amare il mondo e a lottare con disinteresse
per quanto di buono vi sia in esso, corroborati
dalla passione ardente che solo chi ha di
fronte un’esistenza finita può provare. Ancora
una volta dunque Tolkien dimostra come
siano i dubbi, le debolezze ed i limiti che
affliggono quanti appaiono più lontani dalla
grandezza a fare di loro degli inattesi eroi.
Portando avanti l’analisi è inevitabile
approdare senza soluzione di continuità alla
trattazione della Reponsabilità e della
Tranquillità, tra loro strettamente connesse: la
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seconda è infatti l’illusione che conduce il
singolo a rifuggire dalla prima, che ha a sua
volta nella Libertà il proprio fondamento. Ma
vediamo di spiegarci: si è detto che la
Responsabilità si realizza nel raccogliere la
possibilità offerta a tutti di contribuire
positivamente al corso degli eventi; ora,
tenendo conto di tutto quel che è stato
affermato riguardo alla Libertà e al ruolo delle
figure antieroiche, è possibile precisare che
spesso nonostante tutto alcune di esse
soccombano inconsapevolmente ai propri
limiti e rifiutino di esporsi al pericolo che
inevitabilmente la grande Storia rappresenta,
soprattutto agli occhi dei più semplici. La
Storia è da loro percepita come qualcosa di
estraneo, di lontano, quasi irreale: com’è
possibile che i conflitti con un certo Signore
Oscuro nelle distanti terre degli Elfi possano
degenerare al punto di intaccare la pace della
Contea? Oppure per quale motivo un hobbit
onesto e perfettamente soddisfatto della
propria dimora pulita ed ordinata dovrebbe
mai interessarsi delle questioni irrisolte di una
comitiva di nani, e addirittura rischiare la vita
per aiutarli a recuperare un fantomatico
tesoro? Ma gli esempi in questo senso sono
innumerevoli, e non coinvolgono solamente i
Mezzuomini: lo stesso ragionamento è
condotto anche dagli Ent, i secolari Pastori di
Alberi, e seppure in una misura differente
persino dal re elfico Turgon, nel Silmarillion.
La vicenda dei primi è alla portata di tutti: di
fronte alle pressanti e stridule richieste di
Merry e Pipino -per l’appunto due hobbit
divenuti
consapevoli
della
propria
responsabilità- di intervenire nella guerra
contro Isengard, pena la loro stessa
distruzione, Barbalbero ed i suoi si mostrano
scettici, prevenuti e quasi saccenti. La loro
vetustà li rende molto più periti
dell’andamento delle cose del mondo rispetto
a due creaturine di poco valore, spuntate da
poco sulla terra: gli Ent sono sopravvissuti ad
innumerevoli sconvolgimenti, e possono
superare anche questo chiudendosi nelle
profondità della foresta di Fangorn come
sempre hanno fatto. Solo quando vedono lo
scempio perpetrato da Saruman nei confronti
dei loro simili, solo quando Barbalbero si
ritrova di fronte ad una landa brulla e
martoriata dall’industria degli Orchi si
rendono
conto
del
proprio
errore,
comprendono che di fronte al Male è
prioritario prendere l’iniziativa, perché
nascondersi dalla Storia non è possibile e
l’alternativa è una vita di solitudine e fuga in
attesa della morte. Simile è la vicenda di
Turgon, che essendo narrata nel Silmarillion
si tinge di venature ancor più tragiche: egli è
re e fondatore della mitica città elfica di
Gondolin, racchiusa per miglia attorno da un
impenetrabile teatro di vette impervie, signora
della florida e apparentemente sicura valle di
Tumladen. Dalle sue aule splendenti egli
governa con saggezza un popolo felice e fiero,
amando sempre di più il gioiello di cui
comincia presto a ritenersi il solo padrone.
Secondo il procedimento di genesi del male
tipico dell’opera di Tolkien, egli attaccandosi
irrimediabilmente all’oggetto della propria
creazione si persuade che la sua Gondolin
svetterà nei secoli all’ insaputa di tutti, che la
pace vi regnerà in eterno e nessuna oscurità
potrà insozzare le sue pallide, rilucenti mura;
riduce i contatti con gli altri re suoi fratelli e
si isola nella riverente custodia della sua
tranquillità, per l’appunto. E il male
inevitabilmente lo sorprende, poiché le maree
della Storia non lasciano nessuno all’asciutto:
così grazie ad un casuale tradimento i
mostruosi eserciti di Morgoth penetrano nella
valle idilliaca, radono al suolo la città e ne
massacrano gran parte della popolazione,
nonostante l’eroica e disperata resistenza di
Turgon e dei suoi .
Se la Responsabilità è insomma una categoria
della coscienza, un impulso interiore a
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divenire consapevoli dell’apporto che
inevitabilmente si dovrà recare alla Storia, nel
Bene o nel Male, la Tranquillità è il suo
opposto e la sua negazione: è il ripiegamento
introverso,
l’egoistica
volontà
di
conservazione di sé anche a scapito di tutti gli
altri, in nome di una distorta idea di pace per
cui questa stessa, anziché
difesa o
conquistata, deve essere solo mantenuta il più
a lungo possibile, e con ogni compromesso.
Ma la Tranquillità non esiste se non nella
misura in cui coincide con l’ignorare i
problemi altrui e del mondo , e con l’
affezionarsi morbosamente alla propria casa,
regno, foresta o orticello che sia: essa è o la
timorosa speranza che la propria piccola realtà
rimanga intatta, dovesse anche ardere tutto
quello che le sta attorno, o l’infantile
rassegnazione di fronte ad una presunta
ineluttabilità degli eventi, o la rinuncia
all’intervento storico nella vanagloriosa
convinzione di aver raggiunto uno stato di
superiore
potenza
ed
intangibilità.
Un’illusione foriera di viltà, inevitabilmente
destinata ad infrangersi contro l’unica vera
legge della Storia, che è quella della Caducità,
a cui è inutile tentare di sfuggire. Accettare la
Responsabilità significa quindi sottomettersi a
tale legge, divenire consapevoli della propria
Libertà, dei propri limiti, e del ruolo che la
Storia ci chiama ad assumere, per “ decidere
cosa fare con il tempo che ci è concesso”, se
vogliamo rifarci alla massima, se permettete
quasi di senecana memoria, che Gandalf
elargisce pazientemente ad un dubbioso Frodo
nelle miniere di Moria.
Forse è proprio questo il merito più elevato di
Tolkien, quello in cui è veramente grande:
l’aver non solo affrescato una nuova Storia
universale, avendo reso con somma maestria e
realismo l’andamento ciclico di creazione e
distruzione che governa tutte le cose , ma
l’essere anche riuscito nonostante tutto ad
infondervi un senso, un profondissimo senso
. L’opera di Tolkien è nel suo cuore più
intimo un
monumento alla possibilità
dell’uomo di farsi eterno di fronte alla Storia
non superando i propri strutturali limiti, ma
facendo di essi il suo punto di forza maggiore,
la sua peculiarità, il suo vanto, nella lotta
contro un Male che ha nell’Indifferenza una
delle sue manifestazioni più insidiose. E chi
rifugge tale lotta e si chiude all’avvento della
Storia si limita a posticipare la propria fine,
concedendosi l’ingannevole godimento di una
pace effimera e malsana che lo rende cieco
alla rovina del mondo attorno a lui.
Questa dunque la lezione di Tolkien. Molti
hanno inteso vedere in essa un’allegoria, per
l’appunto, della seconda guerra mondiale e
delle atrocità del nazismo, un monito che il
filologo ha voluto lasciare anche per
inchiodare alla propria responsabilità
un’umanità che per troppi versi è rimasta a
guardare finchè le circostanze non l’hanno
costretta ad agire; ed una simile
interpretazione è senza dubbio plausibile, ma
palesemente riduttiva. Stante anche quanto
precedentemente
affermato
riguardo
all’allegoria è infatti da escludere (anche per
motivi cronologici) che l’intento dell’autore
fosse di legare il proprio messaggio a quella
che di fatto è una contingenza storica, per
quanto
sconvolgente, orrenda e senza
precedenti; l’opera di Tolkien ha un respiro
universale proprio per il suo essere scevra di
riferimenti impliciti o espliciti a date
situazioni storiche, e contemporaneamente per
la versatilità con cui può farsi in ogni
momento chiave di lettura delle stesse. In
questo si può infine comprendere appieno la
coerenza con cui l’autore abbia realizzato la
propria idea di allegoria.
Termina dunque qui, con mio grande
dispiacere, la dissertazione su Tolkien. Per
ovvi motivi di lunghezza e leggibilità rimando
al prossimo numero il confronto con il nostro
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Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sempre che
qualcuno dei miei venticinque lettori abbia
intenzione di prestarvi attenzione e soprattutto
che il sottoscritto riesca a mettere insieme
qualcosa di sensato da dire in proposito. In
ogni caso, ringrazio.
Renzo Nuti
STORIA
I have a dream, we all have a dream
“I have a dream: that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: We
hold these truths to be self-evident, that all men are created equal". Queste parole sono tratte dal
discorso tenuto dal reverendo Martin Luther King il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di
Washington al termine della marcia per il lavoro e la libertà (For Jobs and Freedom). Un discorso
che diverrà uno dei simboli della storia americana e che vuole ricordare alla nazione che, nonostante
siano trascorsi cento anni dall’Editto di emancipazione degli afroamericani emanato da Abraham
Lincoln, questi erano ancora considerati inferiori. Martin Luther King definisce vergognosa la
condizione degli afroamericani poiché gli “architetti della repubblica”, scrivendo la Costituzione e
la Dichiarazione d’Indipendenza, avevano promesso che tutti gli uomini avrebbero goduto dei
principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. Prosegue parlando di
un “assegno a vuoto” che è stato ricevuto dai cittadini americani di colore per indicare la promessa
non mantenuta dagli Stati Uniti d’America verso la parte nera della popolazione, sottolineando che
era arrivato il momento di realizzare le promesse fatte cento anni prima. Afferma che il 1963 è un
anno in cui le cose possono finalmente cambiare e che in America non ci sarà pace finché anche i
diritti dei neri non saranno garantiti. Continua il suo discorso dicendo che gli uomini di colore non
potranno mai essere soddisfatti finché continueranno a subire brutalità da parte della polizia, finché
continueranno a non essere accolti negli hotel delle città, finché ai loro figli sarà tolta la dignità
attraverso i cartelli con scritto “Riservato ai bianchi”. Conclude ripetendo più volte “I have a
dream”, sottolineando che il suo sogno è una speranza, quella che un giorno anche i neri potranno
lavorare, pregare e lottare insieme facendo riecheggiare la libertà in tutta l’America. È un discorso
profondo e moderno in cui si cerca di trasmettere la fratellanza e l’uguaglianza tra le due parti di un
popolo diviso da oltre un secolo. Queste parole sono un’esortazione ad avere sempre la forza di
andare avanti perché c’è sempre una speranza anche quando tutto sembra andare per il peggio; allo
stesso tempo queste parole sono anche un incoraggiamento a perseguire i nostri sogni perché Martin
Luther King, come ognuno di noi, aveva un sogno e grida agli afroamericani di non arrendersi per
vederlo realizzato. Quest’uomo credeva veramente in ciò che stava dicendo e il suo messaggio è
rivolto non solo a tutti coloro che erano lì presenti ma anche alle future generazioni e quindi a noi.
Ed è proprio questo quello che ci vuole far capire: dobbiamo sempre sperare in qualcosa perché, se
crediamo davvero in quello che facciamo e nel motivo per cui lo facciamo, possiamo avere speranza
di un futuro migliore, possiamo avere un sogno. We all have a dream.
Giulia Freni
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RECENSIONI
L’Altrove
Philomena di Stephen Frears
E dove sono la luce, la salvezza, quando tutto è buio e nemmeno uno spiraglio s'intravede oltre
l'oscurità opprimente che bussa alla tua finestra socchiusa. Per quanto io mi possa avvicinare
emotivamente alla sofferenza di Philomena, una donna vera, semplice ma più reale di quanto lo
possano essere tutti quelli che ci circondano, non riuscirò mai a comprendere pienamente la
profondità della sua mancanza; il non sapere corrode l'animo ancora di più di quanto conoscere il
destino di tuo figlio, strappato via dalle braccia ancora prima di aver compiuto i primi passi.
La rigida ricerca inizia, verso la verità, l'illuminazione. Philomena al fianco del giornalista Martin
Sixsmith, appena cacciato dalla stretta cerchia del primo ministro inglese Tony Blair, parte per gli
Stati Uniti, con una speranza nel cuore, che non smetterà mai di condurla sul retto cammino,
doloroso si, ma giusto.
Attraverso lo svolgersi di questo viaggio si crea il contrasto fra queste due menti, Philomena e
Martin, due persone completamente diverse, le cui divergenze culminano nel tema religioso: la fede
in Dio.
Questo processo, estremamente graduale, è
il perno centrale della storia, che porta
innanzitutto la sfortunata Philomena ad
intraprendere il viaggio. Nei due
personaggi
non
avviene
nessuna
evoluzione concettuale, particolare che
spesso caratterizza i film incentrati sulla
scoperta, anzi, si verifica quasi una
esasperata affermazione della loro
ideologia.
Martin, ateo.
Philomena, vera credente cattolica.
Come potrebbero due persone con dei
pensieri agli esatti opposti, entrare in
contatto per un fatto invece così
profondamente legato all'argomento che li
rende l'uno il contrario dell'altra? Possono,
perché nella loro diversità si completano.
Philomena possiede la vera fede, quella
non filtrata da alcun ente religioso, che ha
purtroppo spesso la pretesa di fare le veci
di Dio, che per definizione è tutto al di
fuori di umano. Lei si oppone ad una Chiesa, che gli negò di essere madre, in nome di qualcosa che
non poteva nè vedere nè toccare. Martin le chiede, "Come fai a non essere arrabbiata?" E lei
risponde "Io ho fede". Fede in Dio, non nella Chiesa. Lei perdona la suora che le ha fatto questo,
perché in cuor suo lei sa che la donna ha agito in tal modo per fede, che è appunto il modo in cui
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ogni persona interpreta singolarmente la religione. Non c'è rancore da parte sua, rimorso forse, ma
non rancore. Lei crede, e lei sa che così manterrà la sua serenità.
Martin non la comprende, è quasi furioso, e non riesce a realizzare come possa sottomettersi ad un
tale sopruso. Dice di non poter credere in un Dio, che sembra volere il male di coloro che lo amano.
In realtà Martin è molto meno convinto di quanto lui stesso affermi. A inizio film si tradisce, con
una semplice ma incisiva frase: "Speriamo non se la prenda. " Dice, riferendosi ad un gesto ironico
che ha appena compiuto nei confronti di una statua sacra. Questo soggetto sottinteso è senza alcun
dubbio Dio: ciò significa che nonostante il suo dichiarato ateismo, Il subconscio di Martin non è
convinto di tale affermazione, ma naviga ancora nel dubbio, al quale probabilmente non troverà mai
soluzione, non avendo la stessa forza d'animo di Philomena di gettarsi nel buio, senza corde o
salvagenti e credere in Dio e nella sua immensa misericordia. Avere Fede.
La vicenda quindi di Philomena, realmente verificatasi e trasposta dal giornalista Martin Sixsmith
nell'opera "The Lost Child of Philomena Lee", può essere definito come una sorta di amaro spunto
per il regista Stephen Frears, grazie al quale poter enucleare invece il tema della Fede, vera
protagonista di questo film. Judi Dench e Stephen Coogan, anche sceneggiatore, mettono in scena
divinamente i drammi dei personaggi, meritandosi senza alcuna ombra di dubbio le candidature
all'Oscar.
Ginevra Bianchini
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Candido o l'ottimismo
Nel gennaio 1759 apparve in Europa un volume intitolato Candide ou l'optimisme, traduit de
l'allemand de Mr. Le Docteur Ralph (Candido o l'ottimismo, tradotto dal tedesco dal signor dottor
Ralph).
L'anonimo autore dell'opera fu presto riconosciuto nella figura di
Voltaire, pseudonimo di François Marie Arouet, filosofo illuminista
francese, che con questo piccolo (per la mole, non certo per il contenuto)
libro scaglia una delle più forti critiche nei confronti della filosofia
ottimistica del filosofo Leibniz. Quest’ultimo, in sostanza, afferma che
quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili e che quindi
tutti gli eventi si compiono e si realizzano, necessariamente, nel modo
migliore possibile, per il semplice fatto che, se ciò non fosse vero, Dio
non avrebbe creato questa realtà. Voltaire reputa che questa filosofia non
solo induca il genere umano ad accettare lo status quo privandolo di
quelle energie che portano all’azione ed al cambiamento in virtù
dell'immutabile provvidenzialità del destino, ma che sia un' offesa al
buon senso e alla ragione, visto che aggiunge alle «tante miserie e orrori
(del mondo) l'assurda furia di negarle».
Il terremoto di Lisbona nel giorno di Ognissanti del 1755, che, insieme
allo tsunami da esso provocato, uccise circa un terzo della popolazione della città, rappresentò per il
mondo di allora un grande trauma: fu chiaro, perlomeno per Voltaire, che nessuno potesse più
affermare che «tutto è bene» a questo mondo. Il nostro autore fu molto probabilmente spinto da
questo evento, su cui aveva già scritto il Poème sur le désastre de Lisbonne, a elaborare Candido,
con cui riesce a confutare abilmente la filosofia leibzeiniana, attraverso una storia tragicomica con
una trama poco verosimile ma molto adatta sia alle finalità che alla struttura dell’opera stessa.
Il libro narra la storia di un ragazzo di nome Candido, allegoria dell'ottimismo. La filosofia corifea
dell’ottimismo è ridotta a slogan o motti ridicoli pronunciati dal personaggio-filosofo del libro,
Pangloss (da notare l'etimologia Πᾶν, tutto e γλῶσσα, lingua, quindi “tutto lingua”), che tenta
continuamente di giustificare il corso degli eventi, anche qualora essi non abbiano alcun risvolto
positivo. Fin dall'inizio della storia Candido non ha pace e si ritrova a errare in tanti e diversi luoghi
(che a volte costituiscono dei veri e propri mondi a sé stanti, come il paese selvaggio degli
Orecchioni) ma da cui deve sempre scappare, volontariamente o, soprattutto, involontariamente,
perché in nessun luogo trova felicità o pace, finché alla fine della storia si rassegna a non credere o
perlomeno a non dar molto credito all'ottimismo. Tra Bulgari e Abari, tra Lisbona e la mitica
Eldorado, Voltaire ci consegna un capolavoro dell'ironia fatta critica. Il libro non si conclude con
una risposta al problema, né denota una visione pessimistica del mondo, ma lascia l'interrogativo in
sospeso: il ragionamento conclusivo, «bisogna coltivare il proprio giardino», significa, in breve, “è
probabile che sia meglio non chiederci in quale modo il mondo funzioni, per non essere delusi”.
«Le cose non possono essere in altro modo. […] Notate che i nasi sono stati fatti per portare le
lenti; perciò noi abbiamo le lenti. Le gambe sono state chiaramente inventate per essere calzate, e
noi portiamo calzature.» - Pangloss
Enrico Fedeli
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ARTE
IO PICASSO
Pablo Ruiz, divenuto celeberrimo con il nome di Pablo Picasso, è sicuramente uno dei più grandi
artisti di tutti i tempi. Egli aderì a svariati movimenti pittorici fino a non appartenere più a nessuno,
sperimentando svariate tecniche e mutando la stessa interpretazione della sua arte; questi tuttavia
è irrimediabilmente diventato il simbolo del movimento cubista. Durante i suoi 86 anni da artista
creò un patrimonio immenso che va dalle tele ad olio a quelle a china, dalla scultura alla ceramica
per un totale di circa 120,000 pezzi. Alla sua morte, nel 1973, il famoso banditore d’asta Maurice
Rheims venne incaricato di fare l’inventario di tutte le opere del pittore per spartire l’eredità fra i
suoi figli; furono previsti tre mesi che comunque non erano molti per un tale patrimonio artistico,
ma alla fine ci vollero circa 7 anni. Impiegarono così tanto tempo perché nessuno conosceva
l’esistenza di migliaia di disegni, dipinti, acqueforti che Picasso aveva conservato e che
rappresentavano campioni della sua produzione, come per mettere dei punti fermi alla sua vita e al
suo percorso creativo; molte delle opere che tenne erano tuttavia memoria di particolari episodi
vissuti, i ricordi da cui non voleva separarsi. E’ il caso di questo autoritratto che venne scoperto
grazie all’inventario di Rheims; risale al 1918 e venne disegnato da Picasso alla morte
dell’inseparabile amico Whilelm Albert Apollinaire, meglio noto con lo pseudonimo di Guillaume.
Questi fu un poeta e scrittore francese, conosciuto nel 1903 e con il quale il pittore instaurò
un’amicizia destinata a durare tutta la vita; lui e l’altro amico dell’artista , Max Jacob, furono infatti
gli unici a difendere la sua pittura glaciale e funeraria durante il periodo blu. Nel 1914 scoppiò la
guerra e Apollinaire partì per il fronte mentre Picasso, essendo spagnolo, venne risparmiato da un
conflitto che non riguardava il suo paese,
ma non sapeva che l’amico non avrebbe
fatto più ritorno.
Questo autoritratto, quasi completamente
sconosciuto, dimostra la formazione di
Picasso presso i canoni della pittura
classica. Egli decide di dipingere ciò che è
e cosa prova in quel momento, un semplice
disegno a matita, come colori solo il
bianco e il nero. I tratti già pronunciati
dell’allora trentasettenne Pablo Picasso
sembrano resi ancora più severi dalla sua
espressione glaciale che fa trapelare un
immenso dolore. La testa è alta e
l’espressione risoluta, la bocca sigillata e le
sopracciglia aggrottate in un’espressione di
sdegno per l’orribile sorte dell’amico.
Quello che tuttavia cattura maggiormente
l’attenzione sono gli occhi dell’uomo, fissi, diretti e sconvolti, lo sguardo intenso, triste e
profondamente turbato sembrano quasi mettere in soggezione chi lo guarda, per un disegno che
venne definito un autoritratto per guardare in faccia la morte.
Carlotta Casi
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RACCONTI
Acqua nei polmoni.
Mi tiro il piumone fin sopra la testa.
Soffoco la faccia nel cuscino, ricerco il sonno disperatamente, come un sedativo, che acquieti tutto
questo pianto, che annebbi i sensi. Ricerco il sonno che protegga la mia mente da tutta questa
consapevolezza improvvisa e terrificante di quanto la nostra vita sia un filo sottile, troppo sottile.
Teso, troppo teso e poco flessibile, troppo poco flessibile.
Nella notte immobile e serena il sonno combatte con la paura, con le lacrime. Ma è sconfitto. E’
tutto troppo potente.
In autobus. Tutti sono molto assonnati, con i libri sulle ginocchia tentano di ripassare, ridono, si
spintonano. Lei racconta a gran voce di quanto poco avesse studiato, e di quanto le “avrebbe fatto il
culo “ la prof, ma non è preoccupata, anzi è sfacciata, irriverente, sicura di se, con tutto il suo
profumo e le sue scarpe di marca.
Lui ride con l’altro, stanno ascoltando un rapper italiano che riempie i suoi testi di parolacce, e la
cosa suscita ilarità. Un gruppo di tredicenni appare felice. Hanno tutti la Freitag e il telefono più
grande delle loro stesse giovani mani. Sale gente, ad ogni fermata lo spazio diminuisce. E a me
sembra di respirare acqua. Sale gente, e sembrano tutti felici, proprio stamattina. E vorrei urlare,
aprirgli gli occhi a forza, e spazzare via quell’effimera gioia.
Penso di essere egoista; Io soffro, ma questo non è un buon motivo per desiderare la sofferenza
altrui. Quanto è facile sentirsi soli, in mezzo a tutta quella gente. Ma questo è un dramma
universale! Come facciamo a vivere ogni giorno con questo ignoto fardello sulle spalle? Come
facciamo a ridere, a costruire, ad inventare, a trovare la forza. Basta un attimo di vento un po’ più
forte del solito a spezzare irrimediabilmente quel filo e farci smettere di esistere. O far smettere di
esistere chi ti è più caro al mondo e stapparti dalla tua illusione, sbatterti la realtà addosso, farti
schiacciare e sviscerare da essa, portatrice di dolore. Sale gente, sempre di più, sempre meno spazio,
sempre più acqua malata nei polmoni. Sale gente, i profumi si mischiano, fragranze troppo dolci e
nauseanti, odore di trucchi, chiacchere di tutto e di niente invadono le mie orecchie, acqua nei
polmoni. Io non me ne capacito, ieri ridevo anche io, ieri fluttuavo nella vita, leggera e spensierata.
Eppure, sciocca, avevi già conosciuto il dolore, non è la prima volta che ti si mostra la fragilità della
vita, e ti si stravolge il petto! Sciocca, perché ti stupisci del dolore, perché ti arrabbi con loro che
ridono? Lo sai, lo sai che prima o poi ritorna!
Siamo in via Petrarca.
Io sto per affogare.
Davanti a me lei muove il piede a ritmo di musica e si aggiusta le cuffie sulla testa, lui ripassa
Italiano. Non volevo leggere quelle parole, non stamattina, ma sembra che mi si buttino davanti
anch’esse, disperate. Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar
convenga?/ Se la vita è sventura / perché da noi si dura?.
Amato Leopardi, stamattina affogo con te.
Guido Monaco, non respiro più.
Scende gente, si riversa sulla strada pronta per affrontare la giornata. Mi riverso anche io con loro, e
mi sento persa. All’improvviso una mano calda afferra la mia fredda, e mi trascina via dalla folla.
Le sue braccia mi avvolgono forti, il suo respiro è aria nei miei polmoni che mi fa buttare fuori tutta
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quell’acqua. Mi prende il viso tra le mani, e mi ritrovo a cercare i suoi occhi teneri. Mi accarezza le
guance e mi sussurra: “E’ con Dio.”
I suoi occhi fissano i miei e in quell’attimo sorrido.
Trovo la forza, non so bene da dove di sorridere ancora.
E decido di respirare aria, aria a pieni polmoni.
Corinna Morini
LA DANZA DELL'ELFO
(parte terza)
Capitolo 6
Allenamento
“Sei pronta?”
“Pronta.”
Da un mese a questa parte, Lola non faceva altro che ripetere lo stesso ritornello.
Che era pronta.
Ma in realtà, lei, pronta non era affatto. Pochi giorni dopo l'incontro con la madre, avevano iniziato
ad addestrarla.
Inoltre, aveva passato poco tempo con Lynn, perché ogni giorno si recava nella Sala delle Armi e
prendeva lezioni da Aris.
All'inizio ci era andato piano, ora invece non aveva pietà.
Prima si allenavano con bastoni di legno poi, quando Lola aveva capito come funzionava, erano
passati a tutti i tipi di armi possibili e immaginabili.
Spade, archi, asce, pugnali, spadoni.
Adesso si stavano allenando con l'arco. Lola doveva cercare di colpire il centro del bersaglio
disegnato sul tronco dell'albero che costituiva la palestra.
Per un attimo i pensieri della ragazza tornarono a Lynn e al loro ultimo incontro.
Erano nei giardini del castello, di notte.
L'amica le aveva mandato un biglietto, comunicandole che si sarebbero dovute incontrare quella
sera stessa, di nascosto. Lola si era calata dal balcone e si era avviata alle serre, il luogo
dell'appuntamento.
“Lola, grazie al cielo!” le aveva detto Lynn abbracciandola, “temevo che non saresti riuscita a
venire.”
Per un po' erano rimaste così, l'una abbracciata all'altra. Poi l'elfa si era scostata.
“Ti ho chiamata per dirti di persona che non ci vedremo per un po'. Devo partire. Mi hanno affidato
una missione, me ne andrò stasera stessa.”
“Come? Dove ti mandano? Sei appena guarita.” Lola non aveva voluto accettarlo, Lynn era l'unica
che la capiva e la sua migliore amica.
“Lols”, Lola, suo malgrado, sorrise. Era il soprannome che Lynn le aveva dato, e la chiamava così
specialmente quando voleva comunicarle tutto il suo affetto. “Anche a me dispiace tanto lasciarti
sola, ma non posso dire di no. Devo ubbidire agli ordini e poi mi sono completamente ristabilita.
Però devi promettermi che, quando sarò via, tu farai il possibile per stare al sicuro e che non ti
caccerai nei guai. Non fidarti di nessuno, tranne Aris. Lui sta dalla tua parte.” le aveva detto,
guardandola con i grandi occhi verdi.
“Lo prometto.” le aveva risposto, con gli occhi che iniziavano a bruciarle.
“Ti voglio bene, non scordarlo mai. Tornerò presto e ci rivedremo.”
“Anche io ti voglio bene. Già mi manchi.” le aveva risposto. E, sebbene avesse fatto di tutto per
trattenerle, calde lacrime avevano iniziato a rigarle le guance.
Lynn le aveva dato un bacio sulla guancia e si era allontanata, senza mai guardarsi indietro.
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“Allora, Lola, concentrati e scocca la freccia come ti ho insegnato.” le disse Aris facendo scivolare
via dalla sua mente quel ricordo.
Lei fece come gli era stato detto, costringendosi a non pensare a Lynn e a dove fosse. Tese la corda
al massimo e lanciò.
La freccia fendette l'aria e si conficcò esattamente nel centro del bersaglio.
Ce l'aveva fatta.
“Sei stata bravissima.”
Aris aveva appena finito di complimentarsi con lei, che si sentì un sibilo proprio sopra le loro teste.
Lola si sentì trascinare da Aris per terra e cadde sopra di lui. Per un momento, furono vicini e Lola
si sentì arrossire.
Aris accortosi del suo rossore, si scostò immediatamente.
“Cosa diavolo pensavi di fare Magor?” gridò Aris ad un elfo dall'altra parte della sala da cui era
partita la freccia.
“Scusa Aris, l'arco è difettoso.”
“Pensi che uccidere la figlia della Regina sia un buon modo per ingraziarsela?”Aris era furioso,
come Lola non lo aveva mai visto.
“Io... Lola mi dispiace, davvero.” mormorò Magorn, che si era avvicinato, con aria afflitta.
“Non ti preoccupare, non è successo niente giusto?”
“Ma poteva succedere, se non ci fossi stato io.” replicò Aris.
“Grazie per avermi salvato la vita” disse Lola guardandolo negli occhi, “ma ormai è successo non
ha senso arrabbiarti con lui.”
“Va bene. Hai ragione, continuiamo la nostra lezione.”
Si esercitarono per più di un'ora. E, quando Aris dichiarò che per quel giorno avevano finito, Lola
era a pezzi.
Aris la riaccompagnò a palazzo e, dopo aver salutato la madre, si avviarono insieme verso l'infinità
di corridoi che portavano alle stanze di Lola.
In qualità di figlia della Regina, le spettava un'intera ala del palazzo; ma appena glielo avevano
detto, Lola aveva imposto le sue condizioni: non avrebbe occupato tutto quello spazio.
Lei aveva sempre vissuto in una casa piccola, non aveva certo bisogno di cinquanta stanze.
Così lei si era scelta quella che ora era la sua camera e aveva chiesto che, una tra le tante stanze che
non aveva voluto, fosse per il momento la camera di Aris.
In questa maniera avrebbero evitato che l'elfo la andasse a prendere tutte le mattine a palazzo per
allenarsi, poiché stava poche porte accanto.
Aris, alla fine, aveva accettato.
“Che hai in programma questa sera?” la voce di Aris la riscosse dai suoi pensieri.
Lola distolse lo sguardo dalle pareti del corridoio affrescate con motivi floreali e lo fissò negli occhi
di lui.
“Niente, penso che farò le stesse cose. Cenerò con mia madre e girovagherò di qua e di la per il
palazzo.”
In quei momenti Lola sentiva terribilmente la mancanza di Lynn, che non era ancora tornata.
Questo non faceva che aumentare di giorno in giorno la sua preoccupazione.
Quando lo faceva presente ad Aris, lui le rispondeva che non doveva preoccuparsi, così aveva
deciso di non parlargliene più, anche se doveva ammettere che l'elfo faceva di tutto per distrarla.
“Peccato, sai. Ti stavo per chiedere se mi avresti accompagnato ad una festa.”
“Certo che ti accompagno!”, rispose Lola in un tono volutamente offeso.
“Bene” le rispose Aris con un sorriso, “al tramonto ti passo a prendere.”
Erano arrivati alla porta della stanza di Lola.
“Allora ci vediamo tra un po'. Vado a prepararmi.” disse Lola sorridendo.
Aris le fece un cenno di saluto e si avviò lungo il corridoio.
Lola si costrinse a distogliere lo sguardo dalla sagoma di Aris che si allontanava e ad aprire la porta.
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Appena aprì la porta, un raggio di sole la investì.
Entrò e si chiuse la porta alle spalle.
La prima cosa che fece fu buttarsi sul letto a baldacchino, completamente vestita.
Restò per un po' così, senza pensare, distesa al calore del sole.
Si riscosse quando qualcuno bussò alla porta.
“Avanti.”
Entrò un'elfa dai lunghi capelli bianchi, che le faceva da cameriera.
“Salve, l'ho vista rientrare e mi sono chiesta se avesse bisogno di qualcosa.”
“Salve Elbereth, stasera devo andare ad una specie di festa e mi chiedevo se tu potessi aiutarmi a
scegliere un vestito adatto all'occasione.”
“Certo signorina, sono qui per questo. Direi di iniziare con il farsi un bel bagno.”
Quindi Elbereth andò a preparare la vasca nel bagno, in una stanza attigua alla camera.
Lola, appena l'elfa fu uscita, si mise a sedere sul letto e si tolse le scarpe.
Scalza, uscì dalla portafinestra e si affacciò sul balcone che dava sui giardini.
Il balcone era anch'esso di marmo bianco, come tutto il palazzo, ma era spettacolare; Lola non
aveva mai visto niente di più bello.
Infatti, intorno alle colonne di marmo bianco che ornavano il balcone, si arrampicavano delle rose
rosse. Lola aveva scelto la camera solo per questo. Appena aveva visto il balcone se ne era
innamorata e aveva voluto quella e quella soltanto.
Lasciò vagare lo sguardo per il giardino sottostante. Non si stancava mai di guardarlo.
Era bellissimo, Con le fontane, le statue, i ruscelli e ogni tipo di vegetazione.
“Signorina.”
Elbereth la stava chiamando.
Rientrò a malincuore, lasciandosi il balcone e le rose, alle spalle.
Era appena il tramonto che si sentì bussare alla porta.
Elbereth andò ad aprire.
Era Aris.
Lola lo sentì parlare brevemente con l'elfa e poi la porta si richiuse.
“Il signorino Aris dice che la aspetta all'ingresso.” le riferì Elbereth.
La ragazza si guardò un ultima volta davanti allo specchio controllando che fosse in ordine.
Si era fatta un bagno veloce e, su consiglio dell'elfa, aveva indossato un vestito blu scuro molto
semplice e non troppo lungo.
Quel vestito le piaceva molto perché non era appariscente e, come aveva detto più volte Elbereth,
metteva in risalto gli occhi grigi e i capelli biondi, acconciati in una crocchia.
Si infilò un paio di scarpe nere, procuratele dall'elfa, che assomigliavano molto alle ballerine del
mondo umano.
Dopo aver salutato Elbereth, Lola si avviò verso il portone principale, prendendo una scorciatoia
che aveva scoperto pochi giorni prima.
Il passaggio segreto sbucava esattamente dove doveva incontrasi con Aris ma, quando Lola ne
emerse, l'elfo non c'era.
Allora la ragazza, non senza fatica, aprì il pesante portone di quercia e, mentre scendeva l'ampia
scalinata, scorse alla fine Aris, di spalle, che l'aspettava.
“Aris” non poté fare a meno di gridare.
Lui, al suono della sua voce, si girò e Lola si sentì fissare dall'azzurro dei suoi occhi, che scintillava
alla luce del sole morente.
Era bello come non mai.
Indossava dei pantaloni neri e una camicia bianca, aperta sul collo.
Profumava di fiori e aveva i capelli neri umidi, come se se li fosse appena lavati.
Quando Lola gli fu vicino, Aris le sorrise.
“Ehi, sei bellissima stasera.”
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“Grazie, ma anche tu non stai per niente male.” Lola gli sorrise fugacemente in risposta.
“Mi sono vestito in due minuti, è già tanto che sia riuscito a lavarmi. Comunque grazie.”
“Perché? Dove sei stato finora?”
Per tutta risposta l'elfo le porse il braccio.
“Vogliamo andare? Altrimenti faremo tardi.”
Lola non volendo insistere, gli afferrò il braccio e insieme camminarono per i viali del giardino
diretti all'uscita.
Capitolo 7
Il portale
Camminavano da poco quando Aris si fermò.
“Cos...” Lola fece per chiedere spiegazioni ma fu interrotta.
“Giù” le gridò Aris.
Lola agì d'istinto e si butto a terra, mentre una lama trapassava l'aria dove un attimo prima c'erano
lei e l'elfo.
Poi si sentì prendere per un braccio da una mano familiare. Aris.
“Vieni qui dietro e non muoverti.”le disse indicando un albero vicino a loro.
Si nascosero insieme dietro il tronco massiccio.
Il sentiero su cui stavano camminando era identico a prima, nessun segno di quello che era successo
negli ultimi cinque minuti.
“Ma chi diavolo è stato?” chiese Lola sottovoce.
“Di sicuro non erano elfi e credo che siano ancora qui. Prendi questo e usalo, se necessario.”le
rispose Aris estraendo un pugnale, dall'impugnatura corta, dallo stivale.
Lola lo prese e lo tenne in mano, saggiandone la presa.
Era perfetto, come se le fosse appartenuto da sempre.
Un altro sibilo e Lola si sentì sfiorare la manica del vestito da qualcosa di affilato.
Una freccia.
Lola sperò con tutta se stessa che non fosse avvelenata.
“Lola! Stai bene?” le gridò Aris.
“Si più o meno. Che facciamo?”
“Io direi di provare a seminarli dentro il bosco, stammi vicino.” le disse dirigendosi dove gli alberi
diventavano più fitti.
Corsero a perdifiato, finché una figura non si parò loro davanti.
Era un uomo tarchiato, con il cappuccio calato sul volto.
Aris si fermò di botto e, con la mano che non teneva la spada, portò Lola dietro di sé.
“Bene, bene. Aris, giusto? Da quanto tempo che non ci vediamo, vero?”
“Dacci un taglio, Caranthir” ribatté acido Aris.
In quell'istante, ai lati dell'uomo, ne comparvero altri due più magri del primo, sempre con il
cappuccio calato sul volto.
“Ecco, ora che siamo tutti possiamo fare le presentazioni, suppongo.” dichiarò Caranthir con voce
gutturale. “Questo è Taras” disse indicando quello alla sua destra. “E questo è Helevorn” concluse
indicando quello alla sinistra.
“Smetti di fare lo stupido, Caranthir” Aris, cercava di frenare la rabbia.
“Ho ragione di credere, Aris, che tutta questa scortesia sia dovuta al fatto che quella che tieni dietro
di te sia il mezzelfo che stiamo cercando.”
“Direi che non sono affari tuoi.”
“Credo che tu ti sbagli, caro il mio elfo. Perché sono stato incaricato di portarla a Mornon e non lo
deluderò di certo, quindi fatti da parte e lasciala a me.” proseguì quello che doveva essere a tutti gli
effetti uno stregone.
“Io dico che invece non porterai proprio niente al tuo capo, non finché io sono vivo.” rispose Aris
con un sorriso spavaldo sul volto.
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“Se le cose stanno così... Taras, Helevorn attaccateli.” ordinò con un cenno del capo.
I due stregoni partirono all'attacco puntando verso l'elfo e Lola.
“Lola stammi vicino e usa il pugnale.” le ricordò Aris.
Detto questo, iniziò a mirare fendenti contro Helevorn, che però non si faceva cogliere impreparato.
Li parava tutti con uno scudo magico.
“Lola, dietro di te. Voltati.” le gridò Aris.
La ragazza si girò e vide Taras che puntava su di lei.
Ruotò il pugnale e cominciò a parare i colpi che lo stregone provava ad assestarle con un coltello
comparso dal nulla.
Lola si sentiva viva, come mai prima di allora, sentendo il pugnale come un prolungamento del
braccio.
Riuscì a penetrare la guardia dell'avversario e procurandogli un taglio sulla coscia, lacerandogli la
tunica.
Questo le diede il vantaggio che le serviva per vedere come se la stesse cavando Aris.
L'elfo combatteva contro Helevorn e Caranthir contemporaneamente.
Aveva una ferita profonda al polpaccio, che sanguinava copiosamente.
Aris, tuttavia, non sembrava sentirla. Si muoveva rapido e mirava fendenti ai due stregoni. Alcuni
andavano a segno altri, invece, venivano parati o dagli scudi magici o dalle lame delle loro armi.
Lola non perse tempo e si girò, appena in tempo per parare un colpo che, altrimenti, sarebbe stato
mortale. Questo, però, non permise a Taras di colpirla al petto.
Il dolore fu lancinante.
Lola lanciò un grido, sebbene stesse cercando di trattenersi, mentre il vestito si inzuppava
velocemente di sangue. Perse l'equilibrio e cadde a terra.
“Lola!” la voce di Aris era venata dal panico.
Taras si allontanò, evidentemente questo Mornon la voleva viva.
Lola si costrinse ad alzare la testa e vide che l'elfo stava per soccombere. Non ce l'avrebbero fatta.
Vide Aris che cadeva e fu presa dal panico.
Non lo avrebbe lasciato morire.
Con le ultime forze che le rimanevano, si alzò e si buttò verso Aris, lo afferrò per un braccio e, non
seppe mai come, aprì un portale.
Fu l'istinto a guidarla.
L'elfo che era in lei sapeva come fare.
Quando una luce azzurrina illuminò il bosco, Lola entrò nel portale, trascinando Aris con sé.
Poi fu avvolta dal buio.
To be continued...
Chiara Fiori
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Ombraluce, parte 2
Jas, una volta entrata nell’aula, fu accecata da una luce fortissima. La stanza era illuminata, non da lampade
o da nessun’altro oggetto artificiale, bensì dalla stessa luce del sole. Le pareti erano piene di decine e decine
di finestre, tutte completamente aperte, lasciavano passare la luce e la frescura del porticato da cui era entrata
prima. La stanza era grandissima per essere una semplice aula. Aveva tre file intere di banchi, accoppiati a
due a due, così a prima vista sembravano in tutto una trentina di sedie ed in fondo all’aula, accanto ad una
lavagna dall’aspetto nuovo, forse l’unica cosa che aveva meno di dieci anni in tutta quella scuola, c’era la
cattedra, sulla quale sedeva un anziano barbuto, che si alzò con fare maldestro e guardò di sottecchi la
ragazza. Jas si pentì subito di essere arrivata così tardi quel giorno, lo sguardo burbero dell’uomo le stava
facendo venire quella sensazione bruttissima di avere il ghiaccio nelle vene. All’improvviso l’anziano sorrise
da sotto la folta barba bianca e disse con voce quasi gutturale: “Benvenuta, oh, non ti preoccupare per il
ritardo in fondo sei ancora in tempo, forza, siediti su quel banco vuoto” accompagnando il discorso con un
gesto veloce della mano. Jas fu sorpresa della sua cordialità, e, senza dir niente, ma limitandosi a uno
sguardo veloce al professore, si affrettò a sedersi.
Poco più tardi vide entrare anche il ragazzo che aveva incontrato fuori dall’aula. Non si era accorta che fosse
entrato con lei. Il professore sorrise ampiamente e di nuovo con il braccio percorse un arco nell’aria, per
indicare uno dei banchi in fondo. Non si era seduto accanto a Jas e in fondo questo fu un sollievo per lei; le
sembrava un tipo alquanto strano, a parte il fatto che si fosse presentato completamente bagnato da capo a
piedi, aveva un qualcosa che forse...stonava. La ragazza al suo fianco era piuttosto magrolina, dai capelli
castano scuro e gli occhi color nocciola, non troppo scuri. La ragazza si voltò, aveva un piccolo neo sul naso,
Jas pensò che era buffo, le stava già simpatica. Le due si sorrisero ed iniziarono a parlare, come del resto in
quella stanza stavano ormai facendo tutti. Si guardò intorno per un momento, Lion, l’ultimo ad essere entrato
sembrava impegnato a strizzarsi un lembo della maglia per asciugarlo. Jas si accorse che il banco accanto a
lui era vuoto, pensò che avrebbe dovuto sedersi lì, in fondo anche lui non conosceva nessuno e lui l’aveva
aiutata a capirci qualcosa in quel posto strano. I suoi pensieri però furono interrotti dalla voce del professore
che adesso sembrava leggermente più seria:
“Bene, dovremmo essere tutti. Buongiorno.” Sorrise.
“Buongiorno.” Risposero tutti scoordinati.
“Probabilmente non sapete neanche perché siete qua ma non vi preoccupate, su questo avrete presto le idee
chiare. Innanzitutto vi siete mai chiesti perché nessuno parla mai dell’Istituto? Perché la gente sembra non
saperne niente o, almeno, non volerne parlare?”
Silenzio.
“Una cosa è sicura. Scegliendo l’istituto avete fatto un bel salto nel vuoto, perché non avevate la ben che
minima idea di quello che vi avrebbe attesi qua. Forse quest’idea non ce l’avete neanche adesso. E’ normale.
Beh, volete saperlo o no perché siete qui?”
A qualcuno cadde la penna sul banco, altri annuirono lentamente, alcuni sembravano non essere interessati,
come Lion. Jas invece se ne stava tutta impegnata ad assaporare ogni singola parola del professore, con gli
occhi sbarrati e fissi su di lui.
“Ho capito, iniziamo col monologo.” Cantilenò scocciato. “Bene, bene, bene. Non è una scuola normale
questa, non si insegnano materie. Nessuno vi dirà mai una declinazione di greco o vi insegnerà come si dice
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‘un litro di latte per favore’ in francese o come risolvere un’espressione. Men che meno sono qui per dirvi
come timbrare biglietti o lavare un cane.”
A questo punto qualcuno rise, Jas sapeva che non c’era niente da ridere.
“.. Qui non vi insegneremo niente, se non a scoprire una parte di voi che neanche voi sapevate di avere.
Vediamo se.. avete mai sentito parlare dell’ottava meraviglia del Mondo?”
Si levò un coro disomogeneo di ‘no’ e risolini.
“No, ovviamente. Ecco per darvi un’idea di quello che siete, prendete come esempio l’ottava meraviglia.
Non esiste, almeno apparentemente, ma come esistono le altre sette, io potrei aggiungerne benissimo
un’ottava. Chi non ha mai detto ‘è l’ottava meraviglia’ per descrivere qualcosa che per lui era..perfetto,
bellissimo, eccezionale, speciale. “
Silenzio.
“Forse non esisterà fisicamente, non vi do torto su questo, ma se almeno la metà delle persone di questo
mondo l’hanno pensata almeno una volta, in qualche modo esiste. Nelle loro menti, è reale. Sbaglio?”
Adesso erano tutti attenti, perfino chi prima gingillava con le penne sulla scrivania o chi non prestava
attenzione.. persino Lion, nel suo angolo dell’aula aveva fissato gli occhi su quelli del professore.
“Vedo che mi seguite nei ragionamenti, bene questo ci faciliterà un po’ di cose..” L’uomo barbuto si mise a
sedere emettendo un sospiro di sollievo, forse per il troppo tempo passato in piedi. Una persona del suo peso
doveva faticare molto anche solo a star fermo sui suoi piedi per più di qualche minuto, pensò Jas,
augurandosi di non averlo pensato a voce troppo alta, come faceva spesso.
“Sì, in effetti dovrei dimagrire un po’, non trovi anche tu?”
Jas si sentì un brivido percorrerle la schiena. Si augurò che il professore non si stesse riferendo a lei, eppure
non le sembrava di aver parlato ma gli occhi dell’uomo erano fissi e decisi sui suoi. La ragazza guardò la sua
vicina di banco con fare interrogativo, quest’ultima si limitò ad un’alzata di spalle.
“Sì, dico a te, nasino-arricciato.”
Nasino arricciato? .. Solo mia madre mi chiama così, pensò Jas.
L’uomo sorrise. La ragazza s’impose di bloccare i pensieri, in qualche modo. Gli altri nella classe
sembravano non capire una parola, almeno tutti tranne Lion, aveva negli occhi un’espressione di terrore
misto ammirazione che era impossibile non notare.
L’uomo le aveva appena letto nel pensiero.
“Non voglio spaventarvi.” Disse ridacchiando, come sei fosse una cosa naturale quella che aveva appena
fatto. “E.. no. Spiacente, non le ho letto nella mente, ho solo..”
“Visualizzato qualcosa che era già presente nei suoi pensieri.” Fu proprio il ragazzo a parlare, sembrava aver
perso quell’ombra di insicurezza che fino a poco prima gli balenava negli occhi. Aveva preso il coraggio di
parlare.
Il professore allargò il suo sorriso, tanto da scoprire i denti, splendidamente bianchi.
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“Esattamente Lion. Bene, facciamo progressi fin da subito, mi eleggeranno maestro dell’anno, accipicchia” E
ridacchiò di nuovo. Questa volta Jas la trovò una risata spaventosa, che le riecheggiò nella mente per qualche
istante.
“Non ho alcun superpotere. Non sono uno stregone e non pratico arti magiche..” Qualcuno emise mugolii
dispiaciuti.
“Vi insegnerò alcuni trucchi per espandere la vostra mente, vedere cose che nessun’altro sa neppure
dell’esistenza. Voi, però, non dovrete raccontare niente a nessuno. Altrimenti cancellerò i vostri ricordi così
come ho tirato fuori i pensieri della vostra amica Jas. Vi ritroverete a frequentare una normalissima scuola e
non ricorderete niente dell’Istituto. Intesi?”
Silenzio.
“Bene. Adesso inizieremo a fare sul serio. Chi pensa che questa sia solo una grandissima perdita di tempo
può benissimo andarsene.”
Allungò ancora una volta il braccio, per indicare la porta.
Un ragazzo dai capelli rossi, con gli occhiali e le lentiggini si alzò timoroso.
“Con permesso.” Disse ed uscì.
Il professore sorrise e dopo lui iniziarono ad alzarsi altri ragazzi, uno dopo l’altro. Sei in tutto. Jas sentì di
nuovo quella sensazione. Come sei avesse del ghiaccio fermo nelle vene.
“Non devi aver paura nasino-arricciato.” Disse con voce terribilmente premurosa. “Credo che sia il luogo
giusto per te.” E detto ciò sposto lentamente lo sguardo su tutti i presenti, esaminandoli uno ad uno e
fermandosi sull’ultimo, Lion.
“Tu sei un ragazzo sveglio.” Sorrise di nuovo scoprendo i denti bianchi.
“Bene, iniziamo. Oh, fantastico siamo un numero pari.” Disse girandosi verso la lavagna senza neanche
guardare la classe. Impugnò un gessetto e scrisse grande alla lavagna “Ombraluce”.
“Iniziamo.”
Ci fu un brusio leggero fra i banchi, cessò subito non appena il professore spense le luci. Era buio pesto, Jas
non riusciva a vedere neanche il banco, ringraziò il cielo di essersi seduta.
“Bene, bene, inizieremo la prima sessione, Ombraluce, se supererete questa prova e quindi dimostrerete di
essere pronti per proseguire il percorso, passerete alla sessione successiva. Nessuno è mai riuscito a superare
la prima in una mattina, perciò non vi aspettate di farcela, è normale che ci voglia del tempo, soprattutto per
abituarvi all’istituto.”
A Jas sembrò che stesse sorridendo, dal tono della voce, ma non poteva saperlo con certezza per l’oscurità
che la circondava.
“Proseguiamo. Ho spento le luci per farvi concentrare sull’istinto, piuttosto che sulla vista. Vi sembrerà una
scemenza ma credetemi, non lo è.”
Jas sentiva i passi del professore ritmici e cadenzati, si moveva lentamente per la stanza, senza urtare alcun
oggetto o diminuire il passo. Le si avvicinò lentamente, di nuovo quella sensazione, ghiaccio nelle vene.
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“Forza, alzatevi dalle sedie, con calma non voglio che si faccia male nessuno, fidatevi di voi stessi, non vi
serve poter vedere per muovervi nel buio.”
Alcune sedie cigolarono, altre si spostarono lentamente, altri passi, questa volta scoordinati. Jas non si alzò,
era troppo imbranata per stare al gioco, sarebbe cascata subito o avrebbe fatto ribaltare qualche banco. No,
lei non poteva muoversi. Sentì che anche la sua compagna si stava muovendo ed iniziava a camminare verso
il centro della stanza.
Il professore riaccese improvvisamente la luce, Jas si sentì gli occhi bruciare per un istante.
Erano tutti in piedi al centro della stanza, in un cerchio quasi perfetto se..se non fosse stato per Jas e Lion. Il
ragazzo sembrava impassibile, quasi annoiato mentre Jas stava stropicciandosi gli occhi, ancora non si era
abituata alla luce.
“Come pensavo.” Ridacchiò il professore. I compagni guardarono i due con fare interrogativo ma questi
ultimi non ricambiarono. “Pare proprio che voi due siate passati alla fase successiva.” Sorrise da orecchio a
orecchio.
Jas guardò velocemente Lion, cambiando subito traiettoria quando vide che anche lui aveva spostato gli
occhi su di lei.
“Adesso vi spiego. Questa prova era una specie di preparazione alla sessione. Vi siete chiesti perché proprio
il nome “Ombraluce”?”
Alcuni dei ragazzi al centro annuirono lentamente con la testa, altri si limitarono a stare in silenzio.
“Ombra e luce, due opposti. Bianco e nero, Chiaro e scuro. Senza l’uno non potrebbe esistere l’altro. Senza
luce non esiste ombra, senza ombra non esiste luce, vi pare?”
Molti sembravano confusi, impegnati a guardarsi le unghie o sistemarsi i capelli dietro le spalle.
“Questo esercizio era per guidare il vostro istinto, verso qualcosa che neanche voi sapevate quale fosse,
nonostante ciò però, vi siete tutti..o almeno quasi tutti, accerchiati qua, al centro dell’aula, senza sapere
come, avete centrato l’obbiettivo, seguendo solo il vostro istinto, mi seguite?”
Questa volta due o tre ragazzi sorrisero ed altri risposero “sì”, in un coro scoordinato.
“Hhm, ecco, la fase vera e propria consisterà nello scoprire la vostra natura. Ombra o luce. E di trovare il
vostro opposto. Senza l’uno, l’altro non esiste. Tutto chiaro fin qua?” Il professore si sistemò un lembo della
camicia, appoggiandosi alla cattedra con le mani conserte. “Jas, Lion. Voi evidentemente non avete avuto
l’istinto di alzarvi perché probabilmente siete già pronti per la fase vera e propria.” Alzò la testa e puntò i
suoi occhietti scuri su quelli dei due. “Siete l’uno l’opposto dell’altro, vi siete già trovati, senza saperlo.
Ombra e luce.” Sorrise. “Già, già, sono ancora più sicuro che sarò eletto professore dell’anno.”
Continua …
Sara Badiali
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ESERCIZI DI STILE
SANO-cosa è la morte?
FOLLE-non lo so e non mi interessa.
SANO-cosa? Come fa a non importarti della morte è l'unica verità reale e concreta nel mondo, la
cosa che crea più paura e angoscia nell'uomo, ci tiene a freno, è un fatto terribile e dovresti averne
paura anche tu, come tutti gli altri uomini!
FOLLE-perché?
SANO-in che senso perché?
FOLLE-intendo, perché dovrei averne paura?
SANO-semplicemente perché morire è la cosa peggiore che possa capitare ad una persona!
FOLLE-io non la penso così. Ora ti farò una domanda,come puoi tu sapere che è la cosa peggiore
che possa capitare all'uomo?
SANO-perché è la fine della vita e non sappiamo cosa ci sia dopo.
FOLLE-beh, su questo siamo d'accordo. Non possiamo sapere cosa ci sia dopo, potrebbe esserci un
'altra vita, potrebbe esserci dio, o semplicemente potrebbe esserci il nulla. Allora, io ti chiedo,
perché hai paura della morte?
SANO-come ti ho già detto, perché non sappiamo cosa ci accadrà dopo.
FOLLE-scusa, hai ragione, mi sono espresso male. La domanda giusta è perché hai paura della
morte, pur sapendo che è un evento da cui non puoi fuggire?
SANO-questo non ha niente a che fare con quello che ho detto! Il problema non è la morte in
quanto tale, ma quello che sarà il futuro dopo di essa.
FOLLE- ti sbagli. Se ci rifletti bene quello che fa paura all'uomo non è ciò che ci sarà dopo, ma la
morte intesa come avvenimento. Analizziamola allora! La morte come sai tu, come so io,come
sappiamo noi tutti esseri viventi,è inevitabile. Il fatto assurdo è che l'uomo non la accetta, ne ha
paura, cerca di sfuggirgli, sapendo benissimo di non poter scappare, e questo crea altri turbamenti
che gli fanno vivere la vita in modo tetro e angosciato.
L'uomo si è creato degli idoli per giustificare eventi inspiegabili come la morte, si è genuflesso
davanti a divinità che promettevano, tramite dei predicatori, la salvezza in un universo improbabile,
alla stregua di mondi magici e complessati da una finta felicità. Allora ti chiedo, il folle sono io a
pensare che non si debba avere paura della morte, ma anzi accettarla a testa alta come fase finale
della vita e vivere in modo determinato e conscio, o siete voi i folli, che siete succubi, sottomessi a
una paura irreale di qualcosa che esiste ed è immutabile, e create teorie assurde per nascondervi in
qualche modo da un destino sicuro?
SANO-addio.
FOLLE-il solito umano che non vuole ascoltare.
UN COMUNE ARGONAUTA ALLA RICERCA DI UN FALSO VELLO D'ORO
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The Chronicles of
GIANNI
Parte seconda
Introductio:
In seguito all'esposizione della mitologia giannica nel precedente volume, saranno qui narrate le
gesta realmente avvenute dell'eroe che molte città e molte menti conobbe.
Per far questo, bisogna cominciare dal principio, quando tre ambigui personaggi si incontrarono per
una oscura convocazione, a loro nota come
Uccidere la gente, perché no? - Nuova proposta di legge in forma di
dialogo fra Anassagora, Maradona e un orango.
(thus begins)
(L'orango entra in ascensore)
Orango:Buongiorno.
Maradona:'giorno.
Anassagora:Kalemèra.
Orango:Non si sa mai cosa dire, eh, in ascensore, vero?
Maradona:Già.
Orango:Comunque piacere. Io sono Orango, sono qui per fare parte di questo dialogo. Lei, se
lecito?
Maradona:Diego Armando Maradona. Non so se ha capito cosa intendo...
Orango:Veramente, no.
Maradona:Sono stato un calciatore di fama internazionale.
Orango:Mi dispiace, non conosco.
Maradona:Feci gol di mano contro l'Inghilterra ai mondiali, la chiamarono la mano de Dios!
Orango:Non so cosa dirle, davvero, non l'ho mai sentita nominare. Un momento, ma lei, lei è
Anassagora, il filosofo!
Anassagora:Ebbene sì, sono io.
Orango:Il nous! I semi! La conoscono tutti! Che cosa ci fa qui?
Anassagora:Devo prendere parte ad un dialogo intitolato “Uccidere la gente, perché no? - Nuova
proposta di legge in forma di dialogo fra Anassagora, Maradona e un Orango”.
Orango:Hey, ma è la stessa cosa che è stata ordinata a me!
Maradona:Anche a me!
Anassagora:E' evidente che qualcuno vuole manovrarci. Dobbiamo uscire di qui, e anche in fretta!
(I tre si fiondano fuori dall'ascensore e bloccano un bidello al muro)
Anassagora:Chi è il capo, qui? Parla, dicci un nome!
Bidello:La parola che può essere detta non è l'eterna parola, il nome che può essere nominato non è
l'eterno nome.
Maradona:Ora basta!
(Maradona uccide il bidello con un colpo di pistola in mezzo agli occhi)
Anassagora:Hai idea di cosa hai fatto?! Hai appena ucciso un uomo!
Maradona:Embè? Il dialogo si chiama “Uccidere la gente, perché no?”, e devo prendervi una
posizione ideologica! Guarda un po' qua!
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(Maradona spara due colpi in petto all'Orango, che si accascia a terra)
Anasagora:Il dialogo! Giusto! Ti ricordi chi sia stato a mandarti l'invito? Se lo scopriamo, forse
possiamo capire chi stia sopra tutto questo.
Maradona:Non ricordo bene il nome. Era un bel ragazzo, niente da dire. Sono sicuro che fosse un
sofista!
Anassagora:Allora c'è un solo posto dove cercarlo: l'Ufficio Comunale della Sofistica!
Maradona:No, dico, ma sei matto?
Anassagora:E perché, scusa?
Maradona:”L'Ufficio Comunale della Sofistica”! Ma di cosa parli? Tu sei tutto scemo. Chiamo la
Neuro. La camicia di forza la vuoi tinta unita o fantasia?
Anassagora:Essia, allora!
Maradona:Fantasia?
Anassagora:Essia!
Maradona:Fantassia?
Anassagora:Essia, ho detto! Se non vorrai aiutarmi, farò da solo.
(Anassagora estrae un coltello dalla toga e lo pianta in gola a Maradona. Poi dà fuoco ai corpi del
bidello, dell'Orango e dello stesso Maradona per far perdere ogni traccia. Dopo esere giunto
all'Ufficio Comunale della Sofistica, si getta sul primo impiegato che incontra)
Anassagora:Sto cercando il Sofista Mascherato! Parla, o ti faccio saltare le cervella!
Inizio narrazione
D'improvviso si aprì una porta, e ne uscì una sagoma, avvolta in un etereo fiume di luce. L'impatto
di quella visione impedì ad Anassagora di distinguerla a pieno, e l'impeto di quel torrente luminoso
lo travolse. Riconobbe poi che la sagoma era chiaramente quella di un sofista, e quando i suoi occhi
si abituarono alla lucentezza, vide inoltre che questo sofista indossava una maschera.
Questi si avvicinò a lui e gli tese la mano, vedendolo a terra:
“So perché ti trovi qui, Anassagora. Io ho le risposte che cerchi. Vieni con me, ti porterò nel luogo
in cui i tuoi tormenti avranno fine: il Limbo della Comicità Infelice!”
“Allora è vero! Esiste!”
“Certo che esiste! Ma è troppo pericoloso perché tu vi possa entrare da solo. Seguimi, sarò la tua
guida.” E insieme, i due varcarono la porta, risalendo alla sorgente della luce sublime.
Così, Anassagora e il Sofista Mascherato intrapresero il loro volo attraverso le galassie,
incrociando, tra l'altro, i due Scipioni, l'Emiliano e l'Africano, mentre svolazzavano anch'essi.
Al termine di un lungo viaggio, Anassagora e il Sofista intravidero una sfera di luce, da cui
sentivano giungere le più scadenti battute della storia: il Limbo della Comicità Infelice. Quando
finalmente vi approdarono, il Sofista mise in guardia Anassagora:
“Stammi sempre vicino, non perdermi mai di vista! Questo è un mondo selvaggio e pericoloso,
pieno di ombre e miraggi. Se non starai attento, verrai trascinato nell'oblio e nella pazzia!”
Anassagora, preoccupato, cercò di capire meglio: “Come mai questi Limbo è così lontano e isolato,
o nobile sofista?”
“Vedi, un tempo il Limbo della Comicità Infelice si trovava all'Inferno, e ne era proprio l'ultimo
girone, oltre i traditori, oltre Lucifero stesso, in quanto il loro peccato era considerato il più ignobile
fra gli ignobili. I dannati, però, dopo secoli di suppliche, ottennero di far allontanare quell'orrido
girone, non riuscendo più a sostenere il dolore provocato dagli echi delle loro battute. Specialmente
furono i dannati del girone dei traditori a spingere per il loro esilio, in quanto più vicini e quindi più
costretti all'ascolto. A loro sostegno, portarono l'argomentazione di aver già ricevuto la giusta pena
per i loro crimini, e quella doveva bastargli.
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Così il Capo acconsentì, e scagliò quel girone quanto più lontano poté nell'universo, e qui ora noi
siamo.”
“Ma io non capisco: come può essere la comicità tanto infelice da provocare l'orrore nei dannati?”
“Ora te lo mostrerò. Guarda la mappa. Vedi? Questa è la Fossa dei programmi Mediaset. Sono tutti
lì: Zelig, Striscia, Colorado, le Iene.”
“Mio dio, dev'essere orribile!”
“E lo è, ma non temere: noi percorreremo un'altra via.”
Allora i due presero una stradina di montagna che diventava ogni metro più ripida e rocciosa, fino
ad essere un vero e proprio cunicolo, scavato nella pietra, sulla parete di un dirupo. Anassagora era
molto teso:
“Sofista, perché la tua nobile stirpe ha d'uso il recarsi qui?”
“Da tempi remotissimi la stirpe dei sofisti mascherati si infiltra in queste terre, e il suo spirito
aleggia nell'etere. Ti citerò, se vorrai sapere il nostro usuale fine in questo luogo, un abile collega:
Vi arriva il poeta. E poi torna alla luce con i suoi canti; ma i tempi sono ormai cambiati, e i sofisti
mascherati sono sempre meno. C'è una forza oscura, un brutto poter che sta decimando le nostre
genti. Questo Limbo è divenuto pericoloso anche per noi, e quel poco di ispirazione che potevamo
trarre da questo popolo di dannati ci è divenuto impossibile da ricavare.”
“E quindi cosa ci facciamo noi qui? C'entra qualcosa la mia presenza in questa storia?”
“Cerca di stare calmo, o Anassagora carissimo: devi sapere che un tempo, quando il Limbro venne
qui stabilito, ci fu una violentissima battaglia ai piedi del monte Foto, per contendersi il trono di
tutto il Limbo.”
“Monte Foto?”
“Certo, il monte Foto. Nome degno di una terra dalle battute infelici. Ad ogni modo, dalla battagia
emerse un uomo, un vincitore di cui nessuno sa il nome, ma tutti noi lo chiamiamo l'Architetto. Egli
portò l'ordine in questo mondo, e ne è tutt'ora padrone. Ma il suo regno sta per avere fine, come ti
ho detto. Sembra che all'origine del male ci sia un poeta fuggito dalle prigioni del regno di Qasaa. E'
nostro compito trovare l'Architetto, e aiutarlo nella sua lotta.”
Dal fondo del dirupo si elevarono delle battute infelici:
“Cosa ci fa una TV al mare? Va in onda!”
“Sai chi è il ministro delle economie cinesi? Nun Teng Nalir!”
Anassagora si contorse, mentre il Sofista gli intimava di stare calmo e tenere duro, ma ci fu un
genere particolare di battute che prevalse sugli altri: i colmi.
“Qual è il colmo per un benzinaio? Avere una moglie super!”
“Qual è il colmo per un arcobaleno? Farne di mille colori!”
Questo colpo fu doloroso anche per il Sofista, che per coprirsi le orecchie scivolò, rischiando di
cadere nel dirupo. Rimaneva aggrappato solo per una mano, e fu allora che rivelò ad Anassagora:
“O nobilissimo Anassagora, ora posso dirti ciò che devo dirti: la Legge del Popolo dei Sofisti
Mascherati prescrive che, prima della morte, un Sofista Mascherato debba svelare la sua identità!
Ed è così che io adesso farò!” ed il Sofista Mascherato gettò la maschera nel dirupo.
“Ommmmmiodddddio! Ma tu, tu, tu sei...”
“Sì, Anassagora, io sono Enoigar Allad Oirelav, e questo è il mio addio. Trova l'Architetto,
Anassagora, trova l'Architetto, e uccidi il poeta!”
Fu allora che il Sofista ricevette il colpo di grazia:
“Qual è il colmo per un pizzaiolo? Avere una figlia che si chiama Margherita, che fa la capricciosa
ogni quattro stagioni!”
Le mani cedettero, in un brivido di orrore, nausea, atavico ribrezzo. Il Sofista Mascherato scivolò
via, inghiottitto dai meandri del Limbo. Anassagora rimase solo, in piedi in cima al dirupo,
noncurante ormai delle battute. In mente aveva solo una cosa: trovare l'Architetto, e uccidere il
poeta.
Valerio Dalla Ragione – Il Sofista Mascherato ( ? - † 1644 †)
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Dialogo fra leopardi ed un consumatore di meta-anfetamina,
-il primo in veste della coscienza del secondoPreludium
I meno assennati sapranno già che l'mdma, sostanza cristallina tanto amata da uno dei nostri
protagonisti, tante cose è, ma non allucinogena, a meno che non se ne ingerisca/sniffi una dose
“equina“ e potenzialmente mortale. Pochi di loro sapranno però che ultimamente la chimica
sperimentale ha fatto grandi passi avanti e, nell'ambiente della produzione clandestina di
stupefacenti, hanno iniziato a circolare numerosi ex chimici di successo. Questo ha portato alla
sintetizzazione di molte varianti della sostanza già citata. Fra queste spicca nettamente L' MDA. Se
l'MDMA è la matrona della cultura rave europea, L'MDA è la figlia preadolescente talentuosa; con
le gote rosse e uno borsa di studi per un corso di filologia a Yale: l'orgoglio della famiglia. CIO’ che
la rende così speciale, è che garantisce generose allucinazioni a tutti i dosaggi ( e non mi soffermerò
sugli altri “magnifici effetti e progressivi” ). Il sistema di smercio è però ancora molto arretrato e
viene per lo più gestito in maniera casalinga -tipo Inghilterra preindustriale- e vende ogni differente
variante come MDMA. Il nostro sfortunato/fortunato personaggio è uno delle vittime di
quest'arretratezza e invece di un dolce e alienante viaggio all'interno delle sue pulsioni più grette,
tipico della sostanza madre, dovrà fare i conti con la capricciosa e introspettiva figlioletta che,
prendendosi gioco della sua mente, lo costringe ad un dialogo filosofico-morale con la sua
coscienza, impersonata dal noto autore della letteratura italiana.
Interludium
Ore 22:00, in un bagno nauseabondo di qualche locale in cui si esibiscono Djs della scena Hardcore/Frenchcore il nostro sig.B. Timata iniziata a prender nota dello straripare delle sue pupille e si risolve
di posizionarsi di fronte ad uno speaker, per iniziare il solito dialogo a senso unico. Non è che non avesse
argomenti per incalzare le affermazioni della cassa, ma questa urlava sempre, e il sig. B la faceva sfogare e si
limitava a digrignare i denti levigati e sbiaditi. Se quando qualcuno gli chiedeva quell'atteggiamento, lo
freddava dicendo che credeva fortemente nell'approccio educativo pitagorico. A rompere questa scena
idilliaca arrivano gli inaspettati segni della distorsione visiva. Quando il nostro Timata, non senza sforzo, si
ravvede della propria condizione, la sua barriera dell'ipotalamo ha ormai fatto la fine del noto muro
Berlinese. Ormai in preda al delirio opta per lasciarsi andare ed è in quel momento che un dito ossuto e
deformato dall'impugnare la piuma inizia a ticchettargli sul suo cranio pulsante, dicendo:
-No, dico figliulo, volevi per caso rifilarmi un viaggio di sola andata verso il sempiterno oblio?
Il nostro Sig. B, disteso per terra, sudato e terrorizzato, non seppe che rispondere così:
-E tu chi diavolo sei? E che fine ha fatto il locale!?
-Preferivi quella latrina fetida al luminoso salotto in cui ti ritrovi adesso, ove tutto è in uso di far del'
intelletto un' arte e della conoscenza un dovere!?
-Questo devo ancora capirlo, e poi se stai cercando di scroccare in un qualche modo poco ortodosso, sappi
che non hai il buon samaritano di fronte.
-Non è di certo questo il mio intento. Tieni a mente che stai sperimentando un mondo che trascende dalla
materia, pura proiezione della tua individualità. Con i tuoi attrezzi chimici hai realizzato il sogno dei
tracotanti, sei diventato demiurgo. Dato che sei Dio creatore a tempo determinato, goditi questa condizione!
-Limitatamente e involontariamente, per giunta. Comunque sia, non so ancora da chi ho il dispiacere di
essere intrattenuto.
-Mi presento: sono Giacomo Leopardi di Recanati in veste della tua coscienza, da te lungamente
abbandonata, e sono qui per saldare i vecchi debiti in materia di moralità.
-Fammi capire, sei il Leopardi del “ Canto Notturno” o quello de “ La ginestra” ?
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-Sono il Leopardi della vecchiaia e quindi rifletto il pensiero che quest'ultima opera esprime, perché
lo chiedi?
-Speravo di trovarmi al cospetto del Pessimista Cosmico, almeno non me l'avresti menata con
l'utopia della solidarietà e l'importanza dell'impegno sociale...
-Brutto mangiasassi insolente! Ti sarebbe più dolce un bad-trip popolato dalle tue paure più profonde
liberatesi e armatesi contro il loro custode, forse!?
-Non sono bastati sette anni per imparare la differenza fra un sasso e un cristallo, Giacomino?
-Non macchio il tuo sembiante con i rubri rigagnoli sottostanti solo perché conscio della futilità
dell'autolesionismo...
-Senti Schopenhauer dei poveri: non ne sono di certo compiaciuto, ma per esperienza so che la permanenza
qui è ancora lungi dal terminare. Vedi di concludere in fretta, così poi magari mi offri del buon vino.
-In questi ultimi anni ti sei macchiato delle più disparate atrocità verso la dignità umana e la ragione. Hai
prolungato il tuo stato di incoscienza come se dal tuo stare al mondo non dipendesse alcuna responsabilità
verso i tuoi simili. Se ti avessi conosciuto prima ti avrei senz'altro scelto come emblema della vecchia
Europa ne “Il Sogno di Prometeo”. Non solo ti sei abbandonato all'edonismo, ma hai anche deciso di
distruggere tutto ciò che ti dava dignità o soddisfazione.
-L'ho letto quell'affare, e anche un po' di “Zibaldino”. Devo complimentarmi per un aforisma contenuto in
quest'ultimo: “ è giusto ciò che giova”, davvero una grande pensata...
-Non avendo mai trattato di cucina toscana ne di farina di castagne, immagino tu ti riferisca allo Zibaldone.
-Non sei divertente. Riguardo alle tue accuse, devo confessarti che mi sono trovato in difficoltà nel cercare di
attuare il giusto all'interno del contesto. La società post-moderna è alienata da se stessa e tratta il sistema
economico-finanziario come unica fonte di verità.
- Non atteggiarti come un no-global...
-Sta zitto gobbaccio, sono serio! Supponiamo che io voglia mandare avanti un'ipotetica famiglia e vivere
onestamente di un lavoro modesto, soltanto il fatto di guidare un'automobile o mangiare una bistecca o il
dare da mangiare ai miei ipotetici figli toglierebbe risorse a mille dei loro nipoti. L'uomo ha deciso di vivere
alla giornata e invece che ridurre lo spreco ha deciso prima di razionalizzarlo e poi di incoraggiarlo,
facendone uno status-symbol. Produrre è distrugge e ogni nostro agio o soddisfazione di bisogni naturale lo
paghiamo con la perdita di salute, forza o intelligenza, oltre che con un consumo di risorse estremamente
sproporzionato a causa del nostro sistema produttivo e distributivo impazzito. Questo è solo parte del
dramma: ogni briglia morale che prima addomesticava l'individualismo utilitaristico è stata sciolta e
quest'ultimo si è cibato dei corpi morenti dei molteplici valori decaduti, diventando un plumbeo e corpulento
parassita dell'occidentalità. Abbiamo visto l'arte prostituirsi ai finanzieri, teschi ricoperti di diamanti solo per
farne aumentare il valore, agricoltori distruggere i frutti del loro lavoro per la medesima futile ragione e ti
annuncio che la mia Pharsalia potrebbe andare avanti all'infinito.
-Cosa ti fa pensare che un ostacolo oggettivo sia una giustificazione per la tua condotta? Perché non urli le
tue verità, non ti esponi? Vivi come se la tua consapevolezza non debba diventare tesoro per la tua specie!
Non il timore ma la convinzione della futilità del tutto ti opprime, ma che scopo avremmo se non quello di
combatterla con una spietata ricerca di senso, e ancora, prescindendo dal fatto che tu non provi pena per te
stesso, non costituisce il tuo prossimo una buona motivazione per lottare?
-Mille prima di me hanno fallito e contro le mura dell'egoismo e dei suoi storpi prodotti si sono infrante
penne, spade e preghiere a non finire. La storia moderna mi porta a pensare che le infrastrutture siano state
ormai rese indipendenti dall'uomo e che anzi si rigenerino e portino inesorabilmente lo stesso a schiavizzarsi.
-Dunque è questa la tua posizione. Riesco solo a dire che provo per te quello che provava Dante per Paolo e
Francesca. Questa è la sentenza della tua coscienza: all'eterno rimorso ti condanno mentre piango per la tua
condizione. Nessuno di noi due sopravviverà poiché ciò che ti suggerisco ti risulta ormai impraticabile e
quindi per me si chiude ogni possibilità di azione nel mondo dell'esistenza, ma allo stesso tempo per la mia
soppressione perirà la tua individualità. Non sono che una madre disperata che parla con il figlio ammalato
ormai prossimo alla morte, illudendosi di poterlo proteggere.
-Questa è la fine del nostro rapporto: tornerò di nuovo al dolce nichilismo, non saremo più una cosa sola.
Sono contento che ci siamo chiariti, ma io sono sconfitto, malato e non voglio più soffrire cercando di
seguire i tuoi dettami. Il rimorso lo ammutolirò come ho fatto con te e mai sarò triste ne felice, ma solo
bisogni e istinto. Ti ringrazio per aver cercato di salvarci un’ultima volta, ma non farò niente per impedire la
tua morte e tanto meno farò per la mia.
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Il signor B. non ebbe mai modo di tornare alla realtà e il suo corpo fu dato alle fiamme che aveva ancora uno
strano ed emblematico sorriso. Chi ha avuto modo di vedere il suo corpo freddo prima della cremazione,
afferma che il suo volto assomigliava a quello di un suicida che, prima di gettarsi da un palazzo, osserva
compiaciuto chi cerca di persuaderlo dal suo intento.
Dimitri Milleri
SVAGO
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Cominciamo ad inserire da questo numero, su consiglio del professore Mangani,
alcuni quesiti di carattere logico matematico estrapolati dai Giochi di Archimede .
Quest’ultimi sono competizioni annuali che si svolgono generalmente negli ultimi
giorni di novembre nelle scuole superiori che si iscrivono alla competizione e sono
aperti a tutti gli studenti, indipendentemente dalla classe frequentata.
I quesiti di questo numero appartengono all’edizione dei Giochi dell’anno 2003, le
soluzioni sono disponibili online!
Buon divertimento!
1. Un gelataio prepara 20 kg di gelato e lo rivende nel corso della giornata in coni
piccoli da 1,20 e di due palline e coni grandi da 1,60 e di tre palline. Da ogni
kg di gelato ha ricavato 12 palline; alla fine della giornata, ha incassato in totale
137,60 e. Quanti coni grandi ha venduto?
(A) 17 (B) 24 (C) 32 (D) 43 (E) 50.
2. Un venditore di palloncini ha a disposizione due bombole di elio uguali e dei palloncini
piccoli e grandi. Utilizza tutta la prima bombola per gonfiare 80 palloncini
piccoli, tutti alla stessa pressione. Considerato che da gonfi palloncini grandi
hanno la stessa forma e la stessa pressione dei piccoli, ma una superficie 4 volte più
grande, quanti palloncini grandi può riempire con la seconda bombola?
(A) 10 (B) 16 (C) 20 (D) 24 (E) 40.
3. Ogni anno, al momento del pagamento delle tasse, l'utente fa una dichiarazione
relativa all'anno in corso. Se la dichiarazione è vera, deve pagare le tasse; se è falsa,
non le paga. Un giovane matematico, che ritiene il sistema iniquo, trova il modo
di bloccarlo, con una delle seguenti dichiarazioni: quale?
(A) \I pesci vivono in acqua" (B) \Io vivo in acqua"
(C) \I pesci non pagano le tasse" (D) \Io non pago le tasse"
(E) \Io pago le tasse".
4.
In questo rettangolo c'è esattamente una affermazione falsa.
In questo rettangolo ci sono esattamente due affermazioni false.
In questo rettangolo ci sono esattamente tre affermazioni false.
In questo rettangolo ci sono esattamente quattro affermazioni false.
Quante affermazioni vere ci sono nel rettangolo?
(A) 0 (B) 1 (C) 2 (D) 3 (E) 4.
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