Adattare l`inadattabile, ovvero portare in scena il

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Adattare l`inadattabile, ovvero portare in scena il
Adattare l’inadattabile, ovvero portare in
scena il capolavoro di Bolaño 2666
Come tradurre oltre novecento pagine in cinque ore, secondo i registi di 2666.
di Monika Zaleska, “Literary Hub”, traduzione di Chiara Messina.
All’inizio dell’anno scorso ho letto che il
Goodman Theatre di Chicago stava realizzando un adattamento scenico di 2666 grazie al
contributo a sei cifre elargito da un ex membro della chiesa episcopale che aveva vinto il Powerball.
Una storia che sembrerebbe strana perfino a Roberto Bolaño, eppure non è fiction. Il 6
febbraio di quest’anno il direttore artistico del Goodman, Robert Falls, e il drammaturgo in
residence, Seth Bockley, hanno portato in scena per la prima volta la loro versione del capolavoro
postumo di Bolaño. 2666 è un romanzo di oltre novecento pagine, composto da cinque parti
liberamente collegate tra loro che spaziano dal Messico dei giorni nostri alla Germania
della seconda guerra mondiale. Il romanzo segue le vicende di decine di personaggi, dai quattro
studiosi europei sulle tracce di un misterioso scrittore agli agenti di polizia che indagano sulle
centinaia di femminicidi che affliggono la città di Santa Teresa (come realmente accaduto a Ciudad
Juárez). L’adattamento del romanzo di Bolaño realizzato da Falls e Bockley dura cinque ore
ed è interpretato da un cast corale di quindici attori. Di recente ho parlato con i due registi del
processo durato anni che ha trasformato 2666 in uno spettacolo teatrale – un viaggio che nato da un
progetto appassionante è approdato alla prima mondiale.
Monika Zaleska: Robert, il “New York Times” riporta questo bellissimo aneddoto secondo
cui eri a Barcellona nel 2006 e hai visto questi vistosi cartelloni pubblicitari dell’edizione
tascabile di 2666. È stato il tuo primo incontro con il lavoro di Bolaño?
Robert Falls: Sì, non l’avevo mai letto prima.
Camminavo per Barcellona e c’erano questi cartelloni enormi – non so se mi spiego, 12
piedi per 6 [all’incirca 4 metri per 2, ndt] –, tre, quattro, cinque cartelloni uno accanto
all’altro sui muri della città vecchia. L’immagine era di un deserto con delle croci rosa e
poi, a caratteri rosso sangue, solo il numero: 2666. Non c’era nemmeno il suo nome. Non
sapevo cosa fosse, ma mi ha preso così tanto che continuavo a pensarci. Ho chiesto a un’amica e lei
mi ha parlato di questo libro di Roberto Bolaño. Ho letto il romanzo appena è uscito negli Stati
Uniti e sono rimasto sbalordito. Non me l’aspettavo, ma l’ho trovato teatrale, anche se molti
dicevano che non si prestava a un adattamento.
MZ: Chiedo a entrambi: è stata la prima volta che avete diretto uno spettacolo con qualcun
altro? Robert, in che modo il progetto è diventato una collaborazione? Seth, come sei stato
coinvolto?
RF: Non avevo mai condiretto prima, però ho all’attivo un numero esorbitante di spettacoli inediti in
cui ho cercato di riprodurre la visione dell’autore nel modo più chiaro possibile. Insomma, il
processo non mi era del tutto sconosciuto. Ho lavorato a 2666 per circa un anno, a
intermittenza. Non va dimenticato che allora non avevamo i diritti per lo spettacolo. Volevo
solo usarlo per sperimentare. Ho iniziato a lavorare sul testo, creando nuove sequenze e
pensando a come adattarlo – e poi mi sono bloccato. Allora mi sono rivolto a Seth. Era un salto
nel buio, ma lo stile del libro non è uniforme, quindi ho pensato che due approcci potevano
diversificare le cinque parti.
Seth Bockley: In un certo senso, per me questo progetto è
un sogno. Sono sia un grande ammiratore di Bolaño sia un sostenitore degli adattamenti scenici
delle opere letterarie, che rappresentano una parte molto importante del mio lavoro di artista. Bob si
è rivolto a me nel 2011 chiedendomi a bruciapelo: “Conosci Roberto Bolaño?”. Avevo letto I
detective selvaggi e la raccolta di racconti Chiamate telefoniche, uno dei libri che mi è
piaciuto di più da tanti anni a questa parte. Ho letto 2666 all’istante, poi abbiamo iniziato a
lavorare assieme all’adattamento e, infine, alla regia. Per quanto riguarda la collaborazione, ho fatto
diversi spettacoli in cui condividevo il ruolo di autore, di regista o entrambi. Mi piace poter passare
da un ruolo all’altro e guardare lo spettacolo da angolazioni diverse.
MZ: Quando dal “progetto appassionante” che era questo spettacolo si è trasformato in
una produzione vera e propria? E in questo passaggio che ruolo ha avuto il generoso
contributo della The Roy Cockrum Foundation?
RF: Alla fine abbiamo ottenuto i diritti per lavorare a 2666 sul serio. Il Goodman Theatre ci ha dato
molto: ci ha permesso di ascoltare letture dell’opera, di riunire più volte gli attori per leggere parti
del libro, fare workshop ed esplorare a fondo il nostro lavoro, senza sapere quando e come avrebbe
potuto essere prodotto. Anche se non supera le dimensioni delle maggiori produzioni del Goodman,
2666 era atipico nel senso che l’investimento – le dimensioni del cast, le settimane di prove
necessarie, le cinque ore di durata, il numero di costumi, la complessità dell’aggiungere il
video e la progettazione a tutto tondo del suono – era sconfortante. È stato solo circa sedici
mesi fa che, all’improvviso, il presidente della fondazione Roy Cockrum ci ha chiamato. Dopo aver
esaminato la nostra proposta, Roy ci ha ricontattato e ci ha detto che 2666 era esattamente il tipo di
lavoro che voleva sostenere. Abbiamo deciso di portare in scena la produzione alla fine dell’inverno
2016. È stato senza dubbio un contributo significativo e molto apprezzato.
MZ: Avete un cast corale di quindici
attori – ma le vicende di 2666 sono molto più numerose. In che modo avete semplificato le
linee narrative e creato scene che dessero rilievo a singoli personaggi con intenzioni o
obiettivi chiari?
SB: Trattiamo ogni parte in modo diverso. Ad esempio, la prima parte di 2666 parla di quattro
studiosi europei alla ricerca del grande scrittore Benno von Arcimboldi. Abbiamo quattro personaggi
principali e gli altri undici attori interpretano una moltitudine eterogenea di personalità pittoresche.
La vicenda degli studiosi è narrata come una lezione che si trasforma in spettacolo. Il
discorso diventa recitazione e si rivolge direttamente al pubblico. Nella terza parte, La parte
di Fate, invece, il discorso o la narrazione non sono mai diretti. L’abbiamo trasformata tutta in
dialoghi, lavorando sui personaggi estremamente nitidi di Chucho Flores, Oscar Fate e Rosa
Amalfitano. In questa parte, alcune scene sono trasposte direttamente sul supporto cinematografico;
lunghe sequenze vengono riprodotte per intero sullo schermo.
MZ: Robert, hai già lavorato con molti degli attori di 2666 e hai affermato che alcuni di
questi artisti hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo della sua realizzazione.
RF: Penso che l’affiatamento che abbiamo in questa produzione sia veramente unico, tanto più se si
pensa a come essa si è evoluta. Ci abbiamo lavorato a intermittenza; a volte è passato anche un anno
prima che potessimo incontrarci e lavorare allo spettacolo. Almeno i tre quarti del cast vi ha
partecipato per diversi anni. Questo progetto è molto complesso, a volte difficile e a volte
entusiasmante, ma lavorare con la stessa compagnia di attori è stato molto divertente.
SB: Abbiamo una compagnia per riprodurre l’universo caleidoscopico e polifonico di Bolaño
e la sua volutamente immensa moltitudine di personaggi. Una delle cose che possiamo fare
è trovare degli echi. Mi sembra che il lavoro di Bolaño, 2666 come le sue altre opere, sia
pieno di echi, momenti che richiamano altri momenti, dando un senso di ritmo e di
raddoppiamento, in alcuni casi. Ad esempio, nella prima parte abbiamo un attore che interpreta
un pittore apparentemente pazzo che è stato rinchiuso in un manicomio svizzero. Più avanti lo stesso
attore recita la parte di un tedesco sospettato di assassinio e imprigionato in un carcere messicano.
Ciò permette al pubblico di vedere questi echi letterari sul palco, tradotti nei corpi e nelle voci degli
attori.
MZ: 2666 inizia con una citazione di Charles Baudelaire: “Un’oasi d’orrore in un deserto di
noia”. Mi sono chiesta come avete cercato di imprimere quest’atmosfera – la sensazione
che dà l’universo di Bolaño – nel vostro spettacolo.
SB: Vogliamo rendere omaggio a
Bolaño, trasmettere le sensazioni che abbiamo provato leggendo il romanzo. È un libro che
fa pensare non poco alla parola “perturbante”. Abbiamo parlato di David Lynch e della
sensazione che danno i suoi film – la sensazione che ci sia qualcosa in agguato fuori campo o
appena sotto la superficie, una qualche minaccia, il che causa una specie di tensione sinistra. Il bello
della citazione di Baudelaire è naturalmente la contraddizione: “Un’oasi d’orrore”. Come può
l’orrore essere un’oasi? Come si possono accostare i lati peggiori dell’umanità, ovvero la
propensione al male, la propensione allo sterminio testimoniata dagli eventi di Santa Teresa o
dall’Olocausto, ai più grandi risultati raggiunti dall’umanità o ai suoi tentativi più riusciti di creare
bellezza? Bolaño guarda a queste profonde contraddizioni e noi vogliamo metterle sotto i riflettori,
nel miglior modo possibile.
MZ: Di contro, Bolaño ha un grande senso dell’umorismo e nel romanzo c’è molta ironia.
Come bilanciate questi aspetti?
RF: Be’, ci proviamo [ride]. È un tentativo. Facciamo un passo alla volta, giorno dopo giorno, con
molta disciplina. Credo che siamo stati attirati entrambi dall’ironia e dallo humor naturali del
romanzo, da come gioca con la letteratura e da come si ripiega su sé stesso, come se si stesse
guardando dall’alto. Ho trovato la prima parte, quella sui critici, molto divertente la prima volta che
l’ho letta, e continuo a pensare che sia così.
MZ: Sì, anch’io.
RF: Per certi versi è un campus novel straordinario, di grande comicità, una parodia letteraria e una
satira graffiante. Noi cerchiamo di tirare fuori tutto il suo humor e tutta la sua ironia. Come ha detto
Seth, fa parte del nostro omaggio a Bolaño.
MZ: Nella quarta parte, La parte dei delitti, ci sono
lunghe descrizioni giornalistiche delle donne assassinate nell’immaginaria città messicana
di Santa Teresa. Dal punto di vista artistico, come avete scelto di trattare questa parte del
libro – ripetitiva, schiacciante, molto cruda –, come la rappresentate in teatro?
RF: Visivamente è incentrata sul mondo dei poliziotti, alcuni corrotti, altri non così tanto corrotti,
tutti travolti dagli omicidi che si susseguono a Santa Teresa. Poi c’è l’altra storia principale, la triste
e bellissima storia d’amore tra un agente di polizia, Juan de Dios Martínez, e una donna più grande
di lui, Elvira Campos. Dei rapporti di polizia lascio che parli Seth.
SB: Anch’io ci ho visto molta umanità in queste due storie. È per questo che abbiamo scelto di
mostrare l’umanità invece che la disumanità. Vogliamo a tutti i costi trasmettere,
riversandola sul pubblico quasi come pioggia battente, l’incessante litania di nomi e
particolari degli omicidi, ovvero i rapporti di polizia. Abbiamo scelto di tenere molti dei testi
dell’originale. Le donne del coro trasmettono questi rapporti al pubblico, in contrasto con le indagini
in corso, spesso infruttuose.
RF: Vogliamo ricreare l’esperienza di chi legge libro. Il lettore si fa prendere sempre più dal torpore,
sopraffatto dalla quantità di questi rapporti di polizia. Però, quando i poliziotti raccontano le
barzellette contro le donne, inorridisce per davvero. Penso che sia un contrasto affascinante e
l’abbiamo mantenuto. In teatro non c’è alcuna rappresentazione delle violenze sulle donne presente
in questa parte. Si ha lo stesso effetto ascoltando le parole, proprio come quando si legge il libro.
SB: Tra le altre cose, 2666 è un
libro sulla scrittura, sull’atto e sull’importanza di scrivere, che sia mostrato con il giornalista
Oscar Fate o con l’autore Benno von Arcimboldi. Bolaño vuole assolutamente far vedere, credo,
che il giornalismo è un’attività meritoria, nobile e per la quale ci vuole coraggio. C’è questo
personaggio femminile molto forte, la giornalista Guadalupe Roncal, che abbiamo scelto di far
diventare uno dei personaggi centrali della quarta parte. Per me è importante avere in quest’atto sia
la prospettiva di un’autrice donna che quella dei rapporti di polizia.
MZ: Chi non è fan di Bolaño e non ha letto 2666 può comunque apprezzare lo spettacolo,
anche senza contestualizzazione?
SB: Sono dell’idea che una grande storia non ha bisogno di spiegazioni o
contestualizzazioni, e 2666 non fa eccezione. È innegabile che è un testo assolutamente
ambizioso e straripante, qualcuno potrebbe persino dire sperimentale. Ma io trovo che sia un
libro molto accessibile, che è facile far proprio. Abbiamo sempre coinvolto persone estranee al
mondo letterario e che non conoscono Bolaño in tutte le letture e i workshop che abbiamo fatto.
MZ: Sono curiosa di sapere cosa ne pensate di questo titolo così misterioso: 2666. Dopo
aver lavorato così intensamente al testo di Bolaño vi siete fatti un’idea di che cosa possa
voler dire?
SB: Nel romanzo di Bolaño Amuleto c’è un passaggio abbastanza oscuro e poetico in cui
parla di un cimitero dell’anno 2666. Di nuovo, un’altra eco. La mia personale interpretazione è
che sia un punto di annullamento: un punto in cui tutto ciò che abbiamo appreso, che è stato creato
e che succede in questo straordinario romanzo è stato dimenticato, oppure fatto tornare al punto di
partenza, qualunque esso sia.
RF: Mi piace perché è misterioso e basta, che è lo stesso motivo per cui ha attirato la mia
attenzione su quel poster a Barcellona. Sembra qualcosa di molto, molto importante, no?
2666.
Ma è anche privo di un qualsiasi significato. Non è menzionato da nessuna parte nel libro e non
lo si può collegare a niente guardando lo spettacolo. Mi sembra allo stesso tempo un po’ divertente e
un po’ inquietante, in piena sintonia con la visione del mondo di Bolaño.