presS/Tmagazine n.08 anno 2007
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presS/Tmagazine n.08 anno 2007 presS/Tarticle VALERIO PAOLO MOSCO Il playground è un sistema, con i suoi principi, attualissimi presS/Tarchitecture PAOLO LUCCIONI Architetto: Scuola materna ed elementare (Foligno) presS/Tdesign presS/Tcomics di Casenove STUDIO GHIGOS: Dacci un occhio Carta da ParaTRIS le vignette di roberto malfatti www.presstletter.com Anche presS/Tmagazine è sul web! Lo potrete trovare su <http://www.presstletter,com>, oltre all’archivio delle presS/Tletter, articoli e segnalazioni di eventi. FIRST DESIGN COMPETITION FOR SA (SECOND ARCHITECTURE) Ente banditore: Meltemi Editore Iscrizione entro il: 20 Maggio 2007 Consegna elaborati entro il: 20 Maggio 2007 Concorso in due fasi promosso dalla casa editrice Meltemi Editore per la costruzione di una sede virtuale all'interno di Second Life. Obiettivo del concorso, a partecipazione libera senza vincoli di età e di titolo, è stimolare la riflessione sul tema dell'architettura virtuale. I partecipanti sono invitati a esprimere la propria visione di uno spazio dalla forte capacità comunicativa, di interattività e attrazione all'interno del mondo di Second Life, progettando un ambiente che offra la possibilità di consultare il catalogo delle pubblicazioni, organizzare conferenze on line e allestire mostre ed esposizioni. www.meltemieditore.it presS/Tarticle VALERIO PAOLO MOSCO Il playground è un sistema, con i suoi principi, attualissimi Queen a New York non è ancora contaminato dalla gentrification, non è ancora “risanato”, è un po’ come Brooklyn svariati anni fa, con meno storia e meno lustro, ma anch’esso con una magnifica vista su Manhattan. Il quartiere, oggi perfetta crasi tra desolazione suburbana e velleità metropolitane, è uno dei pochi paesaggi statunitensi di New York City, come tale affascinante. Se ne è accorto il MOMA che li si è trasferito durante i lavori di ristrutturazione e dove ha impiantato il P.S.1, uno spazio open air che da anni vede il susseguirsi di installazioni artistiche sempre diverse, sempre uguali a loro stesse. Se ne era accorto ancora prima Isamu Noguchi che in prossimità della riva di fronte a Roosevelt Island, poco prima di morire, ha voluto il suo museo: l’Isamu Noguchi Garden Museum. Una costruzione in blocchetti di calcestruzzo e solai prefabbricati che contengono un giardino di sculture. Una architettura povera, installata, un non-finito in anticipo di diversi anni rispetto al Palais Tokyo parigino di Lacaton e Vassal. All’interno duecento sculture dislocate tra interno ed esterno, da vedere tutte insieme, come un paesaggio. Attenzione nulla a che vedere con la Land Art, con la “sculture in expanded fields”, alla Rosalind Krauss (1), con la colonizzazione dell’ambiente da parte della scultura. Noguchi non si azzarda a ciò, non è un modernista, non gli interessa stupire con polarizzazioni ad effetto. Nulla nel museo infatti è estremo o conpulsivo, ma solo un continuo, pacato ragionamento su come le sculture (le figure) si relazionano con l’ambiente (lo sfondo) e come quest’ultimo si configura come ambiente. Per capire a fondo tutto ciò bisogna andare allora al piano superiore del museo dove sono esposti in sequenza i modelli in bronzo dei playground, i progetti degli spazi pubblici che Noguchi ha realizzato interrottamente per cinquant’anni. Vedendoli tutti insieme appare evidente ciò che già si sospettava, ovvero che Noguchi è stato tra i pochi a ragionare proficuamente sul più scivoloso dei temi di architettura, lo spazio aperto, fino a saperne trarne un sistema, in ultima analisi un metodo compositivo. Spesso nel Moderno, e non solo, i sistemi compositivi degli edifici sono stati importati dagli spazi pubblici, specialmente dai giardini. Sedlmayr, Giedion e Zevi, su fronti diversi, hanno ad esempio compreso che senza il giardino romantico all’inglese non ci sarebbe stata l’architettura moderna. Nel caso di Noguchi invece, senza i suoi playground, probabilmente non ci sarebbe stata molta architettura degli anni novanta ed ancora più probabilmente Rem Koolhaas starebbe ancora alla ricerca di se stesso. L’invenzione del playground è un distillato di sintesi, che nel percorso dell’autore matura nel tempo. Noguchi infatti (come i migliori artisti statunitensi) è un personaggio inquieto, costretto a fare i conti e a convivere con diverse nature. Statunitense e giapponese, in bilico tra ovest ed est, ma anche tra astratto ed il figurativo, propenso a lavorare con i duri marmi e graniti e contemporaneamente autore di leggerissimi arredi (le lampade Akari ad esempio). E’ Noguchi stesso, con una rara coscienza auto-critica (la stessa che ritroviamo in Francis Bacon o in Rothko) che ci racconta genesi, storia ed implicazioni del playground (2). Innanzitutto i riferimenti, che appaiono improbabili: da un lato Buckminster Fuller, da cui Noguchi ruba la visione cosmica miniaturizzata e ancor più quella capacità propria di Fuller (ma anche da noi di Munari) di saper giocare seriamente, liberi, ma sempre seguendo regole empiriche auto-imposte. Dall’altra Martha Graham, per la quale Noguchi realizza per ben trent’anni le scenografie. Con la Graham Noguchi ipotizza che lo spazio pubblico è una scena, una rappresentazione in un ambito concluso, ritagliata dal resto del mondo. In questo ambito le singole figure definiscono, in relazione allo spazio di sfondo a loro necessario per apparire, un campo. Dall’equilibrio scalare delle componenti deriva allora il successo o l’insuccesso della rappresentazione, che non essendo comunque teatro, deve proporsi con stemprata spettacolarità, ispirando un certo senso di stabilità (3). L’evolversi del sistema playground è significativo. I primi lavori riguardano solo il terreno. In anticipo di decenni sulla Land Art, nei primi anno trenta, di ritorno dall’esperienza parigina nello studio di Brancusi, Noguchi inizia a “scolpire la terra”. Dapprima in maniera geometrica (Monument to the Plough, 1933; Play Mountain, 1933), poi diventando sempre più naturalista. Nel 1943 The Tourtured Earth , il primo playground in cui scompaiono gli elementi architettonici per lasciare posto ad un modellato casuale e drammatico, in cui il terreno sarebbe dovuto essere modellato dalle mine, come in guerra. Anche qui Noguchi è in anticipo, questa volta rispetto all’Espressionismo Astratto che di lì a poco diventerà il segno dell’arte statunitense e non solo. Pochi anni dopo nel 1949 Noguchi cambia direzione: il modellato del terreno allora si ammorbidisce per ospitare una collezione di oggetti astratti che alludono ai giochi per bambini nei parchi Il playground diventa così bambini nei parchi. Il playground diventa così definitivamente playground. Nel tempo l’idea si affina, le sculture diventano sempre meno oggetti poggiati al parterre ma si integrano con esso. Nel progetto redatto con Louis I. Kahn per il River Side di New York (1961/1966) l’integrazione è serrata, architetture e terreno si confondono, come avviene in molti edifici contemporanei. Sul finire poi degli anni sessanta e per tutti gli anni settanta Noguchi torna invece ad una figuratività più marcata, al limite del pop, in cui le figure si emancipano nuovamente dall’integrazione con il terreno (un progetto tra tutti, quello per il Padiglione alla Esposizione Universale di Tokyo del 1970). Nascono così gli “Scenari” veri e propri bricolage miniaturizzati di natura ed architettura, non esenti, come tutte le opere post-moderne, da prosaiche velleità didattiche. Forse il momento meno felice dei playground. Nel 1979 comunque Noguchi realizza una delle sue più importanti opere, nel parco che connette la downtown di Detroit con la passeggiata lungo il lago, nel centro del centro della città. Qui gli oggetti si dispongono in punti strategici, in modo tale da calibrare il loro campo di azione a distanza così da configurare per frammenti irradianti il vuoto dello spazio pubblico. Si inizia con una torre in acciaio stereometrica, tortile (come i non certo geniali odierni grattacieli), che annuncia l’ingresso al grande parterre. In asse al viale pedonale, come testata, la fontana. Uno strano oggetto dall’aria giapponese: una corona sospesa su piloni da cui viene gettata a pressione l’acqua che cade sul modellato ondulato della pavimentazione. Tenuti insieme dal dialogo a distanza dei due oggetti ed ad essi collegati da sottili relazioni spaziali, troviamo poi la cavea di un grande auditorium all’aria aperta, i giardini e la passeggiata sul lago. In definitiva pochi segni capaci di controllare in “good balance” e con sulfurea e dissimulata monumentalità uno spazio di grande dimensione, in una zona nevralgica della città. Passeggiando nel playground di Detroit e nel museo newyorkese si manifestano i diversi piani delle gentili invenzioni di Isamu Noguchi e sono tante, ed attuali. La prima riguarda il linguaggio, e più specificatamente la capacità di Noguchi di non cadere nei ricatti della forma. Ciò si attua su due piani. Da un lato la capacità di presentarci opere nitide ed assertive in cui però rimane pur sempre, sedimentato in un sapiente retrogusto, qualcosa di ineffabile. Ciò permette all’autore di sfuggire le secche moderniste, come quella della sterile polarizzazione tra astratto e figurativo. A ciò si aggiunge la capacità di presentarci forme narrative, ma che non hanno nulla di metaforico, non rimandano a nulla direttamente o meglio Note 123- 4- 5- 6- Rosalin Krauss, “Sculpture in Expanded Field”, in AA.VV., “The Anti-Aestetic”, Bay Press, New York, 1983 Isamu Noguchi, “Essays and Coversations”, Harry N. Abrams, New York, 1994 “I think presently we’ll be making sculptures to be seen from the moon – the dimesions of things are going way out. In fact there’s one school of thought that thinks that if it’s big enough, almost anything is good. But I don’t. I think everything is merely relative. It has to be big enough or small enough, as the case may be”. Isamu Noguchi, “The Isamu Noguchi Garden Museum”, Harry N. Abrams, New York, 1987 “the art of stone in a Japanese garden is that of placement. Its ideal does not derivate from that of nature, except in providing a hightened appreciation. Any manmade is carefully hidden, as the intercession of time and age, nature’s accidents and residue. But I am also a sculpture of the West. I place my mark and do not hide..” ibid. “…the sculpture of space – sculptures which defines the space – may even be invisible as sculpture and still exists as sculptural space”. Isamu Noguchi, “The sculptore and the architect” in “Essays and Coversations”. Op.cit. “I have carried the concept of the void like a weight on my shoulders. I could not seem to avoid its humanoid grip. It is like some inevitable question that I cannot answer” Isamu Noguchi, “The Isamu Noguchi Garden Museum”. Op.cit. non rimandano a nulla direttamente, o meglio rimandano all’ineffabile, a quel mondo che proprio per questa qualità Benedetto Croce definiva “lirico”. Tra l’altro tutto ciò si attua senza cadere nel personale, nello psicologico, ma nella ostinazione a voler passare per la porta stretta dei sentimenti “oggettivi”, condivisibili, gli unici che dovrebbero rimanere, specialmente nello spazio pubblico. A tutto ciò si aggiunge la lezione del playground come sistema compositivo: l’equilibrio tra figure e sfondo, tra oggetti eterocliti ed un parterre unificante. A tenere insieme il sistema quella che Noguchi stesso definisce “the art of placement” (4), che deriva dal giardino giapponese, e che permette all’autore quasi con nonchalance , di controllare attraverso la scala ed un bilanciato grado di figuratività degli oggetti, le diverse porzioni di vuoto (5). Il tutto senza ansia di prestazione, senza enfasi sociologica o frustrazioni comportamentali, come puro dato fisico, come relazione di oggetti nel vuoto. Ed è proprio, come afferma lo stesso autore, il vuoto il vero interesse di Noguchi: “da sempre nel mio lavoro sento che devo portarmi dietro il concetto del vuoto come un peso sulle mie spalle. Non posso rinunciare a questa costrizione “umana”. E’ come qualcosa di inevitabile a cui non posso dare una risposta” (6). Oggi che gli spazi pubblici sempre più tendono a diventare parchetti a tema, tristemente abbelliti da figure urlate, sproporzionate icone propagandistiche di una sempre più conpulsiva dittatura del piacere, incuranti dello sfondo su cui insistono, intrise di fregnacce sociologiche da cui scaturisce persino la coercitiva pretesa di imporci un comportamento, l’ineffabile ed oggettivo sistema di Isamu Noguchi più che una lezione appare un appello. A Susan a cui regalerei il tavolo di Noguchi, che già ha presS/Tarchitecture PAOLO LUCCIONI: Scuola materna ed elementare di Casenove (Foligno) L’edificio è una piccola scuola per la frazione montana di Casenove nel Comune di Foligno, colpita dal terremoto del 1997, ed è stato realizzato con i fondi della ricostruzione. La morfologia del terreno, posto lungo la linea di demarcazione tra la montagna e la valle disegnata dai meandri del torrente Menotre, ha suggerito l’articolazione dell’ edificio in due episodi architettonici: uno su livelli, che contiene i servizi e le aule comuni della scuola materna; l’altro, su un unico livello, che accoglie gli spazi della scuola elementare. I due episodi sono connessi da un corpo di fabbrica, coperto da una semivolta, che funge da ingresso e atrio, assestato su una quota intermedia, sfalsata di mezzo piano con i due livelli della scuola materna ed in quota con la scuola elementare. Nell’atrio confluiscono tutti i percorsi di distribuzione verticale e orizzontale della struttura: le rampe per disabili, le scale, il corridoio delle aule, gli accessi verso il giardino . Le rampe e le scale superano un dislivello di circa un metro e mezzo per accedere ai piani inferiore e superiore. Al piano inferiore della scuola materna sono situate la cucina con relativi servizi, la sala mensa e l’aula polifunzionale. Al piano superiore è collocata l’aula materna con le stanze dell’assistente e i servizi. Alla quota dell’ingresso sono disposte le aule della scuola elementare, che godono della esposizione ottimale est-ovest. Gli spazi interni delle aule sono caratterizzati dalle coperture che hanno la funzione di variare e qualificare lo spazio, e di ausilio luminoso e di soleggiamento. Infatti la copertura dell’aula della materna è inclinata con una finestra sulla sommità; la stessa cosa avviene lungo il frontone delle aule della scuola elementare che sono coperte da un solaio a semivolta. Ciò assicura un notevole grado di luminosità e soleggiamento all’interno di ogni stanza. Nel contempo la luce che entra nelle diverse ore della giornata, anche in virtù della schermatura del frangisole, disegna e sottolinea lo spazio interno. Gli scolari sono in continuo contatto visivo con la natura e con la luce naturale e da ciò traggono sollecitazioni e stimoli positivi. L’atrio di ingresso è coperto da una struttura reticolare in acciaio in vista che si contrappone ai colori primari delle pareti, anch’esse sottolineate ed esaltate dalla luce che entra dall’alto. BIOGRAFIA Paolo Luccioni è nato a Trevi (PG) nel 1951. Nel 1976 si è laureato a Roma ed ha iniziato l’attività professionale elaborando progetti per privati e per amministrazioni pubbliche. Ha partecipato a concorsi nazionali ed internazionali ottenendo premi e riconoscimenti. Nel 1989 è stato selezionato per il Premio Internazionale di Architettura Andrea Palladio con Una casa per tre famiglie a Foligno . Nel 1993 con il Palazzetto dello Sport di Foligno ha ricevuto il Premio Europeo di Architettura per impianti sportivi promosso dal coni e dal Consiglio d’Europa. Dal 1994 è responsabile della Sezione Architettura del Trevi Flash Art Museum. Nel 1999 Officina Edizioni ha pubblicato la monografia dal titolo Architetture di Paolo Luccioni a cura di Mario Pisani. Nel 2000 ha ricevuto la nomina di Accademico di Merito per l’Architettura dall’Accademia di Belle Arti “di Perugia ed ha tenuto una Mostra di “opere realizzate” su invito della University of Jordan e dell’Ambasciata Italiana di Giordania presso il Royal Cultural Center di Amman. Nello stesso anno ha ottenuto una menzione per il Marble Architectural Awards di Carrara. Nel 2002, nell’ambito del Premio Internazionale Dedalo e Minosse alla Committenza di Architettura, ha ricevuto una segnalazione con l’edificio polifunzionale di Amelia (TR) .. Nel 2003 lo stesso edificio è stato oggetto di una pubblicazione dal titolo Una Architettura Italiana per la Casa Editrice Libria con saggi di Alessandro Anselmi e Vittorio Savi. Nel 2003 è stato selezionato, per il Premio Brick Awards 2004 di Vienna con una Casa ad Isernia. Nel 2004 lo stesso edificio è stato pubblicato sul libro L’Architettura di Pietra di Alfonso Acocella edito da Lucense Alinea. Nel 2005 l’edificio commerciale, direzionale e residenziale con piazza pubblica a Borgo Trevi è stato pubblicato sul libro Italia costruisce/Italy builds per la casa editrice L’Arca. Dal 2006 è professore a contratto di “tecnologia dei materiali e degli elementi costruttivi” presso l’Università degli Studi di Firenze. CREDITS Progetto: 2000-2001 Costruzione: 2001-2004 Committente: Comune di Foligno – Area Lavori Pubblici Progettista: Paolo Luccioni, Foligno (PG) collaboratori: Andrea Cerquiglini, Loretta Della Botte, Viviana Mastrorilli, Paolo Moressoni, Laura Rossi, Andrea Spiccallunto. Calcoli Statici: Riccardo Vetturini Ingegnere, Foligno (PG) Impianti Elettrici: Gianni Drisaldi Ingegnere, Perugia Impianti Termoidraulici: Antonio Gagliardi La Gala Ingegnere, Perugia Indagini Geologiche: Filippo Guidobaldi Geologo, Foligno (PG) Coordinamento della Sicurezza: Giampaolo Ceci Ingegnere, Foligno (PG) Direzione dei Lavori: Paolo Luccioni Architetto, Foligno (PG) Riccardo Vetturini Ingegnere, Foligno (PG) LuccioniArchStudio ( Loretta Della Botte, Viviana Mastrorilli, Paolo Moressoni ), Foligno (PG) Impresa Esecutrice: Costruzioni Edili Geom. Maurizio Mormile, Frattamaggiore (NA) Superficie del lotto: mq. 3.470 Superficie Edificio: mq. 850 (di cui 1° stralcio costruito mq 694) Volume urbanistico: mc. 4000 (di cui 1° stralcio costruito mc 3.400) Importo dell’opera: € 600.204,00 presS/Tdesign Dacci un occhio (progetto vincitore della selezione) OLD/VECCHIO Mostra/Concorso di OPOS STUDIO GHIGOS: Dacci un occhio e Carta da ParaTRIS "L'ordine pubblico nei quartieri non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto possa essere necessaria, bensì da un'inconscia rete di controlli sociali spontanei" (Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città) "L'occhio sulla strada" assume quindi un prezioso valore di controllo e prevenzione per tutti i cittadini: perché denigrarlo e contrastarlo? Perché scoraggiare questo comportamento facendo vergognare chi volentieri si assume questo "ingrato" compito, ogni giorno, ponendosi a scudo anche della nostra difesa? Gli anziani, per tempo libero e spesso impossibilità a muoversi, amano guardare il mondo dalle loro finestre, spesso vivendo "attraverso" gli altri. Quella che nasce come una loro in fondo innocente mania potrebbe dunque svolgere un'importante funzione sociale, se solo la si favorisse invece di scoraggiarla. Se solo ci fossero tende a prova di sguardi esterni che, "indiscreti", si volgono verso la casa e smascherano le improvvisate "signore Fletcher": tende che permettano di vedere senza essere visti, per "scoprire" senza essere scoperti. Un accessorio per "spie" professioniste, pensato per gli abitanti della casa che anche senza doverle schiudere e senza temere per trasparenze traditrici possono godersi lo "spettacolo" a loro riservato. Alla tradizionale funzione delle tende se ne aggiunge dunque una nuova, che può essere abilmente integrata in un'estetica accattivante o tradizionale, celata nella trama del tessuto come nella texture del disegno. By Studio Ghigos (Davide Crippa, Barbara Di Prete, Francesca Diotti, Sara Magnone, Francesco Tosi) Carta da ParaTRIS Evento WONDerland (esposto in Triennale di Milano, Design Library e Showroom Jannelli & Volpi) Una carta da parati che interagisce con noi e si riconfigura ad ogni nuovo passaggio. Un campo da gioco a nostra disposizione per accogliere sfide sempre più avvincenti. Una parete mutevole che ospita segni, geometrie, colori. conservando tra le sue trame strategie e astuzie, delusioni e soddisfazioni di giorni passati. Una pagina di diario in scala gigante, per esperienze sempre più stratificate. Una mappa che racconta di grandi successi e piccole, trascurabili sconfitte. Tracce che parlano di noi, e di un pomeriggio noioso diventato eccitante. Una carta da parati per conoscere nuovi amici, "ammazzando" il tempo in sala d'attesa. E quando lo sfondo viene portato in primo piano, i termini si ribaltano, il paradosso prende corpo, i veri attori entrano in scena: è il gioco che diventa texture. E' l'illecito che si fa estetica. By Studio Ghigos (Davide Crippa, Barbara Di Prete) Lettera di critica dell’architettura che affianca presS/Tletter. Per cancellarsi basta mandare una mail al mittente con scritto: remove. Per iscriversi basta farne richiesta al sito www.prestinenza.it. I giudizi espressi negli articoli non esprimono l’opinione della redazione ma dello scrivente. Si ringraziano i progettisti per le informazioni relative ai credits e per il materiale iconografico che viene concesso gratuitamente, libero da diritti relativamente alla circolazione di questa newsletter. REDAZIONE: Anna Baldini, Gianpaolo Buccino, Diego Caramma, Diego Barbarelli, Massimo Locci, Roberto Malfatti, Valerio Paolo Mosco, Luigi Prestinenza Puglisi, Paolo Raimondo, Monica Zerboni.