Sunshine cleaning - Dimensione Cultura

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Sunshine cleaning - Dimensione Cultura
Sunshine cleaning - Dimensione Cultura
Scritto da Sara Eudizi
Dai produttori di “Little Miss Sunshine”, una (altra) singolare famiglia americana che non vive “il
sogno”. Rose (Amy Adams) la sorella maggiore, ex cheerleader con promettente futuro, è ora
una 30enne insicura, madre single di un bambino troppo sveglio per non essere problematico
(Jason Spevack), amante part- time dell’ex fidanzatino del liceo sposato con figli, e donna delle
pulizie. Norah è la sorella minore, vagamente ribelle, forse omosessuale, forse tormentata,
forse irrisolta, sicuramente affascinante, racconta storie dell’orrore su un uomo aragosta con
disturbi ossessivo- compulsivi al nipote già sufficientemente fantasioso. Joe (Alan Arkin già
premio oscar per “Little Miss Sunshine”), padre e nonno “bizzarro” con un fiuto eccellente per gli
affari più disastrosi, è sempre alla ricerca di un modo veloce per fare soldi. In tutti aleggia il
fantasma della madre morta molti anni prima, ciascuno vivendo il ricordo a modo suo.
Bisognosa di un guadagno maggiore e in cerca di riscatto, sotto suggerimento dell’amante
poliziotto, Rose coinvolge la scettica ma disoccupata sorella, e mette in piedi la “Sunshine
Cleaning”, impresa a conduzione familiare addetta alla pulizia dei brandelli di “vita” dalle scene
del crimine. Uno sporco lavoro, ma remunerativo e strano abbastanza da offrire spunti comici e
amari. “Sunshine Cleaning” infatti non è un film splatter, ma una commedia ben riuscita,
sull’amore e sulla famiglia. Sui rapporti d’amore che legano una famiglia per quanto strani i suoi
componenti, e chi gli gira intorno, possano essere. L’innesco che manda in tilt il sistema è lo
scontro fra i sentimenti di chi decide di non voler vivere, diventando una macchia su un
pavimento da disinfettare, e i sentimenti di chi quella vita, la deve necessariamente ripulire. Il
segreto sembra essere, e come spesso accade è, nell’ironia di un commercio infruttuoso di
gamberetti; di un bambino che le lecca i muri e parla col paradiso dalla radio di un furgone (un
altro furgone era presente anche il “Little Miss Sunshine”); di una donna forte, che ha bisogno di
un post- it sul muro per ricordarselo; e di una donna un po’ più giovane, fragile e dura che ha
risposte sensate per domande senza senso e grida piangendo sotto i binari di un treno. La
musica è giusta; il paragone con “Little Miss Sunshine” sembra inevitabile (causa primaria, il
richiamo diretto nel titolo), anche se i due film non si somigliano affatto; il finale è lecitamente
aperto; la storia ha la giusta durata e forse l’unico neo è qualche spunto lasciato colpevolmente
a metà, qualche personaggio a cui si poteva dare di più. Ciononostante il voto finale viaggia
molto oltre l’ 8 pieno, certamente grazie anche all’eccezionale bravura del cast. Il Sundance di
Redford (nel corso del quale “Sunshine Cleaning” ha ricevuto il premio del pubblico come
miglior film), come gran parte del cinema indipendente, ci ha abituato straordinari capolavori a
“basso” budget. La scena di un film, passata di notte in tv, diventa il punto da cui ripartire, un
segnalibro messo a ricordare di andare oltre, che male non farà. Il sogno americano non si
vede, dunque, finché non si inizia a guardare meglio.
Sara Eudizi
1/1