La Magia della Fotografia - Liceo Classico "F. Petrarca"
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La Magia della Fotografia - Liceo Classico "F. Petrarca"
Annunci Ritorniamo finalmente, con l’inizio del nuovo anno e tanti interessanti articoli e novità da proporvi! Buona lettura! Continuate ad inviarci i vostri articoli! La nostra mail è [email protected]. Ricordiamo che il giornalino è anche sul Web, grazie allo spazio ora offerto dal nuovo sito del Liceo, che ci ha dedicato un’intera parte! Venite a visitarlo su www.liceo-classico.arezzo.it 1 SOMMARIO Pag. 3 – Poesia 5 – Spazio Giovani 7 – Attualità: Steve McCurry – Viaggio intorno all’uomo La Magia della Fotografia È il momento di farla finita 12 – Letteratura: Tolkien contro Hegel – primo round 17 – Storia: I have a dream, we all have a dream 18 – Recensioni: L’Altrove – Philomena di Stephen Frears Candido o l’ottimismo 21 – Arte: Io Picasso 22 – Racconti: Acqua nei polmoni La Danza dell’elfo – parte terza Ombraluce – parte seconda 32 – Esercizi di Stile: Sano & Folle Gianni – Parte seconda Dialogo fra leopardi ed un consumatore di meta-anfetamina 38 - Svago 2 POESIA E vorresti vedermi guerriera, stretta al presente, non ancorata. Vedermi vorresti con lucido sguardo solcar le barriere, Ma io dentro scoppio e m'infrango E di mare e nebbia m'offusco O limpido, pieno Dolce ricordo. Felicia Aldinucci Ero sola. La mia solitudine, il mio passeggiare da sola era, come sempre, piacevole. Si, perché quando sono sola nessuno mi interrompe e posso osservare ogni piccola o grande cosa intorno a me, una casa, un fiore, un sasso, e tutto appare stranamente delicato e se anche intorno a me c’è un forte via vai di persone, io sento solo silenzio,sempre ammettendo che il silenzio si possa sentire. Fatto sta che ero sola e camminavo, abbastanza a caso, cioè sentivo di essere in cerca di qualcosa ma non trovavo niente. Era un continuo cercare quella cosa, che tutti voi sapete, e la cercavo ovunque anche negli occhi sconosciuti. Voglio però precisare che non era un cercare forzato, della scontata serie “chi cerca trova”,è una cosa che viene più naturale come quando in una stanza piena di persone si cerca di trovare sempre un volto amico. Ed è a forza di cercare che ho capito che l’unico volto amico ai nostri occhi siamo noi stessi, che la grande cosa che io cerco, che muta ogni giorno, non si trova in quello che vedo e che percepisco, ma sono semplicemente io che la animo e che se smettessi di cercala, cesserebbe di esistere. Anonimo Nasconde quel ch'io provo il mio sorriso,e amaro e buio mi appare l'avvenire. Amai, più di quanto si debba amar qualcuno prima di bruciar la propria anima, e dalle ceneri non risorge fenice. Anima Anonima 3 Colori paralleli Mi ritrovo tra il bianco e il nero, ma non assomiglio affatto al grigio. Sono solo il funambolo del sottilissimo, impercettibile confine tra luce e tenebre, bombardata da fulmini e saette, boati ed esplosioni. Eppure, in questo campo di battaglia, in questo miscuglio eterogeneo di confuse emozioni, mi sembra di vedere il sorriso della Felicità. Sofia Casini 4 Spazio Giovani Da Mercoledì 29 gennaio riprenderà lo SPORTELLO DI ASCOLTO PSICOLOGICO. COSA E’? Lo sportello può essere un’occasione di : -ascolto -accoglienza e accettazione -sostegno alla crescita -orientamento -informazione -gestione e risoluzione di problemi/conflitti Lo sportello di ascolto è uno spazio in cui le problematiche riportate vengono accolte in modo competente, non giudicante e nel rispetto della riservatezza. Insieme si cerca di trovare un percorso idoneo ed efficace per la risoluzione dei problemi. PER CHI? È rivolto agli studenti, ai genitori, agli insegnanti e a tutto il personale scolastico. QUANDO? Troverete i volantini affissi nelle varie sedi alcuni giorni prima del giorno di sportello che verrà fatto all’incirca una volta al mese nel pomeriggio. CON CHI? I colloqui saranno tenuti dalla dott.ssa Paola Belliconi psicologa e psicoterapeuta e avranno la durata di 40 minuti. DOVE? Presso la sede centrale via Cavour, 44. COME? Per accedere allo sportello e’ necessario prenotarsi usando una delle seguenti modalità: rivolgendosi alla prof.ssa Ragonese chiedendo agli studenti tutor contattando la dott.ssa per mail [email protected] usando la pagina Facebook dello sportello: sportello liceo classico petrarca 5 VUOI DIVENTARE TUTOR? IL PROSSIMO ANNO FREQUENTERAI LA QUARTA? SEI UN TIPO PROPOSITIVO? SEI UN TIPO CHE OSSERVA QUELLO CHE HA INTORNO? TI INTERESSA CHE LA SCUOLA CHE FREQUENTI SIA SEMPRE PIU’ UN POSTO A MISURA DI VOI STUDENTI? VUOI ESSERE PROTAGONISTA E NON SOLO SPETTATORE DI QUELLO CHE SUCCEDE NELLA TUA SCUOLA? VUOI ESSERE COINVOLTO IN PRIMA PERSONA IN QUESTO PROGETTO ? TI VA DI PARTECIPARE INSIEME AD ALTRI TUOI COETANEI A MOMENTI DI DISCUSSIONE E DI CONFRONTO? TI VA DI METTERTI A DISPOSIZIONE DI CHI INIZIERA’ QUESTO PERCORSO IL PROSSIMO ANNO PERCHE’ POSSA TROVARSI PIU’ A SUO AGIO E INSERIRSI NEL MODO MIGLIORE? SE TI SEI UN PO’ INCURIOSITO…. NEL MESE DI FEBBRAIO POTRAI PARTECIPARE ALLA SELEZIONE E ESSERE TU IL PROSSIMO ANNO UNO DEI TUTOR! COME PARTECIPARE? DOVRAI COMPILARE UN QUESTIONARIO CON IL QUALE DARAI LA TUA DISPONIBILITA’. PUOI CHIEDERE MAGGIORI INFORMAZIONI E IL QUESTIONARIO AGLI STUDENTI DELL’ ULTIMO ANNO CHE STANNO FACENDO ADESSO L’ESPERIENZA DI TUTOR, ALLA PROF.SSA RAGONESE, ALLA PROF.SSA MARANGIO OPPURE SCRIVERE SU FACEBOOK A: Sportello Liceo Classico Petrarca. I QUESTIONARI SARANNO DISPONIBILI ANCHE DAI CUSTODI. TI ASPETTIAMO! IL TUO CONTRIBUTO E’ MOLTO IMPORTANTE! 6 ATTUALITA’ STEVE McCURRY - VIAGGIO INTORNO ALL’UOMO Il 5 Gennaio, davanti all’ingresso della mostra di Steve McCurry ho trovato ad attendermi una lunga coda di persone e ciò è quanto meno sorprendente in un Paese come l’Italia, dove la cultura fotografica è ai minimi termini. Forse perchè l’artista in questione è divenuto quasi mitologico, soprattutto presso i giovani, non tanto in quanto fotografo ma piuttosto come incarnazione del viaggiatore, dell’avventuriere, del cultore della libertà, dell’esploratore di nuovi mondi? O forse perché in fondo la tanto denigrata pratica fotografica “tascabile” diffusa dal dilagare degli smartphone ha prodotto un cambiamento tutto sommato positivo? La fotografia dei giovani, che è principalmente condivisione momentanea ed istantanea in rete, senza alcuna consapevolezza visiva, senza una curiosità compositiva di fondo, senza volontà di narrazione, di esposizione o di testimonianza, potrebbe essere preludio di un avvicinamento alla buona fotografia. La butto lì. Se a un ragazzo ogni cinquecento non bastasse più scattare continuamente foto con lo smartphone, e decidesse di avventurarsi nella scoperta della magia fotografica o volesse approfondirla, saremmo a cavallo. Anche tra i professionisti l’uso dello smartphone non è più un tabù, basti dire che l’agenzia Magnum ha accolto nel suo staff M. C. Brown, fotografo che documenta eventi storici, anche catastrofici, come guerre e rivoluzioni, quasi esclusivamente con il suo iPhone e pubblica sulle testate di tutto il mondo. Dunque la convergenza di questi due emisferi della fotografia è un dato di fatto. Va detto che, in effetti, un crescente interesse verso la cultura fotografica da parte dei giovani italiani si nota, a prescindere dal “fenomeno McCurry”, però non bisogna farsi facili illusioni: il nostro Paese è anche storicamente lontano da una vera cultura fotografica, anche per la quasi totale assenza di un’educazione visiva, a partire dalle scuole, tanto per dire. Ma chi è contemporaneo, prima o poi, vuole conoscere e capire la contemporaneità e poi padroneggiarla. E la fotografia, checché se ne dica, è ancora il linguaggio più contemporaneo che ci sia. Oltre le ipotesi, rimane il dato di fatto: Steve McCurry è il pioniere di una fotografia moderna, che possiede un potenziale formidabile e promettente, gravido di energie, di curiosità e di freschezza. Consideratelo un maestro, capace di raccontare la vita, come un poeta o uno scrittore. E’ il fotografo che ha fatto del viaggiare la sua dimensione di vita e che ha approfondito la conoscenza di culture diverse, rendendosi testimone e interprete, attraverso il suo obiettivo, di migliaia di accadimenti del nostro tempo in tutto il mondo; non solo, è anche fautore di una colorata, incredibile, poliedrica e affascinante galleria di immagini, nelle quali ha sigillato tutta la magia, l’orrore e l’ amore di cui l’uomo è capace. Non ama le definizioni, si dichiara semplicemente “fotoreporter”; la sua fotografia è sperimentale, non esclude il digitale e l’uso di software per il “foto shop”, ma c’e solo una cosa per lui imprescindibile: i colori, perché “il bianco e nero va sicuramente bene, però la vita è a colori e per questo la scelta del colore mi sembra molto più logica e naturale. Attraverso il colore restituisco la vita come appare”, essi sono l’ “anima del mondo”. 7 Gli scatti di McCurry mostrano tutte le facce del diamante scintillante, anche se ermetico, che è l’uomo, e dell’universo che esso può esprimere, per questo la presenza umana nelle sue foto è imprescindibile, che essa sia dettaglio o soggetto focale dell’inquadratura. Che sia vittima o carnefice. L’uomo di Steve McCurry è il viaggiatore: Lui in quanto fotografo itinerante, e Noi, gli osservatori, per i quali egli ha creato, all’interno della mostra, 5 luoghi in cui perdersi, irreali e stranianti, che provocano un totale coinvolgimento spaziale ed emotivo, oceani dai colori limpidi e vividi, in cui immergersi e affogare, per poter esperire l’altro e riflettersi in acque ignote. L’uomo è il protagonista assoluto di questi luoghi e ne sente il tempo; più precisamente devono esser definiti “non-luoghi”, immateriali come apparizioni celate dietro veli meravigliosi e indimenticabili, di cui bisogna saper cogliere ogni singolo sguardo, ogni impercettibile movimento, finendo inconsapevolmente col diventare complici, più che testimoni occasionali della foto: ecco il trucco di McCurry per approdare al cuore. Ogni stanza dell’esposizione rappresenta uno di questi luoghi, una tappa del viaggio intorno all’uomo con la sua profondità e con un taglio particolare; in sintesi non è altro che una percorso di stati d’animo, definiti con parole non esaustive, incerte ed evanescenti, e per questo anche evocative, astruse e destabilizzanti: Scoperta, Vertigine, Poesia, Stupore, Memoria. È la “Scoperta” la prima tappa: si giunge in un luogo affollato e caotico dove si percepisce, inizialmente, un caliginoso e quasi indistinto affollamento di presenze umane, con le quali è necessario confrontarsi: è il luogo dove tutti gli incontri sono possibili, dove tutti gli sguardi s‘incrociano distrattamente, tranne quelli di McCurry e dei suoi soggetti: sguardi penetranti, inquietanti, dolci e seducenti. È un luogo dove le parole non servono, l'immediatezza del linguaggio visivo basta per rispettare la sacralità del momento immortalato. Le foto si materializzano una per volta da teli neri sospesi, come fuochi fatui, a significare che ogni incontro particolare è una visione, un sogno, un flashback alla quale partecipano solo l’osservatore e il soggetto umano impresso sulla “pellicola”. Mettendo progressivamente a fuoco possiamo isolare il singolo volto dalla totalità della folla, perché, come sostiene l’artista stesso “Se aspetti, la gente si dimentica della tua macchina fotografica e l’anima affiora, diventa visibile, si libra verso di te.” e così lui può catturarla e “disegnare” la scena nella celluloide: ad ogni singola presenza vibrante, fosca e indistinta, siamo sempre più in contatto con la vita e con la nostra anima distaccandoci dal caos indistinto e prepotente della marea umana. Verso la fine della stanza la presenza rassicurante dell’uomo si dissolve, mostrando tracce di passati lontani, sia temporalmente che geograficamente, materializzati come oggetti antropomorfi e rovine di antiche civiltà che giacciono lì a urlare il muto orrore delle conseguenze dell’agire dell’uomo fin dalla notte dei tempi. La scoperta dunque, verso la fine, diventa eclissi, scomparsa, spersonalizzazione e perdizione. La seconda tappa è quella della “Vertigine”: si entra in una vera e propria “galleria degli orrori”, un luogo destabilizzante in cui regnano atrocità e follie. Tutti questi orrori ci circondano, per ricordarci di cosa siamo capaci, nonostante i fautori siano gli stessi esseri umani che nella prima stanza si presentavano attraverso sguardi sinceri, profondi e penetranti. La percezione diminuisce, l’equilibrio si perde, mancano punti stabili e fermi, il luogo non ha più confini netti e definiti e le immagini costituiscono solo un minuscolo tassello del mosaico di dolori prodotti dall’essere umano, soprattutto contro se stesso. La terza tappa, quella della “Poesia”, è totalmente antitetica alla precedente, dall’alto pende una figura geometrica di forma irregolare, composta da parallelepipedi scuri sovrapposti, dalla faccia minore dei quali emerge la foto, proiettata verso lo spettatore seguendo direzioni oscure: qui i sogni 8 si materializzano, a partire da una nebulosa di foto, e prendono vita meravigliosi racconti condensati in singoli scatti, mentre sfogliamo le pagine delle vite di altre persone, scopriamo che il loro vivere quotidiano non è poi così diverso dal nostro, perché animato dalle stesse esigenze, dalle stesse necessità e soprattutto dalle stesse speranze. È un caleidoscopio della poesia e della bellezza espresse dall’uomo. La 4 tappa, ci insegna lo “Stupore”, raro, prezioso, e purtroppo sopito negli adulti, ma indispensabile per gli artisti e per i bambini. Il mondo qui rappresentato ha un che di fiabesco e fantastico, ma non è altro che la nostra realtà: una linea continua, colorata ed esotica di diapositive che escono dalle pareti, dal pavimento e dalle volte, rendendoci immediatamente e nuovamente innocenti, piccoli e curiosi, attenti a non perdersi neppure un singolo bellissimo sorriso. Infine la “Memoria”, quinta e ultima tappa, perchè un viaggio bisogna riviverlo… seduti e attoniti, ascoltiamo la storia personale, unica e coinvolgente della ricerca di McCurry, dopo 20 anni, della sua “Gioconda”, la ragazza afghana che col suo sguardo aveva affascinato il mondo, trovandola con “La pelle segnata dalle rughe, ma esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa", con gli stessi occhi verdi e feroci. McCurry si muove nella storia e nel tempo, è in grado di catturare il “qui” e l’”adesso”, per condividerlo con noi in formato pixel. È un pescatore che si siede sulla riva del mondo e aspetta di immortalare la preda e racchiudere tutto in uno sguardo, in un volto. Come racconta lui stesso: “Passo un sacco di tempo a guardare facce e facce, e le facce sembrano raccontarmi una storia. Quando su un volto è scavata qualcosa dell'esperienza di vita, so che la foto che sto scattando rappresenta molto di più del semplice momento. So che qui c'è una storia. Per questo la maggior parte delle mie immagini sono di persone. Cerco il momento indifeso, l’anima più genuina che si affaccia, l’esperienza impressa sul volto di una persona. Cerco di trasmettere ciò che quella persona può essere, una persona descritta sopra un paesaggio più ampio, che potremmo chiamare la condizione umana.”: la sua non è fotografia “da parete” e non può essere tantomeno “sfondo”, perchè ciò neutralizzerebbe la potenza dello sguardo e la nostra percezione di esso; perciò egli ha invece fatto in modo che tra i due soggetti si instaurassero sempre relazioni attive, e mai di circostanza, con l’aiuto delle luci e dei materiali e, allo stesso tempo, ha lavorato sulla percezione dello spazio tra le immagini, che non può essere equiparato ad una pausa, ma piuttosto ad un sussurro, ad un soffio di vento, ad un silenzio tridimensionale. Ha trasformato cioè la sua arte in un gioco per l’impressione e per la sensazione umana, senza (permettetemi un neologismo) “superficializzarla”, cioè senza privarla del significato immenso che egli vuole trasmettere in partenza. Questo periplo intorno all’uomo ci fa scoprire quali soggetti particolari e quali mondi specifici e affascinanti siamo tutti indistintamente. Ecco il mondo visto con i suoi occhi, ecco l’umanità che vuole esprimere, ecco il modo in cui McCurry si esprime: l’”eloquenza dello sguardo”, cioè la comunicazione attraverso un linguaggio universale fatto di occhi vivi e variopinti; poi, stracci di quotidianità, le ombre, le sagome, il linguaggio silenzioso delle mani, il gioco, l’aspettare e l’agire, il fluire della vita umana, il bene e il male, la guerra, la vita che corre e scorre, la solitudine, la perdizione nei propri pensieri, l’evoluzione in atto… La sua filosofia artistica ci educa alla tolleranza, all’uguaglianza, alla libertà e al rispetto, ci insegna lo splendore di una vita multicolore e cosmopolita, la pazienza e la curiosità di vivere, la consapevolezza di far parte di qualcosa di più grande e complesso e infine, la più importante, la bellezza totale e devastante dell’uomo, anzi, mi correggo… dell’intero genere umano. Luca Parlangeli 9 La Magia della Fotografia Come molti sanno, la macchina fotografica è uno strumento in grado di realizzare un’immagine grazie all’effetto della luce. La parola “fotografia” deriva dal greco: luce (φῶς) e grafia (γραφή), tradotto letteralmente “scrittura della luce”. Utilizzando le scoperte e gli studi già avviati nell’antica Grecia, la fotografia si concretizzò agli inizi dell’ 800 e si sviluppò arrivando all’immagine a colori e all’utilizzo del digitale, diventando un mezzo artistico capace di supportare e affiancare le arti visive. La fotografia si è affermata nel tempo dapprima come procedimento di raffigurazione del paesaggio e dell'architettura, poi come strumento per raffigurare la nascente borghesia e il popolo. La maggiore diffusione della macchina fotografica portò ad uno sviluppo della sensibilità estetica e all'indagine artistica del nuovo strumento, consentendone l'accesso alle mostre e nei musei. Ebbe inoltre un ruolo fondamentale nello sviluppo del giornalismo e nel reportage e il miglioramento della tecnologia ne contribuì l'estensione anche nella cattura di immagini dello spazio e del micromondo; prima di arrivare alla macchina fotografica odierna, lo strumento ha avuto una lunga storia e ha subito moltissimi cambiamenti. Uno di questi è lo sviluppo della pellicola al digitale. Bisogna ammettere che il digitale è migliore come risoluzione, come purezza dei colori, assenza di grana e di rumore. Lo si può ingrandire a dimensioni che con la pellicola erano solo sogni, si può notare subito se una foto è sovraesposta o sottoesposta. Invece con la pellicola era molto più difficile perché si doveva attendere a lungo prima di avere la foto e vedere se venivano sovraesposte, storte etc…e se essa risultava sbagliata era difficile catturare nuovamente il momento o il paesaggio che si desiderava. In termini economici, è più semplice mantenere una macchina fotografica digitale, poiché la scheda SD si compra una sola volta, mentre i rullini andavano ricomprati ogni qualvolta finisse il precedente. Prima le macchine fotografiche erano oggetti d’élite, poiché molto costosi e difficili da usare, al contrario adesso è quasi normale possedere una reflex. Concludo citando le parole di Andreas Feininger: <<Chi non sa fare una foto interessante con un apparecchio da poco prezzo, ben difficilmente otterrà qualcosa di meglio con la fotocamera dei suoi sogni.>> Elettra Sarno 10 E' il momento di farla finita. E' troppo tempo ormai che circolano per le nostre strade, viaggiano indisturbati: il centro della nostra città è in pericolo e non tarderà ad esserlo anche la periferia. Ogni giorno causano profondi disagi, quelli che hanno trovato una stabilità economica viaggiano con macchine di lusso che il più delle volte non si possono nemmeno permettere, altre volte sono completamente ubriachi, li trovi stesi nei vicoli del centro, picchiano ragazze e si credono invincibili. Non portano rispetto a questo paese, non pagano le tasse, il centro è pieno di nuovi negozi a loro intestati. Stanno minando la nostra economia, il nostro agio, ci mettono solo paura e terrore, nessuno vuole più girare da solo per paura di incontrarli e inoltre non portano alcun vantaggio culturale. Siamo tutti d'accordo che è il momento di fare qualcosa? Nessuno sembra accorgersene! Nessuno sta facendo qualcosa! Adesso tocca a noi alzare un grido di protesta: E' IL MOMENTO DI FARLA FINITA, o questi italiani razzisti ci distruggeranno. Ilaria Dalla Noce 11 LETTERATURA TOLKIEN CONTRO HEGEL: primo round A giudicare dal titolo potreste pensare che ci sia stato un errore di impaginazione e che questo sia in realtà un altro sogno poco raccomandabile, accidentalmente finito fuori dalla rubrica che spetta a lui e ad i suoi degni compari: se davvero fosse così mi troverei in parte scagionato dalla paternità di un accostamento tanto azzardato e stridente, da ricondurre piuttosto al mio inconscio, nonché affrancato dall’obbligo di analizzarlo dovendone addirittura trarre conclusioni sensate. Ebbene no, è tutto (si spera) razionalmente concepito, e pur riconoscendo i netti limiti della mia conoscenza in merito al pensiero dei due soggetti in questione intendo comunque esporre il confronto cui essa mi ha condotto recentemente, grazie ad un eccezionale kairòs che ha sovrapposto il mio studio del suddetto filosofo con l’uscita nei cinema del secondo capitolo de Lo Hobbit. Ovviamente non mi permetterei mai di affrontare un simile proposito impugnando solamente le conoscenze derivanti dalla semplice visione di un film, ma devo ammettere che è stata quest’ultima a risvegliare ancora una volta in me l’imperituro amore per il mondo tolkieniano, la profondissima ammirazione per la capacità creativa di un filologo decisamente fuori dal comune ma soprattutto il desiderio di addentrarmi con maggiore acutezza nel significato della sua opera. Significato, sì, perché le vicissitudini della Terra di Mezzo, o più in generale di Arda, sono pervase da un messaggio che va ben oltre la semplice lotta tra bene e male, come potrebbe sembrare a prima vista anche considerando la natura fantastica della materia narrata: è anzi un messaggio che investe l’individuo quasi nella sua totalità, offrendo di volta in volta originalissimi spunti di riflessione su molte delle dinamiche che lo interessano. Nel nostro caso, la dinamica in questione è il suo rapporto con la Storia, da confrontare in seguito con la concezione del filosofo idealista per antonomasia. Prima di procedere è tuttavia necessario rispolverare uno dei capisaldi della poetica tolkieniana, vale a dire la concezione dell’allegoria. “Detesto l’allegoria, l’allegoria cosciente e intenzionale” spiega il nostro Ronald Reuel all’amico Milton Waldman in una lettera che ha più i connotati di un’enunciazione programmatica: nelle pagine che seguono egli sviscera infatti tutte le conclusioni, affatto scontate aggiungerei, necessariamente derivanti da una simile affermazione, delineando una concezione del tutto originale dell’attività letteraria creativa. Anzitutto il termine “allegoria” acquisisce per lui un significato amplissimo, di respiro quasi globale: allegoria è tutto ciò di altro rispetto alla realtà concreta cui si dà, letterariamente parlando, vita, affinchè esprima un qualsivoglia messaggio capace di trovare riscontro nella realtà stessa, proprio perché da essa proveniente; una sorta di parabola insomma, che dall’uomo nasce e agli uomini intende riferirsi, solitamente attraverso immagini o storie esteticamente o pateticamente efficaci. Cosa significa dunque, rigettare l’allegoria “cosciente e consapevole”? Significa rifiutare di concepirla come creazione meramente funzionale alla nostra realtà, come prodotto che in essa trova il proprio fondamento ed il proprio fine: l’allegoria di Tolkien vuole 12 avere sussistenza propria, spogliarsi di qualunque intento didascalico per configurarsi come un universo a sé stante e solo in seguito mostrare come il proprio significato possa essere valido anche per la nostra umanità . Da una simile impostazione consegue necessariamente l’obbligo di ideare non solo un nuovo mondo, ma anche un nuovo impianto metafisico, nuove civiltà, una nuova geografia, una nuova glottologia (e su quest’ultimo aspetto si dovrebbero spendere innumerevoli pagine, poiché è quello in cui Tolkien ha riversato maggiormente la sua incontenibile passione di filologo) e, venendo finalmente all’ambito che ci interessa, una nuova Storia; dunque nuove leggi della Storia, ed un rapporto alternativo dell’individuo con essa, il tutto con un proprio originale fondamento. Prima di proseguire, tuttavia, mi permetto di ritagliare uno spazio al fine di prevenire le ingenue obiezioni di quanti potrebbero avventatamente affermare : “ma questo lo fanno tutti gli scrittori fantasy eh!” . Bene, se proprio si intende svilire Tolkien costringendolo ad un confronto con quella dozzinale produzione dei giorni nostri che rientra nel cosiddetto genere fantasy, si tenga presente che anzitutto lui è stato il primo non solo a concepire un progetto simile, ma anche a realizzarlo con una coerenza ed una naturalezza raramente superate, sviluppando in maniera rigorosa le premesse filosofiche e compenetrandole ad una materia incredibilmente coinvolgente e pulsante di vita propria. Ecco, molto sinteticamente, cosa eleva la sua opera ad una dignità ben superiore rispetto a quella della semplice narrativa fantasy. Ma passiamo oltre. Ritengo che la tematica della Storia in Tolkien affronti principalmente due questioni: la possibilità per il singolo, nella sua minutezza, di intervenire positivamente in essa, dunque la Libertà, e la Responsabilità che gli viene lasciata di sfruttare o meno tale opportunità a fin di bene; a quest’ultima si associa poi una problematica ulteriore che è quella della Tranquillità, ovvero il sostanziale rifiuto della Storia . Ovviamente sarebbe bello potersi soffermare anche su dinamiche come la sete di potere, la genesi del Male, il senso dell’avventura, ma purtroppo mi troverò a doverle toccare solo superficialmente. La Libertà, per cominciare: da una lettura anche parziale della Trilogia dell’Anello o de Lo Hobbit traspare subito come Tolkien abbia scelto di affiancare ad una nutrita schiera di eroi, creature poderose ed incarnazioni del Male, tutte accomunate da una caratterizzazione quasi epica, personaggi che con l’epos non hanno nulla a che vedere: gli hobbit, appunto. Pigri, abitudinari, tradizionalisti, amanti delle comodità e della buona tavola, garbatamente ma rigorosamente insofferenti e chiusi nei confronti di qualunque cosa minacci di turbare la pace 13 della loro Contea, queste creature suscitano inevitabilmente la simpatia del lettore proprio per il loro vivere esclusivamente di quei “vizietti” che nessuno, per quanto consapevole della loro talvolta pericolosa vacuità, si sentirebbe in grado di condannare in assoluto. Eppure sono proprio queste figure completamente antieroiche che Tolkien sceglie di proiettare nelle avventure più impensabili, nei luoghi più tetri, nelle battaglie per il destino del mondo, insomma in scenari che nulla hanno in comune con il pacioso verdeggiare della Terra di Buck ; è a loro, gli esseri più limitati e indifesi, che egli affida in ultima analisi le sorti di ognuno, ma soprattutto la trasmissione di un messaggio di respiro veramente universale. La Storia non vive di grandi nomi, delle gesta di individui forti e imperturbabili che calcano una strada chiara e spianata verso l’inevitabile conflitto con il Male; re, maghi, demoni o condottieri non sono i soli a imprimere la loro volontà al corso degli eventi, poiché anch’essi risultano in qualche modo limitati: è anzi la loro stessa grandezza a renderli in un certo senso miopi,statici, incapaci di concepire soluzioni al di fuori di quelle tragiche o apocalittiche. Senza che costoro vengano delegittimati, sia chiaro, Tolkien intende quindi mostrarci come siano gli umili, i piccoli, quelli che la tragedia e l’apocalisse non vorrebbero neanche sentirla nominare ad incidere in maniera definitiva sulla Storia, a fare inconsapevolmente della propria genuina ingenuità la bandiera più fulgida contro il dilagare delle tenebre. Insomma l’intervento positivo da parte del singolo, ma di quel singolo che dalle grandi vicissitudini del suo tempo sembrava destinato a rimanere avulso, è possibile, possibile e decisivo. Se Frodo non si fosse istintivamente offerto di portare l’Anello a Mordor i grandi re dei Popoli Liberi avrebbero continuato ad accapigliarsi per chi dovesse averne l’onore e l’onere; se Bilbo, in uno dei gesti di umana pietà più alti e commoventi di cui si abbia nozione in tutta la letteratura moderna, non avesse scelto di risparmiare Gollum, per quanto abietto potesse sembrare, in quell’antro delle Montagne Nebbiose, lo stesso Frodo si sarebbe ritrovato senza guida e spacciato decenni dopo; e gli esempi di questo genere sono innumerevoli. Anche nel Silmarillion si può ritrovare, seppure ad un altro livello e con diverse conseguenze, una dinamica di questo tipo: in tal caso a vestire i panni dei “buoni a nulla” agli occhi degli altri sono gli uomini, malvisti dagli Elfi per la loro rozzezza, imprevedibilità e soprattutto inclinazione al Male. I criptici ed imperscrutabili custodi primordiali della bellezza e dell’ordine del mondo non hanno fiducia nelle creature mortali e sentono di doversi fare carico da soli del fardello che i Valar (le divinità minori) hanno loro assegnato; ma è proprio la mortalità che rende gli uomini capaci oltre che del massimo Male, anche del massimo Bene: “la mortalità” ripete più volte l’atavica voce narrante nel corso del libro “è il dono di Ilùvatar (Dio) agli uomini, la libertà dai circoli del mondo”. Se tale frustrante condizione di caducità, che gli Elfi peraltro tacitamente invidiano, è infatti spesso responsabile della deviazione verso la volontà di dominio ed il Male, essa è di contro anche uno stimolo unico ad agire in senso opposto, ad amare il mondo e a lottare con disinteresse per quanto di buono vi sia in esso, corroborati dalla passione ardente che solo chi ha di fronte un’esistenza finita può provare. Ancora una volta dunque Tolkien dimostra come siano i dubbi, le debolezze ed i limiti che affliggono quanti appaiono più lontani dalla grandezza a fare di loro degli inattesi eroi. Portando avanti l’analisi è inevitabile approdare senza soluzione di continuità alla trattazione della Reponsabilità e della Tranquillità, tra loro strettamente connesse: la 14 seconda è infatti l’illusione che conduce il singolo a rifuggire dalla prima, che ha a sua volta nella Libertà il proprio fondamento. Ma vediamo di spiegarci: si è detto che la Responsabilità si realizza nel raccogliere la possibilità offerta a tutti di contribuire positivamente al corso degli eventi; ora, tenendo conto di tutto quel che è stato affermato riguardo alla Libertà e al ruolo delle figure antieroiche, è possibile precisare che spesso nonostante tutto alcune di esse soccombano inconsapevolmente ai propri limiti e rifiutino di esporsi al pericolo che inevitabilmente la grande Storia rappresenta, soprattutto agli occhi dei più semplici. La Storia è da loro percepita come qualcosa di estraneo, di lontano, quasi irreale: com’è possibile che i conflitti con un certo Signore Oscuro nelle distanti terre degli Elfi possano degenerare al punto di intaccare la pace della Contea? Oppure per quale motivo un hobbit onesto e perfettamente soddisfatto della propria dimora pulita ed ordinata dovrebbe mai interessarsi delle questioni irrisolte di una comitiva di nani, e addirittura rischiare la vita per aiutarli a recuperare un fantomatico tesoro? Ma gli esempi in questo senso sono innumerevoli, e non coinvolgono solamente i Mezzuomini: lo stesso ragionamento è condotto anche dagli Ent, i secolari Pastori di Alberi, e seppure in una misura differente persino dal re elfico Turgon, nel Silmarillion. La vicenda dei primi è alla portata di tutti: di fronte alle pressanti e stridule richieste di Merry e Pipino -per l’appunto due hobbit divenuti consapevoli della propria responsabilità- di intervenire nella guerra contro Isengard, pena la loro stessa distruzione, Barbalbero ed i suoi si mostrano scettici, prevenuti e quasi saccenti. La loro vetustà li rende molto più periti dell’andamento delle cose del mondo rispetto a due creaturine di poco valore, spuntate da poco sulla terra: gli Ent sono sopravvissuti ad innumerevoli sconvolgimenti, e possono superare anche questo chiudendosi nelle profondità della foresta di Fangorn come sempre hanno fatto. Solo quando vedono lo scempio perpetrato da Saruman nei confronti dei loro simili, solo quando Barbalbero si ritrova di fronte ad una landa brulla e martoriata dall’industria degli Orchi si rendono conto del proprio errore, comprendono che di fronte al Male è prioritario prendere l’iniziativa, perché nascondersi dalla Storia non è possibile e l’alternativa è una vita di solitudine e fuga in attesa della morte. Simile è la vicenda di Turgon, che essendo narrata nel Silmarillion si tinge di venature ancor più tragiche: egli è re e fondatore della mitica città elfica di Gondolin, racchiusa per miglia attorno da un impenetrabile teatro di vette impervie, signora della florida e apparentemente sicura valle di Tumladen. Dalle sue aule splendenti egli governa con saggezza un popolo felice e fiero, amando sempre di più il gioiello di cui comincia presto a ritenersi il solo padrone. Secondo il procedimento di genesi del male tipico dell’opera di Tolkien, egli attaccandosi irrimediabilmente all’oggetto della propria creazione si persuade che la sua Gondolin svetterà nei secoli all’ insaputa di tutti, che la pace vi regnerà in eterno e nessuna oscurità potrà insozzare le sue pallide, rilucenti mura; riduce i contatti con gli altri re suoi fratelli e si isola nella riverente custodia della sua tranquillità, per l’appunto. E il male inevitabilmente lo sorprende, poiché le maree della Storia non lasciano nessuno all’asciutto: così grazie ad un casuale tradimento i mostruosi eserciti di Morgoth penetrano nella valle idilliaca, radono al suolo la città e ne massacrano gran parte della popolazione, nonostante l’eroica e disperata resistenza di Turgon e dei suoi . Se la Responsabilità è insomma una categoria della coscienza, un impulso interiore a 15 divenire consapevoli dell’apporto che inevitabilmente si dovrà recare alla Storia, nel Bene o nel Male, la Tranquillità è il suo opposto e la sua negazione: è il ripiegamento introverso, l’egoistica volontà di conservazione di sé anche a scapito di tutti gli altri, in nome di una distorta idea di pace per cui questa stessa, anziché difesa o conquistata, deve essere solo mantenuta il più a lungo possibile, e con ogni compromesso. Ma la Tranquillità non esiste se non nella misura in cui coincide con l’ignorare i problemi altrui e del mondo , e con l’ affezionarsi morbosamente alla propria casa, regno, foresta o orticello che sia: essa è o la timorosa speranza che la propria piccola realtà rimanga intatta, dovesse anche ardere tutto quello che le sta attorno, o l’infantile rassegnazione di fronte ad una presunta ineluttabilità degli eventi, o la rinuncia all’intervento storico nella vanagloriosa convinzione di aver raggiunto uno stato di superiore potenza ed intangibilità. Un’illusione foriera di viltà, inevitabilmente destinata ad infrangersi contro l’unica vera legge della Storia, che è quella della Caducità, a cui è inutile tentare di sfuggire. Accettare la Responsabilità significa quindi sottomettersi a tale legge, divenire consapevoli della propria Libertà, dei propri limiti, e del ruolo che la Storia ci chiama ad assumere, per “ decidere cosa fare con il tempo che ci è concesso”, se vogliamo rifarci alla massima, se permettete quasi di senecana memoria, che Gandalf elargisce pazientemente ad un dubbioso Frodo nelle miniere di Moria. Forse è proprio questo il merito più elevato di Tolkien, quello in cui è veramente grande: l’aver non solo affrescato una nuova Storia universale, avendo reso con somma maestria e realismo l’andamento ciclico di creazione e distruzione che governa tutte le cose , ma l’essere anche riuscito nonostante tutto ad infondervi un senso, un profondissimo senso . L’opera di Tolkien è nel suo cuore più intimo un monumento alla possibilità dell’uomo di farsi eterno di fronte alla Storia non superando i propri strutturali limiti, ma facendo di essi il suo punto di forza maggiore, la sua peculiarità, il suo vanto, nella lotta contro un Male che ha nell’Indifferenza una delle sue manifestazioni più insidiose. E chi rifugge tale lotta e si chiude all’avvento della Storia si limita a posticipare la propria fine, concedendosi l’ingannevole godimento di una pace effimera e malsana che lo rende cieco alla rovina del mondo attorno a lui. Questa dunque la lezione di Tolkien. Molti hanno inteso vedere in essa un’allegoria, per l’appunto, della seconda guerra mondiale e delle atrocità del nazismo, un monito che il filologo ha voluto lasciare anche per inchiodare alla propria responsabilità un’umanità che per troppi versi è rimasta a guardare finchè le circostanze non l’hanno costretta ad agire; ed una simile interpretazione è senza dubbio plausibile, ma palesemente riduttiva. Stante anche quanto precedentemente affermato riguardo all’allegoria è infatti da escludere (anche per motivi cronologici) che l’intento dell’autore fosse di legare il proprio messaggio a quella che di fatto è una contingenza storica, per quanto sconvolgente, orrenda e senza precedenti; l’opera di Tolkien ha un respiro universale proprio per il suo essere scevra di riferimenti impliciti o espliciti a date situazioni storiche, e contemporaneamente per la versatilità con cui può farsi in ogni momento chiave di lettura delle stesse. In questo si può infine comprendere appieno la coerenza con cui l’autore abbia realizzato la propria idea di allegoria. Termina dunque qui, con mio grande dispiacere, la dissertazione su Tolkien. Per ovvi motivi di lunghezza e leggibilità rimando al prossimo numero il confronto con il nostro 16 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sempre che qualcuno dei miei venticinque lettori abbia intenzione di prestarvi attenzione e soprattutto che il sottoscritto riesca a mettere insieme qualcosa di sensato da dire in proposito. In ogni caso, ringrazio. Renzo Nuti STORIA I have a dream, we all have a dream “I have a dream: that one day this nation will rise up and live out the true meaning of its creed: We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal". Queste parole sono tratte dal discorso tenuto dal reverendo Martin Luther King il 28 agosto 1963 davanti al Lincoln Memorial di Washington al termine della marcia per il lavoro e la libertà (For Jobs and Freedom). Un discorso che diverrà uno dei simboli della storia americana e che vuole ricordare alla nazione che, nonostante siano trascorsi cento anni dall’Editto di emancipazione degli afroamericani emanato da Abraham Lincoln, questi erano ancora considerati inferiori. Martin Luther King definisce vergognosa la condizione degli afroamericani poiché gli “architetti della repubblica”, scrivendo la Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, avevano promesso che tutti gli uomini avrebbero goduto dei principi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. Prosegue parlando di un “assegno a vuoto” che è stato ricevuto dai cittadini americani di colore per indicare la promessa non mantenuta dagli Stati Uniti d’America verso la parte nera della popolazione, sottolineando che era arrivato il momento di realizzare le promesse fatte cento anni prima. Afferma che il 1963 è un anno in cui le cose possono finalmente cambiare e che in America non ci sarà pace finché anche i diritti dei neri non saranno garantiti. Continua il suo discorso dicendo che gli uomini di colore non potranno mai essere soddisfatti finché continueranno a subire brutalità da parte della polizia, finché continueranno a non essere accolti negli hotel delle città, finché ai loro figli sarà tolta la dignità attraverso i cartelli con scritto “Riservato ai bianchi”. Conclude ripetendo più volte “I have a dream”, sottolineando che il suo sogno è una speranza, quella che un giorno anche i neri potranno lavorare, pregare e lottare insieme facendo riecheggiare la libertà in tutta l’America. È un discorso profondo e moderno in cui si cerca di trasmettere la fratellanza e l’uguaglianza tra le due parti di un popolo diviso da oltre un secolo. Queste parole sono un’esortazione ad avere sempre la forza di andare avanti perché c’è sempre una speranza anche quando tutto sembra andare per il peggio; allo stesso tempo queste parole sono anche un incoraggiamento a perseguire i nostri sogni perché Martin Luther King, come ognuno di noi, aveva un sogno e grida agli afroamericani di non arrendersi per vederlo realizzato. Quest’uomo credeva veramente in ciò che stava dicendo e il suo messaggio è rivolto non solo a tutti coloro che erano lì presenti ma anche alle future generazioni e quindi a noi. Ed è proprio questo quello che ci vuole far capire: dobbiamo sempre sperare in qualcosa perché, se crediamo davvero in quello che facciamo e nel motivo per cui lo facciamo, possiamo avere speranza di un futuro migliore, possiamo avere un sogno. We all have a dream. Giulia Freni 17 RECENSIONI L’Altrove Philomena di Stephen Frears E dove sono la luce, la salvezza, quando tutto è buio e nemmeno uno spiraglio s'intravede oltre l'oscurità opprimente che bussa alla tua finestra socchiusa. Per quanto io mi possa avvicinare emotivamente alla sofferenza di Philomena, una donna vera, semplice ma più reale di quanto lo possano essere tutti quelli che ci circondano, non riuscirò mai a comprendere pienamente la profondità della sua mancanza; il non sapere corrode l'animo ancora di più di quanto conoscere il destino di tuo figlio, strappato via dalle braccia ancora prima di aver compiuto i primi passi. La rigida ricerca inizia, verso la verità, l'illuminazione. Philomena al fianco del giornalista Martin Sixsmith, appena cacciato dalla stretta cerchia del primo ministro inglese Tony Blair, parte per gli Stati Uniti, con una speranza nel cuore, che non smetterà mai di condurla sul retto cammino, doloroso si, ma giusto. Attraverso lo svolgersi di questo viaggio si crea il contrasto fra queste due menti, Philomena e Martin, due persone completamente diverse, le cui divergenze culminano nel tema religioso: la fede in Dio. Questo processo, estremamente graduale, è il perno centrale della storia, che porta innanzitutto la sfortunata Philomena ad intraprendere il viaggio. Nei due personaggi non avviene nessuna evoluzione concettuale, particolare che spesso caratterizza i film incentrati sulla scoperta, anzi, si verifica quasi una esasperata affermazione della loro ideologia. Martin, ateo. Philomena, vera credente cattolica. Come potrebbero due persone con dei pensieri agli esatti opposti, entrare in contatto per un fatto invece così profondamente legato all'argomento che li rende l'uno il contrario dell'altra? Possono, perché nella loro diversità si completano. Philomena possiede la vera fede, quella non filtrata da alcun ente religioso, che ha purtroppo spesso la pretesa di fare le veci di Dio, che per definizione è tutto al di fuori di umano. Lei si oppone ad una Chiesa, che gli negò di essere madre, in nome di qualcosa che non poteva nè vedere nè toccare. Martin le chiede, "Come fai a non essere arrabbiata?" E lei risponde "Io ho fede". Fede in Dio, non nella Chiesa. Lei perdona la suora che le ha fatto questo, perché in cuor suo lei sa che la donna ha agito in tal modo per fede, che è appunto il modo in cui 18 ogni persona interpreta singolarmente la religione. Non c'è rancore da parte sua, rimorso forse, ma non rancore. Lei crede, e lei sa che così manterrà la sua serenità. Martin non la comprende, è quasi furioso, e non riesce a realizzare come possa sottomettersi ad un tale sopruso. Dice di non poter credere in un Dio, che sembra volere il male di coloro che lo amano. In realtà Martin è molto meno convinto di quanto lui stesso affermi. A inizio film si tradisce, con una semplice ma incisiva frase: "Speriamo non se la prenda. " Dice, riferendosi ad un gesto ironico che ha appena compiuto nei confronti di una statua sacra. Questo soggetto sottinteso è senza alcun dubbio Dio: ciò significa che nonostante il suo dichiarato ateismo, Il subconscio di Martin non è convinto di tale affermazione, ma naviga ancora nel dubbio, al quale probabilmente non troverà mai soluzione, non avendo la stessa forza d'animo di Philomena di gettarsi nel buio, senza corde o salvagenti e credere in Dio e nella sua immensa misericordia. Avere Fede. La vicenda quindi di Philomena, realmente verificatasi e trasposta dal giornalista Martin Sixsmith nell'opera "The Lost Child of Philomena Lee", può essere definito come una sorta di amaro spunto per il regista Stephen Frears, grazie al quale poter enucleare invece il tema della Fede, vera protagonista di questo film. Judi Dench e Stephen Coogan, anche sceneggiatore, mettono in scena divinamente i drammi dei personaggi, meritandosi senza alcuna ombra di dubbio le candidature all'Oscar. Ginevra Bianchini 19 Candido o l'ottimismo Nel gennaio 1759 apparve in Europa un volume intitolato Candide ou l'optimisme, traduit de l'allemand de Mr. Le Docteur Ralph (Candido o l'ottimismo, tradotto dal tedesco dal signor dottor Ralph). L'anonimo autore dell'opera fu presto riconosciuto nella figura di Voltaire, pseudonimo di François Marie Arouet, filosofo illuminista francese, che con questo piccolo (per la mole, non certo per il contenuto) libro scaglia una delle più forti critiche nei confronti della filosofia ottimistica del filosofo Leibniz. Quest’ultimo, in sostanza, afferma che quello in cui viviamo sia il migliore dei mondi possibili e che quindi tutti gli eventi si compiono e si realizzano, necessariamente, nel modo migliore possibile, per il semplice fatto che, se ciò non fosse vero, Dio non avrebbe creato questa realtà. Voltaire reputa che questa filosofia non solo induca il genere umano ad accettare lo status quo privandolo di quelle energie che portano all’azione ed al cambiamento in virtù dell'immutabile provvidenzialità del destino, ma che sia un' offesa al buon senso e alla ragione, visto che aggiunge alle «tante miserie e orrori (del mondo) l'assurda furia di negarle». Il terremoto di Lisbona nel giorno di Ognissanti del 1755, che, insieme allo tsunami da esso provocato, uccise circa un terzo della popolazione della città, rappresentò per il mondo di allora un grande trauma: fu chiaro, perlomeno per Voltaire, che nessuno potesse più affermare che «tutto è bene» a questo mondo. Il nostro autore fu molto probabilmente spinto da questo evento, su cui aveva già scritto il Poème sur le désastre de Lisbonne, a elaborare Candido, con cui riesce a confutare abilmente la filosofia leibzeiniana, attraverso una storia tragicomica con una trama poco verosimile ma molto adatta sia alle finalità che alla struttura dell’opera stessa. Il libro narra la storia di un ragazzo di nome Candido, allegoria dell'ottimismo. La filosofia corifea dell’ottimismo è ridotta a slogan o motti ridicoli pronunciati dal personaggio-filosofo del libro, Pangloss (da notare l'etimologia Πᾶν, tutto e γλῶσσα, lingua, quindi “tutto lingua”), che tenta continuamente di giustificare il corso degli eventi, anche qualora essi non abbiano alcun risvolto positivo. Fin dall'inizio della storia Candido non ha pace e si ritrova a errare in tanti e diversi luoghi (che a volte costituiscono dei veri e propri mondi a sé stanti, come il paese selvaggio degli Orecchioni) ma da cui deve sempre scappare, volontariamente o, soprattutto, involontariamente, perché in nessun luogo trova felicità o pace, finché alla fine della storia si rassegna a non credere o perlomeno a non dar molto credito all'ottimismo. Tra Bulgari e Abari, tra Lisbona e la mitica Eldorado, Voltaire ci consegna un capolavoro dell'ironia fatta critica. Il libro non si conclude con una risposta al problema, né denota una visione pessimistica del mondo, ma lascia l'interrogativo in sospeso: il ragionamento conclusivo, «bisogna coltivare il proprio giardino», significa, in breve, “è probabile che sia meglio non chiederci in quale modo il mondo funzioni, per non essere delusi”. «Le cose non possono essere in altro modo. […] Notate che i nasi sono stati fatti per portare le lenti; perciò noi abbiamo le lenti. Le gambe sono state chiaramente inventate per essere calzate, e noi portiamo calzature.» - Pangloss Enrico Fedeli 20 ARTE IO PICASSO Pablo Ruiz, divenuto celeberrimo con il nome di Pablo Picasso, è sicuramente uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Egli aderì a svariati movimenti pittorici fino a non appartenere più a nessuno, sperimentando svariate tecniche e mutando la stessa interpretazione della sua arte; questi tuttavia è irrimediabilmente diventato il simbolo del movimento cubista. Durante i suoi 86 anni da artista creò un patrimonio immenso che va dalle tele ad olio a quelle a china, dalla scultura alla ceramica per un totale di circa 120,000 pezzi. Alla sua morte, nel 1973, il famoso banditore d’asta Maurice Rheims venne incaricato di fare l’inventario di tutte le opere del pittore per spartire l’eredità fra i suoi figli; furono previsti tre mesi che comunque non erano molti per un tale patrimonio artistico, ma alla fine ci vollero circa 7 anni. Impiegarono così tanto tempo perché nessuno conosceva l’esistenza di migliaia di disegni, dipinti, acqueforti che Picasso aveva conservato e che rappresentavano campioni della sua produzione, come per mettere dei punti fermi alla sua vita e al suo percorso creativo; molte delle opere che tenne erano tuttavia memoria di particolari episodi vissuti, i ricordi da cui non voleva separarsi. E’ il caso di questo autoritratto che venne scoperto grazie all’inventario di Rheims; risale al 1918 e venne disegnato da Picasso alla morte dell’inseparabile amico Whilelm Albert Apollinaire, meglio noto con lo pseudonimo di Guillaume. Questi fu un poeta e scrittore francese, conosciuto nel 1903 e con il quale il pittore instaurò un’amicizia destinata a durare tutta la vita; lui e l’altro amico dell’artista , Max Jacob, furono infatti gli unici a difendere la sua pittura glaciale e funeraria durante il periodo blu. Nel 1914 scoppiò la guerra e Apollinaire partì per il fronte mentre Picasso, essendo spagnolo, venne risparmiato da un conflitto che non riguardava il suo paese, ma non sapeva che l’amico non avrebbe fatto più ritorno. Questo autoritratto, quasi completamente sconosciuto, dimostra la formazione di Picasso presso i canoni della pittura classica. Egli decide di dipingere ciò che è e cosa prova in quel momento, un semplice disegno a matita, come colori solo il bianco e il nero. I tratti già pronunciati dell’allora trentasettenne Pablo Picasso sembrano resi ancora più severi dalla sua espressione glaciale che fa trapelare un immenso dolore. La testa è alta e l’espressione risoluta, la bocca sigillata e le sopracciglia aggrottate in un’espressione di sdegno per l’orribile sorte dell’amico. Quello che tuttavia cattura maggiormente l’attenzione sono gli occhi dell’uomo, fissi, diretti e sconvolti, lo sguardo intenso, triste e profondamente turbato sembrano quasi mettere in soggezione chi lo guarda, per un disegno che venne definito un autoritratto per guardare in faccia la morte. Carlotta Casi 21 RACCONTI Acqua nei polmoni. Mi tiro il piumone fin sopra la testa. Soffoco la faccia nel cuscino, ricerco il sonno disperatamente, come un sedativo, che acquieti tutto questo pianto, che annebbi i sensi. Ricerco il sonno che protegga la mia mente da tutta questa consapevolezza improvvisa e terrificante di quanto la nostra vita sia un filo sottile, troppo sottile. Teso, troppo teso e poco flessibile, troppo poco flessibile. Nella notte immobile e serena il sonno combatte con la paura, con le lacrime. Ma è sconfitto. E’ tutto troppo potente. In autobus. Tutti sono molto assonnati, con i libri sulle ginocchia tentano di ripassare, ridono, si spintonano. Lei racconta a gran voce di quanto poco avesse studiato, e di quanto le “avrebbe fatto il culo “ la prof, ma non è preoccupata, anzi è sfacciata, irriverente, sicura di se, con tutto il suo profumo e le sue scarpe di marca. Lui ride con l’altro, stanno ascoltando un rapper italiano che riempie i suoi testi di parolacce, e la cosa suscita ilarità. Un gruppo di tredicenni appare felice. Hanno tutti la Freitag e il telefono più grande delle loro stesse giovani mani. Sale gente, ad ogni fermata lo spazio diminuisce. E a me sembra di respirare acqua. Sale gente, e sembrano tutti felici, proprio stamattina. E vorrei urlare, aprirgli gli occhi a forza, e spazzare via quell’effimera gioia. Penso di essere egoista; Io soffro, ma questo non è un buon motivo per desiderare la sofferenza altrui. Quanto è facile sentirsi soli, in mezzo a tutta quella gente. Ma questo è un dramma universale! Come facciamo a vivere ogni giorno con questo ignoto fardello sulle spalle? Come facciamo a ridere, a costruire, ad inventare, a trovare la forza. Basta un attimo di vento un po’ più forte del solito a spezzare irrimediabilmente quel filo e farci smettere di esistere. O far smettere di esistere chi ti è più caro al mondo e stapparti dalla tua illusione, sbatterti la realtà addosso, farti schiacciare e sviscerare da essa, portatrice di dolore. Sale gente, sempre di più, sempre meno spazio, sempre più acqua malata nei polmoni. Sale gente, i profumi si mischiano, fragranze troppo dolci e nauseanti, odore di trucchi, chiacchere di tutto e di niente invadono le mie orecchie, acqua nei polmoni. Io non me ne capacito, ieri ridevo anche io, ieri fluttuavo nella vita, leggera e spensierata. Eppure, sciocca, avevi già conosciuto il dolore, non è la prima volta che ti si mostra la fragilità della vita, e ti si stravolge il petto! Sciocca, perché ti stupisci del dolore, perché ti arrabbi con loro che ridono? Lo sai, lo sai che prima o poi ritorna! Siamo in via Petrarca. Io sto per affogare. Davanti a me lei muove il piede a ritmo di musica e si aggiusta le cuffie sulla testa, lui ripassa Italiano. Non volevo leggere quelle parole, non stamattina, ma sembra che mi si buttino davanti anch’esse, disperate. Ma perché dare al sole, / perché reggere in vita / chi poi di quella consolar convenga?/ Se la vita è sventura / perché da noi si dura?. Amato Leopardi, stamattina affogo con te. Guido Monaco, non respiro più. Scende gente, si riversa sulla strada pronta per affrontare la giornata. Mi riverso anche io con loro, e mi sento persa. All’improvviso una mano calda afferra la mia fredda, e mi trascina via dalla folla. Le sue braccia mi avvolgono forti, il suo respiro è aria nei miei polmoni che mi fa buttare fuori tutta 22 quell’acqua. Mi prende il viso tra le mani, e mi ritrovo a cercare i suoi occhi teneri. Mi accarezza le guance e mi sussurra: “E’ con Dio.” I suoi occhi fissano i miei e in quell’attimo sorrido. Trovo la forza, non so bene da dove di sorridere ancora. E decido di respirare aria, aria a pieni polmoni. Corinna Morini LA DANZA DELL'ELFO (parte terza) Capitolo 6 Allenamento “Sei pronta?” “Pronta.” Da un mese a questa parte, Lola non faceva altro che ripetere lo stesso ritornello. Che era pronta. Ma in realtà, lei, pronta non era affatto. Pochi giorni dopo l'incontro con la madre, avevano iniziato ad addestrarla. Inoltre, aveva passato poco tempo con Lynn, perché ogni giorno si recava nella Sala delle Armi e prendeva lezioni da Aris. All'inizio ci era andato piano, ora invece non aveva pietà. Prima si allenavano con bastoni di legno poi, quando Lola aveva capito come funzionava, erano passati a tutti i tipi di armi possibili e immaginabili. Spade, archi, asce, pugnali, spadoni. Adesso si stavano allenando con l'arco. Lola doveva cercare di colpire il centro del bersaglio disegnato sul tronco dell'albero che costituiva la palestra. Per un attimo i pensieri della ragazza tornarono a Lynn e al loro ultimo incontro. Erano nei giardini del castello, di notte. L'amica le aveva mandato un biglietto, comunicandole che si sarebbero dovute incontrare quella sera stessa, di nascosto. Lola si era calata dal balcone e si era avviata alle serre, il luogo dell'appuntamento. “Lola, grazie al cielo!” le aveva detto Lynn abbracciandola, “temevo che non saresti riuscita a venire.” Per un po' erano rimaste così, l'una abbracciata all'altra. Poi l'elfa si era scostata. “Ti ho chiamata per dirti di persona che non ci vedremo per un po'. Devo partire. Mi hanno affidato una missione, me ne andrò stasera stessa.” “Come? Dove ti mandano? Sei appena guarita.” Lola non aveva voluto accettarlo, Lynn era l'unica che la capiva e la sua migliore amica. “Lols”, Lola, suo malgrado, sorrise. Era il soprannome che Lynn le aveva dato, e la chiamava così specialmente quando voleva comunicarle tutto il suo affetto. “Anche a me dispiace tanto lasciarti sola, ma non posso dire di no. Devo ubbidire agli ordini e poi mi sono completamente ristabilita. Però devi promettermi che, quando sarò via, tu farai il possibile per stare al sicuro e che non ti caccerai nei guai. Non fidarti di nessuno, tranne Aris. Lui sta dalla tua parte.” le aveva detto, guardandola con i grandi occhi verdi. “Lo prometto.” le aveva risposto, con gli occhi che iniziavano a bruciarle. “Ti voglio bene, non scordarlo mai. Tornerò presto e ci rivedremo.” “Anche io ti voglio bene. Già mi manchi.” le aveva risposto. E, sebbene avesse fatto di tutto per trattenerle, calde lacrime avevano iniziato a rigarle le guance. Lynn le aveva dato un bacio sulla guancia e si era allontanata, senza mai guardarsi indietro. 23 “Allora, Lola, concentrati e scocca la freccia come ti ho insegnato.” le disse Aris facendo scivolare via dalla sua mente quel ricordo. Lei fece come gli era stato detto, costringendosi a non pensare a Lynn e a dove fosse. Tese la corda al massimo e lanciò. La freccia fendette l'aria e si conficcò esattamente nel centro del bersaglio. Ce l'aveva fatta. “Sei stata bravissima.” Aris aveva appena finito di complimentarsi con lei, che si sentì un sibilo proprio sopra le loro teste. Lola si sentì trascinare da Aris per terra e cadde sopra di lui. Per un momento, furono vicini e Lola si sentì arrossire. Aris accortosi del suo rossore, si scostò immediatamente. “Cosa diavolo pensavi di fare Magor?” gridò Aris ad un elfo dall'altra parte della sala da cui era partita la freccia. “Scusa Aris, l'arco è difettoso.” “Pensi che uccidere la figlia della Regina sia un buon modo per ingraziarsela?”Aris era furioso, come Lola non lo aveva mai visto. “Io... Lola mi dispiace, davvero.” mormorò Magorn, che si era avvicinato, con aria afflitta. “Non ti preoccupare, non è successo niente giusto?” “Ma poteva succedere, se non ci fossi stato io.” replicò Aris. “Grazie per avermi salvato la vita” disse Lola guardandolo negli occhi, “ma ormai è successo non ha senso arrabbiarti con lui.” “Va bene. Hai ragione, continuiamo la nostra lezione.” Si esercitarono per più di un'ora. E, quando Aris dichiarò che per quel giorno avevano finito, Lola era a pezzi. Aris la riaccompagnò a palazzo e, dopo aver salutato la madre, si avviarono insieme verso l'infinità di corridoi che portavano alle stanze di Lola. In qualità di figlia della Regina, le spettava un'intera ala del palazzo; ma appena glielo avevano detto, Lola aveva imposto le sue condizioni: non avrebbe occupato tutto quello spazio. Lei aveva sempre vissuto in una casa piccola, non aveva certo bisogno di cinquanta stanze. Così lei si era scelta quella che ora era la sua camera e aveva chiesto che, una tra le tante stanze che non aveva voluto, fosse per il momento la camera di Aris. In questa maniera avrebbero evitato che l'elfo la andasse a prendere tutte le mattine a palazzo per allenarsi, poiché stava poche porte accanto. Aris, alla fine, aveva accettato. “Che hai in programma questa sera?” la voce di Aris la riscosse dai suoi pensieri. Lola distolse lo sguardo dalle pareti del corridoio affrescate con motivi floreali e lo fissò negli occhi di lui. “Niente, penso che farò le stesse cose. Cenerò con mia madre e girovagherò di qua e di la per il palazzo.” In quei momenti Lola sentiva terribilmente la mancanza di Lynn, che non era ancora tornata. Questo non faceva che aumentare di giorno in giorno la sua preoccupazione. Quando lo faceva presente ad Aris, lui le rispondeva che non doveva preoccuparsi, così aveva deciso di non parlargliene più, anche se doveva ammettere che l'elfo faceva di tutto per distrarla. “Peccato, sai. Ti stavo per chiedere se mi avresti accompagnato ad una festa.” “Certo che ti accompagno!”, rispose Lola in un tono volutamente offeso. “Bene” le rispose Aris con un sorriso, “al tramonto ti passo a prendere.” Erano arrivati alla porta della stanza di Lola. “Allora ci vediamo tra un po'. Vado a prepararmi.” disse Lola sorridendo. Aris le fece un cenno di saluto e si avviò lungo il corridoio. Lola si costrinse a distogliere lo sguardo dalla sagoma di Aris che si allontanava e ad aprire la porta. 24 Appena aprì la porta, un raggio di sole la investì. Entrò e si chiuse la porta alle spalle. La prima cosa che fece fu buttarsi sul letto a baldacchino, completamente vestita. Restò per un po' così, senza pensare, distesa al calore del sole. Si riscosse quando qualcuno bussò alla porta. “Avanti.” Entrò un'elfa dai lunghi capelli bianchi, che le faceva da cameriera. “Salve, l'ho vista rientrare e mi sono chiesta se avesse bisogno di qualcosa.” “Salve Elbereth, stasera devo andare ad una specie di festa e mi chiedevo se tu potessi aiutarmi a scegliere un vestito adatto all'occasione.” “Certo signorina, sono qui per questo. Direi di iniziare con il farsi un bel bagno.” Quindi Elbereth andò a preparare la vasca nel bagno, in una stanza attigua alla camera. Lola, appena l'elfa fu uscita, si mise a sedere sul letto e si tolse le scarpe. Scalza, uscì dalla portafinestra e si affacciò sul balcone che dava sui giardini. Il balcone era anch'esso di marmo bianco, come tutto il palazzo, ma era spettacolare; Lola non aveva mai visto niente di più bello. Infatti, intorno alle colonne di marmo bianco che ornavano il balcone, si arrampicavano delle rose rosse. Lola aveva scelto la camera solo per questo. Appena aveva visto il balcone se ne era innamorata e aveva voluto quella e quella soltanto. Lasciò vagare lo sguardo per il giardino sottostante. Non si stancava mai di guardarlo. Era bellissimo, Con le fontane, le statue, i ruscelli e ogni tipo di vegetazione. “Signorina.” Elbereth la stava chiamando. Rientrò a malincuore, lasciandosi il balcone e le rose, alle spalle. Era appena il tramonto che si sentì bussare alla porta. Elbereth andò ad aprire. Era Aris. Lola lo sentì parlare brevemente con l'elfa e poi la porta si richiuse. “Il signorino Aris dice che la aspetta all'ingresso.” le riferì Elbereth. La ragazza si guardò un ultima volta davanti allo specchio controllando che fosse in ordine. Si era fatta un bagno veloce e, su consiglio dell'elfa, aveva indossato un vestito blu scuro molto semplice e non troppo lungo. Quel vestito le piaceva molto perché non era appariscente e, come aveva detto più volte Elbereth, metteva in risalto gli occhi grigi e i capelli biondi, acconciati in una crocchia. Si infilò un paio di scarpe nere, procuratele dall'elfa, che assomigliavano molto alle ballerine del mondo umano. Dopo aver salutato Elbereth, Lola si avviò verso il portone principale, prendendo una scorciatoia che aveva scoperto pochi giorni prima. Il passaggio segreto sbucava esattamente dove doveva incontrasi con Aris ma, quando Lola ne emerse, l'elfo non c'era. Allora la ragazza, non senza fatica, aprì il pesante portone di quercia e, mentre scendeva l'ampia scalinata, scorse alla fine Aris, di spalle, che l'aspettava. “Aris” non poté fare a meno di gridare. Lui, al suono della sua voce, si girò e Lola si sentì fissare dall'azzurro dei suoi occhi, che scintillava alla luce del sole morente. Era bello come non mai. Indossava dei pantaloni neri e una camicia bianca, aperta sul collo. Profumava di fiori e aveva i capelli neri umidi, come se se li fosse appena lavati. Quando Lola gli fu vicino, Aris le sorrise. “Ehi, sei bellissima stasera.” 25 “Grazie, ma anche tu non stai per niente male.” Lola gli sorrise fugacemente in risposta. “Mi sono vestito in due minuti, è già tanto che sia riuscito a lavarmi. Comunque grazie.” “Perché? Dove sei stato finora?” Per tutta risposta l'elfo le porse il braccio. “Vogliamo andare? Altrimenti faremo tardi.” Lola non volendo insistere, gli afferrò il braccio e insieme camminarono per i viali del giardino diretti all'uscita. Capitolo 7 Il portale Camminavano da poco quando Aris si fermò. “Cos...” Lola fece per chiedere spiegazioni ma fu interrotta. “Giù” le gridò Aris. Lola agì d'istinto e si butto a terra, mentre una lama trapassava l'aria dove un attimo prima c'erano lei e l'elfo. Poi si sentì prendere per un braccio da una mano familiare. Aris. “Vieni qui dietro e non muoverti.”le disse indicando un albero vicino a loro. Si nascosero insieme dietro il tronco massiccio. Il sentiero su cui stavano camminando era identico a prima, nessun segno di quello che era successo negli ultimi cinque minuti. “Ma chi diavolo è stato?” chiese Lola sottovoce. “Di sicuro non erano elfi e credo che siano ancora qui. Prendi questo e usalo, se necessario.”le rispose Aris estraendo un pugnale, dall'impugnatura corta, dallo stivale. Lola lo prese e lo tenne in mano, saggiandone la presa. Era perfetto, come se le fosse appartenuto da sempre. Un altro sibilo e Lola si sentì sfiorare la manica del vestito da qualcosa di affilato. Una freccia. Lola sperò con tutta se stessa che non fosse avvelenata. “Lola! Stai bene?” le gridò Aris. “Si più o meno. Che facciamo?” “Io direi di provare a seminarli dentro il bosco, stammi vicino.” le disse dirigendosi dove gli alberi diventavano più fitti. Corsero a perdifiato, finché una figura non si parò loro davanti. Era un uomo tarchiato, con il cappuccio calato sul volto. Aris si fermò di botto e, con la mano che non teneva la spada, portò Lola dietro di sé. “Bene, bene. Aris, giusto? Da quanto tempo che non ci vediamo, vero?” “Dacci un taglio, Caranthir” ribatté acido Aris. In quell'istante, ai lati dell'uomo, ne comparvero altri due più magri del primo, sempre con il cappuccio calato sul volto. “Ecco, ora che siamo tutti possiamo fare le presentazioni, suppongo.” dichiarò Caranthir con voce gutturale. “Questo è Taras” disse indicando quello alla sua destra. “E questo è Helevorn” concluse indicando quello alla sinistra. “Smetti di fare lo stupido, Caranthir” Aris, cercava di frenare la rabbia. “Ho ragione di credere, Aris, che tutta questa scortesia sia dovuta al fatto che quella che tieni dietro di te sia il mezzelfo che stiamo cercando.” “Direi che non sono affari tuoi.” “Credo che tu ti sbagli, caro il mio elfo. Perché sono stato incaricato di portarla a Mornon e non lo deluderò di certo, quindi fatti da parte e lasciala a me.” proseguì quello che doveva essere a tutti gli effetti uno stregone. “Io dico che invece non porterai proprio niente al tuo capo, non finché io sono vivo.” rispose Aris con un sorriso spavaldo sul volto. 26 “Se le cose stanno così... Taras, Helevorn attaccateli.” ordinò con un cenno del capo. I due stregoni partirono all'attacco puntando verso l'elfo e Lola. “Lola stammi vicino e usa il pugnale.” le ricordò Aris. Detto questo, iniziò a mirare fendenti contro Helevorn, che però non si faceva cogliere impreparato. Li parava tutti con uno scudo magico. “Lola, dietro di te. Voltati.” le gridò Aris. La ragazza si girò e vide Taras che puntava su di lei. Ruotò il pugnale e cominciò a parare i colpi che lo stregone provava ad assestarle con un coltello comparso dal nulla. Lola si sentiva viva, come mai prima di allora, sentendo il pugnale come un prolungamento del braccio. Riuscì a penetrare la guardia dell'avversario e procurandogli un taglio sulla coscia, lacerandogli la tunica. Questo le diede il vantaggio che le serviva per vedere come se la stesse cavando Aris. L'elfo combatteva contro Helevorn e Caranthir contemporaneamente. Aveva una ferita profonda al polpaccio, che sanguinava copiosamente. Aris, tuttavia, non sembrava sentirla. Si muoveva rapido e mirava fendenti ai due stregoni. Alcuni andavano a segno altri, invece, venivano parati o dagli scudi magici o dalle lame delle loro armi. Lola non perse tempo e si girò, appena in tempo per parare un colpo che, altrimenti, sarebbe stato mortale. Questo, però, non permise a Taras di colpirla al petto. Il dolore fu lancinante. Lola lanciò un grido, sebbene stesse cercando di trattenersi, mentre il vestito si inzuppava velocemente di sangue. Perse l'equilibrio e cadde a terra. “Lola!” la voce di Aris era venata dal panico. Taras si allontanò, evidentemente questo Mornon la voleva viva. Lola si costrinse ad alzare la testa e vide che l'elfo stava per soccombere. Non ce l'avrebbero fatta. Vide Aris che cadeva e fu presa dal panico. Non lo avrebbe lasciato morire. Con le ultime forze che le rimanevano, si alzò e si buttò verso Aris, lo afferrò per un braccio e, non seppe mai come, aprì un portale. Fu l'istinto a guidarla. L'elfo che era in lei sapeva come fare. Quando una luce azzurrina illuminò il bosco, Lola entrò nel portale, trascinando Aris con sé. Poi fu avvolta dal buio. To be continued... Chiara Fiori 27 Ombraluce, parte 2 Jas, una volta entrata nell’aula, fu accecata da una luce fortissima. La stanza era illuminata, non da lampade o da nessun’altro oggetto artificiale, bensì dalla stessa luce del sole. Le pareti erano piene di decine e decine di finestre, tutte completamente aperte, lasciavano passare la luce e la frescura del porticato da cui era entrata prima. La stanza era grandissima per essere una semplice aula. Aveva tre file intere di banchi, accoppiati a due a due, così a prima vista sembravano in tutto una trentina di sedie ed in fondo all’aula, accanto ad una lavagna dall’aspetto nuovo, forse l’unica cosa che aveva meno di dieci anni in tutta quella scuola, c’era la cattedra, sulla quale sedeva un anziano barbuto, che si alzò con fare maldestro e guardò di sottecchi la ragazza. Jas si pentì subito di essere arrivata così tardi quel giorno, lo sguardo burbero dell’uomo le stava facendo venire quella sensazione bruttissima di avere il ghiaccio nelle vene. All’improvviso l’anziano sorrise da sotto la folta barba bianca e disse con voce quasi gutturale: “Benvenuta, oh, non ti preoccupare per il ritardo in fondo sei ancora in tempo, forza, siediti su quel banco vuoto” accompagnando il discorso con un gesto veloce della mano. Jas fu sorpresa della sua cordialità, e, senza dir niente, ma limitandosi a uno sguardo veloce al professore, si affrettò a sedersi. Poco più tardi vide entrare anche il ragazzo che aveva incontrato fuori dall’aula. Non si era accorta che fosse entrato con lei. Il professore sorrise ampiamente e di nuovo con il braccio percorse un arco nell’aria, per indicare uno dei banchi in fondo. Non si era seduto accanto a Jas e in fondo questo fu un sollievo per lei; le sembrava un tipo alquanto strano, a parte il fatto che si fosse presentato completamente bagnato da capo a piedi, aveva un qualcosa che forse...stonava. La ragazza al suo fianco era piuttosto magrolina, dai capelli castano scuro e gli occhi color nocciola, non troppo scuri. La ragazza si voltò, aveva un piccolo neo sul naso, Jas pensò che era buffo, le stava già simpatica. Le due si sorrisero ed iniziarono a parlare, come del resto in quella stanza stavano ormai facendo tutti. Si guardò intorno per un momento, Lion, l’ultimo ad essere entrato sembrava impegnato a strizzarsi un lembo della maglia per asciugarlo. Jas si accorse che il banco accanto a lui era vuoto, pensò che avrebbe dovuto sedersi lì, in fondo anche lui non conosceva nessuno e lui l’aveva aiutata a capirci qualcosa in quel posto strano. I suoi pensieri però furono interrotti dalla voce del professore che adesso sembrava leggermente più seria: “Bene, dovremmo essere tutti. Buongiorno.” Sorrise. “Buongiorno.” Risposero tutti scoordinati. “Probabilmente non sapete neanche perché siete qua ma non vi preoccupate, su questo avrete presto le idee chiare. Innanzitutto vi siete mai chiesti perché nessuno parla mai dell’Istituto? Perché la gente sembra non saperne niente o, almeno, non volerne parlare?” Silenzio. “Una cosa è sicura. Scegliendo l’istituto avete fatto un bel salto nel vuoto, perché non avevate la ben che minima idea di quello che vi avrebbe attesi qua. Forse quest’idea non ce l’avete neanche adesso. E’ normale. Beh, volete saperlo o no perché siete qui?” A qualcuno cadde la penna sul banco, altri annuirono lentamente, alcuni sembravano non essere interessati, come Lion. Jas invece se ne stava tutta impegnata ad assaporare ogni singola parola del professore, con gli occhi sbarrati e fissi su di lui. “Ho capito, iniziamo col monologo.” Cantilenò scocciato. “Bene, bene, bene. Non è una scuola normale questa, non si insegnano materie. Nessuno vi dirà mai una declinazione di greco o vi insegnerà come si dice 28 ‘un litro di latte per favore’ in francese o come risolvere un’espressione. Men che meno sono qui per dirvi come timbrare biglietti o lavare un cane.” A questo punto qualcuno rise, Jas sapeva che non c’era niente da ridere. “.. Qui non vi insegneremo niente, se non a scoprire una parte di voi che neanche voi sapevate di avere. Vediamo se.. avete mai sentito parlare dell’ottava meraviglia del Mondo?” Si levò un coro disomogeneo di ‘no’ e risolini. “No, ovviamente. Ecco per darvi un’idea di quello che siete, prendete come esempio l’ottava meraviglia. Non esiste, almeno apparentemente, ma come esistono le altre sette, io potrei aggiungerne benissimo un’ottava. Chi non ha mai detto ‘è l’ottava meraviglia’ per descrivere qualcosa che per lui era..perfetto, bellissimo, eccezionale, speciale. “ Silenzio. “Forse non esisterà fisicamente, non vi do torto su questo, ma se almeno la metà delle persone di questo mondo l’hanno pensata almeno una volta, in qualche modo esiste. Nelle loro menti, è reale. Sbaglio?” Adesso erano tutti attenti, perfino chi prima gingillava con le penne sulla scrivania o chi non prestava attenzione.. persino Lion, nel suo angolo dell’aula aveva fissato gli occhi su quelli del professore. “Vedo che mi seguite nei ragionamenti, bene questo ci faciliterà un po’ di cose..” L’uomo barbuto si mise a sedere emettendo un sospiro di sollievo, forse per il troppo tempo passato in piedi. Una persona del suo peso doveva faticare molto anche solo a star fermo sui suoi piedi per più di qualche minuto, pensò Jas, augurandosi di non averlo pensato a voce troppo alta, come faceva spesso. “Sì, in effetti dovrei dimagrire un po’, non trovi anche tu?” Jas si sentì un brivido percorrerle la schiena. Si augurò che il professore non si stesse riferendo a lei, eppure non le sembrava di aver parlato ma gli occhi dell’uomo erano fissi e decisi sui suoi. La ragazza guardò la sua vicina di banco con fare interrogativo, quest’ultima si limitò ad un’alzata di spalle. “Sì, dico a te, nasino-arricciato.” Nasino arricciato? .. Solo mia madre mi chiama così, pensò Jas. L’uomo sorrise. La ragazza s’impose di bloccare i pensieri, in qualche modo. Gli altri nella classe sembravano non capire una parola, almeno tutti tranne Lion, aveva negli occhi un’espressione di terrore misto ammirazione che era impossibile non notare. L’uomo le aveva appena letto nel pensiero. “Non voglio spaventarvi.” Disse ridacchiando, come sei fosse una cosa naturale quella che aveva appena fatto. “E.. no. Spiacente, non le ho letto nella mente, ho solo..” “Visualizzato qualcosa che era già presente nei suoi pensieri.” Fu proprio il ragazzo a parlare, sembrava aver perso quell’ombra di insicurezza che fino a poco prima gli balenava negli occhi. Aveva preso il coraggio di parlare. Il professore allargò il suo sorriso, tanto da scoprire i denti, splendidamente bianchi. 29 “Esattamente Lion. Bene, facciamo progressi fin da subito, mi eleggeranno maestro dell’anno, accipicchia” E ridacchiò di nuovo. Questa volta Jas la trovò una risata spaventosa, che le riecheggiò nella mente per qualche istante. “Non ho alcun superpotere. Non sono uno stregone e non pratico arti magiche..” Qualcuno emise mugolii dispiaciuti. “Vi insegnerò alcuni trucchi per espandere la vostra mente, vedere cose che nessun’altro sa neppure dell’esistenza. Voi, però, non dovrete raccontare niente a nessuno. Altrimenti cancellerò i vostri ricordi così come ho tirato fuori i pensieri della vostra amica Jas. Vi ritroverete a frequentare una normalissima scuola e non ricorderete niente dell’Istituto. Intesi?” Silenzio. “Bene. Adesso inizieremo a fare sul serio. Chi pensa che questa sia solo una grandissima perdita di tempo può benissimo andarsene.” Allungò ancora una volta il braccio, per indicare la porta. Un ragazzo dai capelli rossi, con gli occhiali e le lentiggini si alzò timoroso. “Con permesso.” Disse ed uscì. Il professore sorrise e dopo lui iniziarono ad alzarsi altri ragazzi, uno dopo l’altro. Sei in tutto. Jas sentì di nuovo quella sensazione. Come sei avesse del ghiaccio fermo nelle vene. “Non devi aver paura nasino-arricciato.” Disse con voce terribilmente premurosa. “Credo che sia il luogo giusto per te.” E detto ciò sposto lentamente lo sguardo su tutti i presenti, esaminandoli uno ad uno e fermandosi sull’ultimo, Lion. “Tu sei un ragazzo sveglio.” Sorrise di nuovo scoprendo i denti bianchi. “Bene, iniziamo. Oh, fantastico siamo un numero pari.” Disse girandosi verso la lavagna senza neanche guardare la classe. Impugnò un gessetto e scrisse grande alla lavagna “Ombraluce”. “Iniziamo.” Ci fu un brusio leggero fra i banchi, cessò subito non appena il professore spense le luci. Era buio pesto, Jas non riusciva a vedere neanche il banco, ringraziò il cielo di essersi seduta. “Bene, bene, inizieremo la prima sessione, Ombraluce, se supererete questa prova e quindi dimostrerete di essere pronti per proseguire il percorso, passerete alla sessione successiva. Nessuno è mai riuscito a superare la prima in una mattina, perciò non vi aspettate di farcela, è normale che ci voglia del tempo, soprattutto per abituarvi all’istituto.” A Jas sembrò che stesse sorridendo, dal tono della voce, ma non poteva saperlo con certezza per l’oscurità che la circondava. “Proseguiamo. Ho spento le luci per farvi concentrare sull’istinto, piuttosto che sulla vista. Vi sembrerà una scemenza ma credetemi, non lo è.” Jas sentiva i passi del professore ritmici e cadenzati, si moveva lentamente per la stanza, senza urtare alcun oggetto o diminuire il passo. Le si avvicinò lentamente, di nuovo quella sensazione, ghiaccio nelle vene. 30 “Forza, alzatevi dalle sedie, con calma non voglio che si faccia male nessuno, fidatevi di voi stessi, non vi serve poter vedere per muovervi nel buio.” Alcune sedie cigolarono, altre si spostarono lentamente, altri passi, questa volta scoordinati. Jas non si alzò, era troppo imbranata per stare al gioco, sarebbe cascata subito o avrebbe fatto ribaltare qualche banco. No, lei non poteva muoversi. Sentì che anche la sua compagna si stava muovendo ed iniziava a camminare verso il centro della stanza. Il professore riaccese improvvisamente la luce, Jas si sentì gli occhi bruciare per un istante. Erano tutti in piedi al centro della stanza, in un cerchio quasi perfetto se..se non fosse stato per Jas e Lion. Il ragazzo sembrava impassibile, quasi annoiato mentre Jas stava stropicciandosi gli occhi, ancora non si era abituata alla luce. “Come pensavo.” Ridacchiò il professore. I compagni guardarono i due con fare interrogativo ma questi ultimi non ricambiarono. “Pare proprio che voi due siate passati alla fase successiva.” Sorrise da orecchio a orecchio. Jas guardò velocemente Lion, cambiando subito traiettoria quando vide che anche lui aveva spostato gli occhi su di lei. “Adesso vi spiego. Questa prova era una specie di preparazione alla sessione. Vi siete chiesti perché proprio il nome “Ombraluce”?” Alcuni dei ragazzi al centro annuirono lentamente con la testa, altri si limitarono a stare in silenzio. “Ombra e luce, due opposti. Bianco e nero, Chiaro e scuro. Senza l’uno non potrebbe esistere l’altro. Senza luce non esiste ombra, senza ombra non esiste luce, vi pare?” Molti sembravano confusi, impegnati a guardarsi le unghie o sistemarsi i capelli dietro le spalle. “Questo esercizio era per guidare il vostro istinto, verso qualcosa che neanche voi sapevate quale fosse, nonostante ciò però, vi siete tutti..o almeno quasi tutti, accerchiati qua, al centro dell’aula, senza sapere come, avete centrato l’obbiettivo, seguendo solo il vostro istinto, mi seguite?” Questa volta due o tre ragazzi sorrisero ed altri risposero “sì”, in un coro scoordinato. “Hhm, ecco, la fase vera e propria consisterà nello scoprire la vostra natura. Ombra o luce. E di trovare il vostro opposto. Senza l’uno, l’altro non esiste. Tutto chiaro fin qua?” Il professore si sistemò un lembo della camicia, appoggiandosi alla cattedra con le mani conserte. “Jas, Lion. Voi evidentemente non avete avuto l’istinto di alzarvi perché probabilmente siete già pronti per la fase vera e propria.” Alzò la testa e puntò i suoi occhietti scuri su quelli dei due. “Siete l’uno l’opposto dell’altro, vi siete già trovati, senza saperlo. Ombra e luce.” Sorrise. “Già, già, sono ancora più sicuro che sarò eletto professore dell’anno.” Continua … Sara Badiali 31 ESERCIZI DI STILE SANO-cosa è la morte? FOLLE-non lo so e non mi interessa. SANO-cosa? Come fa a non importarti della morte è l'unica verità reale e concreta nel mondo, la cosa che crea più paura e angoscia nell'uomo, ci tiene a freno, è un fatto terribile e dovresti averne paura anche tu, come tutti gli altri uomini! FOLLE-perché? SANO-in che senso perché? FOLLE-intendo, perché dovrei averne paura? SANO-semplicemente perché morire è la cosa peggiore che possa capitare ad una persona! FOLLE-io non la penso così. Ora ti farò una domanda,come puoi tu sapere che è la cosa peggiore che possa capitare all'uomo? SANO-perché è la fine della vita e non sappiamo cosa ci sia dopo. FOLLE-beh, su questo siamo d'accordo. Non possiamo sapere cosa ci sia dopo, potrebbe esserci un 'altra vita, potrebbe esserci dio, o semplicemente potrebbe esserci il nulla. Allora, io ti chiedo, perché hai paura della morte? SANO-come ti ho già detto, perché non sappiamo cosa ci accadrà dopo. FOLLE-scusa, hai ragione, mi sono espresso male. La domanda giusta è perché hai paura della morte, pur sapendo che è un evento da cui non puoi fuggire? SANO-questo non ha niente a che fare con quello che ho detto! Il problema non è la morte in quanto tale, ma quello che sarà il futuro dopo di essa. FOLLE- ti sbagli. Se ci rifletti bene quello che fa paura all'uomo non è ciò che ci sarà dopo, ma la morte intesa come avvenimento. Analizziamola allora! La morte come sai tu, come so io,come sappiamo noi tutti esseri viventi,è inevitabile. Il fatto assurdo è che l'uomo non la accetta, ne ha paura, cerca di sfuggirgli, sapendo benissimo di non poter scappare, e questo crea altri turbamenti che gli fanno vivere la vita in modo tetro e angosciato. L'uomo si è creato degli idoli per giustificare eventi inspiegabili come la morte, si è genuflesso davanti a divinità che promettevano, tramite dei predicatori, la salvezza in un universo improbabile, alla stregua di mondi magici e complessati da una finta felicità. Allora ti chiedo, il folle sono io a pensare che non si debba avere paura della morte, ma anzi accettarla a testa alta come fase finale della vita e vivere in modo determinato e conscio, o siete voi i folli, che siete succubi, sottomessi a una paura irreale di qualcosa che esiste ed è immutabile, e create teorie assurde per nascondervi in qualche modo da un destino sicuro? SANO-addio. FOLLE-il solito umano che non vuole ascoltare. UN COMUNE ARGONAUTA ALLA RICERCA DI UN FALSO VELLO D'ORO 32 The Chronicles of GIANNI Parte seconda Introductio: In seguito all'esposizione della mitologia giannica nel precedente volume, saranno qui narrate le gesta realmente avvenute dell'eroe che molte città e molte menti conobbe. Per far questo, bisogna cominciare dal principio, quando tre ambigui personaggi si incontrarono per una oscura convocazione, a loro nota come Uccidere la gente, perché no? - Nuova proposta di legge in forma di dialogo fra Anassagora, Maradona e un orango. (thus begins) (L'orango entra in ascensore) Orango:Buongiorno. Maradona:'giorno. Anassagora:Kalemèra. Orango:Non si sa mai cosa dire, eh, in ascensore, vero? Maradona:Già. Orango:Comunque piacere. Io sono Orango, sono qui per fare parte di questo dialogo. Lei, se lecito? Maradona:Diego Armando Maradona. Non so se ha capito cosa intendo... Orango:Veramente, no. Maradona:Sono stato un calciatore di fama internazionale. Orango:Mi dispiace, non conosco. Maradona:Feci gol di mano contro l'Inghilterra ai mondiali, la chiamarono la mano de Dios! Orango:Non so cosa dirle, davvero, non l'ho mai sentita nominare. Un momento, ma lei, lei è Anassagora, il filosofo! Anassagora:Ebbene sì, sono io. Orango:Il nous! I semi! La conoscono tutti! Che cosa ci fa qui? Anassagora:Devo prendere parte ad un dialogo intitolato “Uccidere la gente, perché no? - Nuova proposta di legge in forma di dialogo fra Anassagora, Maradona e un Orango”. Orango:Hey, ma è la stessa cosa che è stata ordinata a me! Maradona:Anche a me! Anassagora:E' evidente che qualcuno vuole manovrarci. Dobbiamo uscire di qui, e anche in fretta! (I tre si fiondano fuori dall'ascensore e bloccano un bidello al muro) Anassagora:Chi è il capo, qui? Parla, dicci un nome! Bidello:La parola che può essere detta non è l'eterna parola, il nome che può essere nominato non è l'eterno nome. Maradona:Ora basta! (Maradona uccide il bidello con un colpo di pistola in mezzo agli occhi) Anassagora:Hai idea di cosa hai fatto?! Hai appena ucciso un uomo! Maradona:Embè? Il dialogo si chiama “Uccidere la gente, perché no?”, e devo prendervi una posizione ideologica! Guarda un po' qua! 33 (Maradona spara due colpi in petto all'Orango, che si accascia a terra) Anasagora:Il dialogo! Giusto! Ti ricordi chi sia stato a mandarti l'invito? Se lo scopriamo, forse possiamo capire chi stia sopra tutto questo. Maradona:Non ricordo bene il nome. Era un bel ragazzo, niente da dire. Sono sicuro che fosse un sofista! Anassagora:Allora c'è un solo posto dove cercarlo: l'Ufficio Comunale della Sofistica! Maradona:No, dico, ma sei matto? Anassagora:E perché, scusa? Maradona:”L'Ufficio Comunale della Sofistica”! Ma di cosa parli? Tu sei tutto scemo. Chiamo la Neuro. La camicia di forza la vuoi tinta unita o fantasia? Anassagora:Essia, allora! Maradona:Fantasia? Anassagora:Essia! Maradona:Fantassia? Anassagora:Essia, ho detto! Se non vorrai aiutarmi, farò da solo. (Anassagora estrae un coltello dalla toga e lo pianta in gola a Maradona. Poi dà fuoco ai corpi del bidello, dell'Orango e dello stesso Maradona per far perdere ogni traccia. Dopo esere giunto all'Ufficio Comunale della Sofistica, si getta sul primo impiegato che incontra) Anassagora:Sto cercando il Sofista Mascherato! Parla, o ti faccio saltare le cervella! Inizio narrazione D'improvviso si aprì una porta, e ne uscì una sagoma, avvolta in un etereo fiume di luce. L'impatto di quella visione impedì ad Anassagora di distinguerla a pieno, e l'impeto di quel torrente luminoso lo travolse. Riconobbe poi che la sagoma era chiaramente quella di un sofista, e quando i suoi occhi si abituarono alla lucentezza, vide inoltre che questo sofista indossava una maschera. Questi si avvicinò a lui e gli tese la mano, vedendolo a terra: “So perché ti trovi qui, Anassagora. Io ho le risposte che cerchi. Vieni con me, ti porterò nel luogo in cui i tuoi tormenti avranno fine: il Limbo della Comicità Infelice!” “Allora è vero! Esiste!” “Certo che esiste! Ma è troppo pericoloso perché tu vi possa entrare da solo. Seguimi, sarò la tua guida.” E insieme, i due varcarono la porta, risalendo alla sorgente della luce sublime. Così, Anassagora e il Sofista Mascherato intrapresero il loro volo attraverso le galassie, incrociando, tra l'altro, i due Scipioni, l'Emiliano e l'Africano, mentre svolazzavano anch'essi. Al termine di un lungo viaggio, Anassagora e il Sofista intravidero una sfera di luce, da cui sentivano giungere le più scadenti battute della storia: il Limbo della Comicità Infelice. Quando finalmente vi approdarono, il Sofista mise in guardia Anassagora: “Stammi sempre vicino, non perdermi mai di vista! Questo è un mondo selvaggio e pericoloso, pieno di ombre e miraggi. Se non starai attento, verrai trascinato nell'oblio e nella pazzia!” Anassagora, preoccupato, cercò di capire meglio: “Come mai questi Limbo è così lontano e isolato, o nobile sofista?” “Vedi, un tempo il Limbo della Comicità Infelice si trovava all'Inferno, e ne era proprio l'ultimo girone, oltre i traditori, oltre Lucifero stesso, in quanto il loro peccato era considerato il più ignobile fra gli ignobili. I dannati, però, dopo secoli di suppliche, ottennero di far allontanare quell'orrido girone, non riuscendo più a sostenere il dolore provocato dagli echi delle loro battute. Specialmente furono i dannati del girone dei traditori a spingere per il loro esilio, in quanto più vicini e quindi più costretti all'ascolto. A loro sostegno, portarono l'argomentazione di aver già ricevuto la giusta pena per i loro crimini, e quella doveva bastargli. 34 Così il Capo acconsentì, e scagliò quel girone quanto più lontano poté nell'universo, e qui ora noi siamo.” “Ma io non capisco: come può essere la comicità tanto infelice da provocare l'orrore nei dannati?” “Ora te lo mostrerò. Guarda la mappa. Vedi? Questa è la Fossa dei programmi Mediaset. Sono tutti lì: Zelig, Striscia, Colorado, le Iene.” “Mio dio, dev'essere orribile!” “E lo è, ma non temere: noi percorreremo un'altra via.” Allora i due presero una stradina di montagna che diventava ogni metro più ripida e rocciosa, fino ad essere un vero e proprio cunicolo, scavato nella pietra, sulla parete di un dirupo. Anassagora era molto teso: “Sofista, perché la tua nobile stirpe ha d'uso il recarsi qui?” “Da tempi remotissimi la stirpe dei sofisti mascherati si infiltra in queste terre, e il suo spirito aleggia nell'etere. Ti citerò, se vorrai sapere il nostro usuale fine in questo luogo, un abile collega: Vi arriva il poeta. E poi torna alla luce con i suoi canti; ma i tempi sono ormai cambiati, e i sofisti mascherati sono sempre meno. C'è una forza oscura, un brutto poter che sta decimando le nostre genti. Questo Limbo è divenuto pericoloso anche per noi, e quel poco di ispirazione che potevamo trarre da questo popolo di dannati ci è divenuto impossibile da ricavare.” “E quindi cosa ci facciamo noi qui? C'entra qualcosa la mia presenza in questa storia?” “Cerca di stare calmo, o Anassagora carissimo: devi sapere che un tempo, quando il Limbro venne qui stabilito, ci fu una violentissima battaglia ai piedi del monte Foto, per contendersi il trono di tutto il Limbo.” “Monte Foto?” “Certo, il monte Foto. Nome degno di una terra dalle battute infelici. Ad ogni modo, dalla battagia emerse un uomo, un vincitore di cui nessuno sa il nome, ma tutti noi lo chiamiamo l'Architetto. Egli portò l'ordine in questo mondo, e ne è tutt'ora padrone. Ma il suo regno sta per avere fine, come ti ho detto. Sembra che all'origine del male ci sia un poeta fuggito dalle prigioni del regno di Qasaa. E' nostro compito trovare l'Architetto, e aiutarlo nella sua lotta.” Dal fondo del dirupo si elevarono delle battute infelici: “Cosa ci fa una TV al mare? Va in onda!” “Sai chi è il ministro delle economie cinesi? Nun Teng Nalir!” Anassagora si contorse, mentre il Sofista gli intimava di stare calmo e tenere duro, ma ci fu un genere particolare di battute che prevalse sugli altri: i colmi. “Qual è il colmo per un benzinaio? Avere una moglie super!” “Qual è il colmo per un arcobaleno? Farne di mille colori!” Questo colpo fu doloroso anche per il Sofista, che per coprirsi le orecchie scivolò, rischiando di cadere nel dirupo. Rimaneva aggrappato solo per una mano, e fu allora che rivelò ad Anassagora: “O nobilissimo Anassagora, ora posso dirti ciò che devo dirti: la Legge del Popolo dei Sofisti Mascherati prescrive che, prima della morte, un Sofista Mascherato debba svelare la sua identità! Ed è così che io adesso farò!” ed il Sofista Mascherato gettò la maschera nel dirupo. “Ommmmmiodddddio! Ma tu, tu, tu sei...” “Sì, Anassagora, io sono Enoigar Allad Oirelav, e questo è il mio addio. Trova l'Architetto, Anassagora, trova l'Architetto, e uccidi il poeta!” Fu allora che il Sofista ricevette il colpo di grazia: “Qual è il colmo per un pizzaiolo? Avere una figlia che si chiama Margherita, che fa la capricciosa ogni quattro stagioni!” Le mani cedettero, in un brivido di orrore, nausea, atavico ribrezzo. Il Sofista Mascherato scivolò via, inghiottitto dai meandri del Limbo. Anassagora rimase solo, in piedi in cima al dirupo, noncurante ormai delle battute. In mente aveva solo una cosa: trovare l'Architetto, e uccidere il poeta. Valerio Dalla Ragione – Il Sofista Mascherato ( ? - † 1644 †) 35 Dialogo fra leopardi ed un consumatore di meta-anfetamina, -il primo in veste della coscienza del secondoPreludium I meno assennati sapranno già che l'mdma, sostanza cristallina tanto amata da uno dei nostri protagonisti, tante cose è, ma non allucinogena, a meno che non se ne ingerisca/sniffi una dose “equina“ e potenzialmente mortale. Pochi di loro sapranno però che ultimamente la chimica sperimentale ha fatto grandi passi avanti e, nell'ambiente della produzione clandestina di stupefacenti, hanno iniziato a circolare numerosi ex chimici di successo. Questo ha portato alla sintetizzazione di molte varianti della sostanza già citata. Fra queste spicca nettamente L' MDA. Se l'MDMA è la matrona della cultura rave europea, L'MDA è la figlia preadolescente talentuosa; con le gote rosse e uno borsa di studi per un corso di filologia a Yale: l'orgoglio della famiglia. CIO’ che la rende così speciale, è che garantisce generose allucinazioni a tutti i dosaggi ( e non mi soffermerò sugli altri “magnifici effetti e progressivi” ). Il sistema di smercio è però ancora molto arretrato e viene per lo più gestito in maniera casalinga -tipo Inghilterra preindustriale- e vende ogni differente variante come MDMA. Il nostro sfortunato/fortunato personaggio è uno delle vittime di quest'arretratezza e invece di un dolce e alienante viaggio all'interno delle sue pulsioni più grette, tipico della sostanza madre, dovrà fare i conti con la capricciosa e introspettiva figlioletta che, prendendosi gioco della sua mente, lo costringe ad un dialogo filosofico-morale con la sua coscienza, impersonata dal noto autore della letteratura italiana. Interludium Ore 22:00, in un bagno nauseabondo di qualche locale in cui si esibiscono Djs della scena Hardcore/Frenchcore il nostro sig.B. Timata iniziata a prender nota dello straripare delle sue pupille e si risolve di posizionarsi di fronte ad uno speaker, per iniziare il solito dialogo a senso unico. Non è che non avesse argomenti per incalzare le affermazioni della cassa, ma questa urlava sempre, e il sig. B la faceva sfogare e si limitava a digrignare i denti levigati e sbiaditi. Se quando qualcuno gli chiedeva quell'atteggiamento, lo freddava dicendo che credeva fortemente nell'approccio educativo pitagorico. A rompere questa scena idilliaca arrivano gli inaspettati segni della distorsione visiva. Quando il nostro Timata, non senza sforzo, si ravvede della propria condizione, la sua barriera dell'ipotalamo ha ormai fatto la fine del noto muro Berlinese. Ormai in preda al delirio opta per lasciarsi andare ed è in quel momento che un dito ossuto e deformato dall'impugnare la piuma inizia a ticchettargli sul suo cranio pulsante, dicendo: -No, dico figliulo, volevi per caso rifilarmi un viaggio di sola andata verso il sempiterno oblio? Il nostro Sig. B, disteso per terra, sudato e terrorizzato, non seppe che rispondere così: -E tu chi diavolo sei? E che fine ha fatto il locale!? -Preferivi quella latrina fetida al luminoso salotto in cui ti ritrovi adesso, ove tutto è in uso di far del' intelletto un' arte e della conoscenza un dovere!? -Questo devo ancora capirlo, e poi se stai cercando di scroccare in un qualche modo poco ortodosso, sappi che non hai il buon samaritano di fronte. -Non è di certo questo il mio intento. Tieni a mente che stai sperimentando un mondo che trascende dalla materia, pura proiezione della tua individualità. Con i tuoi attrezzi chimici hai realizzato il sogno dei tracotanti, sei diventato demiurgo. Dato che sei Dio creatore a tempo determinato, goditi questa condizione! -Limitatamente e involontariamente, per giunta. Comunque sia, non so ancora da chi ho il dispiacere di essere intrattenuto. -Mi presento: sono Giacomo Leopardi di Recanati in veste della tua coscienza, da te lungamente abbandonata, e sono qui per saldare i vecchi debiti in materia di moralità. -Fammi capire, sei il Leopardi del “ Canto Notturno” o quello de “ La ginestra” ? 36 -Sono il Leopardi della vecchiaia e quindi rifletto il pensiero che quest'ultima opera esprime, perché lo chiedi? -Speravo di trovarmi al cospetto del Pessimista Cosmico, almeno non me l'avresti menata con l'utopia della solidarietà e l'importanza dell'impegno sociale... -Brutto mangiasassi insolente! Ti sarebbe più dolce un bad-trip popolato dalle tue paure più profonde liberatesi e armatesi contro il loro custode, forse!? -Non sono bastati sette anni per imparare la differenza fra un sasso e un cristallo, Giacomino? -Non macchio il tuo sembiante con i rubri rigagnoli sottostanti solo perché conscio della futilità dell'autolesionismo... -Senti Schopenhauer dei poveri: non ne sono di certo compiaciuto, ma per esperienza so che la permanenza qui è ancora lungi dal terminare. Vedi di concludere in fretta, così poi magari mi offri del buon vino. -In questi ultimi anni ti sei macchiato delle più disparate atrocità verso la dignità umana e la ragione. Hai prolungato il tuo stato di incoscienza come se dal tuo stare al mondo non dipendesse alcuna responsabilità verso i tuoi simili. Se ti avessi conosciuto prima ti avrei senz'altro scelto come emblema della vecchia Europa ne “Il Sogno di Prometeo”. Non solo ti sei abbandonato all'edonismo, ma hai anche deciso di distruggere tutto ciò che ti dava dignità o soddisfazione. -L'ho letto quell'affare, e anche un po' di “Zibaldino”. Devo complimentarmi per un aforisma contenuto in quest'ultimo: “ è giusto ciò che giova”, davvero una grande pensata... -Non avendo mai trattato di cucina toscana ne di farina di castagne, immagino tu ti riferisca allo Zibaldone. -Non sei divertente. Riguardo alle tue accuse, devo confessarti che mi sono trovato in difficoltà nel cercare di attuare il giusto all'interno del contesto. La società post-moderna è alienata da se stessa e tratta il sistema economico-finanziario come unica fonte di verità. - Non atteggiarti come un no-global... -Sta zitto gobbaccio, sono serio! Supponiamo che io voglia mandare avanti un'ipotetica famiglia e vivere onestamente di un lavoro modesto, soltanto il fatto di guidare un'automobile o mangiare una bistecca o il dare da mangiare ai miei ipotetici figli toglierebbe risorse a mille dei loro nipoti. L'uomo ha deciso di vivere alla giornata e invece che ridurre lo spreco ha deciso prima di razionalizzarlo e poi di incoraggiarlo, facendone uno status-symbol. Produrre è distrugge e ogni nostro agio o soddisfazione di bisogni naturale lo paghiamo con la perdita di salute, forza o intelligenza, oltre che con un consumo di risorse estremamente sproporzionato a causa del nostro sistema produttivo e distributivo impazzito. Questo è solo parte del dramma: ogni briglia morale che prima addomesticava l'individualismo utilitaristico è stata sciolta e quest'ultimo si è cibato dei corpi morenti dei molteplici valori decaduti, diventando un plumbeo e corpulento parassita dell'occidentalità. Abbiamo visto l'arte prostituirsi ai finanzieri, teschi ricoperti di diamanti solo per farne aumentare il valore, agricoltori distruggere i frutti del loro lavoro per la medesima futile ragione e ti annuncio che la mia Pharsalia potrebbe andare avanti all'infinito. -Cosa ti fa pensare che un ostacolo oggettivo sia una giustificazione per la tua condotta? Perché non urli le tue verità, non ti esponi? Vivi come se la tua consapevolezza non debba diventare tesoro per la tua specie! Non il timore ma la convinzione della futilità del tutto ti opprime, ma che scopo avremmo se non quello di combatterla con una spietata ricerca di senso, e ancora, prescindendo dal fatto che tu non provi pena per te stesso, non costituisce il tuo prossimo una buona motivazione per lottare? -Mille prima di me hanno fallito e contro le mura dell'egoismo e dei suoi storpi prodotti si sono infrante penne, spade e preghiere a non finire. La storia moderna mi porta a pensare che le infrastrutture siano state ormai rese indipendenti dall'uomo e che anzi si rigenerino e portino inesorabilmente lo stesso a schiavizzarsi. -Dunque è questa la tua posizione. Riesco solo a dire che provo per te quello che provava Dante per Paolo e Francesca. Questa è la sentenza della tua coscienza: all'eterno rimorso ti condanno mentre piango per la tua condizione. Nessuno di noi due sopravviverà poiché ciò che ti suggerisco ti risulta ormai impraticabile e quindi per me si chiude ogni possibilità di azione nel mondo dell'esistenza, ma allo stesso tempo per la mia soppressione perirà la tua individualità. Non sono che una madre disperata che parla con il figlio ammalato ormai prossimo alla morte, illudendosi di poterlo proteggere. -Questa è la fine del nostro rapporto: tornerò di nuovo al dolce nichilismo, non saremo più una cosa sola. Sono contento che ci siamo chiariti, ma io sono sconfitto, malato e non voglio più soffrire cercando di seguire i tuoi dettami. Il rimorso lo ammutolirò come ho fatto con te e mai sarò triste ne felice, ma solo bisogni e istinto. Ti ringrazio per aver cercato di salvarci un’ultima volta, ma non farò niente per impedire la tua morte e tanto meno farò per la mia. 37 Il signor B. non ebbe mai modo di tornare alla realtà e il suo corpo fu dato alle fiamme che aveva ancora uno strano ed emblematico sorriso. Chi ha avuto modo di vedere il suo corpo freddo prima della cremazione, afferma che il suo volto assomigliava a quello di un suicida che, prima di gettarsi da un palazzo, osserva compiaciuto chi cerca di persuaderlo dal suo intento. Dimitri Milleri SVAGO 38 Cominciamo ad inserire da questo numero, su consiglio del professore Mangani, alcuni quesiti di carattere logico matematico estrapolati dai Giochi di Archimede . Quest’ultimi sono competizioni annuali che si svolgono generalmente negli ultimi giorni di novembre nelle scuole superiori che si iscrivono alla competizione e sono aperti a tutti gli studenti, indipendentemente dalla classe frequentata. I quesiti di questo numero appartengono all’edizione dei Giochi dell’anno 2003, le soluzioni sono disponibili online! Buon divertimento! 1. Un gelataio prepara 20 kg di gelato e lo rivende nel corso della giornata in coni piccoli da 1,20 e di due palline e coni grandi da 1,60 e di tre palline. Da ogni kg di gelato ha ricavato 12 palline; alla fine della giornata, ha incassato in totale 137,60 e. Quanti coni grandi ha venduto? (A) 17 (B) 24 (C) 32 (D) 43 (E) 50. 2. Un venditore di palloncini ha a disposizione due bombole di elio uguali e dei palloncini piccoli e grandi. Utilizza tutta la prima bombola per gonfiare 80 palloncini piccoli, tutti alla stessa pressione. Considerato che da gonfi palloncini grandi hanno la stessa forma e la stessa pressione dei piccoli, ma una superficie 4 volte più grande, quanti palloncini grandi può riempire con la seconda bombola? (A) 10 (B) 16 (C) 20 (D) 24 (E) 40. 3. Ogni anno, al momento del pagamento delle tasse, l'utente fa una dichiarazione relativa all'anno in corso. Se la dichiarazione è vera, deve pagare le tasse; se è falsa, non le paga. Un giovane matematico, che ritiene il sistema iniquo, trova il modo di bloccarlo, con una delle seguenti dichiarazioni: quale? (A) \I pesci vivono in acqua" (B) \Io vivo in acqua" (C) \I pesci non pagano le tasse" (D) \Io non pago le tasse" (E) \Io pago le tasse". 4. In questo rettangolo c'è esattamente una affermazione falsa. In questo rettangolo ci sono esattamente due affermazioni false. In questo rettangolo ci sono esattamente tre affermazioni false. In questo rettangolo ci sono esattamente quattro affermazioni false. Quante affermazioni vere ci sono nel rettangolo? (A) 0 (B) 1 (C) 2 (D) 3 (E) 4. 39