Mancata “ricalibratura” o “retrenchment”?
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Mancata “ricalibratura” o “retrenchment”?
Mancata “ricalibratura” o “retrenchment”? Gli sviluppi delle politiche di tutela per gli anziani non autosufficienti nel caso italiano di Marco Arlotti* Paper for the Espanet Conference “Italia, Europa: Integrazione sociale e integrazione politica” Università della Calabria, Rende, 19 - 21 Settembre 2013 (si prega di non citare senza il consenso dell’autore) *Assegnista di ricerca DISES – Dipartimento di Scienze Economiche e Sociali, Università Politecnica delle Marche, [email protected] Abstract: Nell’ambito della letteratura sui nuovi “rischi sociali” l’Italia si colloca fra i paesi a maggior ritardo nella ricalibratura del welfare. Di tale ritardo è paradigmatico il settore delle politiche di tutela degli anziani non autosufficienti dove peraltro, in parallelo all’inerzia dell’intervento pubblico, si è assistito ad una crescente privatizzazione della cura in termini di mercato. L’obiettivo del paper è quello, tuttavia, di esplorare una diversa ipotesi interpretativa che lega le difficoltà attuali nella cura degli anziani non autosufficienti non tanto ad un presunto ritardo nei processi di ricalibratura quanto, in prima istanza, ad un processo di retrenchment, ovvero di negazione di diritti. A sostegno di tale ipotesi verranno utilizzante varie fonti: dall’analisi normativa-istituzionale ad interviste con testimoni privilegiati e familiari di anziani non autosufficienti. I risultati principali intendono delineare un nuovo quadro interpretativo per comprendere i meccanismi che conducono alle attuali criticità nel campo della tutela degli anziani non autosufficienti. Inoltre forniscono degli spunti di riflessione, su un piano più generale, per comprendere le dinamiche di retrenchment in un settore specifico, ovvero quello delle politiche universalistiche di tutela della salute. 1. Le trasformazioni del welfare e le politiche di tutela per gli anziani non autosufficienti Nel corso degli ultimi decenni i processi di mutamento che hanno investito la dimensione sociodemografica e socio-economica hanno sottoposto a crescenti tensioni i sistemi nazionali di welfare frutto dei trent’anni gloriosi di sviluppo post-bellico (cfr. Ferrera, 2007; Ascoli, 2011). Dal punto di vista teorico la letteratura sociologica e politologica ha fornito diverse interpretazioni circa le trasformazioni, in tale quadro, del welfare state. Seppur in estrema sintesi, si può dire che nel corso degli anni ’90, in particolare la prospettiva neo-istituzionalista ha messo in luce una certa inerzia del welfare al cambiamento in base ad una supposta dinamica di “path-dependency” (cfr. Pierson, 1994). In direzione opposta, l’approccio delle “risorse di potere” (cfr. Korpi e Palme, 2003) ha invece evidenziato una dinamica di “retrenchment”, ovvero di ridimensionamento del welfare a fronte dell’affermazione del paradigma neo-liberista. Entrambe queste prospettive sono state tuttavia oggetto di critiche. Sul versante neo-istituzionalista è montata, infatti, una riflessione di carattere “post-determinista” volta ad analizzare più attentamente le dinamiche e i meccanismi del cambiamento istituzionale (cfr. Streeck e Thelen, 2005). In alcuni studi, come quelli di Hacker (2004), vengono per esempio rilevati processi di “retrenchment “nascosto” in paesi fino ad allora considerati paradigmatici per supposta stabilità istituzionale. Al contempo, i processi di riforma comunque attuati nei paesi europei e volti alla copertura dei cosiddetti “nuovi” rischi sociali (es. conciliazione, attività di cura, disoccupazione di lungo periodo) (cfr. Taylor-Gooby, 2004; Bonoli, 2006), hanno evidenziato come riforme di carattere espansivo si possano realizzare pur in una fase di austerità permanente, attraverso processi di “ricalibratura” del welfare, intesi, da un punto di vista funzionale, come ri-equilibrio delle risorse dai “vecchi” ai “nuovi” rischi sociali (es. “meno pensioni; più servizi sociali e prestazioni alle famiglie”) (cfr. Ferrera, 2007). In tale scenario le politiche rivolte alla tutela degli anziani non autosufficienti, ovvero persone con limitazioni notevoli della propria autonomia a causa di patologie invalidanti e di gravi condizioni fisiche e psichiche (cfr. Santanera 2010), hanno registrato un notevole interesse d’approfondimento (cfr. La Rivista delle Politiche Sociali, 2011). Ovviamente, in ciò incide la progressiva centralità che assume, nelle società europee, tale tipo di bisogno, ma anche il fatto che questa area di policy costituisce un osservatorio privilegiato per testare le ipotesi sui processi di “ricalibratura” del welfare. Rispetto tali processi la letteratura rileva per il caso italiano una specifica caratterizzazione. In termini generali, l’Italia si colloca infatti fra i paesi a maggior ritardo nella “ricalibratura” del welfare (cfr. Ranci e Migliavacca, 2011), mentre sono state ampiamente adottate politiche di ‘retrenchment’ e di contenimento della spesa (cfr. Ascoli e Pavolini, 2012). Un caso esemplare di 2 questo ritardo sono proprio le politiche di tutela degli anziani non autosufficienti dove il mancato riconoscimento di un diritto garantito alla cura (cfr. Costa, 2011) si è accompagnato all’inerzia dell’intervento istituzionale e al persistere dell’attribuzione alle famiglie, anche attraverso un esteso sistema di obbligazioni familiari (cfr. Naldini e Saraceno, 2007), dei principali compiti di cura e di assistenza. A ciò si aggiunge recentemente, una tendenza alla privatizzazione della cura verso sviluppi di mercato attraverso il ricorso delle famiglie all’assistenza privata delle “badanti”, che ha comportato una ri-articolazione del tratto familista del sistema di welfare italiano (cfr. Da Roit e Sabatinelli, 2005). Nonostante l’assenza di riforme sul piano nazionale si sarebbe, dunque, in presenza di processi di cambiamento graduale (cfr. Costa, 2011), sospinti da vari fattori. Sul fronte della domanda sociale incide il tendenziale indebolimento delle reti familiari nel far fronte ai bisogni di cura degli anziani, mentre sul fronte dell’offerta svolgono un ruolo cruciale la presenza di un vasto settore di immigrazione irregolare, che rende accessibile una cura a basso costo ad ampi strati sociali, e un sistema di protezione sociale inerziale, sbilanciato sui trasferimenti monetari (pensioni e indennità di accompagnamento) che sostiene la solvibilità della domanda (cfr. Pugliese, 2011; Da Roit e Sabatinelli, 2012). Tuttavia, come si è avuto modo di evidenziare in altri contributi (cfr. Arlotti, 2012a), se si adotta una diversa prospettiva d’indagine più attentamene rivolta all’analisi a livello micro del contenzioso fra pubbliche amministrazioni, associazioni di tutela e famiglie di anziani non autosufficienti, ciò che emerge è un quadro differente. Di fatto la familizzazione della cura contrasta non solo con un ordinamento che pone dei limiti a un coinvolgimento indiscriminato delle solidarietà intergenerazionali, ma anche con l’esistenza di un quadro normativo che riconosce, nell’ambito delle responsabilità del Servizio sanitario nazionale, diritti soggettivi esigibili per quanto riguarda la garanzia della continuità di cura alle persone anziane non autosufficienti (cfr. Santanera, 2010). 2. Ipotesi di ricerca, metodologia e struttura del paper A partire dal quadro teorico ed analitico supra l’obiettivo del paper è quello di approfondire l’ipotesi di un processo di “retrenchment”, a partire dal quale si ritiene debba essere ricondotta principalmente la tendenza alla familizzazione e privatizzazione della cura che costituisce il tratto dominante negli assetti di tutela degli anziani non autosufficienti nel caso italiano. Questo tipo di ipotesi comporta un’integrazione del quadro interpretativo consolidato a livello di letteratura in base al quale, come si è cercato di sintetizzare, le problematiche connesse alla tutela degli anziani non autosufficienti vengono piuttosto associate ad un ritardo nella “ricalibratura” del welfare e all’assenza di riforme in questo settore. In termini di traduzione operativa, l’ipotesi del “retrenchment” si aggancia ad una negazione di diritti di cura e di assistenza riconosciuti dal nostro ordinamento alle persone anziane autosufficienti. Tale negazione prende le forme dello “scarico” di responsabilità dal settore sanitario a quello socio-assistenziale per arrivare, in ultima istanza, alle famiglie. A sostegno di tale ipotesi, da un punto di vista metodologico, verrà adottata una duplice strategia di ricerca principalmente di carattere “qualitativo”. In primo luogo verrà effettuata una ricognizione del filone sentenziale più recente che ha riguardato il contenzioso fra pubbliche amministrazioni, associazioni di tutela e famiglie di anziani non autosufficienti. Questa prospettiva di ricerca, del tipo legal studies (cfr. Arlotti, 2012a) risulta ancora poco sviluppata, se non del tutto assente, nello studio sociologico delle politiche di welfare nel nostro paese. 3 A seguire i processi di negazione di diritti verranno indagati sia dal punto di vista della dinamica processuale, cogliendo in questo le indicazioni della letteratura sul process tracing (cfr. Vennesson, 2008), sia attraverso una ricostruzione della dinamica “macro-meso-micro” con l’intento di individuare l’insieme di fattori che influiscono da un punto di vista istituzionale-organizzativo e delle interazioni fra attori. A livello empirico verranno utilizzate varie fonti che vanno da alcune sentenze più recenti, per arrivare a contributi di letteratura specialistica, bollettini e riviste di associazioni di tutela nonché interviste semi-strutturate condotte con testimoni privilegiati e famiglie1. La struttura del paper prevede a seguire (par. 3) una sintetica ricostruzione del sistema delle politiche di tutela degli anziani non autosufficienti. In particolare verrà ricostruito il quadro normativo-istituzionale e specificato attentamente il livello di diritti soggettivi esigibili che il nostro ordinamento riconosce a tutela degli anziani non autosufficienti. A partire da tale ricostruzione verranno analizzate alcune pratiche sostantive di negazione di diritti (par. 4). L’esistenza di un quadro normativo che tutela la condizione degli anziani non autosufficienti, anche attraverso la garanzia della continuità di cura, verrà inoltre esplicitato attraverso un’analisi processuale e il racconto di una persona che ha vissuto le conseguenze dei processi di negazione dei diritti e di scarico delle responsabilità dal settore sanitario sulle famiglie (par. 5). A partire da tali risultanze si cercherà di abbozzare un primo quadro interpretativo (par. 6), mentre nelle conclusioni verranno tirate le file dell’analisi svolta, con alcune considerazioni su un piano più generale rispetto alle dinamiche di “retrenchment” nell’ambito delle politiche universalistiche di tutela della salute. 3. Il sistema delle politiche di tutela degli anziani non autosufficienti nel caso italiano Come si è già accennato in apertura l’anziano non autosufficiente è una persona la cui autonomia è fortemente limitata (impossibilità di camminare, incapacità di alimentarsi da sola, incontinenza urinaria e/o sfinterica, anche impossibilità di manifestare esigenze vitali come fame, sete, caldo, freddo) a causa di patologie invalidanti e della gravità delle condizioni fisiche e psichiche (cfr. Santanera, 2010). Il fatto che la non autosufficienza derivi, primariamente, da condizioni di malattia emerge peraltro in maniera chiara dall’indagine ISTAT (2010) sulla popolazione disabile. In base alle rilevazioni ISTAT tra le persone anziane disabili più del 64.7% di queste presenta almeno una malattia cronica grave (ibidem: 51). Il 70% addirittura tre o più. E per malattie croniche si considerano tutta una serie di patologie che vanno dal diabete all’infarto del miocardio, all’angina pectoris ad altre malattie del cuore, l’ictus e l’emorragia cerebrale, la bronchite cronica e 1 Le interviste sono state effettuate nell’ambito di due progetti di ricerca sulle politiche di tutela degli anziani non autosufficienti in alcuni contesti regionali del Centro-Nord Italia: a) PRIN 2008 – Nuovi rischi sociali e risposte di policy. La riconfigurazione tra pressioni sovra-nazionali e subnazionali: il caso dell’assistenza ai non autosufficienti (Prof. ssa Fargion, Università degli studi di Firenze): sono state condotte in Piemonte e Lombardia 10 interviste, di cui in ciascuna regione: 1 referente regionale; 1 referente politico; 1 referente organizzazioni sindacali pensionati; 1 referente associazioni di tutela; 1 referente enti gestori servizi residenziali. b) ISSMA 2012 – Politiche e servizi per anziani non autosufficienti nelle Marche (Prof. Yuri Kazepov, Università degli studi di Urbino). Come approfondimento sui casi locali di Pesaro e Ancona sono state condotte complessivamente 26 interviste, di cui: 2 coordinatori d’ambito; 2 direttori di distretto; 2 referenti area anziani; 2 medici; 4 infermieri; 8 assistenti sociali; 6 con familiari di anziani non autosufficienti. Parte delle considerazioni contenute in questo paper riprendono, inoltre, un percorso di ricerca svolto nell’ambito di una tesi di dottorato in sociologia economica (XXIII ciclo, Dipartimento di Studi Sociali, Università degli Studi di Brescia: Fra sanità ed assistenza. La tutela degli anziani cronici non autosufficienti in Italia). In questo ho potuto beneficiare di una borsa di studio del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. La responsabilità dei contenuti del paper sono esclusivamente dell’autore ed esonerano i referenti e le istituzioni suindicate. 4 l’enfisema, la cirrosi epatica, il tumore maligno (inclusi linfoma/leucemia), il parkinsonismo; l’alzheimer e le demenze senili (ibidem: 50). Da ciò ne discende che le responsabilità istituzionali riguardo la tutela degli anziani non autosufficienti ricadono principalmente all’interno del sistema della tutela della salute, ovvero sul Servizio sanitario nazionale. Non a caso la normativa vigente che ha definito i LEA – Livelli essenziali di assistenza (dpcm 29 novembre 2001, convertito in legge dall’art. 54 della l. 289/2002), prevede nell’allegato 1C sull’area “integrazione socio-sanitaria”, una serie di prestazioni (aggiuntive a quelle ospedaliere) che devono essere garantite, in quanto diritto soggettivo esigibile e senza limiti, a tutela delle condizioni degli anziani non autosufficienti. Tali prestazioni, che spaziano dall’assistenza domiciliare, per arrivare agli interventi di carattere semi-residenziale e residenziale, sono sia “sanitarie” che “sanitarie di rilevanza sociale”, ovvero prestazioni nelle quali, come recita il dpcm: “la componente sanitaria e quella sociale non risultano operativamente distinguibili e per le quali si è convenuta una percentuale di costo non attribuibile alle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale”. In questo caso viene, dunque, prevista una quota di compartecipazione a carico dell’utente/Comune, in base a percentuali stabilite all’interno della stessa normativa LEA (tab. 1). Tab. 1 - Livelli essenziali di assistenza (LEA) anziani non autosufficienti: livello di assistenza, prestazioni, % costi a carico utente/Comune Livello di assistenza Prestazioni % costi a carico utente/ Comune Assistenza domiciliare Servizi semiresidenziali Medicina generale e specialistica Infermieristiche Riabilitative Assistenza tutelare Assistenza farmaceutica, protesica e integrativa Terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità 0% 0% 0% 50% 0% 50% Servizi residenziali Cura e recupero funzionale in fase intensiva e estensiva Terapeutiche, di recupero e mantenimento funzionale delle abilità 0% 50% Fonte: ri-elaborazione su dpcm 29/11/2001 Per un’individuazione più precisa della fattispecie di prestazioni e dell’articolazione dei rapporti fra sanità e sociale occorre, tuttavia, integrare la lettura del dpcm sui LEA con un ulteriore dpcm, quello del 14/2/2001 (“Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie”). In tale dpcm, a cui la stessa normativa sui LEA fa riferimento, l’articolazione delle prestazioni socio-sanitarie rimanda a tre livelli: “elevata integrazione sociosanitaria”, “sanitarie a rilevanza sociale” e “sociali a rilevanza sanitaria”. A ciascuna di queste prestazioni corrisponde una fase specifica dell’intervento assistenziale e una specifica copertura dei costi (tab. 2). Si va dalla totale copertura degli oneri a carico del Fondo sanitario nazionale nel caso delle cosiddette prestazioni ad “elevata integrazione sociosanitaria”, caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria, ad una suddivisione dei costi al 50% fra sanità e sociale per quanto riguarda, invece, le cosiddette prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale”. 5 Tab. 2 - Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni socio-sanitarie: sintesi principale Prestazioni Definizione Fase assistenziale Copertura dei costi Elevata integrazione sociosanitaria - Particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria Sanitarie a rilevanza sociale - finalizzate alla promozione della salute, prevenzione, individuazione, rimozione, contenimento di esiti degenerativi o invalidanti - intensiva - copertura del bisogno socio-sanitario inerente funzioni psicofisiche e limitazione delle attività del soggetto nelle fasi estensive e lungo-assistenza 100% SSN 50% SSN – 50% sociale - estensive e lungo-assistenza - erogate contestualmente ad adeguati interventi sociali Sociali a rilevanza sanitaria - estensive e lungo-assistenza - attività sistema sociale con obiettivo di supportare la persona 100% sociale Fonte: ri-elaborazione su dpcm 14/02/2001 Se le competenze del Servizio sanitario nazionale rimangono quelle centrali si è visto, tuttavia, come in entrambi i decreti si faccia riferimento anche ad una componente di carattere sociale. In questo caso il riferimento va da un lato alla quota di compartecipazione prevista, a carico dell’utente/Comune, per la copertura dei costi non a carico del fondo sanitario nazionale per prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale”, mentre dall’altro lato a quelle che sono state definite come prestazioni “sociali a rilevanza sanitaria”, di competenza dei Comuni (con partecipazione alla spesa) che riguardano in particolare gli interventi di sostegno e di aiuto domestico nel caso di permanenza a domicilio oppure l’integrazione delle rette a favore di anziani indigenti. Le prestazioni sociali rappresentano dunque la seconda “gamba” nel sistema di tutela degli anziani non autosufficienti nel nostro paese. Come evidenziato da alcuni autori (cfr. Fargion, 2013), tuttavia, tale sistema sconta di una strutturale debolezza stante la mancata approvazione di una normativa sui livelli essenziali di assistenza (di parte sociale). Al sistema delle prestazioni di competenza del Servizio sanitario nazionale e dei Comuni si aggiunge, inoltre, un terzo livello d’intervento: si tratta dell’Indennità di accompagnamento (d’ora in avanti IDA). La crescita ed espansione dell’IDA è già stata ampiamente analizzata ed approfondita in altri studi (cfr. Ranci, 2008; Costa, 2011). Sicuramente la possibilità di impiego di questo trasferimento monetario al di fuori di ogni sistema di controllo ha favorito e sostenuto lo sviluppo di un ampio settore della cura di mercato, in larga parte sommerso (il fenomeno delle badanti) (cfr. supra). Altra criticità è il fatto che l’IDA non presenta alcuna forma d’integrazione né di coordinamento con il sistema territoriale dei servizi socio-sanitari, con evidenti problemi di efficacia ed efficienza nell’impiego delle risorse. Stando ai dati della Ragioneria centrale dello Stato (cfr. Massicci, 2012), limitatamente agli anziani over 65 e in termini di incidenza sul Pil, nel 2010 le risorse destinate all’IDA hanno rappresentato lo 0,65% sul Pil, mentre la componente sanitaria e quella sociale rispettivamente lo 0,51% e 0,15%. L’importanza che ha assunto sostantivamente l’IDA non deve, tuttavia, far dimenticare il fatto che nell’ambito della tutela degli anziani non autosufficienti le responsabilità istituzionali rimandano in prima battuta al Servizio sanitario nazionale, in relazione alla previsione di diritti soggetti esigibili (cfr. supra). Come vedremo nei prossimi paragrafi è semmai a partire da una sistematica negazione 6 dei suddetti diritti che l’IDA ha assunto in via crescente centralità nelle strategie di cura delle famiglie. 4. La familizzazione illegittima della cura e degli oneri nella tutela degli anziani non autosufficienti: alcuni esempi Nonostante il riconoscimento di un diritto soggettivo esigibile e senza limiti alla cura, la realtà quotidiana mostra una situazione in cui servizi ed interventi di supporto risultano spesso assenti. Né discende una totale delega alle famiglie e una privatizzazione della cura e degli oneri di tutela degli anziani non autosufficienti. Di seguito analizzeremo due aspetti che sostanziano come tale privatizzazione prenda luogo proprio a partire da una negazione del diritto alle prestazioni sancito dai LEA. Ci riferiamo al fenomeno delle liste d’attesa e alla ripartizione dei costi sanità-sociale. 4.1. Il fenomeno delle liste d’attesa Una delle modalità principali attraverso cui si sostanzia la negazione dei diritti riguarda il fenomeno delle liste d’attesa. Da un punto di vista procedurale, in estrema sintesi, l’accesso alla rete dei servizi socio-sanitari, come l’assistenza domiciliare oppure il ricovero in struttura, prevede generalmente un primo passaggio che è quello della valutazione attraverso apposite equipe multidimensionali. Una volta che l’unità di valutazione accerta la condizione di non autosufficienza e il tipo di bisogno, vengono definiti dei piani individualizzati d’intervento dove, in accordo con la famiglia, sono individuati gli interventi da attivare, previsti a livello di LEA (tab. 1). Tuttavia l’attivazione di tali servizi, oppure la stessa copertura degli oneri sanitari stabiliti dalla normativa (tab. 1 e tab. 2), non avviene generalmente in maniera concomitante nonostante le condizioni del bisogno dell’anziano possono essere particolarmente critiche. In altre parole vengono definite delle “liste d’attesa”, ovvero delle graduatorie a scorrimento che portano in ultima istanza all’accesso al servizio stesso. Si tratta, in altre parole, di una forma di razionamento dei servizi che può derivare o dal fatto che l’offerta non riesce a coprire la domanda oppure da un vincolo alle risorse disponibili che impedisce di attivare i servizi nonostante gli stessi possono essere comunque nelle disponibilità. Per esempio, nel caso dei ricoveri residenziali ciò può condurre ad un esito paradossale di posti letto che rimangono vuoti in strutture convenzionate con il SSN (cfr. Brizioli e Masera, 2011: 131). E’ tuttavia da evidenziare che, stante l’esigibilità degli interventi sancito dai LEA, le liste d’attesa sono illegittime e pertanto costituiscono una violazione dei diritti vigenti. Per dare sostanza empirica faremo riferimento ad alcune sentenze ed ordinanze che negli anni hanno sanzionato tali pratiche2. La prima sentenza che riportiamo è del 2010 ed è stata emanata dal Tribunale di Firenze (n. 1154/2010). Nel merito i familiari di persone anziane non autosufficienti, riconosciute invalidi civili al 100% dall’Asl di Firenze e ricoverate in apposite strutture residenziali convenzionate (Rsa – Residenze sanitaria assistenziale), citano in giudizio la stessa Asl a fronte del mancato riconoscimento, in base ad un sistema di liste d’attesa, della copertura della quota sanitaria, ovvero quel 50% dei costi che, nell’ambito delle cosiddette prestazioni “sanitarie a rilevanza sociale” sono a carico del Ssn nella fase di lungo-assistenza (cfr. tab. 1 e 2). In base alla posizione difensiva l’Asl ha giustificato, infatti, la mancata attribuzione della quota sanitaria stante la mancanza di un diritto 2 Limitandoci in questo contributo alla sola area degli anziani non autosufficienti, non riporteremo di seguito le diverse sentenze che hanno riguardato negli stessi termini anche persone disabili non anziane. Per ulteriori approfondimenti si rimanda al sito della Fondazione promozione sociale (http://www.fondazionepromozionesociale.it/) in cui è presente un’ampia e dettagliata raccolta delle varie sentenze ed ordinanze su questo tema. 7 soggettivo perfetto, sul presupposto che: “… l’accesso al beneficio economico sarebbe stato condizionato ad una positiva valutazione, di carattere essenzialmente tecnico, di una pluralità di fattori (reddituali, familiari, sanitari e sociali), emessa all’esito di una complessa procedura amministrativa necessaria a fini del rispetto dei vincoli di spesa e di bilancio previsti dalla legge (art. 81 Cost.)”. Secondo il Tribunale di Firenze, tuttavia, l’assunto difensivo non può condividersi perché: “… è documentalmente provato, e comunque, non contestato che il Piano sanitario regionale 2002-2004 e quello del 2005, approvato con Legge regionale n. 40/05, assicurasse a tutti i cittadini presenti sul territorio regionale l’assistenza sanitaria, in ossequio al principio costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.). In particolare, la legge prevedeva a favore degli anziani non autosufficienti con patologie cronico-degenerative che gli oneri finanziari relativi a tutte le prestazioni di assistenza sanitaria fossero poste a totale carico del SSN …”. Stante tale previsione, segue la sentenza: “ … deve ritenersi che, in assenza di una norma che attribuisse alla Pubblica Amministrazione il potere di operare una valutazione comparativa tra le posizioni degli aventi diritto e, in assenza di una predeterminazione dei criteri e dei parametri in base ai quali effettuare tale scelta, l’unico requisito necessario e sufficiente ai fini del riconoscimento del beneficio economico previsto dalla legge è rappresentato dalla condizione di totale non autosufficienza”. Per cui: “’l’atto amministrativo contenente una sorta di “liste a scorrimento” effettuata sulla base di una valutazione comparativa, seppur di carattere essenzialmente tecnico, delle posizioni dei richiedenti e lo stesso atto amministrativo che l’ha prevista, devono ritenersi radicalmente nulli o, comunque illegittimi”. In base a questa sentenza che ha sancito, dunque, l’illegittimità del sistema delle liste d’attesa l’Asl di Firenze è stata condannata a versare oltre 40 mila euro a titolo di rimborso delle quote sanitarie non attribuite a persone anziane non autosufficienti (riconosciute invalidi civili al 100%) e ricoverate in Rsa. Più di recente è stato, invece, il TAR del Piemonte a sospendere con due successive ordinanze (n. 609/2012 e n. 141/2013) ed in termini cautelari (ovvero in attesa di sentenza) la validità delle delibere regionali della Giunta del Piemonte sui sistemi di lista d’attesa per il ricovero di anziani in Rsa. In particolare, con la dgr 45-4248 del 30 luglio 2012 (all. n. 6, paragrafo: “Selezione e Attivazione”), la giunta ha previsto per l’accesso ai servizi residenziali, e qualora le risorse previste dal progetto individualizzato non siano immediatamente disponibili, la compilazione da parte dell’unità valutativa geriatrica: “di graduatorie distinte per tipologie di Progetti individuali, mediante l’attribuzione ad ogni richiedente di un punteggio derivante dalla somma della valutazione sociale e sanitaria […]”. Secondo l’ordinanza del TAR (n. 609/2012) , che accoglie il ricorso avanzato da tre associazioni di tutela, tale previsione ravvisa “[…] profili di fondatezza del gravame, trattandosi di una previsione che incide su prestazioni rientranti nei livelli essenziali di assistenza (d.P.C.M 29 novembre 2001, Allegato 1.C, punti 8 e 9), i quali devono essere garantiti, in modo uniforme, su tutti il territorio nazionale”. Per ultimo segnaliamo, invece, due sentenze del TAR Lombardia (n. 459/2012 e 461/2012) che avendo come oggetto il ricorso avanzato da alcuni enti gestori di strutture per anziani contro il sistema di remunerazione regionale delle RSA (ricorso peraltro respinto dallo stesso tribunale), hanno confermato l’esigibilità, in termini di diritti, delle prestazioni socio-sanitarie definite dai LEA. Nello specifico la sentenza n. 459/2012 afferma che: “[…] Il servizio sanitario regionale è pertanto tenuto ad erogare prestazioni non inferiori a quelle definite con provvedimento statale (i LEA sono attualmente definiti con d.p.c.m. 29 novembre 2001) e, di conseguenza, i soggetti bisognosi hanno comunque diritto ad ottenere tali prestazioni (eventualmente supportando parte 8 dei costi in conformità alla vigente normativa) indipendentemente dai budget assegnati dalla Regione che, se insufficienti, debbono essere da questa integrati”. In altre parole, come sopra, il vincolo di bilancio non può giustificare il razionamento dell’offerta attraverso sistemi di liste d’attesa, stante la presenza di un diritto soggettivo esigibile alle cure socio-sanitarie così come previsto dalla normativa LEA. 4.2. La ripartizione degli oneri sanità-sociale3 Un secondo fronte a partire dal quale prende luogo empiricamente il meccanismo di scarico è quello che riguarda la ripartizione degli oneri nella copertura dei costi per interventi e prestazioni di carattere socio-sanitario. Come si è visto nel par. 3 i LEA, oltre ad elencare le prestazioni sociosanitarie che costituiscono diritto soggettivo esigibile, definiscono anche un’apposita ripartizione degli oneri fra fondo sanitario (la cosiddetta quota sanitaria) e utenti/Comuni (la cosiddetta quota sociale). Da un punto di vista empirico sono poche le ricerche che hanno approfondito questo tema (cfr. Pesaresi, 2008; Brizioli e Masera, 2011). Riprendendo alcuni casi regionali, che peraltro rappresentano delle esperienze virtuose in termini di gestione del sanitario, emerge tuttavia un quadro in cui si delinea la mancata garanzia della ripartizione dei costi stabilita dai LEA. Per esempio, considerando i ricoveri residenziali nella cosiddetta fase di lungo-assistenza (dove la previsione è del 50% a carico della sanità) (cfr. supra) per la Lombardia alcuni studi hanno rilevato una partecipazione di parte sanitaria poco superiore al 40% (Guerrini, 2010: 228). Dati più recenti confermano sostanzialmente questo quadro, con una media di copertura della tariffa regionale del 44% (Tidoli, 2013). Ne discende che sulla quota sociale, a carico di anziani non autosufficienti e Comuni, vengano scaricati parte di costi sanitari (ibidem). Sulla stessa linea anche un’altra regione, le Marche, presenta criticità relativamente alla copertura delle quote sanitarie. Per le cosiddette “residenze protette”, ovvero strutture socio-sanitarie individuate dalla normativa regionale per la cura ed assistenza degli anziani non autosufficienti, la regione ha recepito nei primi anni 2000 il decreto LEA stabilendo una tariffa giornaliera di remunerazione del ricovero pari a 66 euro (con un minutaggio assistenziale giornaliero di 100 minuti), con una ripartizione al 50% degli oneri fra sanità e sociale (ovvero una retta sociale di 33 euro al giorno, con una possibilità di aumento del 25% a determinate condizioni). Per diversi anni, tuttavia tale ripartizione non è stata concretamente garantita a livello territoriale tanto che la stessa Regione ha dovuto avviare nel 2008 un percorso di allineamento volto a garantire entro il primo gennaio 2013 ed in tutti i posti letto convenzionati gli standard previsti dalla normativa regionale. Stando al monitoraggio regionale (cfr. Ragaini, 2013) nel 2012 circa il 25% dei ricoverati sosteneva ancora una retta ben superiore a quanto stabilito dalla Regione (in molti casi con quote superiori ai 50 euro giornalieri). Il processo di scarico di oneri sanitari emerge anche dall’analisi di diverse sentenze che, a vario titolo, hanno affrontato questo tema. Per esempio nella sentenza n. 1584/2010 del TAR di Milano emerge come il trasferimento di oneri sanitari riguardi non solo il mancato rispetto delle quote di 3 Solo per ragioni di spazio non trattiamo ulteriori modalità attraverso cui si sostanzia il processo di scarico, come per esempio il ricorso alle strutture socio-sanitarie territoriali per il ricovero di anziani in condizioni di instabilità clinica che dovrebbero essere, invece, ricoverati - in maniera più appropriata - nell’ambito del sistema ospedaliero post-acuzie (cfr. Brizioli e Masera, 2011: 125). A ciò si aggiunge, inoltre, sul versante dei rapporti fra Comuni e famiglie la questione del coinvolgimento illegittimo dei parenti nella compartecipazione al costo di servizi socio-sanitari (cfr. Arlotti, 2012), una materia su cui è montato un contenzioso abnorme anche con elementi, talvolta, contraddittori a livello sentenziale e su cui, politicamente, è in procinto d’intervenire la riforma dell’ISEE, in corso di esame parlamentare (al momento in cui scriviamo: agosto 2013). 9 ripartizione nei casi di suddivisione dei costi sanità-sociale, ma anche i casi che, stante la particolare condizione di gravità ed intensità assistenziale, dovrebbero risultare interamente a carico del Servizio sanitario nazionale (cfr. tab. 1 e 2 supra: le cosiddette prestazioni “ad elevata integrazione socio-sanitaria). Nello specifico la sentenza del TAR ha affrontato il caso di un’anziana ricoverata in una RSA, affetta da patologia degenerativa in stato di come vigile, e necessitante di prestazioni di natura prevalentemente sanitaria, ovvero: “[…]l’adeguata nutrizione ed idratazione, monitoraggio dei parametri vitali e degli indicatori ematici, terapie finalizzate a mantenere un complesso emodinamico ed ad assicurare la funzionalità respiratoria di PEG e del catetere vescicale, la prevenzione e le medicazioni delle piaghe da decubito, gli interventi di mobilitazione passiva, cambiamenti di postura ed igiene […]”. A seguito del ricorso dei familiari dell’anziana, che si erano accollati integralmente i costi di ricovero in Rsa, il TAR ha riconosciuto, invece, l’intera copertura dei costi a carico dell’ASL stante il fatto che:“[…]ai sensi dell’art. 3 septies del D.Lgs 504/92, dell’art. 3 comma 3 del dpcm 14/02/2001 e dell’art.30 del dpcm 20/11/2001 le prestazioni di cui necessitava la Sig.ra [...] debbano essere inquadrate fra quelle socio sanitarie ad elevata integrazione sanitaria di cui deve farsi integralmente carico il SSN […]” Sulla stessa linea, una sentenza significativa è stata inoltre quella della Cassazione (n. 4558/2012) che ha stabilito il carattere prevalentemente sanitario delle prestazioni residenziali ricevute da una persona affetta da morbo di Alzheimer, da cui discende l’intero accollo della retta a carico del Servizio sanitario nazionale. Nel caso specifico la vicenda parte dalla richiesta avanzata dai parenti di una persona ricoverata in Rsa e malata di Alzheimer per la restituzione delle somme fino ad allora versate al Comune per il ricovero dell’anziana. In primo grado il giudice ha riconosciuto la posizione del Comune, e dunque la legittimità delle somme versate dai familiari mentre, in secondo grado, è stata riconosciuta, invece, la richiesta dei parenti stante: “la natura di carattere sanitario delle prestazioni eseguite nei confronti dell’anziana, gravemente affetta dal morbo di Alzheimer e sottoposta a terapie continuative, a fronte delle quali le prestazioni di natura non sanitaria assumevano un carattere marginale e accessorio”. Secondo il giudizio della Corte di Cassazione che ha confermato la decisione della Corte d’Appello: “appare quindi evidente che, ove sussista quella stretta correlazione, […] fra prestazioni sanitarie e assistenziali, tale da determinare la totale competenza del servizio sanitario nazionale, non vi sia luogo per una determinazione di quote, nel senso invocato dal Comune ricorrente […] che presuppongono una scindibilità delle prestazioni, non ricorrente in ipotesi, come quella in esame, di stretta correlazione con netta prevalenza degli aspetti di natura sanitaria”. 5. Il diritto alla cura senza limiti: il caso delle opposizioni alle dimissioni e la garanzia della continuità di cura L’esistenza di un diritto alla cura senza limiti può essere, inoltre, messo in evidenza analizzando in termini processuali il cosiddetto fenomeno delle opposizioni alle dimissioni ospedaliere (cfr. Santanera, 2010). Considerando le particolari condizioni di gravità e malattia che colpiscono le persone anziane non autosufficienti (cfr. supra), la fase del ricovero ospedaliero e quella successiva della dimissione rappresentano, infatti, dei passaggi centrali nella determinazione dei processi di privatizzazione e scarico della cura. Infatti, le dimissioni avvengono, nella gran parte dei casi, con una forma di scarico diretto sulle famiglie, senza alcuna forma di supporto e di attivazione di servizi, senza alcuna forma di garanzia della continuità assistenziale (per esempio, qualora il rientro a domicilio sia impossibile e risulta necessario il ricovero in strutture residenziali). Si parla, non a caso, di vere e proprie “dimissioni ospedaliere selvagge” (Fargion, 2013: 46). Talvolta, gli stessi anziani che vengono dimessi presentano addirittura delle situazioni cliniche non stabilizzate a fronte dell’assenza di un adeguato sistema di degenza “post-acuta”. Insomma, le 10 famiglie si trovano a fronteggiare queste situazioni nella più totale emergenza e drammaticità ed, in molti casi, la soluzione diventa quella della badante, oppure del ricovero nella prima struttura residenziale disponibile (quando si trova, e come si trova). Il ricorso a queste soluzioni non è, tuttavia, “a somma zero” e così da un lato l’anziano cronico non autosufficiente si trova a non essere assistito e curato come dovrebbe, mentre dall’altro lato le famiglie si trovano a sostenere dei carichi notevoli (con pesanti ricadute anche psicologiche e sociali) nonchè costi economici che possono addirittura divenire causa d’impoverimento (cfr. Doglia e Spandonaro, 2008). In questo quadro può essere ripreso direttamente il racconto di un familiare che ha agito in prima persona, attraverso l’opposizione alle dimissioni, per garantire la continuità di cura alla madre anziana cronica non autosufficiente. Il fatto è quello raccontato da Antonio Ronga (Ronga, 2002)4. A seguito di un evento acuto (la rottura del bacino) la madre anziana, che fino ad allora non presentava particolari problemi di salute e che riusciva proprio per questo a gestirsi in larga parte in maniera autonoma, viene ricoverata in una struttura ospedaliera. Nella stessa giornata del ricovero, nonostante le proteste della famiglia, viene direttamente dimessa con una prognosi di trenta giorni e di assoluto riposo a letto. L’assistenza dell’anziana ricade interamente sulle spalle di Antonio e della sua famiglia, non essendoci altri parenti in grado di fornire supporto. Inoltre “ […] L’assistenza esterna fu praticamente irrilevante: l’Asl mise a disposizione del personale infermieristico, ma solo per un paio d’ore e per due o tre giorni alla settimana. Per la pulizia e l’igiene di mia madre consigliarono di rivolgerci al servizio assistenza del Comune. […] Mia madre si è dimostrata una paziente difficile da gestire: era capricciosa ed irrequieta, si alzava continuamente nonostante i forti dolori che accusava, voleva andare in bagno, fare la spesa, cucinare, ecc. […]” A seguito di ulteriore aggravamento, la madre viene nuovamente ricoverata in ospedale, dove rimane per un certo periodo terminato il quale Antonio e la moglie decidono di accettare le dimissioni in attesa di un ricovero in una struttura residenziale: “[…] le pressioni da parte dei medici erano ormai quotidiane; l’ospitammo a casa nostra in attesa di inserirla in una struttura per lungodegenti. In precedenza avevamo compilato, con l’assistente sociale dell’ospedale, una serie di richieste di ricovero in queste strutture; al momento delle dimissioni la stessa assistente sociale ci fornì una lista delle strutture che avevano accettato la domanda e assicurò che nell’arco di dieci/quindici giorni la mamma sarebbe stata ricoverata […]”. Tuttavia ben presto Antonio capisce che i tempi non saranno quelli attesi. Per cui si trova ad affrontare nuovamente la gestione di una persona con un quadro psichico peraltro ormai deteriorato. Nonostante la buona volontà della famiglia, nel corso di una notte la madre di Antonio cade nuovamente, provocandosi una profonda ferita in testa. Si ricorre al pronto soccorso e nel tardo pomeriggio della giornata successiva: “[…] il medico ci rassicurò sulle condizioni della mamma: non vi erano lesioni craniche interne, ma la caduta aveva provocato una frattura all’acetabolo sinistro e, visto che – a suo avviso – non vi erano presupposti per un ricovero, disponeva per le dimissioni […]”. 4 Di seguito verranno utilizzati vari passaggi di questo racconto. Sempre sul sito della rivista “Prospettive Assistenziali” (http://www.fondazionepromozionesociale.it/), è inoltre possibile consultare diversi racconti ed esperienze analoghe (cfr. n. 140/2002; 142/2003; n. 164/2008) di opposizione alle dimissioni ospedaliere attraverso le quali è ribadita l’esistenza del diritto alla continuità di cura nei confronti di anziani malati cronici non autosufficienti. 11 Provato dall’esperienza precedente e dall’incapacità di gestire in maniera adeguata i bisogni della madre, Antonio e la propria famiglia decidono di opporsi alle dimissioni nonostante le pressioni del personale sanitario: “[…] fummo oggetti di minacce da parte del sanitario di ricorrere alla Polizia e sporgere denuncia di abbandono se non portavamo a casa nostra mia madre. Noi fummo irremovibili. […]” Con l’aiuto e il supporto del comitato di difesa dei diritti degli assistiti (CSA), vengono inviate al direttore generale dell’Asl e al direttore sanitario due lettere raccomandate con ricevuta di ritorno5, dove viene confermata l’opposizione alle dimissioni. Nonostante l’assenza di risposta, la madre: “[…] restò ricoverata al pronto soccorso per un paio di giorni, poi il lunedì successivo, mia moglie ed io siamo stati invitati a presentarci dal medico responsabile del pronto soccorso. Dopo lunghe e animate discussioni, si trovò un posto letto presso l’ospedale geriatrico “Luigi Einaudi”, gestito dalla stessa Asl 4, dove la mamma fu trasferita in serata e finalmente sistemata in un letto adatto alle sue condizioni. […] Mia madre restò ricoverata in geriatria per circa un mese; successivamente verso metà marzo con il nostro consenso, fu trasferita nella clinica per lungodegenti “Villa Grazia” di San Carlo Canavese, dove lentamente si riprese. Le fratture erano guarite e iniziò con l’aiuto della fisioterapista a camminare. Purtroppo le condizioni mentali non erano migliorate, per cui continuava a compiere stranezze e a fare discorsi senza senso. […]” Nel corso dei ricoveri ospedalieri la madre di Antonio registra un lento miglioramento della propria condizione (“al netto” della situazione ormai compromessa dal punto di vista psichico). Viene inoltre sottoposta ad una valutazione geriatrica che la riconosce idonea all’inserimento in Rsa. Nei mesi successivi: “[…] con invio da parte nostra al direttore sanitario di “Villa Grazia” che voleva dimetterla, di una lettera raccomandata uguale a quella spedita all’ospedale Bosco, la mamma fu trasferita per accertamenti presso l’ospedale di provenienza. Nel mese di ottobre 2000, a causa della chiusura dell’ospedale Einaudi, struttura dichiarata obsoleta, mia madre veniva trasferita all’ospedale Giovanni Bosco, anch’esso gestito direttamente dall’Asl 4, dove rimaneva ricoverata sino al 10 ottobre 2001, quando, su proposta della stessa Asl 4, fu inserita nella Rsa di nuova costruzione dell’Asl 2 situata in via Gradisca 10, Torino. […]” A seguito di questo percorso la madre di Antonio viene ricoverata in una struttura residenziale territoriale. La situazione psichica è compromessa, tuttavia è riuscita a mantenere un grado seppur minimo di autonomia, alimentandosi da sola e camminando (seppur in modo precario). In tutto il periodo di ricovero Antonio e la sua famiglia non hanno più ricevuto pressioni per accettare le dimissioni della madre. Il racconto di Antonio si conclude con una riflessione in cui si domanda: “[…] come sarebbe la mamma se le cose fossero andate per il verso giusto, e cioè se fosse stata subito ricoverata, risparmiandole tutti quei traumi che essa accusò in quei continui sballottamenti e se, assieme a cure e assistenza, le fosse stato fornito un adeguato supporto psichiatrico e psicologico. […]” 5 Il modulo della lettera di opposizione alle dimissioni dagli ospedali e dalle case di cura private convenzionate per la richiesta della continuità di cura è scaricabile sul sito della Fondazione Promozione Sociale, sezione: “ Opposizione alle dimissioni di anziani cronici non autosufficienti (http://www.fondazionepromozionesociale.it/) 12 6. Considerazioni sui fattori che sostengono i processi di negazione dei diritti e di familizzazione della cura In questo paragrafo cercheremo di mettere in luce alcuni fattori che sembrano sottostare all’emergenza del fenomeno oggetto di questo paper, ovvero la familizzazione e privatizzazione della cura in quanto processo di “retrenchment” e di negazione di diritti. In termini analitici, riprendendo lo schema di Ferrera (2010) faremo un duplice riferimento sia a fattori che riguardano il lato della domanda sociale sia a quelli che riguardano gli assetti organizzativi ed istituzionali. Da un punto di vista sociologico (cfr. Paci, 2013), l’attenzione volgerà inoltre al rapporto fra azione e contesto all’interno del quale l’azione stessa, dotata di senso, prende luogo. A partire da questi presupposti la trattazione seguirà un approfondimento lungo tre dimensioni, fra loro mutualmente complementari, ovvero la dimensione “macro-istituzionale”, “meso-organizzativa” e quella “micro” (cfr. graf. 1). Graf. 1 – I processi di negazione di diritti e di scarico sulle famiglie: fattori che influiscono su vari livelli (macro-meso-micro) Contenimento spesa sanitaria Macro - istituzionale Allocazione risorse ass. ospedaliera vs territoriale Difficoltà integrazione sanità-sociale Negazione diritti e scarico su famiglie Meso – organizzativo Sistema DRG Cura come fatto privato Mancanza informazioni Micro- interazione attori Gerarchia rapporti e sudditanza anziano/famiglia – primari/operatori -sociale 6.1. La dimensione macro-istituzionale Con tale dimensione ci si riferisce al contesto istituzionale all’interno del quale l’azione degli attori prende luogo. Una questione cruciale è quella che riguarda le risorse disponibili. Come noto la spesa sanitaria italiana (pubblica pro-capite) è più contenuta rispetto ad altri paesi europei del Centro e Nord-Europa (cfr. Pavolini et alt., 2012). In aggiunta, nel corso degli ultimi anni, ed in particolare nel periodo più recente, il dibattito ha riguardato principalmente il tema della sostenibilità finanziaria e quello corrispettivo del contenimento della spesa (cfr. ibidem). Non è un caso che per il triennio 2012-2014 i documenti di programmazione economica hanno previsto tagli alla sanità per 27 miliardi (cfr. Dirindin, 2012). La mancanza di finanziamenti adeguati ha ovvie conseguenze in termini di garanzia delle prestazioni previste dai LEA. Da ciò ne discende, non a caso, l’adozione del sistema delle liste d’attesa nell’accesso alle prestazioni e dunque la negazione di diritti soggetti esigibili. A fini esemplificativi, riportiamo di seguito il passaggio di una relazione 13 delle organizzazioni sindacali dei pensionati (SPI-FNP-UILPN Provincia di Torino, 2011), proprio sul tema dei forti vincoli all’accesso per le cure socio-sanitarie domiciliari e residenziali, a fronte dei tagli alla spesa, in un caso specifico provinciale (quello di Torino): “i tagli lineari del 5% imposti dalla regione alle Asl, già nel 2010 e che continuano anche nel 2011 e per gli anni futuri, hanno avuto una immediata ricaduta sui servizi e gli interventi per la non autosufficienza, bloccando o rallentando moltissimo l’inserimento in RSA e RAF e gli assegni di cura per la domiciliarità. […] Nel 2010 avevamo ipotizzato 10.000 anziani malati cronici non autosufficienti in lista d’attesa dopo le valutazioni delle UVG ma, secondo dati delle Asl e dei Consorzi tale lista nella Provincia di Torino, a fine 2010, superava il numero di 15.000. Per il 2011, viste le politiche regionali e quelle nazionali, avremo ulteriori gravi peggioramenti” Al problema delle risorse destinate, su un piano generale al settore sanitario - e considerazioni analoghe, tuttavia, possono essere fatte anche per quanto riguarda l’andamento delle risorse di parte sociale (cfr. Arlotti, 2012b) - si aggiunge inoltre una seconda questione, in questo caso tutta “interna” al sistema sanitario. Ci riferiamo ai rapporti fra componente “ospedaliera” e “territoriale” dell’assistenza. Di fatto, uno dei temi forti che ha riguardato il dibattito più recente sulla riorganizzazione della sanità, è stato proprio quello sui processi di de-ospedalizzazione (cfr. Fargion, 2013), da attuarsi attraverso un re-distribuzione delle risorse dalla componente ospedaliera a favore dello sviluppo della rete dei servizi territoriali (inclusi i servizi socio-sanitari per i non autosufficienti), in un’ottica di riduzione dei ricoveri impropri ospedalieri e di maggiore efficacia ed efficienza nell’impiego delle risorse. Contrariamente a questo indirizzo i dati più recenti (20002010) mostrano, tuttavia, come l’auspicato spostamento di risorse dall’ospedale al territorio ha assunto proporzioni modeste tanto che si può dire, riprendendo Gori e Pelliccia (2012): “che la fisionomia del modello di spesa non è molto cambiata”. 6.2. La dimensione meso-organizzativa A livello intermedio, organizzativo, fra i fattori che influenzano i processi di scarico e privatizzazione della cura vanno messi in evidenza due aspetti, fra loro legati. Il primo di questi riguarda le difficoltà di integrazione fra settore sanitario e sociale. Due settori che ricadono sotto responsabilità istituzionali differenti (Asl e Comuni), ma la cui integrazione e coordinamento assume un ruolo cruciale dal punto di vista della garanzia della continuità assistenziale attraverso percorsi integrati. Può essere interessante, a questo proposito, riportare un breve passaggio di un’intervista condotta con un ex assessore regionale alla sanità del Piemonte, che spiega delle difficoltà incontrate nell’attuazione di provvedimenti regionali sui servizi socio-sanitari, anche alla luce delle difficoltà e delle resistenze all’integrazione fra Asl e Comuni: “… è molto difficile fare metabolizzare questo tipo di procedimenti [nota: processi di ospedalizzazione domiciliare, assistenza domiciliare] nel sistema sanitario in quanto tale … posso dirle questo … questi sono percorsi di cura che o sono fortemente tutelati anche sul piano politico … fortemente presidiati dalla volontà politica o si smarriscono con una velocità impressionante! […] Io per far applicare le cure domiciliari in lungo assistenza, per un anno ho riunito tutti i direttori generali una volta al mese … perché c’era sempre una buona ragione, per la quale non si potessero avviare le cure domiciliari in lungo assistenza! … del tipo: “.. ma poi non dobbiamo essere noi, ma il comune … ma stiamo aspettando la pratica del servizio sociale … e poi ma il medico di medicina generale non mi ha fatto la visita domiciliare …” … cioè è una di quelle questioni che richiede il lavoro in equipe e già questa …! È una delle innovazioni più potenti che nelle pubbliche amministrazioni si possono immaginare … richiede un rapporto interistituzionale: comune e Asl … mentre l’idea della autosufficienza degli enti è un’idea dominante! …” 14 Le difficoltà d’integrazione riguardano non solo i rapporti fra sanità e sociale, ma anche l’integrazione stessa all’interno della sanità, ovvero fra componente ospedaliera e quella territoriale, come mette in evidenza questo passaggio di un’intervista con il direttore di un distretto sanitario delle Marche relativamente al fenomeno delle dimissioni ospedaliere non programmate: “… In effetti è poi questo il problema che c’è , l’ospedale ha una visione … non in tutti i reparti, però fondamentalmente ha una visione ospedalocentrica … che significa, cioè il paziente quando entra in ospedale deve fare una diagnosi, una prognosi ed una terapia, questo è il modus operandi dell’ospedale … poi però che a questa diagnosi, prognosi, terapia … a questo stato di malattia poi può seguire un bisogno assistenziale, all’ospedale è un po’ difficile, perché loro ragionano molto … tipo turnover, posti letto … e quindi cosa succede? Ecco .. per esempio una delle cose che ci mettono sempre molto in crisi sono le dimissioni non programmate, quindi la dimissione il sabato; la dimissione … senza che siano state messe in atto tutte quelle procedure di assistenza che è vero che competono a noi, però hanno bisogno di tempo per essere attuate … ed è su questo … questa è sempre stata la criticità di tutti i protocolli, perché a voglia fare i protocolli, però dopo la routine, la quotidianità comunque ti porta ad avere dei determinati atteggiamenti per cui il medico ti dice che questo lo mandiamo via; la caposala … gestisce la cosa per conto suo … e quindi ti chiamano e dicono che questo esce, anzi no … non ti chiamano: vengono i familiari e dicono: me lo dimettono e non so dove metterlo! …” La tendenza degli ospedali ad espellere in breve tempo dal circuito delle cure ospedaliere i ricoveri di anziani non autosufficienti trova spiegazione in un secondo aspetto che, da un punto di vista meso-organizzativo, incide in maniera significativa sui processi di scarico e di privatizzazione della cura. Si tratta del sistema a pagamento delle prestazioni sanitarie, i cosiddetti Drg. Come evidenziato dalla letteratura (cfr. Rossi, 1997) tale sistema porta in particolare alla riduzione dei tempi di degenza che se da un lato può risultare un aspetto positivo, qualora in questo modo vengono evitati ricoveri inutilmente prolungati e dannosi per il paziente, dall’altro lato può essere anche negativo, in particolare nei casi di dimissioni anticipata di soggetti ancora in condizioni di instabilità clinica. Peraltro gli obiettivi stringenti che in molti casi i direttori generali delle Asl impongono ai primari in termini di risparmio sui giorni di degenza, turn-over ecc … hanno pesanti conseguenze anche dal punto di vista della determinazione delle condizioni stesse di non autosufficienza. Come, infatti, riportato nel libro inchiesta di Gramiccia (2013: 214-216): “la maggior parte dei casi di cronicizzazione si determina a causa di una cattiva gestione della fase acuta delle malattie, che avviene proprio in ospedale. […] quando un paziente, ricoverato in ospedale, supera la fase acuta della malattia, spesso si trova in condizioni funzionali e di autonomia più compromesse rispetto a come ci è arrivato. Anche perché magari è stato otto o dieci giorni a letto, immobile, con il catetere, sotto sedativi, ed è dunque peggiorato dal punto di vista della sua autonomia. Ma i primari terrorizzati dal direttore generale che li spinge a risparmiare sui giorni di degenza e dai Drg, non la prolungano di quei tre o quattro giorni che sarebbero necessari”. Sulla stessa linea riportiamo di seguito un breve passaggio di un’intervista con il direttore di un distretto sanitario delle Marche, in cui si nota: “l’ospedale fa dei disastri! Non avendo tempo da perdere … non pensando che il tempo da perdere, non è tempo da perdere, ma guadagno … se l’anziano lo mobilizzi in prima giornata non vai a creare quella dipendenza che poi ricade sul Ssn … cioè se io vado a dire al primario di medicina: ma com’è che tutti i pazienti escono con le piaghe? Ma tu quando gli visiti, li vedi questi pazienti o 15 no? … mi risponde che la piaga da decubito è un problema infermieristico … non è un problema medico! … loro nel giro di 10/12 giorni devono mandare il paziente a casa …” 6.3. La dimensione micro Nei precedenti passaggi abbiamo cercato di evidenziare gli elementi più di carattere istituzionaleorganizzativo che sembrano sostenere il processo di scarico e di mancata garanzia della continuità di cura. Riprendendo l’indicazione weberiana di ricostruzione del contesto di senso nel quale si sviluppa l’agire degli attori sociali (cfr. Paci, 2013), in questo passaggio cercheremo di elencare alcuni elementi che attengono, invece, più propriamente la dimensione “socio-culturale” degli attori e la loro interazione a livello micro. A tal proposito possono essere evidenziati due elementi. Il primo è quello che riguarda la persistenza di un certo orientamento, sia a livello delle prassi professionali sia a quello dell’agire delle famiglie, che fa della cura un fatto privato (Taccani, 1994: 249). Le famiglie fronteggiano i bisogni facendo leva esclusivamente sulle proprie risorse di solidarietà interna oppure, quando ciò diventa impossibile, facendo ricorso al mercato e all’assistenza privata a pagamento. Non è un caso che dalle interviste condotte con alcune famiglie di anziani non autosufficienti è spesso emersa la considerazione che si è fatto tutto da soli, che non si è chiesto nulla a nessuno, come ben esemplifica questo passaggio di un’intervista con un familiare: “… Guardi, io non ho mai chiesto niente, noi ce la siamo cavata sempre da soli … quindi io non è che ho chiesto … non è che sono andata a chiedere al comune l’assistente per la spesa, o a pulire casa, perché noi ci siamo pagati sempre la badante e dove non riusciva essa c’ero io …” A livello “micro”, questo orientamento è inoltre rinforzato nelle stesse prassi operative dei servizi dove, riprendendo Taccani (1994: 250-251), si ritiene che la cura informale abbia una sua giustificazione nella “naturalità” dei rapporti affettivi interni alla famiglia, come ben esemplifica anche in questo caso il passaggio di un intervista con una famiglia: “… ho avuto il servizio dal comune (Nota: l’assistenza domiciliare) … però avendo due figli … me l’hanno dato per tre mesi … è stato qualche anno fa, mio marito era già allettato … mi aiutavamo a lavarlo, pulivano la stanza … dopo ho chiesto altri tre mesi e l’assistente sociale mi ha detto: “guardi … glielo do va bè … però lei si deve fare aiutare dai figli …” Un terzo ed ultimo elemento che può concorrere a spiegare, a livello delle interazioni “micro”, l’accettazione da parte delle famiglie delle dimissioni ospedaliere selvagge, nella gran parte dei casi senza alcuna forma di resistenza attraverso il meccanismo delle opposizioni alle dimissioni, è quello che riguarda la mancanza d’informazioni e la gerarchia dei rapporti fra anziano e familiari da un lato e medici e operatori sanitari dall’altro. Infatti, nella gran parte dei casi, le famiglie non sono in alcun modo a conoscenza del fatto che spetta al Servizio sanitario nazionale la responsabilità delle cure senza limiti a tutela dei malati cronici (inclusi gli anziani non autosufficienti) e che l’accettazione delle dimissioni (Santanera, 2010: 1912): “significa sottrarre volontariamente il paziente alle competenze del Servizio sanitario nazionale e assumere tutte le relative responsabilità, comprese quelle penali, nonché gli oneri economici conseguenti alle cure che devono essere fornite”. A ciò si aggiunge la condizione di sudditanza che le stesse famiglie esperiscono in particolare nei confronti delle figure dei primari ospedalieri, come ben esemplificano a seguire i passaggi di due interviste condotte con un rappresentante delle associazioni di tutela e con un rappresentante sindacale: 16 “ … abbiamo visto che l’unica possibilità di difesa è stata la possibilità di difesa giuridica! … quindi o nel senso dell’opposizione alle dimissioni … oppure nei ricorsi alla magistratura … Le opposizioni alle dimissioni hanno praticamente funzionato sempre: però sono molto pochi quelli che le fanno … perché c’è molto timore dell’autorità … soprattutto nei confronti dei primari … oppure lo sanno dopo …” “… spesso si subisce … c’è chi è più attento .. ci chiama per essere … aiutato a come porsi … però è risaputo che c’è questa reverenzialità nei confronti dei medici … quello che dice il dottore è vangelo! Quindi noi subiamo … la maggior parte delle persone subisce! … c’è da dire che ci sono anche molti reparti ospedalieri che sono attenti a queste cose … e quindi non tutti sono così … grazie al cielo sono casi sporadici e spero che siano il meno possibile … il problema comunque esiste … insomma, bisognerebbe parlare di più di deontologia medica, di umanizzazione della sanità …” 7. Considerazioni conclusive Le varie risultanze empiriche di questo paper sostengono l’ipotesi di un processo di familizzazione e privatizzazione della cura nella tutela degli anziani non autosufficienti a partire da una negazione di diritti soggetti esigibili. L’ipotesi del “retrenchment”, piuttosto che quella della mancata “ricalibratura” pare, dunque, avere maggiore capacità analitica nel risalire ai fattori “genetici” che, in prima istanza, sembrano influire sui tratti problematici che caratterizzano la tutela degli anziani non autosufficienti nel nostro paese. Tali risultanze empiriche risultano, inoltre, utili per affrontare alcune questioni su un piano generale e prospettico. Riguardo il primo punto, la negazione dei diritti getta, infatti, in luce su come all’interno di un settore specifico della protezione sociale, ovvero le politiche universalistiche di tutela della salute, possono essere messi in atto processi di “retrenchment” nascosto pur in assenza di revisioni esplicite dell’assetto normativo-istituzionale. Come evidenziato da alcuni autori (Ascoli e Pavolini, 2012: 443), in questo settore (al pari dell’istruzione): “l’attenzione sembra concentrarsi non tanto sulla messa in dubbio dell’universalismo del sistema, quanto sui tagli o sul livello limitato di aumenti di spesa rispetto all’andamento dei bisogni. In queste politiche il rischio è che avvenga una forma crescente di privatizzazione strisciante e non dichiarata come tale”. Riprendendo Hacker (2004) si assisterebbe, dunque, ad una privatizzazione del rischio pur in assenza di privatizzazione del welfare, attraverso vari meccanismi come, nel nostro caso, le liste d’attesa oppure la mancata copertura degli oneri a carico del fondo sanitario. Passando su un piano prospettico, va premesso che all’interno del dibattito più recente sulle riforme nel campo delle politiche per la non autosufficienza, l’ipotesi ricorrente è quella che riguarda in particolare il sostegno allo sviluppo di forme assicurative private integrative, a partire anche da una “valorizzazione” dell’ingente spesa privata per la cura sostenuta dalle famiglie italiane (cfr. Ferrera e Maino, 2011; Mastrobuono, 2012). Come già evidenziato in altri studi (cfr. Gori e Pelliccia, 2012), la soluzione assicurativa mostra tuttavia diversi limiti ancor più in un settore come quello della non autosufficienza. Le risultanze del paper, delineano tuttavia un secondo limite che è quello che le assicurazioni private, anziché svolgere una funzione “integrativa”, svolgano una funzione “sostitutiva”, stanti le attuali responsabilità in capo al Servizio sanitario nazionale. Peraltro in un contesto in cui, come messo in luce dalla negazione dei diritti analizzata nei paragrafi precedenti, tali responsabilità sono oggetto di disinvestimento strutturale, la spinta allo sviluppo di un sistema assicurativo privato potrebbe preparare il terreno in prospettiva ad un restringimento delle stesse responsabilità 17 pubbliche. Riprendendo la letteratura sul cambiamento istituzionale (Streeck e Thelen, 2005: 22-24) si potrebbe avanzare l’ipotesi di una dinamica del tipo layering dove, attraverso un meccanismo di crescita differenziale, il sostegno allo sviluppo di un nuovo dispositivo di policy (ovvero le assicurazioni private) in un contesto in cui gli assetti di riferimento (ovvero le responsabilità del Servizio sanitario nazionale), per quanto non messi in discussione, vengono progressivamente disinvestiti, può far maturare le condizioni per una fuoriuscita di alcune componenti sociali (come i ceti medi e medio-alti) (cfr. Pavolini et. alt, 2012) che più verrebbero penalizzate dal mantenimento di un impianto universalistico non in grado, tuttavia, di coprire in misura adeguata questo tipo di bisogno. Riferimenti bibliografici Arlotti, M. (2012a) Le politiche per la non autosufficienza. Il caso italiano in prospettiva comparata, “Autonomie locali e servizi sociali”, n. 3, pp. 551-562 Arlotti, M. 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