leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
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I edizione: ottobre 2012
© 2009 Calmann-Lévy
© 2012 Fazi Editore srl
Via Isonzo 42, Roma
Tutti i diritti riservati
Titolo originale: Robe de marié
Traduzione dal francese di Giacomo Cuva
ISBN 978-88-6411-548-1
www.fazieditore.it
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Pierre Lemaitre
L’abito da sposo
traduzione di Giacomo Cuva
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A Pascaline, ovviamente,
senza di lei nulla di tutto ciò…
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SOPHIE
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Seduta a terra, spalle al muro, gambe distese, ansimante.
Léo le sta addosso, immobile, con la testa poggiata sulle sue cosce. Con una mano gli accarezza i capelli, con l’altra tenta di asciugarsi gli occhi, ma i suoi gesti sono disordinati. Piange. A volte i suoi singhiozzi diventano urla,
inizia a gridare, le sale dal ventre. La sua testa dondola da
una parte all’altra. Talvolta la sua pena è così intensa che
sbatte la nuca contro la parete. Il dolore le dà un po’ di
conforto, ma presto in lei tutto crolla di nuovo. Léo è
molto giudizioso, non si muove. Abbassa gli occhi verso
di lui, lo guarda, gli stringe la testa contro il grembo e
piange. Nessuno può immaginare quanto sia infelice.
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Quella mattina, come molte altre, si è svegliata in lacrime, con un groppo in gola, anche se non ha un motivo particolare per preoccuparsi. Nella sua vita le lacrime non hanno nulla di eccezionale: piange tutte le
notti, da quando è pazza. Al mattino, se non sentisse le
guance inondate, potrebbe persino pensare che le sue
notti siano placide e il suo sonno profondo. Al risveglio, il viso bagnato di lacrime e la gola stretta sono
delle semplici informazioni. Da quando? Dall’incidente di Vincent? Dalla sua morte? Dalla prima morte,
molto tempo addietro?
Si è sollevata su un gomito. Si asciuga le lacrime con
il lenzuolo mentre cerca tastoni le sigarette e, visto che
non le trova, realizza all’improvviso dov’è. Tutto le torna alla mente, quello che è successo il giorno prima, la
serata… Si ricorda che deve andare via subito, lasciare
quella casa. Alzarsi e andare via, ma resta lì, inchiodata al letto, incapace del minimo gesto. Esausta.
Quando riesce a buttarsi giù dal letto e ad arrivare
nel salone, la signora Gervais è seduta sul divano, tranquillamente china sulla tastiera del computer.
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«Tutto bene? Riposata?».
«Tutto bene. Riposata».
«Ha una brutta cera».
«La mattina, è sempre così».
La signora Gervais salva il suo file e chiude il portatile con un colpo secco.
«Léo dorme ancora», le dice mentre si dirige verso
l’attaccapanni con passo deciso. «Non mi sono voluta
affacciare, temevo di svegliarlo. Visto che oggi non c’è
scuola è meglio che dorma, così la lascia un po’ tranquilla…».
Niente scuola oggi. Sophie se lo ricorda vagamente.
Per via di una riunione degli insegnanti. In piedi vicino alla porta, la signora Gervais ha già infilato il cappotto.
«Devo proprio andare…».
Sente che non avrà il coraggio di annunciarle la sua
decisione. E comunque, a parte il coraggio, non ne
avrà il tempo. La signora Gervais si è già chiusa la porta alle spalle.
Stasera…
Sophie sente il rumore dei suoi passi per le scale.
Christine Gervais non prende mai l’ascensore.
È calato il silenzio. Per la prima volta da quando lavora qui, si accende una sigaretta nel bel mezzo del salone. Inizia a camminare lentamente. Sembra la sopravvissuta a una catastrofe, tutto ciò che vede le pare
senza senso. Bisogna andare via. Ora che è da sola sente di avere meno fretta, in piedi e con una sigaretta fra
le dita. Ma sa che a causa di Léo deve prepararsi ad andare via. Arriva in cucina e mette il bollitore sul fuoco,
giusto il tempo di riprendersi.
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Léo. Sei anni.
La prima volta che lo ha visto, lo ha subito trovato
bello. È stato quattro mesi prima, in questo stesso salone di rue Molière. È entrato correndo, si è bloccato
di colpo davanti a lei e l’ha fissata chinando un po’ il
capo, segno in lui di una intensa riflessione. Sua madre
ha detto semplicemente:
«Léo, ecco Sophie, te ne avevo parlato».
L’ha osservata per qualche istante. Dopodiché ha
detto semplicemente: «Va bene», e si è avvicinato per
darle un bacio.
Léo è un bravo bambino, un po’ capriccioso, intelligente e tremendamente vivace. Sophie deve accompagnarlo a scuola la mattina, riprenderlo a mezzogiorno e poi la sera e restare con lui fino all’ora imprevedibile in cui la signora Gervais o suo marito riescono a
tornare a casa. Quindi stacca fra le cinque del pomeriggio e le due di notte. La disponibilità di Sophie ha
rappresentato un fattore decisivo per ottenere questo
lavoro: non ha una vita privata, si è capito fin dal primo colloquio. La signora Gervais ha cercato di approfittare con moderazione di questa disponibilità, ma il
quotidiano prevale sempre sui principi e sono bastati
due mesi perché Sophie diventasse un ingranaggio indispensabile nella vita della famiglia. Perché lei è sempre lì, sempre pronta, sempre libera.
Il padre di Léo, un quarantenne alto, asciutto e col
volto solcato da rughe, è un dirigente al Ministero degli Esteri. Sua moglie, gran donna elegante dal sorriso
incredibilmente seducente, tenta di conciliare le esigenze del suo lavoro di statistica in una società di revisione dei conti con quelle di madre di Léo e di moglie
di un futuro sottosegretario. Hanno entrambi un otti-
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mo stipendio. Sophie ha avuto l’accortezza di non approfittarne al momento di negoziare la sua paga. In
realtà non ci ha nemmeno pensato, perché la cifra che
le hanno proposto era adeguata alle sue necessità. La
signora Gervais le ha aumentato il salario dalla fine del
secondo mese.
Léo, poi, non ha occhi che per lei. Sembra la sola a
ottenere senza sforzo cose che alla madre richiederebbero delle ore. Non è, come poteva temere, un marmocchio viziato con esigenze tiranniche, ma un bambino tranquillo e capace di ascoltare. Ovviamente ha le
sue preferenze, ma Sophie ha un posto di riguardo nella sua gerarchia. Il primo.
Ogni sera, verso le sei, Christine Gervais chiama per
avere notizie e annuncia il suo orario di rientro con un
tono imbarazzato. Al telefono, si trattiene sempre per
qualche minuto con suo figlio e poi con Sophie, con la
quale si sforza di trovare delle parole che mostrino un
qualche interessamento per lei. Questi tentativi hanno
poco successo: Sophie resta sul vago, senza dire nulla
di particolare, e così il resoconto della giornata occupa la maggior parte della conversazione.
Léo va a letto ogni sera alle otto in punto. È importante. Sophie non ha figli, ma ha dei principi. Dopo
avergli letto una storia, si piazza per il resto della serata davanti all’immenso schermo ultrapiatto, che riceve
quasi tutti i canali satellitari del mondo, regalo mascherato che la signora Gervais le ha fatto al secondo
mese di lavoro, poiché ha notato che la trovava davanti alla TV a qualsiasi ora rientrasse. Più di una volta, la
signora Gervais si è stupita che una donna di trent’anni, visibilmente colta, si accontentasse di un lavoro così modesto e passasse tutte le sue serate davanti al pic-
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colo schermo, per quanto grande fosse ormai divenuto. Quando si sono viste per la prima volta, Sophie le
ha detto che aveva studiato comunicazione. Siccome la
signora Gervais voleva saperne di più, ha parlato del
suo diploma universitario, le ha spiegato che aveva lavorato per un’azienda inglese ma senza specificare con
quale incarico, che era stata sposata ma che non lo era
più. Christine Gervais si è accontentata di queste informazioni. Sophie le era stata raccomandata da una delle sue amiche d’infanzia, direttrice di un’agenzia di lavoro interinale che, per una ragione che resta misteriosa, ha trovato Sophie simpatica in occasione del loro unico colloquio. E poi c’era un’urgenza: la precedente babysitter di Léo si era appena licenziata senza
dire una parola e senza preavviso. Il volto calmo e grave di Sophie ha ispirato fiducia.
Durante le prime settimane, la signora Gervais ha
sondato un po’ il terreno per sapere qualcosa di più
sulla sua vita, ma ha rinunciato con delicatezza, intuendo dalle sue risposte che un “dramma terribile ma
segreto” aveva forse sconvolto la sua vita, piccolo avanzo di romanticismo che si può trovare dappertutto, anche nell’alta borghesia.
Come spesso accade, quando il bollitore si ferma
Sophie è persa nei suoi pensieri. È uno stato che in lei
può durare a lungo. Sono come delle assenze. Il suo
cervello sembra fissarsi su un’idea, su un’immagine, il
pensiero vi si avvolge attorno, molto lentamente, come
un insetto, e lei perde la cognizione del tempo. Poi, per
una sorta di effetto di gravità, ricade nel presente. E allora riprende la sua vita normale lì dove si era interrotta. È sempre così.
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Questa volta, curiosamente, è il volto del dottor
Brevet che le appare. Era molto tempo che non ci pensava più. Non è come se lo immaginava. Al telefono,
aveva pensato a un uomo alto, autoritario, e invece era
piccolino, sembrava l’aiutante di un notaio emozionato perché autorizzato a ricevere dei clienti di poco
conto. Da un lato, una libreria con dei ninnoli. Sophie
voleva rimanere seduta. Lo aveva detto entrando, non
mi voglio stendere. Il dottor Brevet aveva fatto un cenno con le mani, un modo per dire che non c’era problema. «Qui non ci si stende», aveva aggiunto. Sophie
aveva spiegato, come poteva. «Un quaderno», aveva
decretato il dottore alla fine. Sophie doveva annotare
tutto quello che faceva. Forse le sue dimenticanze «le
prendeva troppo sul serio». Bisognava sforzarsi di vedere le cose obiettivamente, aveva detto il dottor Brevet. Così «potrà misurare con esattezza quello che dimentica, quello che smarrisce». Allora Sophie aveva
cominciato ad annotare tutto. Lo aveva fatto per quanto?, tre settimane… fino alla seduta successiva. E durante questo periodo ne aveva smarrite di cose! Ne
aveva dimenticati di appuntamenti, e due ore prima di
tornare dal dottor Brevet si era anche resa conto di
aver perso il suo quaderno. Impossibile ritrovarlo.
Aveva rivoltato tutto. Era stato quel giorno che si era
imbattuta nel regalo di compleanno di Vincent? Quello che non era riuscita a trovare al momento di fargli
la sorpresa.
È tutto un guazzabuglio, la sua vita è un tale guazzabuglio…
Versa l’acqua nella tazza e finisce la sua sigaretta.
Venerdì. Niente scuola. Di solito si occupa di Léo per
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tutta la giornata soltanto il mercoledì, e qualche volta
nel fine settimana. Lo porta qua e là, a seconda dei loro desideri e delle occasioni. Fino a oggi, si sono parecchio divertiti insieme, e spesso hanno litigato. Quando escono, va tutto bene.
Almeno finché lei non comincia a sentire qualcosa
di oscuro e poi fastidioso. Non ha voluto dargli importanza, ha provato a scacciarlo come si fa con un insetto molesto, ma è tornato con insistenza. Il suo atteggiamento nei confronti del bambino ne ha risentito.
Niente di preoccupante, all’inizio. Solo qualcosa di
sotterraneo, di silenzioso. Qualcosa di segreto che riguardava entrambi.
Fino a che la verità non le è apparsa all’improvviso,
il giorno prima, ai giardinetti Dantremont.
Questi ultimi giorni di maggio a Parigi sono stati
molto belli. Léo ha voluto un gelato. Sophie si è seduta su una panchina, non si sentiva bene. Dapprima ha
attribuito questo malessere al fatto che erano ai giardinetti, luogo che detesta più di ogni altro perché passa
il suo tempo a evitare le conversazioni delle madri di
famiglia. È riuscita a scoraggiare gli incessanti tentativi
delle frequentatrici abituali, che ora si guardano bene
dall’abbordarla, ma ha ancora il suo bel da fare con
quelle occasionali, le nuove venute, quelle di passaggio, senza contare le pensionate. I giardinetti proprio
non le piacciono.
Sfoglia distrattamente una rivista quando il bambino si piazza davanti a lei. La guarda senza un particolare motivo, mangiando il suo gelato. Lei ricambia lo
sguardo. E capisce, in quell’esatto momento, che non
potrà più nascondere a se stessa quella che è ormai
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un’evidenza: ha inspiegabilmente iniziato a detestarlo.
Continua a fissarla, e lei è sconvolta di vedere quanto
ogni cosa di lui le risulti insopportabile, il suo viso da
cherubino, le sue labbra ingorde, il suo sorriso imbecille, i suoi ridicoli vestiti.
Ha detto: «Andiamo», come se dicesse: «Me ne vado». Nella sua testa la macchina si è rimessa in moto.
Con i suoi buchi, le sue mancanze, i suoi vuoti, le sue
sciocchezze… Mentre si dirige con passo affrettato
verso casa (Léo si lamenta che cammina troppo veloce), delle immagini la assalgono in disordine: l’auto di
Vincent schiantata contro un albero e le sirene che
lampeggiano nel buio, il suo orologio in un portagioie,
il corpo della signora Duguet che precipita per le scale,
l’allarme della casa che ruggisce a notte fonda… Le
immagini cominciano a sfilare in un senso e poi nell’altro, immagini nuove, vecchie. La macchina delle
vertigini ha ripreso il suo moto perpetuo.
Sophie non tiene il conto dei suoi anni di follia. Risale a così tanto tempo fa… Probabilmente a causa
della sofferenza, ha l’impressione che il tempo abbia
contato doppio. All’inizio una dolce pendenza, e con
lo scorrere dei mesi l’impressione di essere su uno scivolo e di precipitare a tutta velocità. A quel tempo
Sophie era sposata. Era prima… di tutto questo. Vincent era un uomo molto paziente. Ogni volta che
Sophie ripensa a Vincent, le appare in una sorta di dissolvenza incrociata: il Vincent giovane, sorridente,
eternamente calmo si confonde con quello degli ultimi mesi, dal volto esausto, dal colorito giallastro, dagli
occhi vitrei. All’inizio del loro matrimonio (Sophie rivede perfettamente il loro appartamento; c’è da chiedersi come, in una stessa testa, possano convivere tan-
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te risorse e tante mancanze), si trattava soltanto di distrazione. Il ritornello era: «Sophie è distratta», ma lei
si consolava perché lo era sempre stata. Poi la distrazione era diventata stramberia. E in pochi mesi tutto
era brutalmente andato in pezzi. Dimenticava appuntamenti, cose, persone, aveva cominciato a perdere oggetti, chiavi, documenti, a ritrovarli, settimane dopo,
nei luoghi più improbabili. Nonostante la sua calma,
Vincent a poco a poco si era innervosito. Era comprensibile. A forza di… dimenticare la pillola, perdere i regali di compleanno, le decorazioni natalizie…
anche gli spiriti più temprati andrebbero su tutte le furie. Sophie allora iniziò ad appuntare tutto, con la
scrupolosa attenzione di una drogata in astinenza. Perse i quaderni. Perse la sua auto, degli amici, fu arrestata per furto, i suoi disturbi intaccarono un po’ alla
volta tutte le sfere della sua vita e cominciò, come
un’alcolizzata, a dissimulare le sue mancanze, a imbrogliare, a fingere per fare in modo che né Vincent né
qualcun altro si accorgesse di nulla. Un medico le propose di ricoverarsi. Rifiutò, finché la morte entrò nella
sua follia.
Mentre continua a camminare, Sophie apre la borsa, ci infila la mano, accende una sigaretta tremando,
aspira profondamente. Chiude gli occhi. Nonostante il
brusio che le riempie la testa e il malessere che la devasta, si accorge che Léo non le sta più accanto. Si volta e lo vede lontano, impettito in mezzo al marciapiede, a braccia conserte, con un’espressione impenetrabile, che si rifiuta ostinatamente di camminare. La vista di quel bambino imbronciato, piantato in mezzo al
marciapiede, la riempie all’improvviso di una rabbia
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spaventosa. Torna indietro, si ferma proprio davanti a
lui e gli rifila un sonoro ceffone.
È il suono di quello schiaffo a risvegliarla. Si vergogna, si volta per controllare se qualcuno l’ha vista. Non
c’è nessuno, la strada è deserta, solo una moto passa
lentamente alla loro altezza. Guarda il bambino che si
stropiccia la guancia. Lui le restituisce lo sguardo, senza piangere, come se percepisse che tutto ciò non lo riguarda veramente.
Lei dice: «Andiamo a casa», in tono definitivo.
Tutto qui.
Non si sono più parlati per tutta la sera. Entrambi
avevano le loro ragioni. Si è confusamente chiesta se
quello schiaffo non le avrebbe creato dei problemi con
la signora Gervais, pur sapendo che per lei non faceva
nessuna differenza. Adesso doveva andare via, tutto accadeva come se fosse già andata via.
Quasi a farlo apposta, quella sera Christine Gervais
è tornata a casa tardi. Sophie dormiva sul divano mentre sullo schermo una partita di basket andava avanti
in un diluvio di urla e applausi. Il silenzio l’ha svegliata quando la signora Gervais ha spento il televisore.
«È tardi…», si è scusata.
Lei ha guardato il profilo con il cappotto che le si
stagliava davanti. Ha farfugliato un fiacco «no».
«Vuole dormire qui?».
Quando torna tardi, la signora Gervais le propone
sempre di restare, lei rifiuta e la signora Gervais le paga il taxi.
In un attimo, Sophie ha rivisto il film di quel finale
di giornata, la serata silenziosa, gli sguardi sfuggenti,
Léo, serio, che ha ascoltato con pazienza la favola della buonanotte pensando visibilmente ad altro. E che ha
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ricevuto l’ultimo bacio con una sofferenza così evidente che si è sorpresa a dire:
«Non è niente, pulcino, non è niente. Scusami…».
Léo ha annuito. In quel momento sembrava che la
vita adulta avesse fatto improvvisamente irruzione nel
suo universo e che anche lui ne fosse spossato. Si è addormentato subito.
Questa volta, Sophie ha accettato di rimanere a dormire, talmente era abbattuta.
Stringe fra le mani la tazza di tè ormai fredda, senza fare caso alle lacrime che cadono pesanti sul parquet. Per un attimo compare un’immagine, il corpo di
un gatto inchiodato su una porta in legno. Un gatto nero e bianco. E ancora altre immagini. Solo di morti. Ci
sono tanti morti nella storia di Sophie.
È il momento. Uno sguardo al pendolo sulla parete
della cucina: le nove e venti. Senza rendersene conto,
ha acceso un’altra sigaretta. La spegne nervosamente.
«Léo!».
La sua voce la fa sussultare. Vi percepisce dell’angoscia, senza sapere da dove venga.
«Léo?».
Si precipita nella stanza del bambino. Sul letto le
coperte sono rigonfie, disegnano una sorta di montagne russe. Respira, sollevata, e le spunta persino un vago sorriso. La scomparsa della paura la trascina, suo
malgrado, verso una specie di tenerezza riconoscente.
Si avvicina al letto dicendo:
«Allora, dov’è questo bambino?».
Si volta.
«Forse qui…».
Fa sbattere piano l’anta dell’armadio in pino conti-
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nuando a sorvegliare il letto con la coda dell’occhio.
«No, non è nell’armadio. Forse è nei cassetti…».
Apre un cassetto, una volta, due volte, tre volte dicendo:
«Non è in questo… Nemmeno in quest’altro… Eh
no… Dove sarà mai?».
Si avvicina alla porta e, a voce più alta:
«Be’, allora, visto che non c’è, me ne vado…».
Chiude rumorosamente la porta ma resta nella stanza, fissando il letto e la forma delle lenzuola. Aspetta
un movimento. Ed è presa dall’inquietudine, da un
vuoto allo stomaco. Quella forma è impossibile. Resta
lì immobile, le lacrime salgono di nuovo ma non sono
più le stesse, sono quelle di altri tempi, quelle che bagnano il corpo di un uomo insanguinato accasciato sul
volante, quelle che accompagnano le sue mani sulla
schiena dell’anziana donna mentre viene scaraventata
per le scale.
Si avvicina al letto con un’andatura meccanica e tira
via le lenzuola di scatto.
Léo c’è, ma non dorme. È nudo, raggomitolato, i
polsi legati alle caviglie, la testa piegata fra le ginocchia. Di profilo, il suo viso è di un colore spaventoso.
Il suo pigiama è servito a legarlo solidamente. Al collo,
un laccio tanto stretto che ha tracciato un solco
profondo nella carne.
Si morde la mano, ma non riesce a trattenere il vomito. Si sporge in avanti, evita all’ultimo momento di
aggrapparsi al corpo del bambino, ma non può fare a
meno di appoggiarsi al letto. Il piccolo corpo cade subito su di lei, la testa di Léo va a sbattere contro le sue
ginocchia. Lei la stringe così forte a sé che niente può
impedire loro di cadere l’uno sull’altra.
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Ed eccola lì, ora, seduta a terra, con la schiena al
muro e, addosso a lei, il corpo di Léo, inerte, gelato…
Le sue urla la sconvolgono come se provenissero da
qualcun altro. Volge lo sguardo al bambino. Nonostante il velo di lacrime che le offusca la vista, intuisce
la portata del disastro. Accarezza i suoi capelli con gesti automatici. Il suo viso, terreo e chiazzato, è girato
verso di lei, ma i suoi occhi fissi sono aperti sul vuoto.
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Quanto tempo? Non lo sa. Riapre gli occhi. La prima cosa che sente è l’odore della sua maglietta piena di
vomito.
È sempre seduta sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete della stanza, guarda a terra, ostinatamente, e vorrebbe che nulla si muovesse, non la
sua testa, né le sue mani, né i suoi pensieri. Restare lì,
immobile, fondersi nel muro. Quando ci si ferma, tutto si deve fermare, no? Ma quell’odore le rivolta lo stomaco. Scuote la testa. Movimento minimo verso destra, dal lato della porta. Che ore sono? Movimento
opposto, minimo, verso sinistra. Nel suo campo visivo,
i piedi del letto. È come un puzzle: basta un solo pezzo
per ricostruire mentalmente l’insieme. Senza muovere
il capo, agita appena le dita, si annusa i capelli, risale
come una nuotatrice verso la superficie, dove c’è l’orrore ad attenderla, ma si ferma subito, trafitta da una
scarica elettrica: il telefono ha iniziato a gridare.
Stavolta la sua testa non ha esitato, si è girata immediatamente verso la porta. È da lì che proviene lo
squillo, dal telefono più vicino, quello del corridoio,
sul tavolo di ciliegio. Abbassa gli occhi per un attimo e
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l’immagine del corpo del bambino la colpisce: adagiato su un fianco, con la testa sulle ginocchia, in un’immobilità che lo fa somigliare a un quadro.
Lì, per metà steso su di lei, c’è un bambino morto,
e poi lo squillo di un telefono che non vuole smettere
e Sophie, che ha in custodia quel bambino, che risponde normalmente al telefono, seduta con le spalle
al muro, il capo che ciondola da una parte all’altra, a
respirare il suo vomito. Le gira la testa, si sente di nuovo male, sta per svenire. Il suo cervello si sta sciogliendo, tende disperatamente la mano, come fosse una
naufraga. È un’impressione dovuta al suo smarrimento, ma le sembra che lo squillo sia di un tono più alto.
Adesso sente solo quello, le trapassa il cervello, la
riempie e la paralizza. Con le mani davanti a sé e poi
da un lato, alla cieca, cerca tastoni un appiglio, alla fine
trova qualcosa di duro, a destra, al quale attaccarsi per
non sprofondare del tutto. E quello squillo che non la
smette, che non si vuole fermare… La sua mano ha afferrato l’angolo del tavolino dove è poggiata la lampada da notte di Léo. Stringe con tutte le sue forze, e
quell’esercizio fisico fa per un attimo defluire il suo
malessere. E lo squillo cessa. Il suo cervello conta, lentamente… quattro, cinque, sei… lo squillo è cessato.
Passa un braccio sotto il corpo di Léo. Non pesa
niente. Riesce a poggiare la sua testa per terra e, con
uno sforzo smisurato, a mettersi in ginocchio. Adesso
è tornato il silenzio, quasi palpabile. Respira a scatti,
come una donna che partorisce. Un lungo filo di saliva le cola dalla bocca. Senza voltare la testa, guarda il
vuoto: cerca una presenza. Pensa: c’è qualcuno qui,
nell’appartamento, qualcuno che ha ucciso Léo e che
ucciderà anche me.
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In quell’istante, lo squillo del telefono rimbomba di
nuovo. Una nuova scarica elettrica le attraversa il corpo. Cerca intorno a sé. Trovare qualcosa, velocemente… La lampada da notte. La prende, la tira con un
colpo secco. Il filo elettrico cede e lei cammina per la
stanza, lentamente, in direzione della suoneria, un passo dopo l’altro, tiene la lampada come una torcia, come un’arma, senza rendersi conto di quanto ridicola
sia la situazione. Ma è impossibile sentire la minima
presenza con quel telefono che ruggisce, che urla senza variazioni, con quello squillo che perfora lo spazio,
meccanico, ossessivo. È sulla porta della camera quando brutalmente torna il silenzio. Avanza e d’improvviso, senza sapere perché, è sicura che non c’è nessuno
nell’appartamento, che è sola.
Senza nemmeno riflettere, senza esitare, si spinge in
fondo al corridoio, verso le altre stanze, tenendo la
lampada a mezz’asta, con il filo che si trascina a terra.
Torna verso il salone, entra in cucina e poi esce, apre le
porte, tutte le porte.
Sola.
Affonda nel divano e lascia finalmente la lampada
da notte. Sulla sua T-shirt il vomito sembra fresco. Ha
di nuovo la nausea. Con un unico movimento si toglie
la maglietta e la butta a terra, si rialza subito e si dirige
nella stanza del bambino. Ecco che ora, appoggiata allo stipite, guarda il piccolo corpo morto disteso su un
fianco, tiene le braccia incrociate sul seno nudo e piange sottovoce… Bisogna chiamare. Non serve più a
niente, ma bisogna chiamare. La polizia, l’ambulanza, i
pompieri, chi si chiama in questi casi? La signora Gervais? La paura le morde lo stomaco.
Vorrebbe muoversi ma non ce la fa. Dio mio, So-
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phie, in che casino sei finita? Come se non fosse già abbastanza… Dovresti andare via subito, adesso, prima
che il telefono squilli di nuovo, prima che la madre,
preoccupata, prenda un taxi e piombi qui con le sue
urla, le sue lacrime, la polizia, le domande, gli interrogatori. Sophie non sa più che fare. Chiamare? Andare
via? La sua scelta è fra due cattive soluzioni. Tutta la
sua vita è così.
Alla fine si riprende. In lei qualcosa si è mosso. Inizia subito a correre per la casa, da una stanza all’altra,
piangendo, ma i suoi gesti sono disordinati, i suoi movimenti senza scopo, sente la propria voce gemere come quella di un bambino. Prova a ripetersi: «Concentrati, Sophie. Respira e sforzati di pensare. Ti devi vestire, lavare la faccia, devi prendere le tue cose. Velocemente. E andare via. Subito. Raduna le tue cose, fai
la borsa, sbrigati». Ha corso talmente tanto fra le stanze che è un po’ disorientata. Quando passa davanti alla stanza di Léo non può fare a meno di fermarsi ancora una volta, e la prima cosa che vede non è il volto fisso e livido del bambino, è il suo collo e il laccio marrone la cui estremità serpeggia a terra. Lo riconosce. È
quello delle sue scarpe da montagna.
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