kalonsicilia - Kalon GLBTE

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kalonsicilia - Kalon GLBTE
bimestrale - anno I - numero due - febbraio/ marzo 2017
TRA MITO E ATTUALITÀ
SICILIA
KALON
Omaggio alla divina Marilyn...
da “Umana, troppo umana” (aragno editore 2016)
L’INNOCENTE
Sei apparsa su uno schermo
in bianco e nero
in poche stagioni
divorata dalla giungla cinematografica
Esibisti il corpo
nella solare bellezza
della tua nuda estate
dentro abiti cuciti
come seconda pelle
di lamé e di raso
Innocente creatura
ebbra di luce
assetata d’amore
Adorabile
divina Marilyn
ci hai lasciati
come stella
implosa su se stessa
in una afosa notte d’agosto
Scese il silenzio
sulla tragica collina di Hollywood
sapevi troppo per lasciarti vivere
bramosia e potere di scellerati uomini
sepolcri imbiancati
Tenero primaverile volto
ora icona di diamanti
lontana da sozzi vermi
Riccardo Di Salvo
FRUTTO PARADISIACO
Sola nell’ultimo viaggio
di scintillanti paillettes vestita
nuda ti vedevano
i tuoi adoratori
negli inferi mediatici
precipitata
punita per il tuo
luciferino splendore
da uomini subdoli
che amarti
non vollero
più comodo per loro fu
usare il tuo corpo
come magnifica preda
la tua bocca bruciante spremere
frutto paradisiaco
sola poi ti lasciarono
sola nel frastuono
di voci velenose
imprigionata
nella scatola del successo
splendida farfalla
assetata di luce.
NEMBUTAL
Io so che qualcuno, di me,
un giorno avra memoria.
Saffo
Marilyn oh Marilyn – anzi, Norma Jeane
che bello darti del tu – come se fossi qui
oggi, ora, presenza vivissima in finezza
e dignità, con quel sorriso ballerino
in barba ai millantatori adoranti il tuo corpo
gonfio di ogni infelicità, ogni ebbrezza
che cosi bene sapesti (sai) figurare
primavera raggiante ma con scarso sole
nido in cui gli inetti fremettero
remoti al tuo grembo vivissimo e materno.
Natura degli innocenti e la non sopravvivenza
lo sai, nel festino di chi tace e osserva,
non accetta la somma indifferenza
ammantata di obbedienza al sistema
cancro che ti ha pervaso e poi finito.
Chi ti osserva oggi canticchia con te
la canzoncina – usignolo di tenera infanzia
al peso di un tempo sbagliato,
polline dorato – tu tradita al cieco ardore
come la Magnani o la Callas
Diana Spencer, o la mitica Virginia:
al rogo pulzelle per colpe inespiabili,
vizio di successo – peccato orrendo!
al mondo per gestire un sogno –
ma gli uomini non mutano né possono mutare.
Eri (sei) della razza di chi non strepita,
emarginati illusi d’estasi caine
inquietudine d’angelo ilare tra morti viventi
chissa come finisti la tua vita, col Nembutal
le pastiglie alate del sonno, come Sandro Penna?
Chi ti spense quella notte – tesa
la mano al telefono – ultima lacrima
prima del taglio osceno alle tue ali?
T’accorgesti che più buio del buio non può fare?
per quel residuo di mondano sfolgorio
un’infanzia perenne trasvolò
sul lastrico di stelle suicidali.
Fabrizio Cavallaro
Dolcissima Marilyn
ti mancò l’astuzia
di ritirarti dallo schermo
come la divina Garbo
preferisti continuare
a credere nel luccichio
di falsi amori
sola te ne andasti
come stella negli albori del mattino
Claudio Marchese
Photo e Make-up Artists by Angelo Chiacchio
Anna Di Salvo
Editoriale 2/3 - Dive e divi 4/5 - Arte 6/7 - Cinema 8
Moda e design 9 - Musica 10/11 - Teatro 12 - Eventi
culturali 13 - Viaggi 14/15 - Recensioni 16
direttore responsabile
Claudio Marchese
Lo scrittore Riccardo Di Salvo
Fondatore dell'Associazione Culturale
Siciliana Kalon e del magazine
bimestrale Kalon - Tra mito e attualità
Il mare di Trezza
S’ infrange
in bianche
schiume deliranti
anime
inquiete
in equilibrio
instabile
sbattute
da vento salmastro
Riccardo Di Salvo, da:
“MAREA” poesie del mare
edizione Kalon GLBTE
Catania dicembre 2014
[email protected]
www.riccardodisalvo.it
direttore artistico ed editing
Riccardo Di Salvo
correttore di bozze
Riccardo Di Salvo
Claudio Marchese
impaginazione
Lucia Amara
stampa
Tipografia A&G - CT
Hanno collaborato
a questo numero
Angelo Chiacchio
Antonio Agosta
Claudio Marchese
Davide Bruno
Fabio Casadei Turroni
Fabrizio Cavallaro
Giovanni Bonamonte
Mauro Lo Fermo
Riccardo Di Salvo
pubblicazione bimestrale
a cura della Kalon
Associazione Culturale
Siciliana GLBTE
Reg. N. 7582
serie 3 dell’11 giugno 2009
Delibera 1 del 9 ottobre 2016
Editrice Kalon
Associazione Culturale
Siciliana - GLBTE
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gratuitamente su territorio
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La trasgressione del Carnevale
di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese
Ph Photo e Make-up Artists by Angelo Chiacchio
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Ancora oggi in Occidente è la festa più sfrenata e licenziosa. Il
Carnevale ride dei divieti, confonde il
lecito con l’illecito, fa affiorare il desiderio represso dalla morale. È la liberazione del fondo oscuro che si
nasconde in noi, ma non può essere
cancellato. Riaffiora negli stati di ebbrezza vitale, quando siamo posseduti
da una gioia estrema, che ci fa dimenticare i nostri limiti. Allora ci sentiamo
trasportare da una nostra energia sovrumana. Godiamo del nostro piacere, diciamo sì alla vita. Come scrive
Nietzsche, tutto ciò che è profondo ama
la maschera. Essa è il nostro secondo volto, quello che dice i nostri sogni e non ha paura dei divieti. Proprio
la maschera è il linguaggio del Carnevale. La sua risata e la sua smorfia sono un travestimento, fanno
emergere l’altra faccia di noi stessi. Ecco perché il Carnevale si collega alla trasgressione. Le sue origini
risalgono alla festa religiosa dei Saturnali, in onore di Saturno, dio della seminagione. Questa festa era
accompagnata da manifestazioni di licenza sessuale che, per analogia, si estendeva a tutta la sfera della
natura. Si pensava che avrebbe stimolato la fecondità del terreno. La carne, dunque, si prende una rivincita
dalle censure imposte dalla povertà e dalla morale che pone freni e invita alla rinuncia. Nel Carnevale si
sfoga il nostro essere animalesco che prende corpo nella maschera. Travestimento vuol dire trasgredire le
regole e accettare che un’altra identità possa convivere con noi. A Carnevale ogni scherzo vale, dice un
antico proverbio contadino. È proprio nell’ambito del mondo rurale che questa festa segna i giorni gioiosi
in cui ci si abbandona ai due piaceri consentiti a tutti. Il cibo e il sesso. Prima che la Quaresima torni a
mortificare la gioia di vivere, i poveri possono godere come i ricchi, senza freni. Di qui la follia del Carnevale in cui tutto è permesso.
Con la Rivoluzione industriale questa festa, diventa spettacolo, esibizione di ricchezza per uno sguardo attirato dall’immagine. La festa contadina, dice Pasolini, è religiosa, mentre quella borghese è consumistica.
Attraverso il Carnevale possiamo leggere il passaggio dal mondo contadino, che ha segnato per secoli l’Occidente, al mondo globalizzato di oggi. La festa-spettacolo dei moderni veglioni non rinuncia al cibo e al
sesso, ma è consumo di massa. L’ipermarket prende il posto della religione.
ORGE DIVINE “Migliaia di anni fa - scrivono Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese in San Berillo e
altre tentazioni, ed. Croce 2010 - la
prostituzione era sacra. Gli dei godevano di straordinari attributi sessuali. Per noi è mitologia ma per gli
antichi greci il re dell’Olimpo era
l’equivalente di un libertino come
Casanova, possiamo dire un Casanova prolifico che riempì il cielo e
la terra di figli insidiando ninfe, dee
e donne.” Le origini della festa trasgressiva per eccellenza sono radi-
cate nelle performances che si collocano nel contesto del sacro, prima che la liturgia cristiana separi questo
aspetto della religione dal profano. Il mondo borghese dell’economia il cui valore è il profitto. Questi riti,
in cui la festa coincideva con l’eccesso sessuale, nel mondo greco - romano erano vere e proprie orge. Orge
divine in onore di Dioniso, a base di vino e di eros sfrenato. Quando questo dio diventa Bacco, lo Stato romano interviene e reprime tutto ciò che attenta all’ordine pubblico. L’orgia viene letta come fonte di confusione sociale, perché genera uno stato di trance collettiva. Abolisce i divieti posti tra i sessi e tra le classi.
Proprio come recita il copione dell’antico Carnevale.
Il riscatto della carne Quando i cristiani escono dalle catacombe e si inseriscono nell’amministrazione pubblica dell’Impero romano, le orge divine subiscono una serie di divieti. Le condanne espresse dai Padri della
Chiesa diventano un’ omelia che accompagna la trasformazione del Cristianesimo sul tessuto dei riti del
mondo pagano. Ciò che nella trance dionisiaca metteva in contatto con il dio era naturale. Alla base di tutto
c’era la forza scatenante del sesso. Liberava le donne e gli schiavi dal loro ruolo subordinato. Era una sovranità conquistata per mezzo della festa liberatoria. Con la presa del potere delle classi subalterne, il Cristianesimo entra di diritto nelle strutture dello Stato. Comincia l’interdizione dei culti dionisiaci. Il dio greco
dell’ebbrezza sessuale e alcolica, già condannato dall’Impero romano per i suoi eccessi, si nasconde dietro
una maschera che diventa l’opposto di Dio. Possiamo dire che coincide con il suo doppio. È la sua faccia
animalesca. La Chiesa lo demonizza e lo chiama Satana. Nello spazio adibito alla liturgia, si inserisce una
divinità notturna che interpreta i desideri osceni. Il diavolo è la faccia anale di Dio. Ciò che nell’orgia dionisiaca danzava senza sensi di colpa, nel sabba cristiano diventa una danza macabra. Le streghe adorano il
diavolo. Perciò vengono condannate al rogo. Proprio il sabba è l’origine dei riti trasgressivi che dal mondo
pagano si sviluppano dentro la cultura folklorica del Basso Medioevo. Bachtin, studioso della civiltà medioevale e rinascimentale, legge in questo contesto l’origine della licenza carnevalesca. Carnevale, la festa
che riscatta la carne dalla punizione dei divieti e le restituisce il diritto di godere senza freni. L’eccesso godereccio sia sessuale che gastronomico non è più privilegio dei ricchi ma diventa un diritto, nei giorni consentiti dalla festa, per le classi subalterne. Il Carnevale in Sicilia ha origine nella “danza degli schiavi”. Un
rito di ascendenza dionisiaca nel quale i partecipanti esibivano la maschera dello schiavo, ballando per le
strade al suono di tamburi e intrattenendo il popolo. Gli eventi istituzionali risalgano intorno al 1600, quando
i festeggiamenti carnevaleschi andavano dalla fine della liturgia natalizia alla Quaresima. Ma il terremoto
del 1693 modificò questo calendario e i giorni del Carnevale ora si sono ridotti alla settimana che anticipa
l’inizio della contrizione quaresimale. Nessun siciliano doc nel giorno del giovedì e martedì grasso rinuncia
a un piatto di maccarruni ‘i casa con lo stufato. Un segno di appartenenza a quella cultura folklorica che il
mondo industriale non ha cancellato.
Le specialità siciliane dello chef Davide
al BALLON - Piazza di Pietro Lupo, 2 - Catania
Carnevale tra sasizza e maccarruni ‘i casa
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DIVE E DIVI
Anna Magnani: signora del cinema italiano
4
Secondo noi, ma è ormai unanime consenso, Anna Magnani
è la più grande attrice del cinema italiano. “Lupa e vestale”,
come la definì Fellini a cui l’attrice rivolge un sorriso beffardo
nel finale del film “Roma”.
Anticonformista come donna,
rigorosissima come artista, per
tutta la vita tentò e riuscì a difendere il ruolo di primattrice,
pur facendo parte dello star –
system che spesso confeziona
abiti preconfezionati per le dive.
Ma Anna Magnani, prima di diventare una diva, fece una lunga
gavetta nel teatro d’avanspettacolo dove diede subito prova
della sua eccezionale presenza
scenica. Proprio nel personaggio della soubrette dell’avanspettacolo, Anna Magnani diede
una prima convincente interpretazione nel film di Vittorio De
Sica “Teresa Venerdì”. Era il
1941 e il cinema italiano era ancora succube del genere “cinema dei telefoni bianchi”,
inventato dal regime fascista.
Bastarono pochi anni perché
di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese
Anna Magnani passasse dal
ruolo dell’artista d’avanspettacolo a quello della primattrice.
Il suo capolavoro giovanile nel
1945 è “Roma città aperta”, in
cui la Magnani inventa il personaggio della popolana tutta
cuore e passione, creando sul set
cinematografico scene degne
della tragedia greca. Memorabile ancora oggi, la scena in cui
la Magnani interpreta la parte di
Pina, l’ardente popolana che si
ribella alla cattura del suo uomo
e finisce fucilata dai tedeschi.
Questa scena rimane ancora
oggi una delle tappe miliari del
cinema italiano, perché “Roma
città aperta” non è solo un film
di denuncia dell’Italia umiliata
dalla violenza nazifascista ma è
un vero e proprio romanzo storico per immagini. Uno dei vertici del cinema di Rossellini,
destinato ad aprire una lunga
strada su cui hanno viaggiato
tutti i maestri del cinema italiano dopo di lui, dal giovani Visconti a Pasolini e Fellini.
Anna Magnani fu spesso letta in
modo riduttivo come rappresentante di un divismo all’italiana, complice la sua
straordinaria aderenza con i
personaggi del mondo popolare. Questo è dovuto alla miopia di molti critici che leggono
il film in modo ideologico. In
realtà pochissime attrici hanno
saputo interpretare personaggi
sfaccettati, come dimostra la
ricca filmografia che comprende, oltre al personaggio
della popolana, tanti altri ruoli.
Memorabile non è soltanto la
Magnani di “Roma città aperta”
ma anche quella del film americano per cui meritò l’Oscar,
“La rosa tatuata”, come migliore attrice protagonista. Nel
film la Magnani recita in inglese e si doppia in un italiano
non romanesco. Il film liberamente ispirato al dramma teatrale “ The rose tattoo” di
Tennessee Williams narra la
storia di Serafina, una vedova
di origini siciliane, custode fedele del simulacro del marito
che per lei rappresentava l’idea
stessa della virilità, chiusa nel
ricordo ossessivo del tatuaggio
di una rosa che il coniuge esibiva sul petto. Serafina rifiuta
l’approccio a qualsiasi altro
pretendente. È come se fosse
tutto finito, finché un giorno riscopre la propria femminilità
repressa e ritrova il piacere di
abbandonarsi a un altro uomo
che le ricorda l’immagine dell’indissolubile consorte. La
Magnani in questo film rivoluziona lo stile realista che l’ha
accompagnata dagli esordi fino al
film “Bellissima” di Visconti
(1951). La sua recitazione, allontanandosi dagli stereotipi del
neorealismo italiano, si approfondisce nello sdoppiamento del
personaggio che appare quasi in
una dimensione pirandelliana:
solare e sensuale da una parte,
profonda e tellurica dall’altra, sospesa ai limiti della follia. Possiamo dire che l’ultima
affermazione della popolana autentica e ribelle alle ingiustizie è
il personaggio di Maddalena, la
“mater dolorosa” che affronta la
propria personale via crucis, lottando contro il mondo cinico e
beffardo dei “cinematografari”.
La scena in cui Maddalena esce
piangendo disperata da Cinecittà,
dopo l’ultimo provino a cui viene
sottoposta la figlia, è di una tragicità insuperabile. Ma con questo film si chiude anche il ciclo
neorealista del cinema di Visconti e la Magnani recita superbamente il prototipo della madre
– coraggio che dieci anni dopo
circa sarà cavallo di battaglia
della giovane Sophia Loren nella
“Ciociara” di De Sica. Nel ruolo
dell’eterna madre – coraggio
Anna Magnani ritorna nel 1962,
con la regia di Pier Paolo Pasolini. La grande attrice cambia di
nuovo registro espressivo, dopo
aver rifiutato molte allettanti proposte da registi commerciali che
lei definì con disprezzo “maialate”. Il soggetto del film è
“Mamma Roma”, secondo lungometraggio di Pasolini, inserito
dalla critica nel ciclo del “sottoproletariato” con “Accattone” e
la “Ricotta”. Anna Magnani sfodera come un pugnale la dolcezza
e la violenza di una madre, co-
stretta a prostituirsi per sopravvivere che riesce dopo tante umiliazioni a cambiare mestiere e a
riscattare il figlio Ettore dalla primitiva condizione di borgataro. Il
film, scarsamente commerciale,
nel panorama degli anni Sessanta, viene riabilitato dopo la
morte dell’autore. In uno scenario metropolitano di periferia,
disseminato di resti archeologici
e pieno di rimandi alla tradizione
pittorica prerinascimentale, il
personaggio di Mamma Roma
perde le connotazione neorealistiche e si avventura nei territori
del simbolo. La Magnani è giunta
ai vertici della sua maturità
espressiva. Senza aver smarrito il
suo robusto spessore popolaresco, nel film di Pasolini appare
come una maschera del dolore.
Non dimentichiamo comunque
che, anche nella pellicola di Pasolini, rimane fedele al proprio
mito di donna – lupa e di Madonna del popolo.
Un po’ triste il tentativo compiuto da alcune sue colleghe, ultima in ordine di tempo Sabrina
Ferilli, di ripetere il personaggio
della popolana tutta «cuore e ardore». Non basta la volontà di
studiare un modello di recitazione, come sostiene l’attrice romana, né sottoporsi a interventi
di migliorie estetiche. Quelle che
lei considera le sue maestre, vale
a dire Anna Magnani e Sophia
Loren, sono dotate di un innato
talento per la recitazione che altre
non possono avere.
Anna Magnani appartiene idealmente alla Sicilia non solo per il
personaggio di Serafina, protagonista della “Rosa Tatuata”, ma
anche per aver girato un film nell’isola di Vulcano, dell’arcipe-
lago delle Eolie. La biografia dell’attrice si intreccia con quella di una diva
americana, Ingrid Bergman, che divenne sua rivale in amore.
Profondamente offesa per
il tradimento di Rossellini,
suo maestro e suo uomo,
la Magnani si prese una
solenne rivincita. Fece in
modo che la troupe cinematografica fosse sull’isola vulcanica negli
stessi giorni in cui Rossellini e la Bergman giravano
a Stromboli il loro primo
film. Così la curiosità non
si puntò solo sulla nuova
coppia del cinema mondiale, ma anche sulla primadonna del cinema
italiano. Mai dimenticata.
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INTERNO DELL’ARTISTA
Ph Fabrizio Cavallaro
Più chiudo gli occhi, più ti vedo,
abituato alla cose visibili di sempre,
nel sonno ecco il tuo spettacolo, nel
buio s’accende trionfatore il mio sguardo.
La tua ombra scaccia via le altre ombre,
e diviene luce chiara a chi non vede,
tu stesso vincendo il giorno in splendore.
Beatitudine alla mia vista saresti,
come nel cuore della notte la tua ombra
s’incolla alle mie palpebre chiuse.
Così, sono oscuri i giorni che non ci sei.
Luminose le notti in cui visiti i miei sogni.
William Shakespeare
(trad. di Fabrizio Cavallaro e Riccardo Di Salvo)
Il corpo,
eterna ombra dell’anima finita,
e auto-simbolo dell’anima, sua immagine,
propria sua, eppure
non il sé.
Samuel Taylor Coleridge
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model Fabio Cutrona
DONNE DI SICILIA D’ALTRI TEMPI
DALLA MATITA DI
Giovanni nte
Bonamo
…Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non
solo le sembianze gentili della donna, ma direi
anche la forma umana…
…aveva denti bianchi come avorio, e una certa
grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva
attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri,
grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li
avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della
scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria.
G. Verga: “Nedda”, 1874
Era alta, magra, aveva soltanto un seno
fermo e vigoroso da bruna - e pure non
era più giovane - era pallida come se
avesse sempre addosso la malaria, e su
quel pallore due occhi grandi così, e delle
labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le
donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia,
con quell'andare randagio e sospettoso
della lupa affamata.
G. Verga, da Vita dei campi: “La lupa”,
1880
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Se scappi ti sposo. Il matrimonio visto a Hollywood
CINEMA
di Antonio Agosta
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I film con le scene di matrimoni hanno
sempre un discreto successo, Hollywood
ne sa qualcosa, il rito nuziale è il sogno
nascosto di tutte le donne, e talvolta anche
uomini, come il giorno perfetto da scrivere sul diario della propria vita. Il cinema ci ha abituati a ogni genere di
cerimonie nuziali, per qualità e tradizioni.
C’è quello greco descritto con situazioni
ridicole nel film “Il mio grosso grasso
matrimonio greco”, con la goffa protagonista rassegnata alle complesse tradizioni
della famiglia di origini elleniche; quello
italiano con il premio Oscar Sophia Loren
nei panni di una prostituta e Marcello Mastroianni incorreggibile donnaiolo napoletano in “Matrimonio all’italiana”; c’è
quello in stile inglese in “Quattro matrimoni e un funerali”, con un ironico e romantico Hugh Grant innamorato di
Carrie, una donna americana che incontra
spesso ai matrimoni altrui. “Il padre della
sposa” con un indimenticabile Spencer
Tracy, amareggiato per i costosi preparativi delle nozze e l’imminente distacco
dalla figlia (nel film la giovane Liz Taylor). E non possiamo dimenticare la deli-
ziosa e splendida Julia Roberts, intenta a riprendersi
l’ex fidanzato impegnato
con la bella e ricca
Kimmy, l’attrice Cameron
Diaz, nel lungometraggio
campione d’incassi “Il matrimonio del mio migliore
amico”. Al tema del matrimonio non si sottraggono
neanche le fiabe a lieto
fine della buonanotte,
quelle raccontate alle bambine per proteggerle dalle
paure e sostenere le loro
emozioni infantili, con il
Principe Azzurro in azione
a salvare la principessa addormentata nel bosco, rinchiusa nei sotterranei del
Castello o in attesa del
bacio come ritorno alla
vita. Il matrimonio è un
atto giuridico che indica
l’unione fra due persone,
civilmente e davanti al Cristo morto sul crocefisso,
per regolare il legame tra persone
dello stesso sesso o
tra un uomo e una
donna attraverso una
cerimonia pubblica.
Il matrimonio è
anche business: a
volte sfarzoso da
“Mille e una notte”,
ecologico all’insegna della sostenibilità ambientale o
intellettualmente
umoristico
alla
Woody Allen (il
sesso è stata la cosa
più divertente che ho
fatto senza ridere).
Si può anche fuggire
al momento del “Sì”.
È nota la bellissima
scena finale de “Il
laureto”, con un giovanissimo Dustin
Hoffman che, preso
da un raptus di gelosia, sottrae la donna
sull’altare promessa
a un altro uomo, accompagnato dalle
urla isteriche della
madre della sposa e
dalla struggente colonna sonora: “The
Sound of Silence” di
Paul Simon. E come
dice il prete a fine
cerimonia: “Per il
potere conferitomi
dalla Chiesa vi dichiaro marito e moglie”. Ciak, si gira...
SCARPE E CARNEVALE
di Angelo Chiacchio
MODA
Una svolta epocale nella moda della calzatura.
Periodo umbertino1889-1900.
Le scarpe per lo più sono di morbida pelle di capretto che si adatta al piede come
un guanto. Tra il 1881 e il 1882 ricompare la scarpina a punta aguzza sempre
con tacco Louis XV, ossia di linea rientrante dietro. Ma nell' ultimo decennio
c'e' la tendenza a preferire forme di scarpe più larghe e quindi più pratiche spesso
alte a stivaletto , soprattutto per la villeggiatura in campagna o in montagna.
Colore dominante il nero, tuttavia il cuoio giallo diventa abbastanza comune
per l'estate e ancor più ricercato è il camoscio bianco o grigio.
Carnevale, periodo della trasgressione. Anche l’abbigliamento cambia, tende a farsi
barocco e sottrae forza d'impatto ai giovani imparruccati . Il loro rapporto con l'antico e' di superficie, allegorico. E' studio della struttura e ricerca del "quid" che crea
stile. L'uomo non è angelo nè bestia, ma chi vuol essere l'angelo, fa la bestia e viceversa. Il Carnevale non è precisamente una festa che si offre al popolo, ma una
festa che il popolo offre a se stesso (Goethe, “Viaggio in Italia”).
Photo e make up
by
Angelo Chiacchio
9
MUSICA
Addio amico mio. Un altro grande artista ci lascia.
Quando la luce si fa buio…
Quando la musica
non segue il ritmo
E la voce non emette più note
intonate….
arriva la disperazione...
Non più folle applaudenti...
Tramonto inesorabile
e non c’è alba
Sul tuo successo che fu…
Buon viaggio anima soul.
(Alessandro Tozzi)
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Madonna, la regina indiscussa del
bon ton, scrive questo laconico
pensiero a poche ore dalla morte di
uno dei grandi della musica pop,
sottolineando l’“annus horribilis”
per il mondo della seconda arte. Il
2016 ci ha portato via quanto di
buono era rimasto nella musica di
una certa levatura. Chi è cresciuto
durante gli anni ‘70 e ‘80, stava
ancora facendo fatica a riprendersi
dalla morte di David Bowie,
Prince, Glenn Frey degli Eagles,
Maurice White degli Earth Wind
and Fire, due terzi degli Emerson
Lake and Palmer, Leonard Cohen.
Un’ecatombe, per farla breve. Il 25
dicembre 2016, per uno strano
segno del destino, sarebbe stato
“l’ultimo natale” di George Michael. Vogliamo con questo articolo
celebrare
le
tappe
fondamentali nella carriera di George Michael, i suoi momenti di
gloria ma anche di buio e oscurità.
George Michael è stato una delle
più grandi stelle del panorama musicale degli anni ‘80. Inglese di origini greche, dotato di un
bell’aspetto (l’occhio dei fan è
stato ampiamente soddisfatto negli
anni), con una potente voce soul e
una straordinaria capacità per la
composizione di melodie orecchiabili, specie quelle che apparten-
gono alla prima parte della sua carriera, da giovane talento e fenomeno per teenager sarà in grado di
maturare fino a diventare un cantante raffinato e rispettabile, non
senza fatica e superando una serie
di sfide tanto creative quanto personali.
Insieme a Andrew Ridgeley fonda
nel 1981 gli Wham! Allora la Gran
Bretagna stava attraversando un
momento difficile, non si riconosceva più nella passata gloria,
schiacciata dalle politiche liberiste
della Thatcher e dagli scioperi incessanti. Eppure in quegli anni lo
stesso paese non aveva rivali da un
punto di vista musicale, si facevano avanti numerose band con un
pop molto variopinto, se vogliamo
disimpegnato. Dopo un timido inizio, gli Wham si riveleranno i migliori di tutti. Per i diversi generi
che affronteranno, per la melodia
suadente e sfrontata, per una certa
freschezza nei testi e nell’immagine proposta. I due saranno capaci di sfornare uno dopo l’altro
una serie di singoli di successo.
Club Tropicana pezzo solare, inno
delle vacanze estive dei giovani
yuppie e di un certo edonismo
degli anni Ottanta, Wake me up before you go-go un pezzo boogiewoogie frivolo e danzereccio, e
nonostante lo stesso Michael anni
dopo avrebbe dichiarato che è diventata la canzone più nota degli
Wham perché più stupida di tutte
le altre, in classifica funzionò
molto bene ed impose il duo all’attenzione del grande pubblico.
Seguirono Freedom dal sapore
Motown ed Everything She Wants
che ebbe il merito di dimostrare
quanto la capacità di scrittura
dell’artista non fosse un mero
colpo di fortuna ma frutto di un
vero talento. Michael resterà molto
legato a questo pezzo tanto da riproporlo nei suo concerti. E poi
Last Christmas. A quanti è riuscito
trasformare una canzone pop in un
classico natalizio che sarebbe stato
cantato anche dalle future generazioni? Finirà per prendere sempre
più il controllo artistico del gruppo
relegando Andrew a suonare la
chitarra e a fare i cori (in questo
aiutato da Shirlie Holliman e Pepsi
DeMacque le quali, dopo lo scioglimento del gruppo, s’imbarcheranno in una brevissima carriera
come “Pepsi and Shirlie”). Spesso
incompresi dalla critica di quegli
anni che li considera l’ennesimo
gruppo di bellocci new wave (in
verità avevano poco a che fare con
quel genere musicale) etichettandoli mediocri rispetto ai Duran
Duran, Spandau Ballet e Culture
Club. Spetterà a Careless Whisper
far capitolare i detrattori e mettere
in chiaro le qualità del gruppo. Si
tratta di una meravigliosa ballata
conosciuta anche dai giovanissimi,
complice una timbrica vocale limpida e avvolgente, un sax ruffiano
al punto giusto e un testo intimo legato all’infedeltà, anche se erroneamente ha fatto da colonna
sonora a romantiche cene a lume
di candela o nel concepimento di
numerosi pargoletti. È la prima
canzone con cui George Michael
inizia a piantare i semi per la sua
fortunata carriera (paradossal-
Può adesso il 2016 andare affanculo?
mente è uno dei pochissimi brani
che portano la firma anche di Andrew Ridgeley).
La carriera solista di George Michael inizia con un botto. Duetta
con la regina del soul Aretha Franklin in I knew You Were Waiting
dimostrando di avere la stoffa e
l’umiltà di non sfigurare a fianco
di una “leggenda”. Il primo album
“Faith”, da lui interamente scritto,
arrangiato e prodotto gli conferma
il successo. L’album fonde sapientemente svariati generi musicali,
dance pop funky passando per il
rhythm and blues, come se non ci
fosse una separazione tra essi e in
quegli anni era una meraviglia vederlo col suo giubbotto di pelle,
barbetta incolta, ray-ban e jeans attillati, dando di sé un’immagine da
macho anche se con scarsa convinzione. Se da un lato “Faith” sarà un
successo fenomenale trainato da
singoli memorabili (I Want your
sex, Faith, Father Figure, One
More try, Monkey e Kissing a
Fool) che lo consacreranno star internazionale e sex-symbol degli
anni ‘80, segna anche il punto di
inizio del tratto discendente della
sua parabola vivendo una crisi a livello personale e professionale.
Non si riconosce nell’immagine
creata dalla casa discografica, non
pienamente compreso come artista
dalla stampa. Costretto a indossare
i panni dello sciupafemmine per
proteggere la sua carriera, l’artista
vivrà una certa confusione sessuale
che lo condurrà qualche anno dopo
e in modo tutt’altro che sereno alla
presa di coscienza della propria
omosessualità. Dà alle stampe un
nuovo lavoro che sin dal titolo Listen Without Prejudice vol.1 vuole
essere una dichiarazione d’intenti
ossia presentarsi come un nuovo
artista, maturo e libero da compromessi. Il suo è un invito ad ascoltare senza lasciarsi condizionare
dall’immagine e dalle scelte musi-
cali che in passato altri avevano
proposto per lui tant’è che prenderà la decisione di non comparire
più né nella copertina dell’album
né nei video realizzati. Meno immediato ma più elegante e raffinato del precedente, il nuovo
lavoro farà storcere, com’era prevedibile, il naso alla critica. L’album scalò le classifiche ma non
ripetendo i numeri di Faith spingerà il cantante a intraprendere una
lunga ed estenuante causa legale
contro la Sony per non aver promosso a sufficienza le sue nuove
scelte. Il tutto finirà con la vittoria
della casa discografica ed un George Michael sempre più insoddisfatto e sfiancato da queste
vicende. La sua produzione discografica diventerà sempre più sporadica (tra la data di pubblicazione
di un album e il successivo passeranno parecchi anni), scegliendo di
dedicarsi a vari progetti con finalità benefiche, come la compilation
Red Hot and Dance per la raccolta
di fondi contro l’AIDS nel quale
contribuisce con tre splendidi
brani, o di tributo con la pubblicazione dell’Ep Five Live dopo aver
preso parte al concerto in onore di
Freddie Mercury. Durante il concerto si esibirà in una leggendaria
versione di Somebody To love dei
Queen regalando uno show di altissimo livello e un’interpretazione
magistrale che segna anche il
punto in cui la critica, unanime, si
accorge di tutta la bravura e la tecnica del cantante. Ma le turbolenze
di George Michael non accennano
a diminuire. La morte della madre
e poi di Anselmo Feleppa, da lui
presentato come un caro amico ma
si era capito che in realtà si trattava
del compagno e al quale dedicherà
Jesus To A Child e lo splendido
album Older fino ad arrivare al
1998 quando un poliziotto sotto
copertura avrebbe irretito Michael
in un bagno nel parco di Beverly
di Mauro Lo Fermo
Hills e poi arrestato per atti osceni.
La sua omosessualità diventa di
dominio pubblico, per giorni non
si parlerà d’altro ma George Michael non è certo disposto a farsi
macinare dal sistema e sbaragliando tutti si concede a una lunga
intervista televisiva in cui dichiara
il suo orientamento, raccontando
con estrema onestà il tortuoso percorso che lo ha finalmente portato
all’orgogliosa presa di coscienza,
non risparmiandosi e dando voce
anche alle parti più dolorose e private. Non solo. Decide di narrare
questa vicenda con intelligenza e
soprattutto con un’ironia disarmante nel video del singolo Outside. Un inno disco funk da anni
settanta che diventerà simbolo dell’orgoglio gay (“sono stufo del divano, del letto e anche del tavolo
da cucina, facciamolo fuori, all’aperto”). Per i tanti fan che non
lo hanno mai abbandonato sarà un
dispiacere vedere come negli anni
più recenti la stampa si occuperà di
lui più per le abitudini sessuali e
per l’uso di droghe che per la sua
musica il cui spessore non era diminuito affatto (l’album di cover
Songs From The Last Century e di
inediti Patience contengono delle
gemme di indiscutibile bellezza,
oneste e a tratti commoventi). Un
twitter più di altri a firma dello
scrittore inglese Hari Kunzru, pubblicato nel giorno della scomparsa
del cantante, riassume perfettamente il trattamento riservatogli
negli ultimi anni: “Possiamo abbandonare l’idea che era apertamente gay o che era turbato? Se lo
era la colpa è dei tabloid omofobi
e pruriginosi”. La sua è la storia di
un animo battagliero ma allo stesso
tempo tormentato, coraggioso e
fragile, schiacciato dalle pressioni
di una celebrità troppo invadente.
Ma una cosa è certa e sulla quale
troppo volte si è inutilmente discusso: il suo immenso talento.
11
Santuzza, Anna e il sogno di Mila
T E AT R O
Diva per sempre. Da Verga a
D’Annunzio
90 anni fa Eleonora Duse tenne
l’ultima recita a Pittsburg nel
dramma di Marco Praga “La porta
chiusa”. L’opera termina con le parole “Sola, sola!”. Il 1924 fu l’ultimo anno della vita di un’attrice
entrata nella leggenda grazie al suo
impareggiabile talento. I gossip
dell’epoca frugarono tra le pieghe
della sua vita, ricca di aneddoti
mondani e di pettegolezzi crudeli.
Primo fra tutti il quadro impietoso
che D’Annunzio traccia nelle pagine sublimi del romanzo “Il fuoco”
nel quale il poeta la mitizza nel personaggio della divina attrice, complice dei sogni di gloria del
superuomo Stelio Effrena. “Ella era
là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo…”
(da “Il fuoco” di G. D’Annunzio).
Senza dubbio Eleonora Duse fu
protagonista del teatro dannunziano.
Molti suoi personaggi sono stati costruiti su di lei. Sul suo volto, per
nulla conforme ai canoni neoclassici, più vicino al modello del moderno teatro espressionista. I grandi
occhi alzati verso l’alto, alla ricerca
dell’assoluto, la bocca sensuale e insieme mistica, le mani nervose, mai
ferme nella recitazione. La Duse appare ancora oggi così, nei programmi di Rai 5 dedicati al teatro
novecentesco. Per pochi spettatori
voyeur della TV notturna. Così resta
immortalata nelle sue pose che fecero epoca. Dal teatro al cinema
muto dove apparve una sola volta
nel film “Cenere”.
12
Da eroina verghiana a icona del
post-moderno
Di umili origini, figlia di attori girovaghi, Eleonora Duse nacque a
Vigevano (PV) nel 1858.
Un’infanzia faticosa, impensabile
per i giovani più fortunati di oggi.
Lavorò a soli quattro anni nella
parte di Cosetta nei “Miserabili” di
Victor Hugo. Tempi duri dove il lavoro minorile non era rifiutato ma,
al contrario, socialmente accettato.
Tra disagi economico-esistenziali
recitò con la madre per lungo
tempo, finché rivelò le proprie immense capacità recitative, nella
parte di Giulietta all’Arena di Ve-
rona, nel 1873. Nel 1881 la Duse
sposò il collega Teobaldo Checchi.
Nel 1884 diede la prova migliore
di sé al Teatro Carignano di Torino.
Era il mese di gennaio e gli applausi del pubblico scaldarono il
cuore di Giovanni Verga, al suo
esordio teatrale con “Cavalleria rusticana” in cui Eleonora Duse interpretava il ruolo di Santuzza.
Nella novella omonima di “Vita dei
campi” (1880) il personaggio si
chiama Santa, figlia del massaro
Cola. Una popolana che fa perdere
la testa al bersagliere Turiddu
Macca, sposato con la bella del
paese, la gnà Lola che “La domenica
si metteva sul ballatoio, colle mani
sul ventre per far vedere tutti i grossi
anelli d’oro che le aveva regalati suo
marito”. Novella verista basata sul
delitto d’onore, diventò dramma,
dopo la stroncatura degli stessi amici
milanesi di Verga. Boito, Treves,
Gualdo. Il primo dei tre, insieme con
Camerana e Giacosa, nel maggio del
1884, durante una gita a Superga, videro seduta al tavolo di un ristorante
Eleonora Duse, allora nel fulgore dei
suoi venticinque anni. Con lei Giovanni Verga e Teobaldo Checchi.
Dopo il successo ottenuto in “Cavalleria rusticana”, era già una diva. Le
cronache del tempo raccontano,
sembra un gossip di fine secolo
XIX, che Boito fu colpito dal fascino della giovane attrice. Si appartò in un angolo della sala e scrisse
per lei alcuni versi stupefacenti in
stile scapigliato milanese. Fu un
maggio galeotto in cui esplose un
amore fatale tra il poeta bohèmien e
la futura interprete del teatro dannunziano. L’incontro tra Eleonora
Duse e il poeta Arrigo Boito non è
scritto nel solco di una di una storia
Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese
privata. Come sempre, gli amori delle dive sono lancette di un orologio collettivo. Segnano velocemente
il tempo che va avanti e costruisce nuovi miti sulle ceneri di un edificio, quello della tradizione, fatto a pezzi
dalla forza scatenata delle innovazioni. Sembra un
segno del destino questo amour fou che lega la Duse
alla poesia. Prima Arrigo Boito, poi Gabriele D’Annunzio. Entrambi la sedussero con il potere della parola. Soprattutto il Vate di Pescara seppe trascinarla nel
vortice di una passione ardente che fece delirare entrambi nel corpo e nell’anima. Segnò una svolta innovativa, nel privato e nell’ambito professionale. La
Duse vide in D’Annunzio il creatore di un nuovo teatro, dove i personaggi potevano staccarsi dall’obbligo
di rappresentare la realtà quotidiana, per inventare un
mondo sotterraneo, popolato da visioni scaturite dalla
potenza del verso poetico. A sua volta, D’Annunzio
trovò nell’attrice il gesto teatrale che inventava la discesa del personaggio negli abissi dell’inconscio, là
dove si agitano sogni e desideri, fantasmi e allucinazioni. Il teatro italiano, scatola chiusa del morente Verismo di fine Ottocento, si rinnovava, guardando al
moderno teatro europeo, sull’onda di uno “Stil Novo”
fatto di oscuri simbolismi e di rarefatte analogie che
rimandavano al maestro per eccellenza della poesia
moderna: Charles Baudelaire.
La divina e il suo poeta
Solo per Eleonora, D’Annunzio accettò la sfida al vecchio teatro, ormai in sfacelo. E, soprattutto, quella con
il pubblico borghese abituato alla recitazione tardoverista. D’Annunzio scrisse per lei, sua somma interprete, veri e propri poemi drammatici come “Le ville
morte”, ma gli interessi della fabbrica teatrale prevalsero sulle ambizioni dell’attrice e del suo pigmalione.
In Francia la diva assoluta era Sarah Bernhardt che non
aveva rivali in patria. La Duse si offese personalmente
con il suo poeta e non gli perdonò mai di aver dato alla
collega francese l’opportunità di soffiarle la parte. Ma
le cose cambiarono nel 1901. Il 20 marzo il pubblico
milanese del Teatro Lirico applaudì la prima interprete
italiana della “Ville morte”. La tragedia rivisitava il
mito greco, in un’ ottica post-moderna, sulla scia del
dionisiaco Nietzsche. Nella parte di Anna, personaggio
plasmato proprio sullo stile tragico e visionario del
Vate, Eleonora Duse venne acclamata come “la divina”. In italiano l’opera prese il titolo “La città
morta”, inaugurando una lunga serie di tragedie in
versi, tra cui “La Gioconda” e “La figlia di Iorio”. Quest’ultima segna l’apice del teatro dannunziano. Rivisitazione in chiave onirica dell’Abruzzo contadino e
folklorico, ha come protagonista Mila, la grande meretrice redenta dall’amore. La Duse sognava questa
parte e voleva recitarla in vari teatri italiani, a Milano,
Firenze e Roma. Ma il destino le fu avverso. Quando
D’Annunzio concluse l’opera, la diva si ammalò e la
parte fu data a Irma Gramatica.
La Duse non perdonò mai al poeta la propria sostituzione. Così sono le grandi dive.
Il salotto letterario
Salotto letterario - presentazione dell'opera di
Vincenzo Di Segni "La cena di Audrey" controcorrente per il mercato attuale, ricca di
suggestioni estetiche e filosofiche.
È intervenuto lo scrittore Riccardo Di Salvo.
La scala dell’estasi:
dalla carne allo spirito
di Riccardo Di Salvo
e Claudio Marchese
Facciamo colazione con granita
e brioches. Leggiamo le prime
E-mail del mattino e il quotidiano “La Sicilia”. Sulle pagine
della cultura un elenco di
eventi. Ci soffermiamo tra spettacoli teatrali e serate letterarie.
Un valore aggiunto al piacere
del cibo, diverso ma non meno
inebriante. Lo scrittore Vincenzo Di Segni presenta il romanzo “La cena di Audrey”
alla libreria “Fenice” di Catania.
In una sera già vestita d’estate,
non ci costa nulla rinunciare
allo shopping. Diversamente
dagli anni Ottanta, oggi il vero
lusso è il tempo libero. Quello
che ci permette di isolarci dalla
catena di montaggio del lavoro,
degli impegni reali o virtuali
che ci connettono con la massa.
Che bello poter fare del nostro
spazio un’isola su cui incontriamo quelli come noi che antepongono l’essere all’apparire!
Il filosofo e semiologo Roland
Barthes definì l’esperienza
della lettura “il piacere del
testo”. Leggendo, proviamo lo
stesso godimento provato dallo
scrittore. Sempre attuale l’invito dannunziano “ricorda di
godere sempre”. Ora ce lo rin-
nova Vincenzo Di Segni. Romanzo - saggio, “La cena di
Audrey” sembra alludere a una
serie numerosa di opere letterarie in cui il cibo è protagonista
di eventi legati alla sfera del
piacere spinto all’eccesso. Dal
connubio vino e sesso della lirica greca di Alceo e Saffo all’edonismo enogastronomico
del “Satyricon” di Petronio, dai
banchetti orgiastici dei libertini
del Marchese De Sade alle cene
estetizzanti dei dandy dell’Ottocento, è tutto un proliferare di
canti alleluiatici in onore del
piacere della tavola e dell’alcova. Ognuno degli autori in
questione ci ha dato la propria
interpretazione dei misteriosi
nessi tra cibo ed eros. Quella
personale di Vincenzo Di Segni
è rigorosamente filosofica, nel
suo senso etimologico: amore
della sophia cioè della sapienza. La storia narrata nel romanzo ha una trama non
lineare. Si dipana come un gomitolo attraverso frequenti
flash-back, vere e proprie “illuminazioni” nel senso indicato
dai simbolisti. Ed ogni flashback è un tuffo nell’abisso della
“memoire involontaire” di
ascendenza proustiana, nonché
una continua riflessione sulla
temporalità dell’essere che ci
rimanda ad Heidegger e all’affermazione della gioia di vivere
del dionisiaco Nietzsche.
E V E N T I C U LT U R A L I
CATANIA
13
VIAGGI
Il Perù: bellezze e civiltà incontaminate e quote perdifiato
Viaggio tanto e attraverso variopinte culture. Scopro paesaggi che nemmeno in sogno ho
visto. Alcuni restano sopiti nella mente per un tempo imprecisato, altri emergono preponderanti ogni qualvolta l’anima si inabissa. La riportano su, dando vita a nuove creazioni. Ecco,
i viaggi sono una delle fortune dell’uomo. il sole che riappare sempre nelle notti della vita.
Riccardo Di Salvo
Salvatore tu non sei un turista ma un viaggiatore nato. Da dove è nata questa passione?
È nata dal desiderio di conoscere non in modo superficiale questa terrà di vivere in mezzo
alla gente lontana da me, di scoprirne l’essenza, di farne tesoro per vivere meglio.
So che conosci quasi tutto il mondo. Hai viaggiato in lungo e in largo il pianeta, quale
sensazione ti ha fatto provare questo tuo ultimo viaggio? E perché proprio il Perù?
In uno dei miei tanti viaggi ho scelto il Perù perché attratto dal sito archeologico del Machu
Picchu, il sogno di tutti e ti posso dire che questa Terra mi ha incantato, stupito, fatto perdere
nell’immensità delle praterie e nel silenzio delle altissime montagne. Il viaggio mi ha portato
in mezzo alle persone dalle diverse etnie, tra i mercati, la storia, dentro le chiese, fatto vivere
l’ebbrezza dell’altitudine con quel senso di vuoto che prende allo stomaco e con il respiro
corto, per la diminuzione di ossigeno per l’altitudine, che ti fa aprire la bocca per mangiare
l’aria e poi questo leggero malessere si placa masticando foglie di coca.
14
Raccontami come si è snodato questo incantevole viaggio ad altitudini che per noi Occidentali sarebbero proibitive?
Il viaggio si snoda su quote elevate dai 2200 mt della città di Arequipa, ai 3812 mt di Puno,
fino ad arrivare ai 4300 mt e poi scendere ai 3399 mt della città di Cusco. Atterrato a Lima
mi ha accolto una bella giornata di sole, mentre per per 9 mesi all’anno la città è avvolta
dalla “garrua” un velo di nebbia che sale dall’Oceano Pacifico e avvolge la città distesa
su un promontorio. A Lima non può mancare una visita al museo Larco, ospitato in un edificio di epoca coloniale, espone diversi manufatti in oro e argento delle culture dell’antico
Perù, ma è particolarmente noto per una vasta collezione di ceramiche che rappresentano
scene di atti sessuali. Con un volo da Lima ho raggiunto Arequipa a 2200 mt, la città del
Vulcano Ampato, di Juanita e delle prime sensazioni che provoca l’altitudine. La città dominata dal Vulcano El Misti, affascina per i palazzi costruiti con il sillar, una pietra bianca
vulcanica. Il monastero di Santa Catalina con le pareti dipinte di rosso è il più grande convento esistente al mondo. All’ingresso una guida mi ha condotto attraverso giardini e chiostri alla visita delle numerose stanze delle monache di clausura. Il Museo Santuario Andino
di Riccardo Di Salvo
Intervista a Salvatore Messina, instancabile e appassionato viaggiatore
che custodisce in una teca la mummia di Juanita ad una temperatura di venti gradi sottozero con la sua storia stupefacente mi ha affascinato e commosso.
Perché questa storia ti ha affascinato e commosso?
La mummia della ragazza fu scoperta nel 1995 da due archeologi sul monte Ampato parzialmente congelata e perfettamente conservata. La ragazza morta intorno al 1450 all’età di dodici anni fu uccisa con un colpo alla tempia
per un sacrificio degli Inca che offrivano agli Apu, divinità delle montagne andine.
So che ti ha attratto il volo dei condor ma anche la possibilità di effettuare un possibile relax a queste altitudini?
Attraverso la Valle del Colca con cieli azzurri e smaltati e vigogne e lama fino a raggiungere Chivay a 3800 mt e
da qui La Cruz del Condor, un punto panoramico del canyon da cui ho ammirato il volo dei condor delle Ande.
L’attesa per vedere i primi condor non è stata lunga, volteggiavano sulle teste dei turisti lasciandosi trasportare
dalla corrente d’aria verso la valle per ritornare su di noi. L’altitudine si sentiva fisicamente e ho mitigato con un
bagno rilassante nelle calde acque termali delle “Caleras”, all’aperto sotto un cielo che volgeva all’imbrunire
sferzato da un’aria leggera e frizzante.
Abbiamo studiato in geografia il lago Titicaca. So che su delle isole vicine artificiali vicino al lago vive un popolo ospitale, dalle vesti variopinte e si gestisce in autonomia. E’ vero quello che si legge sui libri?
Si, è vero ma a viverlo è del tutto diverso. La navigazione sul lago Titicaca a 3812 mt sotto un cielo terso mi ha
portato alla scoperta del popolo degli Uros, dai vestiti coloratissimi, che vive su delle isole artificiali costruite con
canne di totora, una pianta che cresce nelle acque del lago con la quale gli abitanti costruiscono piccole abitazioni
in cui vivono, le scuole e barche dalle forme particolari. Con due ore di navigazione si raggiunge, poi, l’isola di
Taquile dove ragazzi offrono ai turisti braccialetti di filo intrecciati dai tanti colori in cambio di pochi soles, ma la
cosa più interessante è stata la possibilità di poter effettuare il pranzo nel patio di una vecchia casa con la vista
sul lago e cucinato da una famiglia dell’isola, con pesce fritto e una zuppa tipica.
So che sei arrivato fino a 4300 mt di altezza. Parlami di questi luoghi in cui l’anima forse ritrova se stessa lontano dal caos e dalla modernità delle metropoli e megalopoli.
La traversata in bus da Puno a Cusco fino al passo della Raya a 4300 mt di altezza e la spettacolare chiesa di Andahuaylillas, considerata la Cappella Sistina del Sud America per la ricchezza delle decorazioni. Nella Valle Sacra
uno spettacolo unico sono le saline di Maras. Oltre 3000 pozze quadrate che risalgono la collina regalano riflessi
abbaglianti per il sale cristallizzato. L’affascinante Cusco a 3399 mt, capitale dell’impero Inca, con le sue molte
chiese, il mercato San Pedro e le grandiose rovine Inca di Sacsayhuaman.
Il tragitto in treno, sospeso tra il costone della montagna e l’impetuoso fiume Urubamba sottostante, per raggiungere da Ollantaytombo Aguas Calientes e poi in bus, in mezzo alla foresta, un percorso a zigzag per raggiungere
sulla sommità della montagna il sito archeologico del Machu Picchu. La città perduta degli Inca con le sue terrazze,
scalinate e templi cerimoniali. Sono rimasto per un paio d’ore incantato ad ammirare il luogo tra le nuvole che si
rincorrevano in mezzo alle rovine.
E la cucina peruviana è stata di tuo gradimento?
Sicuramente l’alimento principale dei peruviani è la patata, infatti si coltivano più di 4000 varietà di patate ed anche
il peperoncino presente quasi in tutte le pietanze. Il piatto principale rimane il ceviche, a base di pezzetti di pesce,
succo di lime, cipolla rossa e peperoncino. Tra le bevande il mate de coca, un infuso, tradizionale nella zona delle
Ande, utilizzato soprattutto per contrastare la nausea e il mal di altitudine. Ma la bevanda nazionale rimane il pisco
sour, bevanda a base di distillato di vite, limone e bianco d’uovo. Devo dire niente male tanto che ogni sera la mia
cena era accompagnata da un bicchiere di pisco sour.
Salvatore ti ringrazio del tempo che mi hai concesso. Mi è sembrato di viaggiare con te mentre tu raccontavi,
provando la stessa tua emozione, perdendomi anch’io tra cieli, silenzi e popoli straordinari. Cosa dici ai
nostri lettori sul “viaggio”?
Viaggiate se potete e quando volete. È una crescita dell’anima, di voi stessi e nessuno mai vi potrà rubare le meraviglie preziose che sono rimaste nella vostra mente. Il Perù potrebbe essere senz’altro una vostra meta.
Photo di Salvatore Messina
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‘Etna! C’est parmi toi visité de Vénus
RECENSIONI
Sur ta lave posant ses talons ingénus,
Quand tonne un somme triste ou s’épuise la flamme.”,
St. Mallarmé, L’Après midi d’un faune
di Fabio Casadei Turroni
16
Ancora la gaya coppia RiccardoClaudio compie la magia di scrivere a 4 mani un romanzo. Che è,
ben inteso, un’impresa ardua!
L’alchimia delle penne, sicula di
Riccardo e padana di Claudio,
segue un percorso, che ha già una
propria storia abbastanza lunga,
che è sempre più chiaramente
sensuale. Le vite artistiche dei due
amici si sono unite tanto tempo fa,
e si sono abbarbicate l’una all’altra in maniera inestirpabile. E in
effetti la lettura del romanzo rivela in maniera clamorosa l’innamoramento reciproco dei due
autori. Non è l’amicizia un atto
erotico? Ce ne rendiamo conto dai
caratteri dei personaggi, e dall’ambientazione del racconto. La
coppia RicClaudio s’ama tanto
che lo dichiara ai lettori tramite il
legame tra Calogero Ursini e Tina
Puglisi. Calogero è un amante di
D’Annunzio, e cita Nietzsche. Un
esteta di grande successo che
passa la propria visione di vita
raffinata a Tina, da lui introdotta
nel luccicante mondo milanese
della moda. Tina, dal proprio
canto, è nata a Catania, vive di
giornalismo, e ottiene successo ad
una conferenza palermitana dove
tratta appunto di Nietzsche. I due,
del resto sono anche amanti! Non
è un amore; noi diremmo che
sono scopamici. RicClaudio è
talmente consapevole ed imbarazzato della propria disinvoltura a
spiattellarsi sulla pagina scritta da
trovare un modo classico di celarsi e negare l’evidenza: il personaggio di Zorayr, che allontana
Tina da Calogero, la fa innamorare, e su cui mi sento d’usare
qualche parola di più. Zorayr è un
prestante giovanotto pescatore
turco assolutamente affascinato
dalla donna occidentale, che si fa
scorgere sulla spiaggia del proprio
paese, di prima mattina. Si fa
amare sulla sabbia. Si fa rivedere.
Giorno dopo giorno. Un po’ Nausicaa, un po’ Circe, Tina trasforma
Zorayr in una figura d’Ulisse. Zorayr la segue in Italia. Si plasma
su di lei. Accetta champagne e raffinatezze (marchesiane) che
dovrebbero scandalizzarlo.
Comprende che il lavoro porta
Tina tra le nebbie del Nord; ma
vive come Tina (disalvanamente)
dei colori abbacinanti e chiari e
netti del Mediterraneo. Capisce
poco d’Italiano, ma segue il
cuore. Tina è gratificata dall’invidia
delle
proprie
feroci
amiche/colleghe, che ammirano il
suo amante dalla pelle esotica,
ambrata. Zorayr è un ingenuo. Si
fida. Un Puro Folle che viene premiato colla visione salvifica del
Graal. Cioè dai valori dell’Occidente. Siamo in ambito culturale
e immaginifico di squillante cristianità. La scelta, che potrebbe
parere un sotterfugio da narratore
di RicClaudio, di farli sposare secondo il rito cattolico (nientemeno che nella Cappella Palatina
di Palermo) esprime forse una sincera speranza di coesione tra Cattolicesimo e Islam. O forse
conferma mentre nega un sottaciuto timore d’impossibilità alla
coesistenza tra due monoteismi
che a prima vista parrebbero
molto simili. La conversione del
turco vezzoso (taciuta per tanta
parte del romanzo) negherebbe
quindi l’ideologica superiorità
dell’Islam, che si proclama Rivelazione Finale, e fagocita le altre;
e anche la tesi nietzschiana del
Cristianesimo come religione
femminile, adatta ai deboli, a chi
subisce e s’inchina. Nel romanzo
succede tutto il contrario! La
trama è accompagnata dallo sciabordio cullante delle calde onde
del mare omerico colore del vino.
Non a caso i romanzi che ultimamente trattano degli scontri
Islam/Cristianesimo si giocano nel
Mediterraneo, e si rifanno alle
suggestioni e alle infinite problematiche della cultura classica latina, quando il mare era centro
dell’Impero Romano la cui rovina,
secondo il Leopardi dello Zibaldone, iniziò con l’estensione della
cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero: la perdita dell’identità e dello spirito di patria,
illanguidito dall’estensione mostruosa del territorio, avrebbe
aperte le frontiere ai barbari. Se
Gog e Magog premono alle porte
dell’Impero Consumista, il luogo
adatto alla lotta è proprio la Sicilia
del romanzo di RicClaudio, in cui
è l’Europa irreligiosa che sbarca in
Oriente. I flussi migratori, lo sappiamo, seguono il percorso inverso. Il modo romanzesco
tranquillizzante per sperare nella
pace sociale è seguire il cuore,
come fa Zorayr. Se Tina è cattolica, lui si fa cattolico. Glielo indica suo padre, che in una visione
l’esorta ad accettare la cultura che
lo circonda. È quindi la maschia
figura paterna, così impositiva
nella cultura maomettana, che
l’esorta ad inchinarsi alla Donna,
e alla sua religione cattolica.
Un’inversione culturale paradossale rispetto ad una religione che
presuppone la sottomissione muliebre, e che tutti, appena nati, facciano parte dell’Islam, e che infatti
non parla di conversioni all’Islam,
ma di ritorni al seno d’Allah. Ma
Zorayr segue semplicemente il difficile percorso inverso! La sottomissione (Islam significa proprio
sottomissione) è totale, invertita;
ma verosimile. Etica e religiosa.
Facile ma problematica. Insomma:
mi pare che il romanzo sia molto
più complesso di quanto voglia
far apparire. E imponga letture
a più livelli. Da un punto di vista stilistico, mai come qui le penne si mescono e
si rimescolano e si confondono. Non è più possibile distinguere le quattro mani
di RicClaudio. La pastosità della scrittura è frutto maturo d’una scaltrita coesistenza che si fa quasi identità. Non si vedono fratture. Sole e nebbie convivono.
Andare oltre sul cammino della convivenza stilistica sarà molto difficile. Da un
punto di vista d’amico, che è il mio, dato che la scrittura narrativa è diventata
un organismo unico, mi piacerebbe vedere RicClaudio alla prova d’un testo teatrale. Secondo me RicClaudio, poeta e narratore, sarebbe il bicefalo autore
ideale per un brillante testo drammatico.
Una delle feste più spettacolari al mondo
Una città in delirio, tra sacro e profano, per la diva Agata
Dall’1 al 5 febbraio la città di Catania onora Agata, la sua Santa, una fanciulla catanese, vissuta tra il III e il V secolo d.C. Martirizzata dal proconsole romano Quinziano che voleva possederla contro la sua volontà di
cristiana. Un fiume di fedeli, lento e ondulante, vestiti con un saio di cotone bianco (saccu), tira il cordone agganciato al fercolo (vara in catanese)
di Sant’Agata e lo trascina per le vie della città barocca. La cera piove
sull’asfalto. Per le vie di Catania, sotto un cielo che sembra un quadro del
Tiepolo, il fercolo della santa patrona è al centro di una cerimonia collettiva che si snoda come un nastro colorato davanti alla gente. I devoti,
sembrano posseduti dalla frenesia come tifosi del calcio, durante una partita. Agitano in aria i fazzoletti, gridando in coro “ Viva,Viva S. Agata.”
La Santuzza, nel suo giro, è preceduta da 12 candelore. Enormi cerei, riccamente decorati, che rappresentano le corporazioni dei mestieri della città
di Catania. Connubio di sacro e profano che rievoca un rito arcaico diffusosi tra le civiltà egizia e greca. Erodoto già nel 454-447 a.C. ci dà una
dettagliata conoscenza di processioni falloforiche, per rendere omaggio
alla terra madre e allontanare l’inverno e il buio. Retaggio che è continuato
poi in altre civiltà e nei riti cristiani. A guardare bene, la candelora, ha effettivamente una forma fallica che ricorda i riti pagani.
Agata è stata martirizzata, per aver difeso la propria fede ardente durante
le persecuzioni contro i Cristiani. Era bella, casta ma i suoi seni avevano
provocato i suoi nemici. La vergine era diventata oggetto della loro follia
sadica. Vittima del piacere diabolico che si ricava dalla voglia di fare male,
di infierire contro il corpo indifeso della propria vittima. Sant’Agata ci ricorda ogni anno questo misterioso rapporto tra santità e crudeltà. Un miscuglio di rose, gioielli e croci.
Riccardo Di Salvo - Claudio Marchese
San Berillo, il quartiere a "luci rosse" di Catania,
diventa romanzo - saggio
Disponibile in tutte le librerie d'Italia