storia e fondamenti della matematica

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storia e fondamenti della matematica
STORIA E FONDAMENTI DELLA MATEMATICA
Luigi Borzacchini (Dip. di Matematica, Università di Bari)
Parte I. Dalle origini alla matematica moderna
Perché un corso di storia e fondamenti della matematica nella formazione dei futuri docenti di
matematica? Non basta che conoscano la matematica stessa? Cambia qualcosa nell’insegnamento
della matematica se ne conosciamo la storia?
Ma partiamo dalle inchieste sull’insegnamento che in passato hanno delineato una situazione
abbastanza paradossale: gli studenti in genere ritengono i loro docenti di matematica abbastanza
preparati, ma incapaci di insegnarla, tanto da fare della matematica la materia meno amata dagli
adolescenti. Incidentalmente: la materia più detestata è la matematica, seconda, la storia. Quindi la
‘storia della matematica’ è per uno studente quanto di peggio si possa immaginare!
Perché accade questo disastro didattico nella matematica?
Certo lo studio di tecniche didattiche e pedagogiche può migliorare la tecnica del docente di
matematica, ma c’è una questione più radicale: diversamente dalle altre discipline in cui si impara
progressivamente, l’apprendimento della matematica è qualcosa che procede per improvvise
‘illuminazioni’, per passaggi dalle tenebre alla luce. E’ normale l’esperienza di ritenere qualche
idea matematica astrusa e incomprensibile per molto tempo, e poi, improvvisamente, capirla
chiaramente una volta per tutte. In questo modo di apprendere normalmente le difficoltà
precedenti vengono rimosse, considerate quasi un momento di cecità di fronte a qualcosa di
evidente. Così lo studente di matematica e futuro docente della stessa materia ritiene ovvio quello
che prima gli era astruso e ‘rimuove’ le passata difficoltà, considerandole quasi un peccato di
giovinezza, e quando deve insegnare si stupisce che i suoi studenti non trovino ovvio quello che
per lui è da tanti anni diventato ovvio, pur essendo stato precedentemente incomprensibile.
Il maestro irlandese fra le due guerre descritto da Frank Mc Court nel Le ceneri di Angela
faceva ripetere ai suoi studenti ogni mattina <chi non capisce Euclide è scemo>. In realtà la
matematica non è ovvia, non è naturale, non è logica, è una conquista complessa, un faticoso
processo di maturazione concettuale e mentale, non capirla è ovvio, è naturale, è logico.
Per questo può aiutare la storia della matematica: può rendere chiaro questo faticoso processo,
esplicitare le difficoltà, relativizzare le certezze acquisite. Occorre che un professore guardi la
matematica con un doppio sguardo, uno che ne veda la certezza e la perfetta struttura
architettonica, e un altro che ne veda la faticosa e incerta costruzione.
Esiste la necessità di ‘fondare’ la matematica? Si potrebbe tranquillamente rispondere di no.
Se consideriamo infatti gli ultimi quattro secoli davanti ai nostri occhi si presenta uno scenario
segnato da una sequenza continua di stupefacenti trionfi della applicazione della matematica al
mondo reale nella meccanica, ottica, elettromagnetismo, termodinamica, fisica atomica,
astrofisica, biologia, etc. Ma forse proprio questo stupefacente trionfo rende ancora più
affascinante il problema del trovarne le ragioni: che cosa rende il mondo ‘matematico’?
Un’altra caratteristica che distingue la matematica anche dalle altre scienze è il suo rapporto
con la verità e la certezza. E’ indubbio che un ‘fatto’ matematico (ad esempio che 261 non è un
numero primo) anche se verificato una sola volta appare molto più certo di qualsiasi regolarità
naturale, anche se verificata miliardi di volte (ad esempio che domani sorgerà il sole). Anche
questa ‘certezza’ che contraddistingue il ‘fatto’ matematico non può non renderci almeno curiosi
sulla sua origine.
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E la matematica è la più antica delle discipline: uno scriba mesopotamico di quattromila anni
fa potrebbe fare il suo corso di matematica elementare anche oggi: sembrerebbe solo un po’
‘sperimentale’. Di nessuna altra disciplina si può dire lo stesso.
Cioè, diversamente da tutte le altre discipline il problema filosofico in matematica non nasce
tanto dalle sue incertezze o mutabilità, ma proprio invece dai suoi successi e dalla sua
immutabilità. E forse per questo motivo i fondamenti della matematica non sono oggi una
disciplina di natura filosofica come i fondamenti della fisica, ma si presentano come una specifica
branca della matematica. In questo distingueremo il problema dei fondamenti della matematica
dalla filosofia della matematica, che invece conserva un impianto filosofico. Storicamente il
problema dei fondamenti sembra apparire verso la fine dell’ottocento, emergendo dalla filosofia
della matematica ma diventando parte integrante del pensiero matematico.
Tipicamente due problemi sono centrali nel dibattito sui fondamenti della matematica. In
primo luogo il problema ontologico: quale è la natura degli enti matematici. Sono realmente
esistenti? sono creazioni della mente umana? O che altro? In secondo luogo il problema
epistemologico: come conosciamo la matematica? La scopriamo empiricamente? La creiamo? La
intuiamo?
Corollario a questi due interrogativi appare un terzo problema filosofico: perché le tecniche
matematiche funzionano così bene nel mondo reale? Questo problema appare chiaro quando
riflettiamo sulla profonda diversità tra ciò che vediamo intorno a noi, la realtà e quello che
manipoliamo quando facciamo matematica, essenzialmente segni. Da qui possiamo far partire la
nostra indagine: che cosa significa conoscere tramite segni?
I SEGNI E LA RAPPRESENTAZIONE SINTATTICA
La rappresentazione sintattica connette due mondi: l'essere, il mondo reale (brevemente: la
semantica) e il linguaggio, il mondo dei segni (la sintassi), ogni segno ‘sta per’ qualcosa, aliquid
stat pro aliquo. Ma che cosa intendiamo qui per segno? Una 'traccia' (scritta sulla carta, scolpita
nella roccia, incisa sulla argilla) scelta da un insieme finito, un alfabeto, di tracce.
Importante sottolineare che i nostri 'segni' sono anfibi: hanno qualcosa di astratto e ideale, in
quanto li riteniamo infinitamente riproducibili in modo identico e perfettamente distinguibili tra di
loro: anzi sono gli unici enti dei quali si possa realmente predicare la assoluta uguaglianza e
diversità, i segni sono gli 'apriori' del concetto moderno di "uguaglianza" a partire almeno da
Platone: si possono creare infiniti 5 e tutti identici fra di loro per quanto diversi possano essere
dimensioni, materiali, stili di scrittura, e un 5 e un 4 sono totalmente diversi per quanto somiglianti
possano apparire. Essi hanno tuttavia anche qualcosa di materiale e concreto, in quanto li
riteniamo costruibili e manipolabili tecnicamente. Dal punto di vista della funzione di
'rappresentazione', vengono ritenuti convenzionali nella forma e intersoggettivi nel significato e
nell'uso (secondo "regole"). Sono insomma i nostri segni logici, numerici, algebrici, ma anche
quelli alfabetici nella misura in cui il linguaggio naturale viene usato come 'protocollo di
comunicazione' di fatti.
La linguistica contrappone spesso questo tipo di rappresentazione 'sintattica' ad una
rappresentazione 'iconica', in cui gli elementi del mondo reale sono rappresentati da loro
'immagini' più o meno stilizzate (ad esempio le silhouettes di uomini e donne sulle porte delle
toilettes).
I segni e la loro funzione di rappresentazione sintattica sono la base di ciò che qui intendiamo
per pensiero formale. Qualcosa che fa parte integrante della nostra vita, al punto da apparire del
tutto ovvia. Ma è davvero tale?
Ma che cosa è il ‘pensiero formale’? Può avere diversi significati, ma noi lo intendiamo come
ragionare senza comprendere. E’ qualcosa di comune in logica e matematica. Confrontiamo
queste due deduzioni: <ogni barese è pugliese, Giovanni è barese, quindi Giovanni è pugliese> e
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<ogni sarchiapone è sesquipedale, Joe è un sarchiapone, quindi Joe è sesquipedale>: quale è la
differenza? Le deduzioni sono identichea, ma la prima deduzione ha un ‘senso’, possiamo
addirittura conoscere un tale Giovanni barese, la seconda è puramente formale, non ha alcun
‘senso’. Oppure consideriamo questi due problemi: <ogni cartone contiene 6 uova, la mamma
compra 4 cartoni, quante uova compra? 24> e <ogni brik contiene 6 stuk, abbiamo 4 brik, quanti
stuk abbiamo? 24>. Le operazioni sono le stesse, ma la prima è qualcosa di assolutamente
comune, la seconda non significa niente, è puramente ‘formale’.
Consideriamo ad esempio un astronomo (caldeo, rinascimentale o contemporaneo) che
guarda la luna e ne rappresenta la posizione attraverso coordinate astronomiche (figura 1): è
questo l'aspetto 'statico' della rappresentazione (descrive il regno della realtà, ed è erede della
'characteristica universalis' di Leibniz).
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rappresentazione
moto
divenire
mutamento
27°N
12°E
calcolo
deduzione
regola
31°N
28°E
interpretazione
figura 1
Ma l'astronomo può anche prevedere, 'calcolare', attraverso tavole, operazioni, calcoli,
equazioni, ecc., la posizione che la luna assumerà più tardi e verificare il risultato. Se la posizione
così prevista e quella reale coincidono, la rappresentazione si dice corretta (matematicamente
diremmo che il diagramma 'commuta'). Questo è l'aspetto 'dinamico' della rappresentazione
(descrive il divenire, il mutamento, ed è erede del 'calculus ratiocinator' di Leibniz).
I due 'mondi', sintassi e semantica, appaiono del tutto eterogenei e quindi si pone
immediatamente il problema del come faccia questa "tecnica rappresentativa" a 'funzionare' (e che
'funzioni' è provato dalla sequenza praticamente ininterrotta di trionfi della nostra conoscenza
'sintattica', la matematica applicata soprattutto alla fisica, negli ultimi quattro secoli), non solo
come 'ricetta' empirica di registrazione di fatti, ma addirittura come fondamento della stessa idea
di "verità".
Proviamo a delineare più precisamente le difficoltà connesse con l'idea di rappresentare la
realtà tramite "segni".
In primo luogo consideriamo la doppia caratterizzazione della rappresentazione sintattica, allo
stesso tempo convenzionale e intersoggettiva. A pensarci bene la intersoggettività sarebbe meglio
garantita da una rappresentazione iconica (e del resto la prima idea di 'rappresentazione' che
troviamo nella cultura greca è mimēsis, "imitazione"), che da una sintattica, la quale invece, in
quanto convenzionale, si presenta essenzialmente soggettiva. In parole povere: sulla porta della
toilette, scrivere 'uomini' e 'donne' invece di usare le 'silhouettes' rende la rappresentazione più
'soggettiva' (ad esempio la rende incomprensibile a chi non capisce l'italiano). Le due
caratterizzazioni del 'segno' appaiono così curiosamente contraddittorie: le ragioni della
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"convenzionalità", legate soprattutto alla diffusione della scrittura, paradossalmente ne minano la
"intersoggettività" .
In secondo luogo confrontiamo, nell'esempio astronomico fatto più sopra, il moto reale della
luna durante la notte, continuo, quasi uniforme e rettilineo, con le operazioni sintattiche fatte dagli
astronomi, col moto delle palline sull'abaco o con gli scarabocchi delle operazioni aritmetiche o
con le transizioni di stato in un calcolatore. Non solo questi sono processi discreti, ma presentano
un carattere apparentemente caotico del tutto inconfrontabile col moto regolare della luna. Questa
differenza continuo/discreto (regolare/caotico) si traduce in diverse difficoltà della
rappresentazione: la 'rappresentazione sintattica' richiede simboli 'elementari' mentre quella
'iconica' no, le parti della rappresentazione di un oggetto non sono rappresentazioni delle parti
dell'oggetto stesso (a quale parte di Socrate corrisponde la 'o' del suo nome?), mentre invece
questo accade nella rappresentazione iconica (la mano nella immagine di Socrate è l'immagine
della mano di Socrate), ed infine la relazione non è biunivoca: un predicato corrisponde a molti
oggetti e un oggetto possiede molti predicati.
In terzo luogo l’immagine reale è istantanea, distribuita su una superficie bidimensionale,
mentre invece la rappresentazione simbolica si sviluppa nel tempo (nel caso della oralità) o lungo
una linea da seguire con la mano o con lo sguardo (nella scrittura).
In quarto luogo la corrispondenza è abbastanza semplice per termini osservativi (come "casa"
o "giallo"), più complessa per termini astratti (come "bellezza" o "giustizia") o costrutti teorici
(come "carica elettrica"), ma esistono parole per le quali la corrispondenza è del tutto impossibile,
quali "essere", "verità", "negazione", ecc. Addirittura nella realtà rappresentata dalla proposizione
"non c'è niente di rosso" non solo non troviamo qualcosa corrispondente a "non", a "niente" o a
"c'è", ma neanche qualcosa corrispondente a "rosso". Un'ape forse può trasmettere informazioni
sulla presenza di polline semplicemente 'mimando' direzione e distanza, ma può in tal caso
'mentire' o 'riconoscere un errore', in generale tematizzare il falso?
Esistono poi i termini matematici, quali numeri o relazioni ("uguale" o "più/meno"), i quali
non ammettono corrispondenze 'analitiche', ma solo 'olistiche', relative cioè alla 'totalità' della
immagine, non sono ‘attributi’ ma ‘relazioni’ tra cose: in "ci sono due stelle" o "i pianeti hanno
uguale luminostità" il 'due' o l''uguale' non possono essere predicati di nessun oggetto singolo, ma
solo del fatto complessivo.
Alla periferia della scienza europea troviamo zone dove, del pensiero formale, si perdono le
tracce. Il bambino di Piaget arriva al pensiero formale lentamente tra i 6 e gli 11 anni, ed in modo
in fondo abbastanza misterioso anche se la scuola sembra giocarvi un ruolo decisivo.
Qualcosa di analogo si trova nelle indagini antropologiche, quali quelle di Levi-Strauss. Negli
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idee
mente
parole
oggetti
realtà
rappresentazione
linguaggio
figura 2
anni ’30 Luria e Vigotskij approfittarono della politica stalinista di imposizione della scuola di
massa per studiare la transizione in tempi rapidi da ‘culture orali’ a ‘culture della scrittura’. In
Uzbekistan trovarono una popolazione di antica cultura, ma del tutto analfabeta, che fu costretta
nel giro di pochi anni a passare ad una scolarizzazione integrale. Fratelli più grandi analfabeti e
fratelli più piccoli secolarizzati. Impressionante il cambiamento per quanto riguardava il ‘pensiero
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formale’, che sembrava quasi assente nei primi e ‘normale’ nei secondi. Ad esempio di fronte a
questioni del tipo “Nei boschi qui intorno tutti gli orsi sono marroni. Se incontri un orso, di che
colore è?” Entrambi rispondevano “ovviamente, marrone”. Ma di fronte alla stessa questione
riferita però agli orsi bianchi (mai visti dagli uzbechi) dell’estremo nord, mentre il secondo
rispondeva “ovviamente bianchi”, il primo mostrava difficoltà a fare una inferenza riguardo fatti
di cui non aveva esperienza.
Il Bororo di Levi-Strauss o l'uzbeco di Luria appaiono fuori del pensiero formale, ma LeviStrauss insiste che non si tratta di 'illogicità' ma di una logica "concreta" al posto di una logica
"formale", e Luria sottolinea l'apparire del pensiero formale al seguito della scolarizzazione di
massa.
Il pensiero formale è nato 'una volta sola', intorno al V sec. A.C. in Grecia. Quali forze
segnano questo emergere? Sono i secoli che segnano l'affermazione definitiva di una economia
basata sulla moneta, della città e della sua scuola, l'emergere degli intellettuali come ceto laico, il
crollo della famiglia allargata, la diffusione di massa della scrittura alfabetica. Di questa specie di
'melting pot' forse l'aspetto che ci interessa sottolineare, visto che dobbiamo studiare i 'segni', è il
ruolo pervasivo della tecnologia alfabetica. Del resto diversi autori hanno sottolineato il ruolo
decisivo delle forme linguistiche e del medium comunicativo nella stessa 'forma' di una civiltà: da
von Humboldt all’inizio del XIX secolo sino, in tempi più recenti, a Whorf, Sapir, Havelock,
MacLuhan.
La idea di rappresentazione ha un ruolo cruciale nella 'novità' del pensiero greco, non solo
nella astronomia geometrica e nel pensiero formale: si pensi alle carte geografiche che la
tradizione ascrive ad Anassimandro, Ecateo, fino ad Aristagora, tiranno di Mileto, che porterà in
Grecia "una tavola di bronzo su cui erano incisi i contorni di tutta la terra, con tutti i mari e tutti i
fiumi".
Ed anche l'alfabeto è nato 'una volta sola': tutti gli alfabeti sembrano essere derivati
direttamente o indirettamente da un proto-alfabeto nato tra il Sinai e la Fenicia nella seconda metà
del II millennio a.C. e poi perfezionato dai Greci.
Nella cultura greca classica l'intera struttura del ceto e della funzione intellettuale viene
stravolta dal ruolo sempre più rilevante assunto dalla scrittura. Di questo cambiamento epocale si
sente l'eco nelle parole di Platone, nel Phaedrus 274b-275c, ove narra il mito sulla nascita della
scrittura (oltre che della matematica e dei giochi combinatori) da parte del dio greco Theuth. Il dio
mostra a re Thamus di Tebe le sue invenzioni e ne vanta l'utilità.
Ma quando giunse alla scrittura, Theuth disse "Questa
dottrina, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più
capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il
farmaco della memoria e della sapienza." E il re rispose: "O
ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di creare le arti e
chi invece è capace di giudicare quale danno o quale
vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu,
padre delle lettere, per affetto hai detto proprio il
contrario di quello che essa vale. Infatti la scoperta della
scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza delle
anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della
scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante
segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque
tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del
richiamare alla memoria. Della sapienza poi tu procuri ai
tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: infatti essi
divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza
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insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte
cose, mentre, come accade per lo più, in realtà non le
sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché
sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti."
Paradossale la 'paura' espressa da Platone, quando si pensi che grande scrittore egli sia stato,
quanto dovette alla sua opera il pensiero formale e quanto debba il suo ruolo nella storia della
filosofia al fatto di essere stato il primo filosofo i cui testi sono arrivati, grazie alla scrittura, sino a
noi quasi integralmente.
In mille e mille passi Platone ed Aristotele ci mostrano che è l'alfabeto la metafora di quella
forma europea del sapere, centrata sulla rappresentazione sintattica. Un sapere fatto di enti discreti
complessi costituiti di elementi irriducibili ad altro da sé e la cui conoscenza è fuori della
dialettica. La dialettica compare al di là degli elementi, laddove essi si compongono e pongono le
basi dell'idea gerarchica, composizionale e funzionale della conoscenza (sia la realtà che il
linguaggio scientifico sono costituiti di oggetti complessi composti a partire da oggetti più
semplici, ed il funzionamento e significato di questi si ricavano univocamente a partire dal
funzionamento e significato di quelli), che resta l'impronta digitale della nostra civiltà.
La matematica viene dall’Oriente e fino a quasi tutto il medioevo è sempre stata un ‘prodotto’
orientale: la Grecia antica in fondo era la ‘periferia’ dell’Oriente. Archimede di Siracusa è il più
‘occidentale’ matematico antico, ma i suoi riferimenti culturali erano tutti orientali. Si può
considerare Leonardo da Pisa, detto ‘il fibonacci’, vissuto nella prima metà del XIII secolo, il
primo matematico ‘occidentale’.
E prima dei Greci la matematica era patrimonio degli ‘scribi’, quei sacerdoti del tempio e del
palazzo che avevano il monopolio della cultura, della scrittura e della matematica, così che, pur
apparendo negli antichi miti e rituali, aveva un aspetto essenzialmente pratico: calcoli relativi ad
aree, a quantità di beni, a problemi amministrativi. Harpenodaptai (tenditori di corde) erano detti
gli scribi egizi che dopo ogni inondazione del Nilo rimisuravano con corde e paletti i campi a fini
fiscali.
Probabilmente la matematica si svolgeva soprattutto sull’abaco che all’origine era solo una
superficie piana coperta di sabbia sulla quale si potevano tracciare linee e poggiare sassolini. Era
l’antenato del nostro pallottoliere ma serviva probabilmente anche a fare costruzioni geometriche,
ad esempio per scoprire come calcolare le aree delle figure geometriche (la fig.2 bis mostra come
si poteva scoprire sull’abaco la regola per il calcolo dell’area del rettangolo). Del resto lo stesso
Archimede fu ucciso sulla spiaggia mentre faceva geometria sulla sabbia. I ‘sassolini’ finivano con
l’essere nel contempo punti, quadratini unitari e unità, antenati di quelle che i Greci chiameranno
monadi, così che tanto un intervallo di lunghezza n quanto il numero intero n saranno da essi
considerati una sequenza lineare di n ‘monadi’ (fig.1, destra).
FIG.2 BIS
Non si trova traccia di ‘dimostrazioni’, ma non si deve credere che si trattasse di una
matematica rozza. Ad esempio, gli egiziani avevano un algoritmo per la moltiplicazione tra interi,
rapido e facile, che usava non le tabelline ma di fatto la scrittura binaria dei numeri. Supponiamo
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ad esempio di voler moltiplicare 27 per 13. Iteriamo il raddoppio di 27 fino ad ottenere il suo
multiplo 2n-esimo con 2n minima potenza di 2 maggiore di 13, e scriviamo 13 come somma di
multipli di 2: otteniamo 13 = 8 + 4 + 1, contrassegniamo con una × i termini di tale somma:
×
×
×
1
2
4
8
16
27
54
108 216 432
Ora sommiamo i multipli contrassegnati dalla ×: 27 + 108 + 216 = 351, che è il risultato
cercato, senza tabelline.
I NUMERI E L’INFINITO. I PITAGORICI E GLI ELEATI
In realtà la storia della matematica fino al Rinascimento mostra lo sviluppo di due tradizioni,
tra di loro talora comunicanti, ma nettamente distinte. Vi è una tradizione pratica, fondata sull’uso
dell’abaco, senza dimostrazioni ma sviluppata solo con esempi, appresa oralmente per
apprendistato, diffusa nella pratica di agrimensori, commercianti, architetti in maniera uniforme in
tutto il Mediterraneo fino in Oriente. Non vi è una distinzione tra continuo e discreto, sull’abaco
con l’uso di linee e pietroline tanto si svolgono calcoli aritmetici quanto si misurano superfici
geometriche. Non vale il ‘principio di omogeneità’ (per il quale si possono sommare e confrontare
solo grandezze della stessa dimensionalità). Questa matematica sopravviverà nei secoli più bui del
Medioevo e crescerà con lo sviluppo economico della nuova civiltà europea.
L’aritmetica pratica era legata al calcolo e alla misura. Inoltre apparirà organicamente legata
alla filosofia e alla teologia, dominata da un clima pitagorico e platonico fino alla fine
dell’antichità: il testo più importante dell’aritmetica greca fu quello di Nicomaco, vissuto ad
Alessandria tra I e II sec. d.C., il più noto di una serie di testi in cui l’aritmetica veniva descritta
all’interno della tradizione neoplatonica dominante, senza nessuna parentela con la grande
tradizione dei geometri teorici e nella quale ogni numero era figurato, caratterizzato
filosoficamente ed entrava direttamente nella costituzione stessa della realtà. Gli Elementi di
Euclide includeranno anche tre libri aritmetici, il VII, VIII, IX, in cui l’aritmetica verrà trattata
teoreticamente rappresentando i numeri come segmenti: una aritmetica basata su postulati e
dimostrazioni, e sui concetti di rapporto e di proporzione, ma potremmo dire in un certo qual
modo ‘adottata’ dalla geometria.
I numeri erano interi, cardinali e finiti. Non esistevano i numeri reali ma anche i razionali non
c’erano (eccetto le ‘parti’, le frazioni unitarie 1/n, molto usate già in Egitto). Ovviamente al
mercato esistevano dei modi pratici per trattare le frazioni, ma questo non aveva nessuna eco nella
aritmetica greca.
L’altra tradizione è molto più effimera, è quella teorica dei grandi geometri greci, Archita,
Eudosso, Euclide, Apollonio, Archimede, fiorita tra il IV e l’inizio del II secolo a.C., con alcuni
epigoni successivi, come Pappo. E’ solo geometria non metrica, era puramente teorica e centrata
sulla teoria delle proporzioni, e sui concetti di uguaglianza e similitudine, con dimostrazioni
rigorose e principio di omogeneità, senza calcoli, esposta in libri e praticamente quasi del tutto
inutile, scomparsa nella tarda antichità e riapparsa solo con le traduzioni dei classici greci alla fine
del Medioevo.
Appariva netta in essa, contrariamente alla tradizione pratica, la opposizione tra numeri e
grandezze, tra aritmetica e geometria che durerà fino al Rinascimento. E proprio tale opposizione
spiega la assoluta centralità della teoria dei rapporti e delle proporzioni nella matematica
premoderna, come unico linguaggio per estendere alla geometria teorica concetti di natura
aritmogeometrica.
La tradizione teorica si tramandava attraverso la scrittura e nelle scuole, che nelle città greche
andava assumendo i caratteri moderni: relativamente di massa, spesso pubblica e fondata ai livelli
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elementari sul leggere, scrivere e far di conto, le fondamentali capacità della manipolazione dei
segni, l’insegnare.
Certo, ci furono matematici in cui si leggono entrambe le tradizioni: il ‘teorico’ Archimede fu
anche grande ingegnere ed il ‘pratico’ Erone fu anche ottimo geometra: non causalmente ad essi si
attribuisce la ‘formula’ per il calcolo dell’area del triangolo a partire dalla lunghezza dei lati, una
regola che per il suo carattere metrico sarebbe stata impensabile in Euclide. Tuttavia la distinzione
tra queste due tradizioni era molto più netta di quella attuale tra matematica pura ed applicata, le
quali per noi in fondo condividono metodi, concetti, linguaggi, istituzioni formative e tecniche
didattiche.
Sono due tradizioni che si fonderanno all’epoca di Descartes per creare la matematica
europea.
Nelle tradizione pratica i numeri erano da un lato parole del linguaggio orale dall'altro segni
scritti. Questi ultimi sembrano essere stati costruiti secondo lo schema generale di costruzione
della scrittura più antica, come icone degli oggetti di calcolo, dita, pietroline, cerchi, bastoncini,
mani etc., con tracce probabili di prestiti fonetici, cioè dell'uso di segni rappresentanti parole di
uguale pronuncia. Come parole i numeri erano credibilmente sempre "numeri di…", potremmo
dire aggettivi o determinativi, ed anche in greco 1, 2, 3, 4, 100, 1000 erano declinati per genere e
caso. Il numero aveva cioè da un lato un carattere semantico-computazionale, dall'altro la natura di
attributo cardinale di un insieme di oggetti concreti.
Le operazioni venivano spesso effettuate su 'tavole' la cui natura può variare: semplici ripiani,
ripiani in qualche modo quadrettati, abaci, sui quali vengono mossi 'pezzi' quali gettoni, pietroline,
bastoncini, etc.
Più complesso appare il ruolo della geometria. Sicuramente sembra svolgere un ruolo minore:
appare uno dei tanti settori pratici in cui si applicano le tecniche su accennate. Occorre così
ricordare quanto descritto da Erodoto ne Le Storie: quando il Nilo asportava pezzi di terra il
Faraone mandava degli specialisti a computare l'area di quanto rimasto ai fini fiscali: era una
funzione cruciale, ma era sempre una geometria puramente metrica.
Tra le relazioni particolari messe in gioco nei problemi geometrici appaiono diverse proprietà
concernenti l'area ed il perimetro di figure geometriche, volumi, similitudini e rapporti, e altre
proprietà di natura metrica. Appare l'idea di calcolare l'area tramite dissezione della figura in
questione (in Cina si trovano esempi di un simile calcolo anche per volumi), ed è largamente usato
il "teorema di Pitagora".
Ma credo sia possibile una valutazione più articolata. La geometria appare, sicuramente in
Cina e presumibilmente in Mesopotamia, sotto un altro aspetto: come tecnica di dimostrazione e
anche di memorizzazione di proprietà che noi diremmo algebriche: nel seguito ne daremo alcuni
esempi (per il calcolo delle radici, per il teorema di Pitagora, etc.). Si comprenderebbe così perché
la terminologia 'algebrica' sia di natura 'geometrica'. Questo ruolo 'metodologico' e 'algebrico' della
geometria deriva verosimilmente da tecniche quali l'uso dell'abaco o strumenti analoghi in cui la
disposizione geometrica di oggetti era alla base sia di calcoli geometrici che di tecniche
aritmetiche ed algebriche. Forse di qui derivava la prassi pitagorica della rappresentazione figurata
dei numeri (triangolari, quadrati, rettangolari, gnomone, etc.: vedi fig.3). Le pietroline sono quindi
nel contempo unità, punti, quadrati unitari, monadi: una vera aritmogeometria. La risoluzione di
problemi matematici basata in gran parte sull'uso di 'tabelle'. Così le frazioni vengono trattate nella
matematica egiziana usando tabelle della decomposizione di una frazione generica in frazioni
unitarie, e nella matematica babilonese la divisione si basa su tabelle degli "inversi".
Questo aspetto porterà alla cosiddetta algebra geometrica che costituisce II libro degli
Elementi di Euclide (vedi fig. 3bis, nella quale vi sono le dimostrazioni geometriche delle nostre
formule algebriche ( a + b )2 = a2 + 2 a b + b2 e ( a + b ) ( a - b ) = a2 - b2, ed anche
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Neugebauer osserva che "i contenuti dell'algebra geometrica utilizzano risultati che erano noti in
Mesopotamia".
fig.3
b
a
a-b
a
b
b
fig.3bis
In fig 3ter una costruzione che appare come teorema nel II libro degli Elementi (le due figure
nella parte superiore) e potrebbe essere la base della tecnica babilonesi di risoluzione delle
equazioni di II grado. Siano date la somma s di due grandezze e il rettangolo P, BCEH in figura,
che ha tali grandezze come lati. Prolunghiamo il lato CB di P per farlo diventare AB uguale ad s e
tracciamo la diagonale AO (figura in basso a destra). Sia D il punto medio di AB e costruiamo il
quadrato BDLN: se calcoliamo d, lunghezza di FG e quindi differenza tra s/2 e uno dei lati,
possiamo calcolare i due lati. Sia MN = CE, allora i due rettangoli quadrettati sono uguali e il
quadratino di lato d si può calcolare come differenza tra il quadrato di lato s/2 e lo gnomone
DFGMNB, la cui area è proprio P. Ma s e P sono noti e quindi è noto il quadratino e di
conseguenza anche d.
La figura a sinistra era anche la base della procedura pratica per calcolare la √A (il lato del
quadrato A). Se infatti a è una buona prima approssimazione di √A, allora √A= a+b, con b molto
minore di a, e di conseguenza nel quadrato A il quadratino di lato b si può trascurare, ottenendo A
~ a2+ 2ab (corrispondente ad una figura ad L, differenza tra un quadrato e un quadratino in esso
contenuto come in figura, detta uno gnomone). Così la seconda approssimazione si ottiene
aggiungendo ad a il valore approssimato b ~ (A-a2)/2a. A tale nuova approssimazione si può
riapplicare la stessa procedura per trovare una terza approssimazione, e così via.
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b
a
a
b
s/2
b
s/2
s/2 - b
d/2
O
P
L
S
E
F
M
N
G
H
d
fig.3 ter
A
C
D
B
L’idea di infinito e l’opposizione continuo/discreto sono parte cruciale sin dall’origine della
prima caratterizzazione e del punto di distacco della tradizione teorica greca dai modelli orientali.
Di quelli egiziani e mesopotamici è rimasto molto poco, così che la mancanza di riferimenti
all’infinito o al continuo/discreto potrebbe sembrare accidentale, dovuta alla mancanza di fonti.
Considerando però la cultura cinese, possiamo analizzare una grande tradizione matematica che
nel finito è stata fino a pochi secoli fa almeno confrontabile con quella occidentale, ed alla quale
probabilmente dobbiamo la nostra notazione numerica, gli algoritmi numerici, e diverse tecniche
combinatorie, oltre che le scoperte che hanno segnato l'inizio del 'moderno' in Europa: la bussola,
la stampa, la polvere da sparo. Eppure in tale cultura l’infinito (ed il continuo) gioca un ruolo
minore (potremmo dire nullo): rimane l’indefinitezza del tao ma niente di più.
La nostra attuale idea di continuo e discreto è quella delineata oltre duemila anni fa da
Aristotele, ma espressa in forma numerica solo con la nascita della scienza moderna, nel
'programma' di Descartes, ove il discreto è visto come un ‘campionamento’ del continuo (i numeri
interi sono particolari numeri reali), e il continuo è ‘esprimibile’ tramite il discreto (i numeri reali
sono rappresentati da una sequenza infinita di cifre). In maniera più formale i numeri reali si
considerano una estensione (come i relativi e i razionali e poi i complessi) a partire dai naturali
allo scopo di trovare soluzioni ad equazioni a coefficienti interi.
Noi siamo così abituati a scrivere un numero reale come due sequenze di cifre separate da un
‘punto’:
... a3 a2 a1 . a-1 a-2 a-3 ....
che non ci accorgiamo del fatto che quel piccolo ‘punto’ separa due universi radicalmente
differenti in tutta la storia della matematica e del pensiero, che solo saltuariamente e
provvisoriamente (come appunto nella rappresentazione del numero reale, nei secoli segnati dal
trionfo della fisica matematica) hanno trovato un punto di raccordo.
La prima sequenza sempre finita, a sinistra del punto, appartiene al dominio dei numeri interi,
contabili, alla numerazione, per contare uomini e pecore, ed origine dei segni numerici. Al di là
del punto, come al di là di uno specchio, la seconda sequenza appartiene all’universo delle
grandezze, alla misurazione, legata alla realtà esterna, in primo luogo sociale ed economica, ma
segnata anche dai fenomeni astronomici. Ed inoltre, mentre la prima sequenza è sempre finita, e
solo ‘potenzialmente’ infinita (“esiste sempre qualcosa oltre” nella definizione aristotelica), la
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seconda può e deve essere ‘attualmente’ infinita (“non esiste niente oltre” nella definizione
aristotelica) per denotare un generico numero reale.
Il concetto di 'infinito' non ha basi empiriche, inizialmente è solo un ‘indeterminato’, ma nel
V secolo comincia ad assumere un carattere più esplicitamente quantitativo, "per addizione" con
Archita (dimostrazione dell'illimitatezza dell'universo per l'assurdo di attraversare l'eventuale
limite con un bastone) e "per divisione" con Anassagora (non esistenza di un limite alla
divisibilità) ed Eudosso (tecniche di esaustione): in tutti i casi si tratta di un infinito 'dinamico',
'potenziale', legato cioè in fondo all'idea 'ordinale' di numero. Del resto anche il bambino
concepisce l'infinità dei numeri quando si accorge che non c'è un limite al continuare a contare,
con una notazione numerica linguisticamente e sintatticamente illimitata.
L’idea di infinito che noi riteniamo 'ovvia' non emerge se non insieme ad un’idea astratta di
‘numero’, ben diversa dalla connotazione ‘aggettivale-cardinale’ del numero nella aritmetica
greca, il “numero di…”. La stessa locuzione ‘infinito in numerosità’ viene usata da Platone per
connotare questa idea ‘quantitativa’ di infinito o illimitato, a fronte credibilmente di una idea
semplice di apeiron destinata a conservare ancora in Platone una qualche caratterizzazione di
generica 'indeterminatezza'.
Per le grandezze aritmetiche l'idea di infinito non si poneva, ma anche per le grandezze
geometriche tale idea si rivelava ostica: ancora in Euclide ed Archimede eutheia è una linea retta
finita, che può essere estesa all’infinito, ma non esiste una parola per distinguere il 'segmento'
dalla 'retta'. Ma se per la retta esiste una idea di infinito ‘potenziale’, niente del genere per il piano
o lo spazio: quella greca è una geometria piana senza il ‘piano’, solida senza lo ‘spazio’.
Abbiamo notizie molto vaghe sulla dottrina dello stesso Pitagora. Il reale contributo suo e dei
suoi immediati seguaci alla matematica è stato nettamente ridimensionato da Walter Burkert. Tale
operazione è in larga parte condivisibile e probabilmente occorre considerare Pitagora all'interno
dei rapporti stretti tra Grecia (Samo in particolare) ed Egitto, intensi ad esempio ai tempi della
occupazione dell'Egitto da parte di Cambise nel 525 a.C.. Ed Erodoto attesta che questi contatti
comprendevano rapporti coi sacerdoti egizi da parte di cittadini e commercianti greci.
L'acquisizione di tecniche e idee della casta sacerdotale egizia era destinata ad avere però poi
uno sviluppo del tutto originale in un ambiente culturalmente 'destrutturato' come quello delle
colonie greche. Possiamo dire che anche per la matematica vale quello che vale per la invenzione
dell'alfabeto greco a partire da quello fenicio: l'"emergenza" pressocchè immediata legata alla
diffusione di un tipo di scrittura creata in una certa società per un certo linguaggio in un
linguaggio e una struttura sociale del tutto diversi. La apparente 'banalità' del fatto rende ancora
più sorprendente le dimensioni epocali delle sue conseguenze 'immediate'. Il fenomeno risulta più
comprensibile se si ricorda che queste tecniche, sviluppate in ambienti sacerdotali, venivano ora
applicate in una società 'aperta' e in rapida evoluzione: le figure intellettuali dei primi filosofi greci
appaiono estranee al 'palazzo' e alla religione ufficiale, ma in qualche modo connesse alla nascita
della polis greca.
La matematica non è più tecnica specifica dello 'scriba' nella sua funzione di funzionario
addetto alla amministrazione del 'palazzo', dei suoi conti e dei suoi calendari, ma diviene uno
"schema di libera educazione".
Il pitagorismo appare in tutta la sua dimensione se solo consideriamo il quadrivio, quella
ripartizione delle scienze matematiche di stampo certamente pitagorico, che reggerà fino al Medio
Evo e che appare del tutto eterogenea rispetto alla tradizione precedente, egizia, babilonese, ma
anche alla tradizionale formazione del giovane nobile indo-europeo basata su musica e ginnastica
I pitagorici consideravano le scienze matematiche divise in
quattro parti: una metà riguardante la quantità, l'altra
metà riguardante la grandezza; e ciascuna delle due la
11
consideravano duplice. Una quantità può essere considerata
per il suo proprio carattere o in relazione ad un'altra
quantità,
le
grandezze
come
stazionarie
o
in
moto.
L'aritmetica studia allora la quantità in quanto tale, la
musica le relazioni tra quantità, la geometria la grandezza
a
riposo,
la
sferica
[astronomia]
la
grandezza
in
moto.(Proclo, Commentari al I libro degli Elementi, 35-36)
Caratteristica della tradizione teorica, dopo Pitagora, è la autonomia della geometria,
superando la tradizione pratica che di trattava i problemi geometrici come semplici calcoli
aritmetici senza principio di omogeneità, così che sia Erone che Diofanto sommavano aree e
perimetri, aree e lati, etc., una tradizione che rimase estranea ai grandi problemi della geometria
greca: l'incommensurabilità, il continuo, le parallele, etc. E questa autonomia diventerà anche
centralità della geometria nella matematica che durerà fino al XIX secolo, relegando l’aritmetica
ad un ruolo minore, fino a Gauss.
B1
A2
B2 + B3 + B4 –B1
tg a =
A1
-A5+A2+A3+A4–A1
a
B2
A3
B3
A4
Fig.4
A5
B4
I babilonesi avevano creato una astronomia ricca di dati empirici, da cui erano in grado anche
di prevedere fenomeni quali le eclissi di luna, ma senza un ‘modello’ dei cieli, i greci invece non
fecero vere osservazioni astronomiche e usarono soprattutto dati babilonesi, ma crearono già nel
IV secolo a.C. con Eudosso un modello dei cieli basato su sfere rotanti, un modello che Claudio
Tolomeo complicò immaginando sfere rotanti incastonate su altre sfere rotanti. L’uso
‘modellistico’ della geometria: non apparve solo in astronomia ma anche nella rappresentazione
geografica: si pensi alla carta del mondo di Anassimandro o al tunnel dell’ingegnere greco
Eupalino di Megara, realizzato con una serie di costruzioni semplici ma testimoni di un uso
modellistico della geometria, che consentiva di calcolare la tangente dell’angolo con cui occorreva
perforare la montagna (fig.4).
Ed anche questa caratteristica tutta greca ci riporta al problema della rappresentazione ed al
pitagorismo. Infatti il continuo geometrico appare ai greci come il regno dell’essere, del reale,
della sua diretta percezione (e della sua non denominabilità), mentre il discreto aritmetico è un
piccolo regno dei segni e appare anche la sua possibilità di rappresentare e di conoscere l’essere,
pure quando non immediatamente percepibile.
E' Parmenide il vero padre del pensiero formale, in quanto ne inizia a rivelare tutte le
difficoltà:
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infatti identico è il pensare e l'esistere(28. 3,1)
è necessario che il dire e il pensare siano l'essere (28.

le vie di ricerca pensabili: l'una, che è e non è possibile
negare, è la via della Persuasione (che segue alla Verità);
l'altra, che non è e che è necessario negare, questo ti dico
è un sentiero del tutto indagabile. E infatti non puoi né
pensare né dire ciò che non è (non è infatti possibile).
(28. 2,3-8)
Non ti permetterò né di dire né pensare ciò che non è.
Infatti non si può dire né pensare ciò che non è. (28. 8,79)
E la necessità di trovare qualcosa di stabile nel flusso del divenire come condizione necessaria
per una conoscenza esprimibile linguisticamente causa l'immediato apparire del "paradosso del
giudizio negativo": se un'affermazione corrisponde ad un fatto che è, allora una negazione
corrisponde a qualcosa che non è, ma una frase su ciò che non è, è intorno al nulla e quindi
impossibile.
Inevitabile tale paradosso quando si richieda una perfetta corrispondenza tra realtà, pensiero e
linguaggio (il ‘triangolo semiotico’, fig.2). L'uomo europeo e la sua scienza sono il frutto di questa
scelta, che consisteva in definitiva nella costruzione del pensiero formale, una scelta di cui è parte
integrante l'apparire al suo interno dei paradossi del non-essere.
Soprattutto la tradizione idealista da Parmenide a Platone è il risultato di questa scelta, come
sottolinea Aristotele, nella Metaphysica, 1078 b 14-17:
tutte le cose sensibili scorrono perpetuamente, di modo che,
se c'è scienza e conoscenza di qualche cosa, devono
esistere, al di fuori di quelle sensibili, certe altre
entità che permangano stabilmente, giacché non potrebbe
esserci scienza di cose che scorrono.
Il paradosso è reso più 'virulento' dalla origine 'visuale' dei termini greci di conoscenza: idein,
eidos, noein, theōriaTutti verbi connessi alla 'visione' e progressivamente divenuti espressione
della conoscenza anche 'teoretica'. Una accezione 'visiva' della conoscenza, combinata con i
problemi del 'non essere', implica la quasi coincidenza tra "pensare ciò che non è", "dire ciò che
non è", e "vedere ciò che non è", e quindi accentua il carattere 'devastante' del paradosso del
giudizio negativo:
… E' possibile che un uomo pensi ciò che non è … Ci sono
forse altri casi in cui si verifica una situazione del
genere? Si, che qualcuno vede qualche cosa ma non vede
nulla. (Theaetetus 188e)
La opposizione di essere e divenire, di sostanza e di accidente, si traduceva sostanzialmente
nella coincidenza tra divenire e contraddizione, e questo si manifestava ad esempio nella difficile
concezione del “moto”, che essendo un ‘mutare’ (di luogo, affine ai mutamenti di sostanza,
dimensione, qualità in Aristotele), non poteva “essere” in senso stretto. Una difficoltà il cui
superamento si rivelerà cruciale per la fisica rinascimentale.
Se ne vede traccia nei paradossi di Zenone rivelano alla radice della tematica del “continuo” i
paradossi della divisibilità, del numero e dell’essere nell’antico pensiero greco. In “Achille e la
Tartaruga” quest’ultima parte con un vantaggio e quando Achille lo avrà colmato la tartaruga avrà
13

ancora un vantaggio, quando anche questo sarà stato colmato la tartaruga avrà un nuovo
vantaggio, etc.: Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Ne “la freccia” in ogni istante la freccia
occupa uno spazio ben definito e quindi è sempre ferma.
Comunque negli argomenti zenoniani la grandezza spaziale appare in qualche modo finita e
infinitamente divisibile nel contempo, così che in un intervallo finito esistono infiniti punti di
divisione. La grandezza temporale sembra però trattata in maniera un po’ diversa, in quanto
infiniti istanti diventano un tempo infinito. Così nella ‘corsa tra Achille e la tartaruga’: l’infinita
divisibilità implica che saranno infiniti i punti e gli istanti coinvolti. Tuttavia, mentre in un
intervallo finito ci possono essere infiniti punti, gli infiniti istanti implicano che Achille non
raggiungerà mai la tartaruga.
Nel paradosso della ‘freccia’ invece si considera come in ogni istante l’oggetto mobile sia in
un punto, e quindi in ogni istante sia fermo, e questo riflette la concezione come passaggio
contraddittorio tra essere e non essere.
Fenomeno curioso della aritmetica greca è la sua terribile idiosincrasia verso lo zero, che nei
sistemi semantici-computazionali (in Cina e in Mesopotamia) potette anche trovare qualche forma
di espressione, ma che fu rifiutato dalla matematica greca.
Quanto radicale fosse il rifiuto dello 'zero' si può notare nel fatto che in Euclide le definizioni
sono costruite in modo da escludere esplicitamente cose come il "rapporto nullo" o l'"angolo
nullo" (Def. I.8: “un angolo piano è l’inclinazione tra di loro di due linee in un piano che si
incontrano e non giacciono sulla stessa linea. “ Def. V.4: “Grandezze sono dette avere un rapporto
tra di loro quando sono capaci, se moltiplicate, di superarsi l’una con l’altra”)
E' interessante osservare il legame esplicito tra il paradosso e la difficoltà dei Greci a pensare
il numero 'zero', e come tale difficoltà e tale paradosso fossero connessi alla struttura del
linguaggio, nel quale esistono i 'numeri' grammaticali.
E soprattutto qui si può osservare il legame esplicito tra il paradosso e la difficoltà dei greci a
pensare il numero “zero”, e come tale difficoltà e tale paradosso fossero connessi alla struttura
stessa del linguaggio:
Poni che uno alla domanda «a che cosa può essere riferito
questo predicato, il “non essere” osasse dare una risposta,
ebbene, a quale oggetto e con quali determinazioni di
quantità e qualità riferirebbe tale espressione? […] a ciò
che noi indichiamo con l’espressione “ciò che è” (to on) non
può riferirsi il non essere, neppure a ciò che indichiamo
con l’espressione “qualche cosa” (to ti) […] il singolare
(ti) è segno di una cosa, il duale (tine) di due cose; il
plurale (tines) di molte cose. E devi ammettere che chi non
dice “qualche cosa” (ti) non dice niente in assoluto.
Inoltre non possiamo ammettere che questo tale “usi
un’espressione”, ma non dica nulla; bisogna riconoscere che
chi crede di dire ciò che non è, non usa espressione alcuna:
non “dice” neppure […] (Sophista, 237c-237e).
Platone è chiaro: esiste il singolare, il duale, il plurale, nessuna forma esiste per “l’assenza”: il
plurale caratterizza il “numero”, il duale la “diade” (che era spesso considerato un numero
speciale), il singolare la “monade”, e il corrispondente del “nulla” allora semplicemente non esiste.
L’uno non era un numero, ma il ‘seme’ delle due sequenze, e lo zero non esisteva. Addirittura le
definizioni euclidee erano date in modo da escludere anche l’angolo nullo o il rapporto nullo.
Esiste quindi l’uno, esiste il numero ma non esiste lo zero. La matematica greca era un frammento
della lingua greca.
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La struttura grammaticale delle lingue indoeuropee pone un limite insuperabile alla
“dicibilità” del non-essere come numero: la declinazione indo-europea si riflette sulla dicibilità
del non essere come 'molteplicità', e così l'impossibilità del non essere deriva alla stessa idea di
rappresentazione tramite il linguaggio naturale, e questo a sua volta si riflette subito sul concetto
di numero, nella sua accezione classica, cioè numero cardinale, "numero di…", attributo
necessario di tutto ciò che 'è'.
La notazione numerica dei Greci è imbarazzante. Niente di strano che al mercato usassero una
notazione simile a quella degli antichi romani, con un asta per indicare l’uno e poi l’aggiunta di
un’asta per il successore, e l’uso delle iniziali dei numeri in greco per indicare numeri particolari,
cinque ( pente in greco), dieci (, deka in greco), etc.
Strano invece che i grandi matematici greci usassero invece per i numeri le lettere
dell’alfabeto: per l’uno, per il due, e così via. L’alfabeto greco ha 24 lettere, aggiungendo tre
lettere arcaiche di origine fenicia si arrivava a 27 simboli con cui denotare le nove cifre, le nove
decine, le nove centinaia. E poi, dopo 999? Bisognava usare apici. Ma con un simile sistema erano
molto difficili anche le somme elementari. Perché questa assurdità?
In primo luogo credo questo fosse una conseguenza dell’incastonamento della matematica
greca nel linguaggio greco comune. E in secondo luogo credo occorra osservare come questa
rappresentazione introducesse il carattere ordinale e non solo cardinale del numero, e Piaget ci ha
insegnato come il numero astratto nel bambino nasca dal coordinamento tra i suoi aspetti cardinali
e ordinali. In altri termini la difficoltà nel calcolo era il prezzo da pagare per fare della aritmetica
un frammento autonomo del linguaggio, e concepire il numero come un ente astratto e non solo
come un aggettivo.
Noi siamo abituati a considerare la matematica dotata di un suo autonomo linguaggio, anzi la
consideriamo essenzialmente un linguaggio. E conosciamo tanti linguaggi, alcuni naturali, altri
artificiali. La nostra cultura, sin dal medioevo, è multilinguista: sappiamo dell’esistenza di molti
linguaggi naturali e delle relative traduzioni, spesso ne conosciamo alcuni, e sappiamo
dell’esistenza di linguaggi formali artificiali, l’algebra, la logica, i linguaggi di programmazione,
etc. I greci in realtà conoscevano e consideravano solo il greco, erano rigorosamente
monolinguisti. Certo sapevano che esistevano altre lingue, ma erano solo ‘balbettii’ (questo
significava il termine ‘barbaro’). Anche le definizioni, come si è visto negli Elementi di Euclide,
non servivano ad introdurre nuovi termini nel linguaggio ma a delimitare e precisare l’uso tecnico
di normali parole in geometria. Forse il segno più visibile di questa centralità del ‘greco’ tra i greci
è la parola logos, che in greco significava ‘parola, discorso’ ma anche ‘rapporto matematico’,
‘ragione’, ‘pensiero’, ‘definizione’.
I termini tecnici della geometria euclidea non ricevevano il loro significato dalle definizioni,
ma lo possedevano già come termini del linguaggio naturale che la definizione solo precisava
Solo con la nascita della matematica moderna il numero diventerà 'misura relativa', dove lo 0
funzionerà da spartiacque tra positivo e negativo, mentre 'discreto' e 'continuo' saranno integrati
nella rappresentazione decimale, così che ogni intero sarà un particolare numero reale e ogni
numero reale sarà rappresentabile con una sequenza (infinita) di cifre o come limite di numeri
razionali.
Nella matematica greca invece numeri interi e "parti" (frazioni) sono i due mondi numerici
che si contrappongono, spesso anche con base numerica diversa, 5 per il 'contare', 12 per il
'dividere', con l'1 che funziona come 'seme' della opposizione e lo 0 che non ha semplicemente
ragione di esistere. Fuori della aritmetica restano le "grandezze geometriche" poiché eterogenee al
numero. Un greco avrebbe rappresentato il sistema dei numeri disegnando due semirette puntate
verso il basso, come una grande lettera e per questo detta ‘figura lambdoide’. L’origine comune
era indicata con 1, una delle due semirette segnata con i numeri interi 2, 3, 4, … e l’altra con le
frazioni ½, ⅓, ¼, …, quelle che i greci chiamavano le ‘parti’.
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La scienza rinascimentale dovrà poi rendere numerico anche il "continuo", ridurre le
grandezze meccaniche ad estensione geometrica, e così potrà superare l'idea del divenire come
contraddizione e farne invece una forma dell'essere, a fare così della quiete una forma del moto, e
dello 0 un particolare numero e non la negazione dell'idea stessa di numero come molteplicità.
I due tipi di quantità possono essere infiniti in modo diverso. Il “discreto” può dare un infinito
‘per addizione’, ma esiste un limite nella direzione della ‘divisione’, in quanto esiste un minimo
che è l’unità, mentre il “continuo” può dare un infinito ‘per divisione’, poiché non puoi trovare
una grandezza minima, ma limitato per ‘addizione’ poiché non esiste una grandezza infinitamente
grande.
L’idea di continuo non aveva natura immediatamente matematica, ma veniva dalla indagine
filosofica sull’essere e il divenire (il moto), iniziata dagli Eleati (e Zenone ne aveva rivelato i
paradossi) e sviluppata in Platone ed Aristotele, il quale ne aveva data una doppia
caratterizzazione che durerà fino ad oggi: l’(infinita) divisibilità (dalla quale deriva l’idea moderna
di ‘denso in sé’) e la mancanza di lacune tra le parti. la dicotomia in parti con elemento comune
(dalla quale deriva l’idea di ‘continuità’ di Dedekind). Etimologicamente sembra anteriore la
seconda, ed in Aristotele essa appare come la vera 'definizione', ma la coincidenza è asserita con
forza, al punto che anche la infinita divisibilità caratterizza il continuo.
Era quindi un concetto ‘fisico’, estraneo alla matematica: il termine ‘continuo’ (syneches),
come opposto di ‘discreto’, negli Elementi non appare mai.
In Eudemo e Proclo, la divisibilità del continuo/grandezza si configura come un principio
fondamentale e l'unico esplicitamente ipotizzato in geometria, mentre la mancanza di lacune
appare solo implicitamente nelle costruzioni geometriche. Da sottolineare infine come queste due
caratterizzazione aristoteliche siano affini alla densità in sé e alla separabilità (Dedekind) della
matematica moderna, due concetti che noi sappiamo essere non equivalenti.
L’architettura complessiva della matematica era quella del Quadrivio, in cui alle due
discipline di base, aritmetica e geometria, si aggiungevano altre discipline che il medioevo
chiamerà ‘miste’: in primo luogo astronomia e musica per completare il quadrivio, e poi anche
ottica e statica. Altre scienze ‘miste’ verranno aggiunte nel Medioevo.
Miste semplicemente perché apparivano ‘inquinate’ dalla fisica. La matematica non poteva
essere applicata alla fisica, perché questa trattava del divenire, come nella meccanica, nella
biologia, nella psicologia (perché anche l’anima era considerata un ente naturale). Ma in alcuni
settori della fisica il divenire non appariva. Ovviamente nella statica, ma anche nell’ottica, che non
considerava la luce come ‘in moto’, ma ne considerava solo gli aspetti geometrici, nella musica,
che trattava delle consonanze come rapporti fissi, e in astronomia che ignorava il concetto di
‘traiettoria’ dei corpi celesti studiando solo le proprietà geometriche delle grandi sfere rotanti, ma
fisse, nelle quali i corpi celesti erano incastonati.
L’astronomia greca ci chiarisce poi un aspetto della geometria greca. I Babilonesi avevano
creato una astronomia estremamente efficiente, con grandi quantità di dati ed una eccezionale
capacità di previsione dei fenomeni astronomici (come le eclissi lunari), ma non vi si trova alcun
‘modello’ dei cieli. I greci invece crearono una astronomia praticamente senza dati osservativi,
costituita solo da un modello dei cieli, il ‘cosmo’, basato su sfere rotanti e poi complicato da sfere
rotanti incastonate in sfere rotanti, ma senza dati. Solo tardi, soprattutto con Claudio Tolomeo,
questo modello geometrico si arricchirà dei dati osservativi e costituirà il cosiddetto ‘sistema
tolemaico’ che reggerà fino a Copernico: l’Almagesto (nome arabo che significa ‘il più grande’)
sarà il capolavoro di Tolomeo, insieme agli Elementi costituirà la grande eredità della scienza
greca, e, assieme a Erone e Diofanto, segnerà l’epoca d’oro della tradizione pratica in Alessandria.
Due temi di grande rilievo per il futuro meritano qualche osservazione.
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In primo luogo, la scissione tra continuo e discreto è anche legata al fatto che le suddivisioni
dell’unità sono unità di misura eterogenee rispetto all’unità iniziale, come accade nelle unità di
misura misure inglesi, un “piede” si divide in dodici “pollici”, ma un piede di chi? Un pollice di
chi? Sono unità di misura ‘accidentali’. Un gregge di pecore invece si conta avendo per unità una
pecora, una ‘sostanza’. La misura era un concetto essenzialmente aritmetico: un numero
‘misurava’ i suoi multipli, ne era cioè una ‘parte’. Al mercato si misurava il peso o la lunghezza,
ma erano numeri ‘accidentali’. Mentre infatti l’unità di misura del gregge di pecore era intrinseca,
‘sostanziale’ (la singola pecora), l’unità di misura della lunghezza era il ‘braccio’ o il ‘piede’. Ma
il braccio o il piede di chi? Era una misura puramente ‘accidentale’, e città diverse avevano unità
di misura diverse. La geometria si doveva quindi strutturare senza una metrica. E anche queste
misure accidentali erano sempre numeri interi, connesse tra di loro tramite fattori moltiplicativi
accidentali ed interi, come nelle misure inglesi: ci sono piedi e pollici, 12 pollici fanno un piede.
Ma non è lo stesso che dire che cm.100 fanno m.1: infatti 12 è solo un rapporto accidentale tra
unità autonome ed eterogenee, anche se convenzionalmente consolidato.
La sostanza è unità di materia e forma, ma le parti di un individuo non sono individui in senso
stretto (le parti di un uomo non sono uomini) e quindi non sono numerabili. Il concetto di
‘insieme’, fondamentale nella matematica moderna, e in generale tutto il nostro approccio
'analitico', non è quindi solo inutile nella matematica greca, ma addirittura impossibile come
elemento di una "conoscenza teoretica". La definizione di qualcosa tramite le sue parti si può fare
verbalmente, ma ontologicamente ed epistemologicamente "il tutto precede le parti" e la "forma"
non è riducibile alle parti materiali.
In secondo luogo, l’infinito attuale deve essere rifiutato perché finirebbe col costruire un
ponte tra quelle coppie di opposti che caratterizzano la concezione del cambiamento dai
presocratici al Rinascimento. Così un infinito rallentamento trasforma il moto in quiete, un
poligono con infiniti lati diventa un cerchio e quindi la retta diventa curva, l’uno per infinita
divisione diventa molti ed infiniti, il numero per infinita divisione diventa qualcosa di
impensabile, lo 'zero', impensabile perché l'essere diventerebbe non essere, la grandezza
geometrica per infinita divisione diventa una non grandezza, il punto: lo zero e l'infinito dovevano
entrambi cadenzare la loro evoluzione sullo sviluppo di un'"algebra della negazione", in quanto
entrambi resi impraticabili dalle opposizioni polari del pensiero greco.
Di conseguenza alcune 'novità' della matematica moderna, dallo 'zero' all''infinito attuale',
accompagneranno una fisica che sostituisca la struttura polare della scienza aristotelica. E questa
fisica richiederà a sua volta il superamento della opposizione tra 'numeri' e 'parti' e la nascita
dell'idea di "numero reale", che a sua volta richiede il superamento della opposizione tra aritmetica
e geometria, tra discreto e continuo, che a sua volta, etc. La scienza aristotelica e la scolastica
medievale era un sistema perfettamente integrato di conoscenze matematiche, logiche, fisiche,
biologiche e filosofiche, e quindi il suo crollo doveva investire tutti tali versanti
contemporaneamente, nessuno dei quali poteva accadere per ragioni puramente empiriche o
logiche, perché tale sistema era ed è quello più vicino alla realtà naturale e il meno invischiato in
contraddizioni tra quelli che il pensiero europeo abbia mai creato.
LA DIMOSTRAZIONE
La origine visuale e costruttiva della 'dimostrazione' nella matematica antica è stata
sottolineata da numerosi autori (Cambiano, Knorr, Szabo). Un ulteriore supporto a questa
interpretazione della matematica greca pre-euclidea si ricava osservando ad esempio che i primi
tre postulati ed i primi tre teoremi degli Elementi, nonostante l'influenza platonica, sono
"costruzioni", e che i termini relativi alle idee di dimostrazione o teorema sono diagramma,
apodeixis, theōrēma,tutti derivanti, così come i verbi di conoscenza, da radici che esprimono il
tracciamento di linee, la visione, l'ostensione. Ancora Aristotele sottolinea questo carattere
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costruttivo, facendolo derivare dal fatto che "l'esercizio del pensiero è un portare qualcosa dal
potenziale all'attuale".
Ovviamente le dimostrazioni-costruzioni, direttamente visuali, sono compatibili con una
matematica rigorosamente 'positiva' e 'finita'. Il passaggio dalla costruzione alla dimostrazione
geometrica è uno degli episodi più affascinanti della storia della matematica. La dimostrazione
all’inizio era probabilmente solo la descrizione per iscritto della costruzione di una figura eseguita
precedentemente per via solo orale e visuale: in greco diagramma significava ‘dimostrazione’
oltre che ‘figura’, e negli Elementi ogni dimostrazione era associata ad una e una sola figura, talora
di una banalità sconcertante.
La semplice trascrizione sembra una novità irrilevante, ma i geometri greci si accorsero che
così si evitava di ‘scoprire’ erroneamente proprietà non generali ma valide solo per una particolare
figura. E inoltre introdussero un nuovo tipo di dimostrazione, quella per assurdo, che non
corrispondeva a nessuna costruzione effettiva, ma solo ad una costruzione ‘impossibile’.
Gran parte di tali dimostrazioni è una descrizione a parole della costruzione della figura, che
d'altronde è sempre presente nei teoremi degli Elementi. Con però una grossa novità che doveva
segnare la storia della matematica: la scoperta che la riduzione 'sintattica' della costruzione
permetteva di evitare di trovare risultati 'falsi', in quanto dovuti a qualche particolarità non
necessaria della costruzione.
Fig.5
La transizione dalla 'geometria visuale' alla 'geometria deduttiva' può essere solo oggetto di
speculazione. Possiamo tentare di immaginarne la traccia considerando un problema classico, che
attraversa tutta la storia della geometria antica, dai babilonesi ad Euclide: il teorema di Pitagora e
la teoria delle parallele.
Il teorema di Pitagora era certamente noto, in tempi precedenti a Pitagora, ai babilonesi e, in
tempi probabilmente poco successivi, ai cinesi. Essi conoscevano bene il teorema: non solo
qualche terna pitagorica, come (3, 4, 5) oppure (5, 12, 13), ma la proprietà generale, che
probabilmente ‘spiegavano’ e ‘ricordavano’ come costruzione geometrica. La sua dimostrazione
era tuttavia probabilmente di tipo ‘visuale’ (fig.5): nella geometria antica, basata su un
rappresentazione iconica, la dimostrazione doveva avere appunto la struttura di una costruzione
evidente, un diagramma.
Così un esempio di dimostrazione costruttiva può essere quello di figura 5: il risultato è
'perspicuo', ottenuto direttamente dalla figura stessa come conseguenza della costruzione. Questa
ricostruzione di una 'antica' dimostrazione del teorema è anche supportata dall'esistenza di una
figura simile (fig.5bis) in un antico classico della matematica cinese, Il classico aritmetico dello
gnomone e dei sentieri circolari del cielo (Chou Pei Suan Ching). Ma la dimostrazione richiede
necessariamente la costruzione di quadrati. Se si postula la costruzione del quadrato come si
postulava da parte di Euclide quella del cerchio, il teorema ne consegue immediatamente. Tuttavia
tale costruzione non è del tutto evidente. Anche ipotizzando la costruzione dell'angolo retto, che
cosa garantisce che il quarto lato si chiuda col vertice iniziale?
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Fig.5 bis
E’ abbastanza facile riconoscere l’equivalenza, in un approccio deduttivo, di diversi enunciati
(costruzione del quadrato o di una retta equidistante in tutti i suoi punti da un’altra retta, somma
degli angoli interni di triangoli e quadrilateri, ecc.) con il quinto postulato: “se una retta che taglia
due rette crea gli angoli interni dallo stesso lato minori di due retti, allora, se tali rette vengono
prolungate indefinitamente, esse si incontreranno dallo stesso lato in cui gli angoli sono meno di
due retti”. Sono tutti enunciati rigorosamente 'al finito', compreso il quinto postulato che in
qualche misura inverte il teorema sulla somma degli angoli interni di un triangolo, il quale, nella
sua forma 'visuale' di fig.5 già presupponeva il concetto di 'rette parallele'. Gli oggetti ‘infiniti’, le
“parallele”, non compaiono, e la loro stessa definizione: “parallele sono rette che, essendo nello
stesso piano e venendo prolungate indefinitamente in entrambe le direzioni, non si incontrano”, è
in fondo costruita sulla doppia negazione e definisce semplicemente un ‘non-triangolo’.
Ma esistono teoremi in cui appare la reductio ad absurdum, che non sempre si può ricondurre
a una dimostrazione costruttiva. Talora questo accade, e si intuisce che la dimostrazione basata su
un assurdo relativo ad un assioma dell'uguaglianza possa sostituire un'antica dimostrazione
'visuale'. Ma questo non accade sempre: in particolare non accade quando il risultato concerne
l'infinito. Così l’infinito è indissolubilmente legato a tecniche non puramente 'costruttive',
'positive', di dimostrazione, poiché l'infinito è concetto puramente negativo e non si può
costruttivamente mostrare la negazione dell’esistenza, mentre si può mostrare la non esistenza di
una qualche costruzione..
MATEMATICA E FILOSOFIA. LA LOGICA ARISTOTELICA
Nella filosofia greca classica appaiono le prime risposte alle domande che ci ponevamo
inizialmente, riguardo l’ontologia e l’epistemologia dei concetti matematici.
Dopo Pitagora, la tradizione sofistica aveva in generale guardato con sospetto alla peculiarità
del ragionamento matematico, cercando di ricondurlo alla filosofia ingenua della conoscenza
comune ai primi filosofi greci, che riconduceva la conoscenza ad un fatto puramente osservativo
ed alla memoria. Protagora metteva in discussione la tesi che un cerchio ed una tangente ad esso si
incontrassero in un solo punto, Antifonte credeva che approssimando una circonferenza con un
poligono iscritto con numero crescente di lati prima o poi il poligono ed il cerchio avrebbero finito
col coincidere. Era in generale il concetto di punto che risultava ostico: l’idea che un insieme di
punti (non-grandezze) potesse coincidere con una grandezza geometrica urtava la rigida
opposizione tra essere e non essere su cui si era sviluppato il pensiero greco dopo Parmenide sotto
la forma del paradosso del giudizio negativo.
La matematica e la filosofia si svilupparono come discipline ‘sorelle’. Entrambe
concernevano immediatamente la verità necessaria, la scienza e il discorso razionale, trovando le
loro radici nel fatto che vedere, conoscere ed essere per i Greci erano verbi profondamente
connessi (‘idea’ e ‘video’ hanno un’origine comune e “non si può pensare senza immagini”
[Aristotele, de memoria et remin., 450 a1]), la stessa ‘verità’ (alētheia) era originariamente la
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negazione dell’oblio, e quindi gli enti matematici erano immanenti e immediatamente percepibili e
nel contempo immediatamente scienza.
E’ Platone il filosofo che inserisce invece gli enti matematici al cuore della teoria della
conoscenza: nella sua Repubblica Platone colloca la matematica come mondo intermedio tra il
“mondo delle idee”, l’unico nel quale domini l’essere e quindi l’unico che possa essere
effettivamente oggetto di conoscenza, e il “mondo reale” dominato dal divenire e regno della
semplice “opinione”. A questa ontologia si associa la concezione epistemologica secondo cui il
conoscere è una forma di ‘memoria’ dell’anima: celebre il passo del Menone in cui Socrate
interrogando uno schiavo analfabeta lo porta a scoprire i primi passi del ragionamento che porta
verso la scoperta della incommensurabilità.
Sul ‘materiale’ ereditato dalla matematica pregreca, i pitagorici e poi Platone avevano eretto
una filosofia complessa che da un lato accettava l’aspetto pratico della matematica, economico e
sociale, e dall’altro inseriva come parte integrante della ‘ontologia’ il numero e la figura
geometrica, mediatori di una realtà ideale, un aspetto essenziale della stessa descrizione del
‘cosmo’: i Pitagorici vedevano nel ‘numero’ il costituente base della realtà, e per Platone gli enti
matematici erano un ponte tra il ‘mondo delle idee’ e la realtà naturale, così che il Timeus
platonico descriveva il cosmo con misure prive di ogni valore empirico ma tratte dai rapporti
armonici musicali. Allo stesso tempo sembra che Platone esortasse Eudosso a ‘salvare i fenomeni’
astronomici, trovandone una descrizione matematica. Su questa base tutta la tradizione pitagorica
e platonica per millenni coltiverà un miscuglio di numerologia filosofica e teologica, ma anche di
geometria metrica descrittiva e di presenza dei numeri nella realtà.
In Platone rimane la difficoltà di concepire i punti come qualcosa di diverso da una semplice
‘finzione’ matematica ed anche il rifiuto di teorie matematiche applicate (musica e astronomia
soprattutto) centrate sulla osservazione empirica dei fenomeni. Pur sostenendo l’esigenza di teorie
“che salvassero i fenomeni”, Platone introduce nelle sua cosmologia espressa nel Timeo dati
numerici imposti da considerazioni puramente filosofiche di stampo musicale pitagorico. Riguardo
i numeri, in ambito pitagorico e poi platonico, è importante sottolineare un doppio processo: il
loro farsi sostanza, non più semplice attributo del gruppo di cose, così che i numeri divenivano il
ponte tra ‘essere’ e ‘conoscenza’, e il loro acquistare un carattere ordinale, che pone in primo
piano il problema della genesi sequenziale dei numeri e quindi il problema dell'infinito.
Diversa la ‘collocazione’ della dottrina della scienza aristotelica, ove la matematica si trovava
in una posizione un po’ ambigua: da un lato riguardava l’essere reale nei suoi aspetti puramente
logici in quanto scienza della struttura esplicativa del reale, ‘scienza delle cause’, della
spiegazione dei fenomeni e quindi ‘calco’ deduttivo per tutte le scienze, dall’altro il suo essere
‘astrazione’ (rispetto alla materia e al divenire) ne faceva una sorta di ‘impoverimento’ del reale.
Ne seguiva un ruolo prevalentemente ‘epistemologico’ invece del ruolo ‘ontologico’ che essa
aveva in Platone: la matematica era un frammento del linguaggio naturale che forniva la
spiegazione razionale dei fenomeni, ma la sua stessa certezza era un limite, segno di una ‘purezza’
che era solo una ‘povertà’ rispetto alla realtà naturale. Al suo centro si collocava la geometria
poiché la scienza greca era centrata sulla presentazione visuale dell’essere, impermeabile al
divenire naturale, e quindi una geometria non metrica in quanto basata sulla forma. E in quanto
scienza dell’essere la matematica non poteva essere applicata alla fisica, che invece trattava il
divenire (physis era la ‘natura’ vista nel suo continuo fluire).
In realtà la logica aristotelica aveva diverse radici: la teoria del sillogismo derivava dalla
filosofia naturale (col sillogismo a ‘mimare’ la relazione causale), la dottrina della scienza dalla
geometria, e infine il sistema dei principi dalla dialettica. Così che, più che di una derivazione
diretta del sistema assiomatico-deduttivo euclideo dalla logica aristotelica, si deve piuttosto parlare
di una profonda affinità.
Concetti come infinito e continuo non appaiono nella matematica greca, ma nella filosofia
naturale e con Aristotele acquistano caratteri che in fondo conservano ancor oggi. Con Aristotele
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gli enti matematici perdono il carattere realista che avevano in Platone ed appaiono attributi
ottenuti ‘per astrazione’ dalla realtà. Assumono così una forma di esistenza strettamente legata alla
attività conoscitiva. In particolare i punti possono anche essere considerati ‘esistenti’, ma solo “in
potenza”. La differenza tra ‘in potenza’ e ‘in atto’ è uno dei modi con cui Aristotele affronta il
problema della opposizione essere/non essere, cercando di renderla meno rigida. Schematicamente
possiamo dire che un seme è una pianta ‘in potenza’ ma non ‘in atto’, nel senso che la sua
“essenza” già contiene il suo possibile sviluppo futuro, ma non ancora attuato. Anche per il
concetto di infinito Aristotele ricorre a quella distinzione: anche l’infinito esiste solo ‘in potenza’ e
consiste in “ciò a cui si può sempre aggiungere qualcosa”, rifiutando l’infinito ‘in atto’, “ciò a cui
non si può aggiungere nulla”. Di conseguenza appunto il ‘punto’ esiste solo potenzialmente poiché
le divisioni successive di una grandezza possono portare solo a grandezze, mentre la esistenza
attuale del punto richiederebbe un infinito ‘attuale’ di suddivisioni. Da notare che infinito attuale e
potenziale sono opposti tra di loro e non opposti del ‘finito’.
Per Aristotele la matematica non necessita del concetto di infinito, perché i suoi oggetti sono
finiti ed anche il cosmo è finito. Il "finitismo" aristotelico è sia 'naturalistico' (non si può concepire
un processo di cambiamento infinito, che 'linguistico' (occorre esprimere con un numero finito di
termini infinite cose) e 'logico' (una derivazione deve essere sempre finita e ogni risalire alle
ipotesi deve essere un processo finito e non circolare.
Quella preclusione si associava poi alla preclusione verso l’esistenza reale del punto. Il punto
infatti, come sarà poi per il ‘numero reale’, richiede una suddivisione infinita ‘attuale’ del
segmento, una suddivisione infinita potenziale producendo solo intervalli. E risulta chiara anche
l’impossibilità di considerare un segmento come costituito dai suoi punti: come potrebbe un ente
di grandezza finita essere costituito dalla unione di infiniti enti privi di grandezza o addirittura
inesistenti? E si può concepire il punto immediatamente successivo ad un altro punto? No, poiché
se tale punto è distinto allora tra i due punti esiste un intervallo il cui punto medio si colloca fra di
essi, e quindi il punto trovato non è quello immediatamente successivo.
Problemi già apparsi in Democrito, che si era posto il problema di considerare un cono come
unione delle sue sezioni parallele alla base: se tali sezioni erano uguali allora la loro unione era un
cilindro, se invece erano disuguali allora la loro unione era un cono ‘a gradini’.
Platone considererà allora i punti solo ‘finzioni’ geometriche, in realtà non esistenti.
Aristotele li considererà esistenti ma solo ‘in potenza’, così che tutti i punti di un intervallo
esistono in potenza ma non possono costituirlo poiché avrebbero bisogno a tal fine di esistere ‘in
atto’, creando le difficoltà su accennate. E del resto quando un punto divide in due un segmento il
punto stesso si duplica come estremo di entrambi, e il duplicato nascerebbe dal nulla, ma nihil ex
nihilo. L’idea insomma è che l’essere del punto si esaurisca nella sua individuazione come estremo
o intersezione, ma non abbia altra forma di esistenza.
Per Aristotele l’incommensurabilità era diventato un esempio canonico delle nuove forme del
sapere teoretico, paradigma di una proposizione ‘vera’, un 'essere' non immediato, ma vero,
dedotto dal ragionamento e non dalla ontologia, qualcosa di assolutamente nuovo rispetto alla
coincidenza tra 'conoscenza' e 'visione/memoria', tipica di tutta la filosofia greca fino a Platone. I
paradossi di Zenone erano invece ormai pura sofisticheria, ed Aristotele rigettava nettamente ogni
connessione fra incommensurabilità e paradossi. Veniva rimossa quella forma rigida del
"paradigma sintattico" che dopo Parmenide si era tradotta in una rete densissima di paradossi
concernenti essere e non-essere, uno e molti, moto e quiete, uguaglianza e differenza.
Il "paradosso del giudizio negativo" era il centro di questa struttura paradossale, e appare al
centro della riflessione platonica, "la prima e più grande delle aporie", nella quale troverà la via
della sua soluzione. La soluzione, o, forse sarebbe meglio dire, la semplice 'rimozione', del
paradosso deve essere ascritta ad Aristotele, la cui ridefinizione del pensiero formale durerà
incontrastata per duemila anni, fino alla nascita della Scienza Moderna, laddove quella rete di
paradossi finirà col ricomparire.
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Diciamo 'rimozione' perché Aristotele cambiava le 'regole del gioco': la sua 'soluzione' era
basata su due grandi 'novità' apparse nel pensiero platonico: da un lato l'anima con le sue idee
creava finalmente un 'ponte' sufficientemente 'lungo' per connettere il mondo dei segni e quello
reale evitando i paradossi, cercando di distinguere tra funzioni soggettive, quali il 'dire' o il
'pensare' e funzioni oggettive quali il 'vedere' o l''essere'. E' un passaggio che compare già in
Platone: “l'anima è il principio del conoscere mentre l'essere è ciò che viene conosciuto”, e nel
Theaetetus l'anima, non gli occhi, possono 'percepire' concetti quali essere, uguale e gli altri
concetti numerici.
L’aspetto centrale della tradizione teorica era l’idea di una strutturazione deduttiva della
matematica, intuita già dai Pitagorici. Il passo decisivo apparirà nel IV secolo tra i matematici,
soprattutto nell’ambiente della Accademia di Platone, e sarà teorizzato da Aristotele, il più
brillante degli allievi. Nascevano, soprattutto nei suoi libri analitici, la logica e la dottrina della
scienza, a partire dalla dialettica platonica, dal lavoro dei matematici e dagli sviluppi della
filosofia naturale.
Al nome di Euclide si ascrive la nascita del “metodo assiomatico-deduttivo”, mentre ad
Aristotele la nascita della “logica formale”.
Dalle sue origini sino a Frege la logica si è sempre centrata su due settori di riferimento: la
dimostrazione matematica e l’argomentazione in linguaggio naturale. Dopo Frege, con la nascita
della logica matematica, le applicazioni matematiche o scientifiche sono diventate dominanti,
rompendo il rapporto della logica con la retorica e la grammatica che era stata alla base del trivio
fino al secolo XIX.
La antichità ci mostra prima di Aristotele tracce di un metodo logico da Parmenide alla
dialettica di Zenone e Platone, e dopo di Aristotele il fiorire della logica stoica. Nella logica greca
quella aristotelica sembra legarsi di più alla dimostrazione matematica, lasciando la retorica ad
occuparsi della argomentazione nel linguaggio naturale, la logica stoica invece appare più
orientata verso quest’ultimo settore.
Per queste ragioni noi ci soffermeremo solo su Aristotele, e occorre avere chiaro che la sua
origine è molto complessa: la dottrina della scienza derivando dalla matematica, il sillogismo dalle
scienze naturali, i principi formali dalla retorica.
La struttura del ragionamento scientifico veniva organizzata nella forma del sillogismo, una
forma di argomentazione in cui da due premesse con un termine in comune (il ‘medio’) si
ricavava una conclusione, e che resterà per duemila anni la base della logica. La premessa riguarda
la “appartenenza” di un termine A ad un termine B. In termini moderni potremmo dire, in prima
approssimazione, che il sillogismo riflette le proprietà della relazione di inclusione tra insiemi o
della relazione di implicazione tra proposizioni. Una forma semplice di sillogismo era: dalle
premesse <tutti gli ateniesi sono greci> e <tutti i greci sono mortali>, la conclusione è <tutti gli
ateniesi sono mortali>. Premesse e conclusione potevano poi essere universali o particolari,
affermative o negative, le relazioni di opposizione tra i diversi tipi di premessa è data dalla figura:
qui si vede lo schema relativo alle frasi universali e particolari, ove A rappresenta la affermativa
universale (ogni A è B), I la affermativa particolare (qualche A è B), E la negativa universale
(nessun A è B), O la negativa particolare (qualche A non è B).
Il termine comune poteva trovarsi in ruoli diversi nelle premesse: Aristotele studiò tutte le
combinazioni possibili e individuò quelle che effettivamente erano valide. E’ facile infatti notare
che certe coppie di premesse non permettono di concludere nulla: ad esempio nulla si può dedurre
sull’altezza degli ateniesi da <qualche ateniese è biondo> e <qualche biondo è alto>.
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A
contrario
E
Contradditorio
Contradditorio
I
subcontrario
O
Fig.6
I sillogismi corretti ricevettero nel Medioevo nomi che servivano a memorizzare le premesse
ed altre caratteristiche del sillogismo: ad esempio le tre “a” in barbara rappresentavano il
sillogismo in cui due premesse universali affermative producevano una conseguenza universale
affermativa.
In Aristotele inoltre assumono forma moderna i principi formali con i quali si organizza la
gestione formale della “negazione”, dell’”essere”, della “verità”. Alla sua base un sistema di
principi formali: il terzo escluso (“di un oggetto una qualsiasi determinazione deve essere o
affermata oppure negata”), il principio di non-contraddizione (“non è possibile affermare e al
tempo stesso negare qualcosa di un oggetto”) [Anal. Post. I, 11] e la verità per corrispondenza (“è
vero dire che è ciò che è e che non è ciò che non è, è falso dire che è ciò che non è e che non è ciò
che è”) [Metaph. 1011 b26].
Questo sistema di principi valeva però al prezzo di frantumare il campo unitario platonico del
sapere in un arcipelago di scienze ‘regionali’, solo all’interno di ciascuna delle quali i principi
valevano. Era un mondo fatto di sostanze individuali cui potevano essere associati ‘attributi’,
soprattutto qualità e quantità. Ogni ‘scienza’ doveva parlare di un genere di sostanze ben
determinato, sulla base di un sistema di assiomi (proposizioni più note e universalmente accettate)
e di definizioni di attributi appropriati per quel genere: la dimostrazione permetteva allora di
costruire le verità di tale scienza. E le scienze non erano comunicanti tra loro, a meno che una
scienza non fosse ‘subordinata’ ad un’altra (come la musica alla aritmetica o l’astronomia alla
geometria). Non si potevano infatti usare i principi formali per dire che il numero sette era curvo
oppure no.
Tuttavia la logica aristotelica è anche una ontologia. Il discorso e la realtà sono inseparabili:
“ciascuna cosa possiede tanto di verità quanto possiede di essere” (Metaphysica, 993b 30).
Conseguenza di questo dato è che il sillogismo aristotelico è categorico e riguarda semplicemente
termini e proposizioni tra tali termini, del tipo ‘…si predica di …’, supposte vere.
La logica rispecchiava poi perfettamente la fisica: il sillogismo doveva in realtà ‘mimare’ le
relazioni causali, ove la parola ‘causa’ aveva però un senso solo esplicativo dei fenomeni, era la
risposta alla questione <perché?>.
. E si può anche notare la distinzione, che si ritrova da Aristotele a Proclo, tra teoremi in cui la
deduzione aveva un ruolo ‘causale’ e quelli in cui la deduzione era puramente ‘formale’, come ad
esempio nel teorema precedente nella cui dimostrazione appaiono gli angoli esterni al triangolo, i
quali non possono avere alcun ruolo ‘causale’ sul triangolo (la somma degli angoli interni sarebbe
due angoli retti anche se gli angoli esterni non esistessero).
Da un punto di vista moderno questa "semantica" della dimostrazione che distingue tra
sillogismi solo in base al ruolo causale del ‘medio’ non ha senso, ma essa rappresentava un
elemento di connessione tra verità e dimostrabilità che resterà indiscusso fino al secolo scorso.
Infatti il sistema aristotelico-euclideo considererà verità e dimostrazione sostanzialmente
coincidenti e questa coincidenza resterà qualcosa di ovvio, di non tematizzabile, per duemila anni.
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Anche per uno studente di oggi un teorema è nel contempo 'vero' e 'provato'. Se io mi creo
mille triangoli di cartone e ne misuro gli angoli ottengo qualcosa di molto vicino a 180° in tutti i
casi, ma posso provare anche una sola volta il teorema relativo e ottenere la certezza che la somma
di tali angoli è esattamente 180°. Sono due procedure totalmente differenti, ma che vengono
connesse dalla idea che la dimostrazione fornisce una 'costruzione' ideale le cui realizzazioni
concrete sono particolari istanze. Se per caso la somma degli angoli misurata col goniometro
venisse 200° sospetterei piuttosto un errore di calcolo che una differenza tra verità e
dimostrabilità.
Analogamente la indiscussa certezza nella correttezza del metodo di prova (“tutto ciò che è
dimostrato è vero”) non corrisponde ad una analoga certezza della sua completezza (chi mi
garantisce che “tutto ciò che è vero possa essere dimostrato”?)
Lo stesso carattere indifferentemente ‘sintattico’ e 'semantico' si ritrova in un altro aspetto
della teoria aristotelica delle scienze teoretiche: l'idea che la definizione non possa essere ridotta ad
una semplice equivalenza logica, ma che debba contenere la via per rivelare l’esistenza, o provata
o ipotizzata, del definiendum in quanto l'esistenza riguarda il singolo ente e non generi e specie.
Una connessione questa tra semantica e sintassi che si riflette anche nella natura dei
"principi", per i quali non si poteva distinguere neanche in linea di principio tra assoluta
oggettività ed immediata evidenza o dimostrabilità, così che il V postulato era assolutamente
oggettivo anche perché necessario per dedurre conseguenze assolutamente 'oggettive' (dal teorema
di Pitagora alla somma degli angoli interni del triangolo), ma, non sembrando del tutto evidente o
empirico, 'doveva' essere dimostrato: gli 'autentici' postulati ‘dovevano’ essere veri. La mancata
soluzione di questa aporia restò per duemila anni una ferita aperta sul corpo della geometria
euclidea. Solo la esplicita tematizzazione di questa differenza, quale quella implicita negli apriori
kantiani, potette permettere di 'pensare' una geometria basata su postulati non assolutamente 'veri'
e permettere la creazione delle geometrie non-euclidee.
Tutto questo riflette la non problematicità del rapporto tra realtà e conoscenza teoretica che
reggerà praticamente senza scosse fino alla nascita della scienza moderna, che si affermerà come
"scienza di segni", nel quale dovrà essere necessariamente tematizzato il rapporto tra semantica e
sintassi.
Verità e dimostrabilità potevano risultare ovviamente coincidenti nelle dimostrazioni
costruttive, in cui la dimostrazione poteva sembrare solo un perfetto ‘schema’ per infiniti casi
concreti, ma non quando dimostrazioni non costruttive assurgevano allo stesso status di quelle
costruttive. Questo secondo tipo di dimostrazioni derivava la sua ‘certezza’ non dall’essere
organica ad una teoria della conoscenza basata su percezione e memoria, ma dall’essere interna
alla ferrea struttura formale del “paradigma sintattico” che richiedeva la necessaria falsità di
ipotesi che portassero a contraddizioni e la necessaria verità della loro negazione. Così alla
correttezza della dimostrazione costruttiva si associava la completezza della deduzione logica, per
la quale ciò che non era dimostrabile, o meglio la cui costruzione portava a contraddizioni, doveva
essere falso.
Si trattava di una richiesta molto più forte, sulla quale si costruì gran parte della
argomentazione medievale e della stessa teologia cattolica (basti pensare alla “prova ontologica”
dell’esistenza di Dio), ed anche abbastanza estranea al metodo delle scienze naturali. Non è strano
che diventasse molto problematico il rapporto tra 'verità' e 'dimostrabilità', tra 'oggettività' e
'intersoggettività', un rapporto richiesto da una concezione ‘deduttiva’ della scienza, che però
trovò per duemila anni la sua credibilità in una ‘garanzia’ divina della ragione umana.
Questa dottrina della scienza resterà pressocchè invariata fino al Rinascimento, anche se alla
sua ombra sopravvivevano i sottili paradossi formali della logica, il più importante dei quali era il
mentitore: <io sto mentendo>. Se è vero vuol dire che è falso, ma se è falso allora è vero. Un
paradosso destinato a sopravvivere in fondo fino ai giorni nostri, e legato alla compresenza nella
stessa proposizione della negazione, dell’essere, della verità.
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In effetti l’‘assurdo’ era già apparso nella filosofia greca, ad esempio nei paradossi di Zenone,
ma solo come una sorta di ‘sgambetto’ retorico da fare per polemizzare contro l’avversario.
Dell’uso retorico delle contraddizioni erano maestri i Sofisti, e la storia della logica antica è
fondata sullo sforzo dei grandi filosofi tra la fine del V e il IV secolo, Socrate, Platone, Aristotele,
di riportare quelle tecniche della argomentazione nel campo delle verità e della scienza.
Infatti la semplice confutazione di un discorso avverso non è la ‘dimostrazione’ della tesi
contraria. Dimostrare che una tesi è assurda non significa dimostrare che la tesi opposta sia vera: a
tal fine occorrono la ‘non-contraddizione’ ed il ‘terzo escluso’, i principi formali della logica
aristotelica.
Tuttavia è la teoria degli incommensurabili l'esempio cruciale dell’apparizione dell’infinito e
del continuo nella matematica greca, e, nel contempo, dell'uso della 'dimostrazione per assurdo'. Il
teorema sulla incommensurabilità di lato e diagonale del quadrato, per essere accettato come
teorema, doveva anche far accettare il suo metodo di prova. Questo potrebbe spiegare il lungo
periodo di transizione in cui il risultato progressivamente si è dovuto 'conquistare' lo statuto di
‘verità’ matematica negativa e non visuale in una geometria positiva e costruttiva.
E’ difficile collocare storicamente la scoperta della incommensurabilità ed è anche difficile
intuire la storia culturale di tale scoperta. L'ipotesi più comune riporta tale scoperta all'indagine del
rapporto tra diagonale e lato del quadrato, ma tale approccio non è attestato in alcun testo
ascrivibile ai Pitagorici ed appare solo in Platone (l'episodio dello schiavo del Meno e forse il
brano riguardante le lezioni di Teodoro nel Theaetetus) e poi diffusamente in Aristotele. Altre
interpretazioni geometriche fanno riferimento ad altre costruzioni geometriche, quali la sezione
aurea, il pentagono regolare, il dodecaedro (von Fritz) oppure all'applicazione del metodo delle
divisioni successive, l'antiphairesis (Fowler).
Se ne deve riconoscere la natura pitagorica, ma la data della scoperta presunta sembra
oscillare dagli allievi diretti di Pitagora, come Ippaso (prima metà del V secolo), fino ai tempi di
Archita (fine V-inizio IV sec.). Questa difficoltà è forse spiegabile pensando che probabilmente
l’incommensurabilità richiese molto tempo per assurgere al rango di ‘verità’ geometrica, partendo
dall’essere una semplice stranezza. A questo proposito occorre osservare che:
(i) Anche nella matematica babilonese la mancanza di un valore esatto per il rapporto tra
diagonale e lato del quadrato era noto e trattato alla stessa stregua della mancanza di un inverso di
7. La differenza fra i due casi è apprezzabile quando si riveli che il secondo risultato è periodico
nell'applicazione dell' antiphairesis e dipendente dalla base del sistema numerico (ma questi
aspetti appaiono difficilmente rivelabili o apprezzabili per una aritmetica notazionalmente e
computazionalmente rozza come quella greca), oppure quando questo venga 'dimostrato' e non sia
più uhn semplice fatto numerico empirico.
(ii) Proclo ci fa sapere che prima di Euclide esistevano libri di “elementi” che non
utilizzavano dimostrazioni per assurdo o rigettavano la teoria delle proporzioni, ed erano
probabilmente basati sull’idea ‘visuale’ e ‘costruttiva’ di dimostrazione. In Euclide le
dimostrazioni per assurdo sono basate sull'idea e le proprietà dell' uguaglianza (‘nozioni comuni’)
o sul regresso all’infinito (come in VII.31). Si possono tuttavia immaginare antiche dimostrazioni
costruttive equivalenti basate sulla evidenza visuale, e pensare che antichi libri di ‘elementi’
utilizzassero simili dimostrazioni. Istruttivo a questo riguardo il teorema I.4, primo criterio di
uguaglianza dei triangoli): per dimostrare la unicità del triangolo costruito occorre supporre che
dati due punti esiste solo un segmento che li congiunge. Nelle edizioni critiche questo è
semplicemente asserito senza motivazioni per la sua 'evidenza', mentre un successivo interpolatore
motivò questa asserzione con la 'nozione comune 9': "Due linee rette non possono racchiudere uno
spazio". Questo, come altri esempi, mostra che la sostituzione di risultati evidenti con
dimostrazioni per assurdo basate su 'nozioni comuni' fu un lungo processo di cui gli Elementi di
Euclide furono solo una tappa, anche se la più importante.
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Questo non è possibile per l’incommensurabilità: non esiste una dimostrazione ‘positiva’
equivalente, il risultato è essenzialmente negativo, così che in quei libri di 'elementi' pre-euclidei
cui accenna Proclo la incommensurabilità doveva essere necessariamente assente, e del resto,
negli stessi Elementi euclidei, nonostante vi sia l'intero X libro dedicato all'argomento, la sola
dimostrazione esplicita di incommensurabilità (relativa a lato e diagonale del quadrato) è una
inserzione posteriore, che si trova anche accennata in Aristotele: se diagonale e lato del quadrato
fossero commensurabili, le loro lunghezze sarebbero nel rapporto m:n , con m ed n interi e
relativamente primi (se non lo fossero si potrebbero entrambi dividere per il fattore comune): in
particolare non possono essere entrambi pari. Essendo 2 il rapporto dei quadrati costruiti su di essi
sarebbe m2 : n2 = 2. Da qui m deve essere pari, diciamo m = 2 k, e quindi sarebbe n2 : k2 = 2.
Quindi anche n sarebbe pari, contrariamente alla ipotesi secondo la quale m ed n sarebbero
relativamente primi.
Ma precedentemente (al passaggio tra V e IV secolo) la dimostrazione doveva essere di tipo
geometrico e probabilmente, prima ancora, fondata sulla teoria aritmetica della musica, la
cosiddetta armonica. Infatti la prima matematica greca originale, sviluppata dai Pitagorici e non
derivata semplicemente dall’Oriente, fu lo studio delle consonanze fra le note, misurate dai
rapporti tra le lunghezze delle corde che davano tali consonanze: tali rapporti erano molto
semplici, 1:2 (armonia di ottava), 2:3 (di quinta), 3:4 (di quarta).
Pitagora era un uomo di Samo, e, come tanti greci dell’epoca impegolato negli scontri politici
della sua polis, fu costretto ad emigrare verso l’Italia meridionale, la Magna Grecia. Queste
migrazioni erano un fenomeno diffuso nelle città greche dell’epoca. Provocate da ragioni politiche
ed economiche trapiantavano in un terreno vergine frammenti di società greca, creando un
ambiente sociale più destrutturato di quanto fosse la normale polis greca, che già si presentava
come molto meno gerarchizzata delle società orientali (niente di paragonabile al palazzo dei
faraoni o dei re mesopotamici) con una religione molto meno professionalizzata delle caste di
scribi del tempio orientale. In questo ambiente, quasi una specie di antico far west, dominavano le
questioni di potere politico, e i Pitagorici furono una setta politico-religiosa che trasmutò le
conoscenze tecniche matematiche importate dall’oriente in una ‘educazione liberale’, in una
‘filosofia’, un sapere generale laico e religioso, politico e sociale, per governare le città della
Magna Grecia: Metaponto, Crotone, Sibari, Taranto. Così aspetti tecnici come l’uso dei sassolini
sull’abaco per studiare le figure geometriche sono forse all’origine di ipotesi filosofiche quale
quella di studiare tutti i numeri, ed anche tutti gli oggetti reali, in base alla loro ‘forma’ geometrica
discreta (triangolari, quadrati, rettangolari, lineari, etc.).
E la musica era cruciale per questo scopo politico: essa non era un semplice ‘intrattenimento’
come oggi per noi, ma era l’autentica colonna sonora della vita religiosa e sociale della polis
greca, un po’ come la televisione oggi, al punto che Platone ripeterà che “credo che i modi
musicali non possano essere cambiati senza cambiare le leggi fondamentali della polis”
[Respublica, 424c].
Per governare occorreva allora dominare i ‘modi’ musicali e questo creava problemi
aritmetici: ad esempio per dividere in due parti uguali l’ottava occorreva trovare un x tale che
1:x=x:2. Oggi diremmo che x vale √2, un numero irrazionale, ma per i pitagorici i numeri erano
solo interi, e verso la fine del V sec. a.C. Archita, l’ultimo grande pitagorico, scoprì che non
esistevano soluzioni intere (o razionali). E questa è probabilmente l’origine della
incommensurabilità.
Tra gli storici della matematica si parla di frequente della scoperta degli incommensurabili
come di uno 'scandalo logico' destinato a provocare una Grundlagenkrisis, una 'crisi di
fondamenti', che avrebbe poi portato alla teoria delle proporzioni di Eudosso, alla
assiomatizzazione euclidea e alla logica aristotelica. Il punto cruciale che fonda questa
interpretazione è l'analogia con i paradossi insiemistici, la teoria di Cantor e il formalismo
moderno: in entrambi i casi l'assiomatizzazione sarebbe stata la soluzione alla crisi.
26
Occorre tuttavia ricordare che l'assiomatizzazione come 'mossa' per il superamento dei
paradossi era qualcosa di esistente nel secolo scorso, ma inesistente prima della matematica greca,
e di conseguenza il nesso tra 'crisi di fondamenti' ed 'assiomatizzazione rigorosa' è un tipo di
operazione oggi comune, ma del tutto non ovvia oltre due millenni fa.
Quello che in fondo era un ‘fatto’ numerico già noto ai babilonesi divenne così un ‘teorema’,
e non un teorema qualsiasi, ma l’architrave di una rivoluzione culturale la cui reale portata è
tutt'altro che riducibile nei termini di una 'crisi dei fondamenti'.
L’incommensurabilità infatti apriva una breccia nel rigido isomorfismo eleatico tra pensiero e
linguaggio. E così Parmenide e Zenone in Aristotele non hanno l'aura di mistero e profondità che
ancora presentano in Platone. La breccia nel paradigma sintattico parmenideo 'libera' il problema
del "continuo" dall'essere solo una zuppa di paradossi essere/non essere o uno/molti e dalla
indefinitezza in cui resterà nella matematica cinese.
L'incommensurabilità in Aristotele diventa l'esempio paradigmatico di un "essere in quanto
vero", un modo dell'essere garantito solo teoreticamente e solo 'potenziale' può essere l'infinito,
poiché solo nel 'pensiero' si può realizzare. E' l'autonomia del pensiero rispetto all'essere e alla
sua espressione è il passo fondamentale che supera lo stallo del paradigma parmenideo.
E tale scoperta si accordava con una struttura preesistente del Quadrivio nella quale discreto e
continuo non svolgevano alcun ruolo.
LA GEOMETRIA EUCLIDEA
li Elementi di Euclide sono considerati nella nostra tradizione un monumento matematico
confrontabile, per stabilità e solidità, alle piramidi. Questo è dovuto all’uso in tale opera per la
prima volta, tra le opere pervenuteci, e tuttavia già molto preciso, del metodo assiomaticoC
D
B
G
A
L
Fig. 7
deduttivo. Ma la struttura concettuale degli Elementi è invece, quando la si guardi con maggiore
attenzione, segno di un passaggio e di uno squilibrio profondi, in qualche modo erede
dell'impostazione pitagorica e di una filosofia platonica, ma anche punto di raccolta di una vasta
tradizione matematica e esempio di una idea di scienza teoretica affine alla impostazione
aristotelica.
L'aspetto costruttivo appare evidente sin dai primi tre postulati che garantiscono la
costruzione di un segmento fra due punti, la possibilità del prolungamento di un segmento e la
costruzione di un cerchio. Non si deve tuttavia credere che questo disegni la geometria euclidea
come una geometria 'empirica', basata sull'uso di riga e compasso. Infatti il compasso, garante
della costruibilità del cerchio con raggio dato, non può essere usato per riportare distanze. Infatti,
il teorema I.2, “porre una linea uguale ad una linea data con estremità in un dato punto”, che
parrebbe apparentemente banale se attuato trasportando il raggio dato su un dato centro tramite il
compasso, richiede invece in Euclide una costruzione complessa (vedi fig.7): sia BC la linea data e
A il punto dato; si congiungono A e B e si costruisce il triangolo equilatero ABD. Si costruisce il
cerchio di centro B e raggio BC e si prolunga BD fino ad incontrare il cerchio in G. Si costruisce il
27
cerchio di centro D e raggio DG, e si prolunga DA fino ad incontrare il cerchio in L: AL è la linea
cercata.
Da notare che il Euclide i teoremi non hanno alcun aspetto metrico, ma si parla solo e sempre
di uguaglianza tra enti geometrici
In generale in Euclide non esistono "distanze", e occorre sottolineare in generale la natura non
metrica degli Elementi. Osserviamo che il termine usato da Euclide, diastēmapiù che 'distanza'
significa 'intervallo, spazio tra due punti', senza connotazioni metriche. Non vi è traccia 'esplicita'
di quelle procedure di calcolo di aree che erano invece comuni nella matematica pratica di origine
babilonese ed egizia e che rimasero in funzione nella matematica antica, così che, ad esempio in
Vitruvio, l'uso metrico del compasso era invece comune nelle applicazioni della geometria. E
probabilmente per questo né in Euclide né in Archimede esiste una parola per ‘raggio’, termine
sostituito dalla parafrasi ‘quello dal centro’.
Non appare neanche l'idea di una "area" o "volume" distinta dalla "superficie" o "corpo",
sebbene esista una sorta di algebra degli oggetti geometrici che permetta di 'sommarli' nel senso
che essi si possono comporre per ottenere altri oggetti geometrici. Una figura non ‘ha’ la stessa o
doppia area di un’altra, ma ‘è’ uguale o doppia dell’altra, oppure 'un quadrato costruito così è
uguale ai quadrati costruiti così'. Per dire che due triangoli sulla stessa base hanno la stessa
‘altezza’, Euclide dice che i loro vertici sono su linee parallele alla base.
Oggi si dice (e qualcosa di simile dicevano i babilonesi) “l’area del cerchio è r2” il
matematico greco diceva invece “il rapporto fra due cerchi è il doppio rapporto dei diametri”
(bisogna ricordare che i rapporti non erano numeri e ‘doppio’ significava solo ‘composto con se
stesso’, ‘quadrato’ nella nostra terminologia).
La teoria delle proporzioni è lo strumento fondamentale della geometria teorica greca appena
questa va al di là delle proprietà elementari sostanzialmente ereditate dalle matematiche
babilonese ed egiziana. Il concetto di rapporto svolge quindi un ruolo cruciale, lo stesso uso del
termine logos per denominarlo ne rivela tale ruolo: logos infatti nella cultura greca è un termine
fondamentale, spesso usato addirittura per caratterizzare la filosofia greca tout court. La sua radice
è il verbo legō, che ha molti significati, quali “porre”, “raccogliere” e “dire”. Ancor più significati
assume logos, quali “discorso”, “parola”, “linguaggio”, “narrazione”, “definizione”, “pensiero”,
“ragione”, “opinione”, “importanza”, “resoconto”, “relazione”, e appunto “rapporto” in
matematica.
Il concetto matematico appare sin nei pitagorici, ma solo relativamente ai numeri, e viene
definito come “relazione” tra due numeri, e mai come ‘numero’. Il rapporto quindi non è la
frazione. La proporzione, analogia, è definita tramite l’idea di “stesso rapporto”, e due rapporti
sono lo stesso rapporto quando hanno la stessa antyphairesis, termine in qualche modo collegato
al numero di parti che mancano ad un intero. Da un punto di vista operativo il termine fa
riferimento probabilmente all’algoritmo delle divisioni successive col quale si trovava il massimo
comun divisore di due numeri e col quale quindi due rapporti potevano essere messi in forma
irriducibile: avere la stessa forma irriducibile voleva dire essere lo “stesso rapporto”.
La applicazione del concetto di rapporto alle grandezze geometriche non presentava alcun
problema in una geometria metrica e probabilmente tra i pitagorici la connotazione geometrica
coincideva con quella aritmetica. Ma la scoperta della incommensurabilità mostrava l’esistenza di
coppie di grandezze tra le quali non esisteva una “misura comune” (cioè l’algoritmo delle
divisioni successive non termina, teorema X.2 degli Elementi).
Ad Eudosso (IV sec.) si devono alcuni dei risultati più eccezionali della storia della
matematica. In primo luogo il modello geometrico dei cieli accennato nel paragrafo precedente.
Un secondo contributo essenziale è la sua teoria delle proporzioni, una dottrina centrale per la
matematica greca e medievale, essendo l’unico ponte tra discreto e continuo.
Inizialmente il ‘rapporto’, il logos, era un concetto solo aritmetico, ma non un numero, bensì
una relazione tra due numeri. Nella antica aritmogeometria ovviamente questo concetto aritmetico
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poteva estendersi facilmente alla geometria: il rapporto tra base e altezza di un rettangolo
nell’abaco era il rapporto tra il numero di monadi su di esse. Ma la geometria teorica greca si era
distaccata dalla matematica dell’abaco e l’incommensurabilità tra lato e diagonale del quadrato
dimostrava che non si potevano ridurre le figure geometriche a configurazioni di monadi: per
quanto si riducesse l’unità di misura non si riusciva a misurare contemporaneamente lato e
diagonale del quadrato con un numero intero.
Qui Eudosso forse osservò come i rapporti tra segmenti incommensurabili, pur non essendo
aritmeticamente definibili con esattezza, potevano essere aritmeticamente approssimati quanto si
voleva. Infatti già i babilonesi avevano trovato ottime approssimazioni numeriche per la √2. Le
approssimazioni si potevano fare o per difetto o per eccesso. Ad esempio per √2 una
approssimazione per difetto è: 1→ 1.4 →1.41 → 1.414 → 1.4142→…, una per eccesso era: 2→
1.5 → 1.42→ 1.415→ 1.4143 →… Qualunque numero razionale si prenda si può sempre dire se
sia maggiore o minore di √2.
Non potendosi esprimere con numeri un rapporto tra grandezze incommensurabili, la
questione che Eudosso si pose fu se fosse possibile almeno dire se due rapporti a:b e c:d fossero
uguali (ricordiamo che erano l’uguaglianza e la similitudine i temi della geometria dell’epoca),
costruire cioè la proporzione a:b = c:d. Se si, le approssimazioni dei due rapporti dovevano essere
comuni ed allora qualunque approssimazione m/n se era per eccesso per un rapporto lo era anche
per l’altro, e quindi per ogni m ed n si aveva che mb>na se e solo se md>nc. Abbiamo usato una
notazione algebrica e aritmetica inesistente all’epoca, ma il ragionamento si poteva fare
ugualmente nel linguaggio matematico dell’epoca, e, considerando quella condizione non solo
necessaria ma anche sufficiente, si otteneneva la definizione eudossiana della uguaglianza tra
rapporti e la fondazione della teoria delle proporzioni per le ‘grandezze’: “grandezze sono dette
essere nello stesso rapporto, la prima con la seconda e la terza con la quarta, quando, per qualsiasi
multiplo, gli equimultipli della prima e terza siano entrambi maggiori o uguali o minori dei
corrispondenti equimultipli della seconda e della quarta”.
Su questa definizione si sviluppò la geometria teorica più avanzata. Quanto questa definizione
fosse lucida e importante per il seguito si può facilmente osservare non solo dal suo uso nei libri
successivi, ma anche dal fatto che essa sembrava preludere ad una possibile “matematica comune”
che unificasse continuo e discreto, aritmetica e geometria, numero e grandezza. In realtà questo
non avvenne nella matematica greca e la teoria di Eudosso venne applicata solo alla geometria, col
risultato paradossale che teoremi identici a meno della terminologia aritmetica o geometrica
dovevano essere dimostrati separatamente.
La definizione per il suo carattere astratto fu del tutto incompresa nel Medioevo e rivelò la
sua profondità concettuale quando riapparve nell’Ottocento: è evidente che se si accetta la
identificazione del rapporto di grandezze con il numero reale questa definizione prelude alla
definizione di “numero reale” e di “continuo” in Dedekind.
Degno di nota anche che la soluzione 'complessa' fornita dal teorema I.2 consente di
realizzare la 'uguaglianza per coincidenza' senza bisogno di introdurre idee cinematiche o
intuitive, ma tramite una semplice costruzione geometrica.
Questa osservazione ci porta al cuore di quello che mi sembra il problema centrale per
un'opera, quale gli Elementi, che segna il passaggio da una geometria basata su costruzioni visuali
e risultati evidenti verso una geometria basata su dimostrazioni a partire da postulati e procedure
sintattiche: la traduzione della uguaglianza intesa come coincidenza evidente, visuale, con una
uguaglianza dimostrata sintatticamente. Le idee di uguaglianza e similitudine saranno il
denominatore comune tra matematica e filosofia greca: nella prima creando la teoria delle
proporzioni e il sistema assiomatico, nella seconda sviluppando la dottrina delle idee/forme.
Nella matematica greca l’”uguaglianza” riguardava non la misura ma la costruzione, tanto di
figure geometriche quanto di rapporti; più tardi l'uguaglianza appare quando le istanze diverse di
29
un oggetto geometrico possono essere pensate derivare da un'unica 'forma', ove il termine 'forma'
va letto in un approccio platonico o aristotelico e senza alcuna connotazione 'metrica'.
fig.7 bis
I rapporti erano ‘relazioni’ tra quantità omogenee (impensabile quindi la velocità come
‘rapporto’ tra spazio e tempo) e non erano numeri; ed anche le stesse figure non avevano ‘misure’,
non si ‘sommavano’ le loro aree, bensì si univano le figure. Però su di esse si potevano fare
confronti (una figura è ‘equivalente’ ad un’altra se tramite opportune trasformazioni la si può
trasformare in una figura sovrapponibile alla seconda, la prima è invece ‘maggiore’ della seconda
se, dopo le trasformazioni, la contiene). Le ‘trasformazioni equivalenti’ erano le operazioni di
dissezione e riassemblaggio, e le equivalenze geometriche erano basate sugli assiomi
dell’uguaglianza: nell’esempio in fig.7bis sono equivalenti i due rettangoli tratteggiati a sinistra e i
tre triangoli a destra costruiti sulla stessa base. Esisteva quindi un doppio criterio di uguaglianza,
in primo luogo quello arcaico della ‘sovrapponibilità’, in secondo luogo la trasformabilità nel
rispetto degli assiomi dell’uguaglianza.
L'uguaglianza in matematica appare all'inizio quindi una relazione tra "quantità", tra numeri o
anche tra coppie di numeri (rapporti), o anche tra grandezze geometriche, ma solo quando sono
coincidenti (nozione comune 4 degli Elementi), dove la coincidenza è semplicemente
l'occupazione dello stesso spazio, e quindi la "uguaglianza" si differenzia dalla "somiglianza" così
come lo "spazio" si differenzia dagli altri attributi. In una fase più avanzata, le quantità sono rese
uguali tramite una serie di trasformazioni che soddisfano gli assiomi dell'uguaglianza (nozioni
comuni 1-3 degli Elementi: transitività, uguaglianza della somma e della sottrazione di uguali).
Da notare anche come questa idea sia del tutto diversa dalla pratica metrica della matematica
più antica, nella quale la 'figura' in quanto tale aveva una 'dimensione' sostanzialmente legata alla
lunghezza dei lati. Proclo osserva che il teorema I.35 che stabilisce l'uguaglianza di
parallelogrammi con la stessa base e 'tra le stesse parallele' (cioè con la stessa altezza) aveva un
che di paradossale, poiché diminuendo l'angolo alla base i lati potevano essere resi lunghi a
piacere lasciando la figura 'uguale', così che apparivano avere 'la stessa dimensione' figure che in
una tradizione più antica apparivano avere dimensioni del tutto diverse.
I greci riuscirono a risolvere in generale il problema del ‘confronto’ per le figure rettilinee, ma
non per le figure curvilinee, e questo era il problema della ‘quadratura del cerchio’: non il calcolo
di per la cui approssimazione bisognerà attendere Archimedema la ricerca di una sequenza di
trasformazioni sulle figure che rendesse equivalente un cerchio ed un quadrato.
GLI ELEMENTI DI EUCLIDE
ALCUNE DEFINIZIONI DEL I LIBRO
1.
2.
3.
4.
Un punto è ciò che non ha parti
Una linea è una lunghezza senza larghezza
Le estremità di una linea sono punti.
Una linea retta è una linea che giace ugualmente coi punti su di essa.
30
17. Un diametro del cerchio è ogni linea retta tracciata attraverso il centro e estesa in entrambe
le direzioni fino alla circonferenza ed una tale linea taglia a metà il cerchio.
23. Linee rette parallele sono linee rette che stando sullo stesso piano e estese indefinitamente
in entrambe le direzioni non si incontrano in nessuna direzione
POSTULATI
1.
2.
3.
4.
5.
Tracciare una linea retta da ogni punto ad ogni punto
Estendere illimitatamente una linea retta finita in una linea retta.
Descrivere un cerchio con ogni centro e intervallo
Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro.
Se una linea retta tagliando due linee rette fa gli angoli interni sullo stesso lato minori di
due angoli retti, le linee rette, se estese indefinitamente, si incontrano dal lato su cui ci
sono gli angoli minori di due angoli retti
NOZIONI COMUNI (ASSIOMI)
1.
2.
3.
4.
5.
Cose che sono uguali alla stessa cosa sono anche uguali tra loro
Se uguali sono aggiunti ad uguali i totali sono uguali
Se uguali sono sottratti da uguali i resti sono uguali
Cose che coincidono tra di loro sono uguali tra di loro.
L’intero è maggiore della parte.
Il ‘principio di omogeneità’, estraneo alla matematica babilonese e che durerà nella geometria
"teorica" fino a Descartes, presuppone che tutti i numeri sono segmenti e i prodotti di numeri sono
figure. E' vero che in IX,18 Euclide considera un segmento (e non un quadrato) come risultato del
quadrato di un segmento, ma si tratta in realtà di numeri 'travestiti' in linguaggio geometrico
secondo una tradizione dell'antico pensiero aritmogeometrico.
La ragione di questa difficoltà a unificare i concetti di "numero" e "grandezza" è nel fatto che
essi erano due campi del tutto eterogenei, per quanto questo sia difficile da comprendere per chi è
cresciuto nella matematica post-cartesiana: il numero reale comincia allora ad apparirci in realtà
una creazione sintattica originale finalizzata a creare un ponte tra discreto e continuo, tra
numero e grandezza.
Certo, i numeri erano connessi alle grandezze e tanto la tradizione più antica quanto
l'impianto aristotelico ritrovavano, anche se in modo diverso, una qualche connessione tra
‘numero’ e 'misura', ma nella cultura greca i due concetti restarono sempre nettamente separati,
sino a utilizzare sistemi numerici a base diversa.
La riduzione sintattica del concetto di 'uguaglianza' è legata alla apparizione della
'dimostrazione per assurdo', che abbiamo visto essere verosimilmente assente in antichi libri di
"Elementi".
In Platone l'uguaglianza è una idea strategica per la costruzione del mondo delle idee, e che
così si realizzi l'imperativo parmenideo della conoscenza come conoscenza di qualcosa fissato una
volta e per sempre, al di là della variabilità e della diversità degli oggetti reali. Se l'uguaglianza
garantisce questa costruzione, i suoi assiomi sono ciò la cui violazione garantisce la non-verità
delle ipotesi, e permette così la introduzione della dimostrazione per assurdo al posto di molte
antiche dimostrazioni 'evidenti'.
Abbiamo già notato una traccia di questa trasformazione nel teorema I.4, primo criterio di
congruenza fra triangoli. E questo ci pone anche sulla traccia della distinzione che credo più
fondata tra postulati e nozioni comuni (o assiomi): i primi sono punti di partenza, come nell'antica
pratica dialettica, spesso di natura costruttiva, i secondi sono principi di ragione con cui costruire
31
dimostrazioni, anche dimostrazioni per assurdo (quasi sempre basate su assurdi connessi
all'uguaglianza o all'infinito) con cui sostituire antiche dimostrazioni per evidenza.
Il ‘regresso infinito’ è l’unica forma di assurdo che non si riconduca alla negazione di una
delle ‘nozioni comuni’ o di un teorema già dimostrato. E gli assurdi per il regresso infinito non
potrebbero essere resi ‘positivi’ in dimostrazioni costruttive neanche intuitivamente.
Infatti la geometria di Euclide tratta di oggetti 'finiti' ed effettivamente dati. Il termine eis
apeiron, all’infinito, compare nella definizione I.23 di "parallela" e nel V postulato due linee
estese 'indefinitamente' tagliate da una linea retta si incontrano sul lato su cui gli angoli sono meno
di due retti. Ma è un infinito potenziale, e superfici e solidi restano rigorosamente limitati: quella
eucldea è una geometria piana ‘senza il piano’, una geometria solida ‘senza lo spazio’
Anche l’idea di infinito non apparteneva alla matematica ed era un concetto sostanzialmente
‘fisico’. In Euclide il termine ‘infinito’ (apeiron) appare in forma solo avverbiale, per dirci che la
retta può essere prolungata illimitatamente. Anche le sezioni coniche, prima di Apollonio, erano
costruite su coni finiti. Quella euclidea è una geometria piana senza il ‘piano’, una geometria
solida senza lo ‘spazio’, è una geometria di figure e solidi finiti che non richiedono un ‘ambiente’
infinito che li contenga.
E’ qualcosa da ricordare per valutare precisamente la matematica greca. Ad esempio lo stesso
Apollonio nel suo studio delle coniche introduce ‘rette di riferimento’ sulle quali ‘proiettare’ le
posizioni di punti delle curve, individuando segmenti tra i quali riconoscere relazioni geometriche
nella forma di rapporti caratteristici delle curve (chiamati symptoma). Molti storici hanno
riconosciuto qui la ‘geometria analitica’ odierna (con gli ‘assi x, y, z’, le ‘coordinate’ dei punti, le
‘equazioni’ delle curve). La differenza è che i concetti di Apollonio erano ‘intrinseci’ alla curva
(assi, diametri, tangenti), mentre quelli moderni sono ‘estrinseci’ ad essa e relativi invece ad uno
‘spazio’ indipendente che ‘contiene’ la curva.
L’infinito appare in diverse forme, ma sempre secondo lo schema aristotelico dell’infinito
potenziale: così nel II postulato eutheia è sempre una linea retta finita che può essere
indefinitamente e continuamente estesa. L’impossibilità di processi infiniti attuali è adoperata
nella teoria della incommensurabilità, mentre esistono prove di esistenza dell’infinito potenziale (i
numeri primi). Anche nelle dimostrazioni di teoremi sono introdotte le ipotesi di estensione
infinita, come per tracciare una perpendicolare da un dato punto (I,12)
L’infinito appare anche nella forma della infinita divisibilità: per bisecare una linea (I,10) essa
deve essere supposta infinitamente divisibile. Proclo, citando Geminus, (278) osserva come, in
geometria, sia sufficiente ipotizzare che "il continuo è divisibile", mentre che "il continuo sia
divisibile all'infinito" si può dimostrare tramite la costruzione di grandezze incommensurabili.
Era anche difficile trattare l’‘insieme’ dei numeri, poiché questo significava trattare l’infinito,
così che Euclide non dirà ‘ci sono infiniti numeri primi’, bensì “i numeri primi sono più di ogni
molteplicità proposta di numeri primi” [Elementi, IX.20], e nelle dimostrazioni non comparirà mai
esplicitamente il principio di induzione completa: per ogni proprietà P si ha che
P(0) (x) (P(x)=>P(x+1)) => (x) P(x)
che usualmente si ascrive a Pascal. Se ne trovano tracce precedenti in Maurolico, in Levi ben
Gerson ed anche in autori arabi. In Euclide si trovano tracce di ragionamenti che sembrano
preludere ad esso (VII 3, 27, 36, VIII, 2, 4, 13, IX, 8, 9), ma sono sempre ridotte a ragionamenti
intorno a numeri (piccoli, tre o quattro) ben definiti.
Vi è tuttavia qualcosa di molto simile al principio di induzione. L’infinito numerabile è in
fondo accettabile (ad esempio nel teorema su i numeri primi) in quanto coincide con l’infinito
potenziale, e la sua limitatezza per divisione (o sottrazione) implica la inesistenza di una sequenza
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infinita decrescente di interi, che appare sostanzialmente coincidente col principio di esistenza del
minimo1 e appunto col principio di induzione.
E’ tuttavia degno di nota che il principio di induzione, che permette un uso ‘positivo’
dell’infinito, non appaia nella matematica greca, ma che qualcosa di logicamente equivalente vi
appaia nella forma ‘negativa’ di un principio che nega l’esistenza di una sequenza infinita.
La dimostrazione procedeva da ‘cose più note’ verso ‘cose meno note’, dagli
assiomi/postulati ai teoremi/problemi, una procedura nota anche come sintesi, che caratterizza lo
stile di Euclide negli Elementi. Ma nella matematica greca appariva anche la procedura opposta,
detta analisi, che partiva da ‘ciò che si cerca’ per risalire a ‘ciò che già si sa’. L’idea fondamentale
era quella che invertendo le deduzioni di una delle due procedure si otteneva l’altra, ma in realtà
A=>B non implica B=>A, così che per garantire la correttezza logica dei risultati l’analisi andava
sempre seguita dalla sintesi corrispondente. Gli psicologi cognitivi ci dicono che un bravo studente
di geometria oggi è in genere abile nel mischiare in modo opportuno le due procedure, chiedendosi
alternativamente ‘da quello che so che cosa posso conoscere?’ e ‘per ottenere il risultato richiesto
che cosa mi serve?’.
Maestro della ‘analisi’ fu Apollonio. Per capirne la grandezza basta pensare che sviluppò la
teoria delle coniche (le figure ottenute per sezioni di un cono tramite un piano al variare della sua
inclinazione: cerchio, ellisse, parabola, iperbole), nata probabilmente da esperienze di misurazione
astronomica (meridiana, astrolabio), in quanto le stelle si muovono rispetto ad un osservatore
terrestre su cerchi che col vertice nell’osservatore formano un cono, la cui sezione con un piano è
una conica. Ebbene Apollonio ottenne per via geometrica tradizionale gran parte di quello che
oggi si studia sull’argomento usando il formalismo algebrico.
IL METODO DI ESAUSTIONE E ARCHIMEDE
Un capitolo speciale della matematica greca, il cui sviluppo va da Eudosso ad Archimede
attraverso il XII libro degli Elementi, è il metodo di esaustione.
Nella preistoria del metodo di esaustione c’è Democrito, che si chiede: se noi tagliamo un
cono con un piano otteniamo un cono più piccolo e un tronco di cono. Le sezioni, che ci danno la
base del cono minore e la faccia superiore del tronco di cono, sono uguali? Ricordando che
possiamo ripetere il discorso per le infinite possibili sezioni, se la risposta è no, allora avremo che
il cono avrà una struttura irregolare a scalini; se la risposta è si, allora avremo che il cono è in
realtà un cilindro.
In Antifonte l’esaustione del cerchio con poligoni si realizzava in un numero finito di
suddivisioni. Ippocrate di Chio, forse autore di gran parte dei contenuti più antichi degli Elementi,
cioè della prima costruzione assiomatico deduttiva delle geometria già nel V secolo, aveva un idea
già più corretta e cercava la quadratura intermedia tra poligoni circoscritti ed iscritti, così che a lui
si ascrive la intuizione del teorema XII.2, secondo il quale “il rapporto tra due cerchi è quello tra i
quadrati dei diametri”.
In verità le radici del metodo si trovano nelle teoria di quelle che Euclide chiama
semplicemente “grandezze”, e che potremmo dire, con Aristotele, ‘continue’, sviluppatasi assieme
alla teoria delle proporzioni di Eudosso. Infatti già la def. V.4 asserisce che due grandezze “hanno
un rapporto” se c’è un multiplo della minore più grande della maggiore; questa proprietà è in un
certo senso proprio l’inversione della ‘infinita divisibilità’ considerata come un infinito potenziale:
le “grandezze” per cui esiste un rapporto sono le entità non nulle ottenute da un numero finito di
suddivisioni Su questa base X.1 mostra che se, date due grandezze, sottraiamo iterativamente dalla
1
Il principio del buon ordinamento asserisce che ogni insieme può essere ben ordinato, cioè posto in un ordine totale tale che
ogni sottoinsieme limitato inferiormente ammette un minimo. Il principio di esistenza del minimo asserisce che ogni insieme non
vuoto di interi ammette un minimo.
33
maggiore una grandezza maggiore della sua metà (ipotesi questa in verità non necessaria), resterà
prima o poi una grandezza minore della minore delle due.
E X.2 mostra che due grandezze sono incommensurabili se l’algoritmo per la massima
comune misura, quello delle sottrazioni successive (X.3), non termina mai. Abbiamo già visto che
questa proprietà, applicata a lato e diagonale del quadrato oppure alla sezione aurea, potrebbe
essere stata il punto di partenza per la versione geometrica della incommensurabilità.
Archimede assegna ad Eudosso il famoso lemma: “di linee, superfici, solidi disuguali, il
maggiore eccede il minore di una quantità capace, aggiunta a se stessa, di superare qualsiasi
grandezza di quelle confrontabili tra di loro”. Insieme alla def. V.4 dava una caratterizzazione
matematica al concetto di grandezza continua e di confrontabilità tra grandezze omogenee.
Tuttavia delle due proprietà che Aristotele assegna al continuo, l’"infinita divisibilità" e la
"mancanza di lacune", solo la prima caratterizza la geometria euclidea, e per questa
considerazione Dedekind potrà dire a ragione che questa ammette anche ‘modelli’ non continui,
ma semplicemente ‘densi’.
La base del "metodo di esaustione" consiste nell’'intuire' una relazione di uguaglianza (in
senso metrico) tra due enti geometrici, e poi nel dimostrare tale uguaglianza, con due
dimostrazioni per assurdo basate sulle proprietà suaccennate applicate alle due opposte
disuguaglianze. A tale fine si devono costruire due sequenze di grandezze, una crescente e l’altra
decrescente, una sempre minore della grandezza studiata, l’altra sempre maggiore.
Ovviamente a questo scopo tutte i rapporti fra grandezze geometriche devono essere resi
confrontabili coi rapporti tra segmenti, che, secondo il canone della geometria greca sono il
'prototipo' della idea stessa di grandezza. Così a questo fine sono dedicate le prime proposizioni de
Sulla sfera e cilindro di Archimede.
E’ interessante osservare il rapporto tra discreto e continuo che il metodo di esaustione
configura. Il punto di partenza è la già citata definizione 4 del V libro, che caratterizza l’ambito
delle grandezze (continue), cioè “aventi un rapporto tra di loro”, in quanto capaci quando
moltiplicate di eccedersi l’un l’altra. Il passo successivo è il già citato teorema X.1 che garantisce
il viceversa, cioè che una qualsiasi grandezza, se continuamente decrementata di almeno la metà
di quanto resta, finisce con l’essere minore di qualsiasi altra grandezza. Su questa base si fonda il
metodo di esaustione, che verifica una proporzione dimostrando per assurdo che le due
disequazioni relative non valgono: non quindi la continuità come 'separabilità', ma la continuità
come definita dalla 'divisibilità' e dall'assioma di Eudosso-Archimede.
Supponiamo di voler dimostrare che il rapporto tra i cerchi è uguale al rapporto tra i quadrati
con lati uguali ai rispettivi raggi (fig.7). Dimostriamolo per assurdo supponendo che il rapporto tra
i cerchi A:B sia minore del rapporto tra i quadrati C:D, allora il rapporto tra i quadrati sarà uguale
al rapporto tra il cerchio A ed una altra figura >B: A: =C:D. Circoscriviamo al cerchio B
poligoni regolari con un numero di lati crescente (e quindi decrescenti come ‘area’): L1, L2, L3, …,
prima o poi ne troveremo uno, Li, con tanti lati da rendere la sua differenza rispetto al cerchio B
minore della differenza tra  e BQuesto poligono sarà così tale che >Li>B. Costruiamo un
poligono con altrettanti lati Mi circoscritto al cerchio A. Tra i poligoni regolari vale il teorema che
il rapporto tra due poligoni simili è uguale al rapporto tra i quadrati costruiti su lati che hanno lo
stesso rapporto dei lati dei poligoni (uguale nel nostro caso al rapporto tra i raggi dei cerchi A e B)
e quindi Mi:Li=C:D. Ma A: =C:D e quindi A: Mi:Li e allora A:Mi:Li. Ma il cerchio è
minore del poligono in esso circoscritto e quindi <Li. Ma Li era anche minore di : assurdo.
Analogo assurdo se supponiamo che il rapporto tra i cerchi sia maggiore del rapporto tra i
quadrati.
34
RADDOPPIANDO LE DIMENSIONI SI QUADRUPLICANO LE AREE
C
U
A
l
U
U
l
l
?

D
2l
4U
2l
4U
2l
B
4U
FIG.7
La proposizione XII.2 applica questo metodo per mostrare che due cerchi sono nella
proporzione del quadrato dei loro diametri. A e B sono i due cerchi, C e D sono i quadrati dei
diametri. La proporzione è stata già dimostrata per poligoni simili. Le sequenze Li e Mi sono le
sequenze di poligoni regolari iscritti nei due cerchi con numero crescente di lati. L’applicazione
della procedura precedente dimostra il teorema.
Non appaiono nè l’infinito nè lo zero. Infatti il metodo di esaustione si basava sul teorema X.1
degli Elementi: “fissate due grandezze disuguali, qualora dalla maggiore sia sottratta una
grandezza maggiore della metà [in realtà questa condizione non è necessaria] e da quella restata
fuori una maggiore della metà, e questo risulti in successione, sarà restata una certa grandezza che
sarà minore della minore grandezza data”. Poiché la minore delle due grandezze date può essere
scelta a piacere il residuo può essere reso minore di ogni grandezza. Tuttavia non poteva diventare
zero poiché una grandezza non poteva diventare un non-essere, e l’infinito non era un limite ma
solo un luogo impraticabile.
In questo discorso le approssimazioni non sono più numeriche come nell’argomentazione
fatta per l’uguaglianza tra i rapporti, bensì geometriche, ottenute da poligoni circoscritti (o iscritti)
con un numero crescente di lati, ma il ragionamento è analogo.
Il lemma di Eudosso serve ad asserire qui sostanzialmente che la differenza tra una grandezza
(continua e incommensurabile) e un’altra grandezza (discreta) è sempre non nulla ed in grado di
avere un rapporto con qualunque altra grandezza. La proprietà usata nel teorema sulla leva, ed
anche i teoremi basati sul principio di esaustione come il XII.2, asseriscono che una grandezza
continua è approssimabile da grandezze discrete con qualsiasi precisione finita non nulla. Il
legame tra i due è dato dalla X.1, che garantisce che tramite sottrazioni successive tra due
grandezze si può sempre ottenere una grandezza minore della minore delle due.
Il metodo di esaustione ha però un aspetto che lascia perplessi: può servire per ‘verificare’ una
ipotesi sulla proporzione tra figure, ma non per ‘scoprirla’. In certi casi (come nel caso del
cerchio) il rapporto tra le aree sembrava intuibile, ma in altri casi questo non accadeva, come nel
caso del rapporto tra figure curve e rettilinee, ove occorre sempre tenere presente che in generale
per i Greci retto e curvo erano opposti e quindi inconfrontabili.
Ad esempio Archimede dimostra col metodo di esaustione la correttezza della ipotesi che il
rapporto tra un segmento di parabola ed il triangolo isoscele in esso iscritto sia 4/3. Ma questa
ipotesi era tutt’altro che evidente. Come l’aveva scoperta? Questi interrogativi cominciarono a
porseli i matematici del XVI secolo, quando gli scritti di Archimede, sebbene tradotti in latino già
nel Medioevo, cominciarono ad essere studiati, capiti ed apprezzati. Molti sospettarono che
Archimede avesse avuto un ‘metodo’ segreto per scoprire la ipotesi ‘giusta’.
35
Sorprendentemente un secolo fa Heiberg scoprì in un antico palinsesto un testo dove si
leggeva il ‘metodo di Archimede’. La sorpresa doveva poi trasformarsi in ammirazione per il
genio dell’autore. Nella dimostrazione si utilizzava una fusione inimmaginabile tra geometria e
statica (teoria della leva), sviluppata da Archimede in diverse opere, costruendo una
configurazione di equilibrio tra il segmento di parabola ed il triangolo, tramite la costruzione delle
figure come unione delle loro sezioni parallele (segmenti, e quindi di dimensione inferiore alle
figure).
La figura da studiare è sezionata in elementi che diremmo infinitesimi. Tramite lemmi
geometrici si costruiscono proporzioni in cui tali sezioni vengono rapportate ad altre più
facilmente analizzabili. Tali proporzioni vengono lette come condizioni di equilibrio su una leva,
avente da un lato la figura incognita e dall’altro una nota. Così la misura dell’ente geometrico
incognito viene ridotta ad una misura nota. Tuttavia questo metodo viene usato da Archimede solo
per scoprire la relazione di uguaglianza che rimane però sempre da convalidare poi con il metodo
di esaustione.
V a.C.
IV
III
TRADIZIONE MATEMATICA
ORIENTALE
PRATICA
EUDOSSO
ARCHIMEDE
APOLLONIO
EUCLIDE
ARISTOTELE
PLATONE
FILOSOFIA
I a.C.
I d.C.
II
III
VITRUVIO NICOMACO DIOFANTO
CL. TOLOMEO
ERONE
PITAGORICI ARCHITA
TRADIZIONE
TEORICA
II
PAPPO
PLOTINO
ELEATI
Il Metodo di Archimede, la tecnica euristica da lui usata per scoprire relazioni da dimostrare
col metodo classico di esaustione, semplicemente sostituisce le due sequenze X(n) e Y(n) con un
infinità attuale di grandezze di dimensione minore (ad esempio segmenti se le sequenze erano
figure piane).
Nella dimostrazione si utilizza la possibilità di distribuire e unificare distribuzioni di massa
intorno al centro di simmetria, e questo risultato si dimostra in Archimede per via assiomaticodeduttiva a partire da postulati che asseriscono l'equilibrio di pesi uguali a uguali distanze e lo
squilibrio in caso si neghi l'uguaglianza di peso (anche se qualche ipotesi non esplicita compare
implicitamente nella dimostrazione).
T
H
F
G
M
K
E
NW
P
B
A
O D
C
Fig.8
36
In fig.8 il 'metodo' è applicato per il calcolo dell'area del segmento di parabola ABC, uguale
ai 4/3 dell'area del triangolo ABC. Sia DE l'asse della parabola e CF la tangente ad essa in C. Da A
si tira AKF parallela a DE. Prolunghiamo CB sino a K e ad H, con KH=KC. Sia CH la bilancia di
punto medio K. MO è una generica retta parallela ad ED e siano M, N, O, P i suoi punti di
incidenza con le rette CF, CK, CA e con la parabola. Sull'asse EB=BD (risultato sulla parabola
provato da Aristeo ed Euclide), e quindi FK=KA e MN=NO. Si sa anche che: MO:OP=CA:AO
(Quadratura della Parabola di Archimede, 5) =CK:KN (Elementi di Euclide VI,2) =HK:KN. Sia
poi TG=OP e poniamolo in H come centro di gravità. N è il centro di gravità di MO e
MO:TG=HK:KN, e quindi TG in H e MO in N saranno in equilibrio (Sull'equilibrio dei piani I,67). Questo vale per ogni retta MO parallela a DE. Saranno in equilibrio intorno a K allora il
sistema dei segmenti PO così ottenuti (e quindi il segmento di parabola ABC) e posti in H e il
triangolo AFC lasciato dove è. Sia W tale che CK=3 KW; allora W è il centro di gravità del
triangolo ACF (Sull'equilibrio dei piani I,15) e allora Area ACF: =HK:KW=3:1. Ma Area ACF=
4 Area ABC, da cui si ottiene la tesi.
Ma anche in Aristotele si ritrova la traccia delle difficoltà a trattare l’infinito.
Nelle dimostrazioni 'corrette' (Quadratura della parabola, 16-17 oppure 24), fatte per assurdo
secondo il classico "metodo per esaustione", Archimede utilizza lemmi (rispettivamente 6-7,14-15
oppure 23), nel primo caso basato sul centro di massa del triangolo, con una logica che si ritrova
nella proposizione 1 del Metodo, ove si risolve per via 'meccanica' lo stesso problema.
La dimostrazione nel secondo caso è sostanzialmente fondata sulla serie geometrica di
ragione 1/4, ma in una forma particolare che rimane al finito. Archimede dimostra che 1 + 1/4 +
(1/4)2 + ….+ (1/4)n + 1/3 (1/4)n = 4/3
Fig.9
Appare nei commentatori il riferimento alla fig.9 (non essenziale nella dimostrazione, ma
splendida per la 'evidenza' che dà al risultato) in cui un quadrato contiene un altro quadrato di lato
dimezzato, che a sua volta contiene un quadrato di lato ancora dimezzato, etc., così che la serie
diventa una somma di gnomoni, ciascuno 1/4 del precedente fino a completare un quadrato.
La figura mostra chiaramente che il limite della serie è esattamente i 4/3 del primo 'gnomone', ma
ci fa capire un po' l'impossibilità di evitare il metodo di esaustione con un passaggio al limite: il
punto in basso a destra non farebbe parte di alcuno gnomone, fatto questo che nel nostro
linguaggio significa solo che l'ultimo termine della somma 'tende' a zero, come l'ultimo quadrato
'tende' a diventare un punto, secondo Nicomaco una "estremità senza estensione" (Erone,
Definizioni). In entrambi ragionamenti qualcosa che "è" diventa qualcosa che "non è".
DIOFANTO
37
Per chiudere la parte relativa alla antichità greca, non si può ignorare l'opera di Diofanto, che
per molti versi già preclude al futuro linguaggio algebrico di Viete e Descartes, e che dà una forma
nuova, che potremmo già dire 'sintattica', all'uguaglianza.
Per cogliere il cambiamento possiamo limitarci a considerare la risoluzioni delle equazioni
quadratiche. Consideriamo il seguente esempio, relativo a due numeri la cui somma è 20 e la
somma dei quadrati è 208. (HEATH 1910), confrontato con un problema analogo su un testo
babilonese. In Diofanto, troviamo una nuova notazione:  è la "incognita", probabilmente derivata
da aithmos, è il suo "quadrato", derivato da dunamis, sta per il segno di
"uguale",  caratterizza una "costante intera", e ^ sta per il segno "meno". (In figura la colonna di
destra traduce in termini moderni).



^
20
208
poniamo
^
x+10
quadriamo x2 +20x+100 x2 +100-20x

sommiamo

sottraiamo

dividiamo

2x2 +200 = 208
2x2
=
x2
x


10-x
ottenendo
=
=
12
8
4
2
8
Invece il problema babilonese BM 345658 VsII 10, dà la somma 23, e la diagonale (e quindi
la radice quadrata della somma dei quadrati) 17. I calcoli sono fatti nel sistema sessagesimale :
<lunghezza e larghezza sommate sono 23 e 17 la diagonale. Le grandezze sono incognite. 23
per 23 è 8,49. 17 per 17 è 4,49. 4,49 da 8,49 sottrai e rimane 4,0. 4,0 per 2 è 8,0. 8,0 da 8,49 sottrai
e rimane 49. Che cosa devo prendere per ottenere? 7 per 7 dà 49. 7 da 23 sottrai e rimane 16. 16
per 0;30 prendi ed è 8. 8 è la larghezza. A 7 aggiungi 8 ed è 15. 15 è la lunghezza>
o un simile problema, in forma normale, AO 6484 Rs 10-14, dove la somma è 2;0,0,33,20, e
il prodotto è 1:
<divisore e dividendo dà 2;0,0,33,20. con 0,30 moltiplica e dà 1;0,0,16,40. 1;0,0,16,40 con
1;0,0,16,40 moltiplica, dà 1;0,0,33,20,4,37,46,40. Sottraggo 1, rimane 0;0,0,33,20,4,37,46,40. Che
cosa devo moltiplicare? Moltiplichiamo 0;0,0,44,43,20 con 0;0,0,44,43,20 dà
0;0,0,33,20,4,37,46,40. 0;0,0,44,43,20 sommato a 1;0,0,16,40 dà 1;0,45 il divisore. 0;0,0,44,43,20
sottratto da 1;0,0,16,40 dà 0;59,15,33,20 il dividendo.>
Rispetto agli esempi concreti sulle tavole babilonesi in Diofanto il problema viene posto in
modo astratto. La risoluzione babilonese sembrava seguire i passi di una procedura ben definita,
38
probabilmente legata alla costruzione di una figura nella quale interpretare i dati numerici del
problema, che permetteva di ricavarne la grandezza incognita, mentre Diofanto sembra
maneggiare diverse ‘condizioni’ in forme di equazioni che hanno la loro origine nell’algebra
geometrica e nelle proprietà dell’uguaglianza, ma vengono ora manipolate per riscrivere le
condizioni del problema. Il 'tempo' della risoluzione non è più quello della costruzione, ma è
puramente funzionale, nel senso che la soluzione si ottiene nella sequenza di diversi passaggi a
partire dai dati e dall’incognita del problema (spesso col vincolo di soluzioni intere), e la
possibilità di iterare i simboli permette di esprimere potenze superiori alla terza, liberando così tali
tecniche dalla limitazione del linguaggio geometrico.
La origine pratica e geometrica delle tecniche e dello stesso linguaggio algebrico appaiono
però chiare anche nell’approccio non geometrico di Diofanto, come nella accettazione di sole
soluzioni positive, o nell’uso di un quadrato disegnato per denotare un quadrato aritmetico, o
nell’uso del termine ‘lato’, pleura, per il valore di cui si fa il quadrato. Non esiste il prodotto tra
incognite poiché il quadrato o il cubo non è il prodotto dei suoi lati, ma una figura; il prodotto tra
un numero e l’incognita o la somma di termini sono date per semplice giustapposizione, come
nella descrizione delle figure geometriche; i numeri sono semplici aggettivi che devono essere
applicati ad un’incognita o alla monade per diventare termini. Il segno  compare come la parola
‘meno’ nelle frasi in linguaggio naturale
E' da notare come il calcolo segua la stessa evoluzione della dimostrazione a partire da una
comune origine (la costruzione della figura geometrica) tramite una traduzione sintattica, una
analogia questa tra ‘calcolo’ e ‘dimostrazione’ che ritroveremo ancora in matematica. La
dimostrazione ne conserva la struttura temporale, appare una edizione sintattica della costruzione,
mentre l’aritmetica di Diofanto crea un suo 'tempo', che parte dalle equazioni corrispondenti alle
condizioni del problema e utilizza singole proposizioni dell’algebra geometrica.
Quanto questo sia peculiare si può cogliere osservando come la tecnica delle equazioni non
comparve mai nella matematica cinese, che così, nonostante il grande sviluppo delle sue tecniche
di soluzione dei problemi, non riuscì mai a creare una vera algebra.
DALL’ANTICHITA’ AL MEDIO EVO
L’antichità per la matematica finisce prima della caduta dell’Impero Romano. I Romani
avevano avuto una breve passione per la cultura greca, all’inizio dell’impero, al punto che in
qualche misura l’impero era diventato bilingue: Cicerone per la filosofia e la retorica, Vitruvio per
l’architettura erano state figure in cui riecheggiava la cultura greca. Ma progressivamente la
‘romanità’ era tornata a prevalere. Del resto la stessa lingua latina mostrava l’origine molto più
pratica dell’idea romana di conoscenza: mentre i verbi greci di conoscenza richiamavano la
visione e la memoria, quelli romani ricordavano l’esperienza pratica: sapio, sapientia (‘avere
sapore’), puto, computo (‘potare’), penso (‘pesare’), verus (‘dritto’), forse anche cogito
(‘raccogliere’).
La divisione dell’impero in impero d’occidente ed oriente fu quindi non solo un espediente
logistico, ma anche l’esito di una frattura culturale che a partire dal IV secolo d.C. vedrà la
scomparsa definitiva della matematica (e della filosofia) greca dall’occidente, solo la retorica vi
resterà come traccia di quella antica influenza. La matematica si rifugerà allora nella sua terra
d’origine, l’Oriente.
La filosofia platonica e ancor più quella aristotelica rimasero la base del sapere umano per
circa due millenni e questo ci deve far riflettere su quanto poderosa doveva essere tale
sistemazione e come il suo superamento richiedesse (al di là delle metafore del tipo dei “nani sulle
spalle dei giganti”) un autentica catastrofe culturale, capace di rompere un meccanismo
incredibilmente solido di riproduzione culturale di innumerevoli generazioni di figure intellettuali
e un universo descritto mediante una coerenza ineguagliabile tra linguaggio e pensiero. Era un
39
mondo di 'individui' e di 'forme', cui si attaccavano attributi appartenenti a diverse categorie. La
difficoltà di trattare con il problema del 'moto' e del 'mutamento' basta a caratterizzare questo
mondo aristotelico: il moto era "l'atto di qualcosa in potenza, ma in quanto appunto in potenza".
Per renderlo qualcosa di reale occorre legarlo al corpo in moto, qualcosa che il corpo ha già in
potenza quando non è in moto, ma che poi si realizza, si attualizza. Ma se il moto fosse il suo esito
finale, attuale, esso sarebbe il nuovo stato ottenuto per traslazione, la quiete in un altro luogo e non
il moto. Occorre quindi considerarlo solo in quanto 'in potenza'.
Nel pensiero aristotelico si erano fissati due temi costanti del pensiero dell'antichità: la
necessità di una sostanza che caratterizzasse il "permanere" e quindi la conoscibilità del reale nel
flusso del divenire, e la necessità di una serie di coppie polari di "contrari" sulla cui trama si
disegnasse il divenire. I quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, ne garantivano i caratteri
sostanziali e i quattro attributi caldo/freddo e secco/umido, insieme alla coppia materia/forma
dovevano consentirne il mutamento. In realtà l'approccio aristotelico aveva un carattere più
biologico e medico che fisico: i quattro elementi risalivano ad Empedocle, le due coppie di
attributi opposti ad Ippocrate di Cos e si ritrovavano nei Pitagorici, e le idee di "causa", aitia, e di
"forma", eidos, apparivano più mediche e naturalistiche che tecniche.
L'opposizione tra divenire ed essere diventava in particolare l'opposizione tra moto e quiete.
E il divenire nella cultura greca era in sé la contraddizione, il fondersi di essere e non essere, e la
fisica, la scienza della ‘genesi’, del ‘mutamento’ e del ‘moto’, restava così bloccata dalle aporie
del non essere, attestata sullo stretto passaggio della coppia aristotelica atto/potenza.
Nel Rinascimento però l’attenzione finiva col fissarsi sul carattere reale del moto. Il carattere
'relativo' ed il suo 'essere', l’ossimoro dello ‘stato di moto’, la natura 'sostanziale' cioè di quello che
era pur sempre solo un 'divenire', appariranno solo con Galileo e Descartes.
Ma questa nuova soluzione, in cui il divenire, il moto in primo luogo, diventava un essere, e
la quiete una forma particolare di moto, richiedeva una estensione della descrizione matematica
del mondo e una nuova matematica del continuo e dell’infinito per considerare la ‘stasi’ il moto di
quantità zero, e non il suo opposto, e quindi una matematica in cui lo 'zero', il nulla, fosse un
numero come gli altri, e quindi in definitiva una filosofia che coniugasse il non essere se non
come un modo dell'essere, almeno qualcosa che non fosse un opposto polare ed assoluto.
Restava infatti intatto l'imperativo parmenideo: solo l'"essere" è pensabile, e quindi il moto
nella accezione della fisica rinascimentale potrà 'essere' solo conservandosi. Nulla verrà mutato di
questa filosofia dell'"identico" che niente testimonia meglio della irresistibile carriera
dell'aggettivo uguale, isos, dalla antica caratterizzazione omerica in cui segna l'uguale rango tra re,
dei, divinità e guerrieri, simmetria di posizione o di livello, fino al suo divenire la chiave di volta
per la costruzione degli "universali", rappresentanti di individui 'uguali', possibili oggetti di una
"scienza". Gli stessi inizi della geometria greca, con Talete e Pitagora, sono anche capitoli in
questo sviluppo del concetto di 'uguaglianza', che progressivamente diviene sempre più un
concetto 'metrico' e 'numerico', e quindi destinato a selezionare solo quegli universali che si
rivelano 'misurabili'. Già in Diofanto isosdiventa termine tecnico per denotare l'"equazione".
Ed anche il carattere 'quantitativo' del moto era del tutto inattingibile ad una matematica in cui
il rapporto era tra numeri e tra grandezze omogenee, mai e poi mai tra grandezze eterogenee, quali
la distanza e il tempo. Che il moto non potesse essere una 'grandezza' era confermato dalla
inconfrontabilità di moti diversi quali quello rettilineo e quello circolare: era insomma il
trattamento sintattico dell'"uguaglianza" il vero problema.
D'altro canto la matematica, bloccata dalla antica concezione del numero e dal fatto che lo
"zero" non era un numero, per confrontare grandezze eterogenee per confrontare grandezze
eterogenee richiedeva una diversa concezione del mondo, in cui la 'monade' divenisse una unità di
misura divisibile, e ogni grandezza fisica divenisse sostanzialmente e soprattutto qualcosa
soggetta al "più" e al "meno", una misura e quindi semplicemente un numero, e non una sostanza
o una qualità o una categoria.
40
Da notare che le proprietà fisiche diverse da tempo e spazio (peso, velocità, calore, etc.) erano
‘qualitative’. Quantità erano solo da un lato quelle geometriche ed il tempo (continue), dall’altro i
numeri ed il linguaggio (discrete), e quindi le velocità potevano essere confrontate o come spazi
percorsi in un tempo fisso o come tempi impiegati per percorrere una data distanza.
Il progressivo spostamento dei concetti fisici dalle categorie e dalle opposizioni aristoteliche
verso una progressiva caratterizzazione come "grandezza" e "quantità", e quindi a "numero" e
"misura", in particolare rendeva la coppia moto/quiete, che in Aristotele era una opposizione del
tutto inconciliabile e una coppia concettuale in fondo sghemba rispetto alla relazione principale
tutta compresa tra le idee/forme e le cose, una generica quantità, diventando così la base
concettuale della rappresentazione 'meccanica' del mondo.
Anche il rifiuto dell'infinito non aveva niente di ideologico, ma era una caratteristica
necessaria nella concezione del mondo degli antichi greci, tanto per l'esigenza di una 'sostanza'
quanto per la necessità di 'opposizioni polari': la stessa geometria euclidea è fatta di figure finite
individuali, costruite in modo tale da essere generali, e non porzioni di un piano o spazio infinito,
ed anche l'infinità della retta appare solo come un indefinito prolungamento. L'uso linguistico di
considerare 'ogni' , e non un 'qualsiasi', triangolo, 'la' data area, e non 'una' data' area, il fatto che
solidi che noi consideriamo infiniti quali coni e cilindri sono generati dalla rotazione di figure
finite, triangoli e rettangoli, le definizioni di rette e piani sempre come grandezze finite, dotate di
estremità e contorni, con lunghezze, larghezze e profondità, confermano l'idea di una geometria
piana senza il piano, di una geometria solida senza lo spazio, in un cosmo finito, una geometria di
oggetti ben definiti in modo generale, ma sempre individualmente costruiti nel finito.
Il cosmo, il mondo finito e strutturato di Aristotele è l'unico vero ‘mondo’ della scienza greca,
gli accenni 'infiniti' rimangono solo esigenze di 'indeterminazione' o ‘illimitatezza’, e non
casualmente resteranno marginali fino all'era moderna.
La dottrina aristotelica dell’infinito e del continuo rimase parte integrante della "scolastica",
ed in essa aspetti logici, fisici e matematici si sostenevano a vicenda in una unica cornice
metafisica.
L’impero romano d’oriente durerà mille anni dopo la caduta di quello d’occidente. E nei
secoli tra la fine dell’antichità e l’inizio del Medioevo, soprattutto ad Alessandria, esso sarà la
dimora della cultura classica. Qui troveremo gli ultimi grandi filosofi, da Plotino, padre del
neoplatonismo, a Simplicio, uno dei massimi commentatori di Aristotele.
Più interessante per noi la figura di Giovanni Filopono, altro esponente della fusione tra
pensiero classico e cristiano, e primo pensatore a sottoporre la filosofia naturale dominante, quella
aristotelica, ad una critica terribilmente moderna. Aristotele infatti rifiutava il vuoto e l’idea di uno
spazio tridimensionale contenitore delle cose, considerava la fisica dei cieli e quella terrestre del
tutto diverse, riteneva il mondo eterno, considerava la materia una realtà solo negativa, priva di
proprietà e dimensioni, e credeva che la velocità di caduta di un grave crescesse col peso. Tutte
tesi che Filopono rigettò, anche se occorrerà aspettare un millennio per vedere l’affermarsi di
quelle critiche.
In un lungo periodo, più o meno dal V all’X secolo d.C., in Europa occidentale le popolazioni
di cultura latina assistono al disgregarsi del loro mondo, sottoposte ad invasioni e scorrerie
continue da quasi tutti i punti cardinali, dalla Scandinavia, dall’Asia e dall’Europa orientale, dai
paesi islamici. La crisi aggravandosi travolge la produzione economica, il commercio
interregionale, la cultura, e segna una crisi profonda delle città. Dopo il crollo dell’impero di
occidente le aggregazioni politiche che si creano hanno in genere vita grama, sempre più le
popolazioni si rifugiano nei villaggi intorno ai castelli che diventano anche il cuore di tutta la
struttura dei rapporti economici e sociali tra le persone: si delinea quella che viene detta la ‘società
feudale’.
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Della cultura rimane quasi nulla, svaniscono le scuole, e anche la conoscenza del latino (del
greco neanche a parlarne) impallidisce, se non all’interno della vita religiosa, mentre nella vita
quotidiana cominciano a formarsi dialetti locali che saranno le future lingue nazionali. Il latino
rimarrà la lingua della cultura, unico strumento unificante della società europea, universale come
la Chiesa, ma resterà uno strumento solo ‘tecnico’, una lingua senza vere radici sociali e senza
neanche alcuna ‘aura’ religiosa: il suo ruolo sarà del tutto diverso da quello dell’arabo nell’Islam
(il Corano non si può tradurre, i Vangeli sono multilinguisti sin dall’origine, la versione ufficiale
della Bibbia in greco e in latino già nella tarda antichità, e tradotta poi, a partire dalla Riforma
protestante, in tutte le lingue nazionali, senza che la traduzione ne infici mai il valore religioso), ed
anche quando nel Rinascimento si cercherà una ‘lingua originaria’ nella quale trovare il ‘vero
nome’ delle cose, la si cercherà nell’ebraico, o addirittura nel cinese, ma non nel latino.
Della matematica rimane solo la tradizione pratica nella sua forma più elementare, legata ai
più semplici calcoli del commercio, dell’agrimensura e della architettura.
Un nome centrale nella storia della trasmissione del sapere logico e matematico antico al
Medioevo latino è quello di Boezio, quasi l’emblema del tentativo dei popoli latini di salvare la
loro identità culturale nella nascita della nuova Europa all’interno dei nuovi stati barbarici.
Senatore sotto Teodorico, ne diventa il consigliere, ma non può evitare di essere coinvolto nelle
trame di corte, in un’epoca in cui l’impero bizantino, romano e cristiano, è ancora presente in
Italia. Viene giustiziato e la sua morte interrompe il suo tentativo di tradurre in latino tutti i classici
della matematica e della logica antica. Alcune sue opere sono andate perse, quelle rimaste
costituiscono il nucleo principale delle conoscenze scientifiche dei greci note nell’alto Medioevo
europeo: un libro di aritmetica ed uno di armonica ricavati da Nicomachus, un libro di geometria
che riporta i primi tre libri degli Elementi, quasi del tutto senza dimostrazioni. In realtà di
quest’ultimo ci sono arrivate due versioni, entrambe però ascrivibili ad autori medievali
successivi, anche se probabilmente basate anche sul testo di Boezio. Sebbene concettualmente
molto inferiori all’opera di Euclide questi testi includono alcune aggiunte abbastanza
caratteristiche del pensiero medievale. Così la Geometria II inizia definendo la misura, che negli
Elementi era concetto puramente aritmetico, come “qualunque cosa si definisca” non solo in
termini di lunghezza, ma anche di peso, capacità e ‘animo’! Dichiara il punto (che in Euclide era
caratterizzato solo dall’essere ‘senza parti’) principium mensurae, include un libro di proposizioni
metriche, e considera la geometria utile ai meccanici, ai medici e ai filosofi: una rilettura
(caratteristica dell’alto medioevo) della geometria teorica all’interno della tradizione pratica, con
l’idea agostiniana della estensione della categoria della quantità al di là delle grandezze
geometriche e dei numeri.
Solo verso la fine del Medio Evo, soprattutto sotto l'influenza dei matematici arabi,
cominciano a riapparire frammenti più consistenti della grande matematica greca, la cui
comprensione richiese tuttavia che altri secoli passassero.
Il Medioevo non è un periodo ‘buio’ ma un periodo di lenta incubazione delle idee che nella
era moderna cambieranno l’Europa. Già alla fine dell’alto Medioevo i popoli europei avevano
mostrato una grande capacità di assorbire le novità tecnologiche che arrivavano dell’Oriente, sulla
rotazione delle culture, sull’uso agricolo e bellico del cavallo, sulla produzione di energia dal
vento e dall’acqua, nuove tecniche costruttive, destinate a trasformare non solo l’economia ma
anche la potenza bellica degli europei. Anche successivamente le maggiori novità arriveranno
dall’Oriente ma gli Europei sapranno utilizzarle in maniera originale ed efficace. Ma, anche se si
intravedevano tutte queste novità, l’Europa occidentale nell’alto Medioevo restava, rispetto ai
grandi imperi orientali, un continente sottosviluppato.
Tali cambiamenti endogeni della economia e società europea provocavano l’emergere di
nuove esigenze e nuovi ceti, ed anche una diversa collocazione dei ceti intellettuali e del sapere:
furono in effetti i mercanti italiani a decretare il trionfo degli algoritmi numerici sull’abaco.
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Analogamente la rottura dell’uso scolastico del latino a vantaggio del volgare, segno di un
cambiamento radicale nella struttura, nella riproduzione e nei collegamenti del ceto intellettuale,
preludeva alla fine della Scolastica, alla riapertura del problema del 'linguaggio della conoscenza',
e quindi alla nascita del nuovo linguaggio algebrico come fondamento linguistico delle scienze.
Ma la storia culturale del Medio Evo è dominata in maniera assoluta dal Cristianesimo. Una
struttura culturale complessa, centrata su un ceto culturale che per secoli sarà esclusivamente
interno alla Chiesa Cattolica, rompendo radicalmente con la organizzazione del ceto intellettuale
antico, greco, ellenistico e romano, e del tutto emarginato dallo sviluppo della scienza moderna a
partire dal Rinascimento.
Una struttura culturale complessa, centrata su un ceto culturale che per secoli sarà
esclusivamente interno alla Chiesa Cattolica, rompendo radicalmente con la organizzazione del
ceto intellettuale antico, greco, ellenistico e romano, e del tutto emarginato dallo sviluppo della
scienza moderna a partire dal Rinascimento. Per certi versi il Cristianesimo rigetta la cultura
classica e frequentemente testi classici su pergamene vengono cancellati per utilizzarle per
scriverci omelie. Di fatto sul versante della tecnica matematica si assiste ad un regresso di circa
tremila anni, con la scomparsa pressocchè totale di ogni frammento di matematica che andasse al
di là dei più semplici usi quotidiani. Ma non si deve nascondere che il cambiamento culturale che
il Cristianesimo realizza nel mondo europeo disegna un ambiente del tutto nuovo per lo sviluppo
della matematica e della scienza, tanto che quando ricompariranno i classici greci nella cultura
europea avranno una lettura ed uno sviluppo del tutto inediti.
Il Cristianesimo antico da un lato trovava la sua diffusione soprattutto tra strati popolari
urbani e dall’altro si presentava come una struttura dogmatica decisamente sconcertante per la
cultura classica: la divinità una e trina, il Cristo uomo e Dio, l’ostia che si trasmutava nel corpo del
Cristo, la resurrezione dei corpi, etc. Era facile per i dotti pagani sottolinearne le assurdità ed
anche la grossolanità. Non è quindi strano che all’inizio si manifestasse l’opposizione tra la nuova
religione e l’antica cultura. Tertulliano ne è il testimone più celebre, “credo quia absurdum, …
tanto stolto da credere in un dio nato, e da una vergine….” [De carne Christi, IV,6, V, 4]. La
contrapposizione è totale : “Che hanno in comune Atene e Gerusalemme?” [De praesc. Haer. VII,
6, 9].
Il Cristianesimo apre una strada nuova quando rivendica l'"assurdità" dei suoi dogmi come
segno di una più profonda verità, che sarà poi quella "dotta ignoranza" del Cusano che chiuderà il
Medio Evo e aprirà l'Era Moderna. La fine della logica e della natura aristotelica è già chiara in
Tertulliano:
Morto è il figlio di Dio, è credibile poiché è irreale; e
sepolto è risuscitato, è certo poiché impossibile. (Mortuus
est Dei filius, credibile est quia ineptum est; et sepultus
revixit, certum est, quia impossibile.)
Se Dio può morire e se da morto può risorgere, che cosa resta delle opposizioni aristoteliche
tra credibile e irreale, tra certo e impossibile?
Ma per altro verso il cristianesimo sin dall’inizio sa di doversi misurare con la cultura
classica, san Paolo predica all’Areòpago di Atene e Dionigi si converte. Così lentamente la Parola
di Cristo si diffonde fra i dotti e inizia una delle integrazioni culturali più incredibili della storia.
Per i popoli latini è quasi un percorso obbligato: la cultura delle nuove popolazioni barbariche si
afferma come cultura popolare, nelle saghe ed epopee, con i cicli arturiano e carolingio, nelle
poesie, col passaggio dalla quantità metrica all’accento e alla rima, e nella musica, con la nascita
della polifonia e degli accordi di terza e sesta. La cultura di quelle romane, disfatta sul terreno
della cultura popolare, si poteva trincerare solo nella religione e nella cultura filosofica, unica loro
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forma di identità culturale nel Medioevo. E tutte le grandi questioni teologiche, le lotte contro le
eresie in cui si formerà l’ortodossia cattolica, saranno terreno di battaglia per quelle
argomentazioni filosofiche che avevano caratterizzato la cultura classica fino alla sua ultima
fioritura romana di tipo dialettico e retorico.
Tertulliano era un nordafricano e la sua formazione culturale era prevalentemente giuridicoretorica. Il Nord-Africa negli anni finali dell’impero romano è un centro culturale di primaria
importanza. Di lì, da quelle terre e da quella formazione culturale, proviene anche il più
importante pensatore cristiano della tarda antichità: Sant’Agostino. A lui si deve il primo grande
tentativo di fondere il platonismo con il pensiero cristiano. Ma finisce anche col diventare uno dei
canali, pochi e incerti, della trasmissione del pensiero matematico dell’antichità nella cultura del
medioevo.
A lui si devono poche pagine contenenti semplici definizioni (punto e segno, figure
geometriche) nel de quantitate animae, che si ritroveranno nel Medioevo. E non solo si trovano
definizioni geometriche, ma anche un problema nuovo: si può parlare di ‘quantità’ dell’anima? O
della carità? L’anima non è un corpo, ma è in un corpo e le sue immagini e ricordi hanno
dimensioni, si può parlare di una ‘grande’ anima o di una ‘maggiore’ carità. E le anime si possono
anche contare. Si profila così la possibilità inedita di estendere la quantità al di là delle grandezze
geometriche, del tempo e del numero di cose.
L’estensione del ‘regno della quantità’ è una delle ‘novità’ medievali che risulteranno cruciali
per la nascita della scienza moderna. Il superamento della distinzione tra scienze e tecniche, e la
progressiva fusione tra tradizione pratica e teorica saranno un altro aspetto essenziale, anche se ci
saranno momenti, come nelle università medievali o nell’Umanesimo, in cui riapparirà una forma
di elitarismo della intellettualità rispetto alle tecniche: di fatto le università del basso Medioevo
interromperanno un processo di osmosi tra scienza e tecnica evidente nell’alto Medioevo che
riemergerà col Rinascimento.
Un altro aspetto essenziale che emergerà nel Medioevo sarà il superamento della idea greca di
scienza come pura ‘scienza di universali’, per cui era scienza descrivere col sillogismo la causa
delle eclissi, ma non era scienza individuarne la data, era un fatto tecnico che solo con Claudio
Tolomeo rientrava nella astronomia. Le idee generali della filosofia naturale aristotelica nel
Medioevo si estenderanno invece ai fatti individuali e tecnici, segnando il trionfo di ‘scienze’ quali
l’astrologia e l’alchimia.
E l’attenzione verso l’‘individuo’ era uno degli aspetti del pensiero cristiano, che troverà nel
Francescanesimo la sua lettura più radicale, destinato a caratterizzare una scienza che parlava
anche di singole ‘cose’ e non di sole idee, e nella quale i fatti individuali non erano solo istanze
individuali di attributi universali delle specie, ma fatti complessi, effetti di innumerevoli relazioni
causali. Così fino al Rinascimento si assiste al formarsi di un sistema culturale medievale intorno
al pensiero cristiano in cui cominciano a delinearsi i caratteri fondamentali della scienza
moderna.
A questo punto occorre fare un’osservazione generale sull’epoca che si apre: il Medioevo.
Usualmente ritenuto una lunga sequenza di secoli bui, in cui nessuna luce veniva a rischiarare il
pensiero, e dai suoi stessi difensori esaltato solo per la fede religiosa e la scarsa razionalità. Del
resto il nome stesso delle tendenze culturali che ne segneranno la fine, il ‘rinascimento’ e la
‘rivoluzione scientifica’, mostra come la sua fine sia stata rubricata nella nostra storia culturale con
un sospiro di sollievo e sotto l’egida della ragione e della scienza. Questa lettura ha portato a
ignorare il fatto che gli aspetti essenziali della nuova scienza siano apparsi nel Medioevo, aspetti
del tutto eterogenei rispetto alla scienza antica.
E lo stesso intellettuale ‘europeo’ non ha il suo certificato di nascita nell’antichità in Atene o
Alessandria d’Egitto, ma in quelle lande sottosviluppate che nell’alto medioevo costituivano
l’Europa. E’ il monaco benedettino la sua prima forma. Ora et labora: scompare quella scissione
netta tra scienza e tecnica tipica della cultura antica, che si formava nella schola, parola che in
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greco e latino significava ‘ozio’. Nel monastero si studia, si ricopiano i codici antichi, si prega e
d’altra parte si lavora nell’orto, nella falegnameria, nel laboratorio, lavorando la pietra e i metalli.
Quelle minime capacità matematiche che servivano ai muratori per edificare le chiese antiche si
affiancavano a quelle necessarie per calcolare la data della Pasqua. Sulla conservazione del
patrimonio culturale della antichità i monasteri avevano una funzione contraddittoria: da un lato
molti monaci avevano la brutta abitudine di cancellare antiche pergamene contenenti magari
classici del pensiero greco per scriverci le loro omelie, d’altro lato nell’alto Medioevo i monasteri
divennero gli unici luoghi in cui quegli stessi classici venivano ricopiati e letti.
Ed anche il mondo dei Cristiani non era il mondo eterno e immutabile o ciclico degli antichi
Greci, ma era un mondo ‘fatto’, creato da un Dio artigiano, artifex talora rappresentato col
compasso e gli attrezzi a ‘produrre’ il mondo, e dal Rinascimento visto come il divino ‘orologiaio’
creatore della ‘macchina’ del mondo. Ed il mondo ‘creato’ era un mondo uniforme, ‘fabbricato’ da
Dio: non c’erano divinità né negli astri né nei fiumi, appariva ingiustificabile la distinzione tra una
fisica terrestre ed una celeste
Questi aspetti creano anche una serie di tematiche nuove per la cultura ereditata dall’antichità.
Così il Cristianesimo si presenta come una grande forza innovativa nell'universo culturale antico
introducendo ad esempio la necessità dell'infinito attuale (tutti gli attributi divini sono ‘infiniti’), e
quindi imponendo la necessità di una profonda frattura in quell'impianto aristotelico nel quale il
rifiuto dell'infinito attuale era parte essenziale e che tra l'altro includeva l’assenza dello zero e
l’incapacità di concepire la retta come composta di punti. Di questa rottura diventava un
ingrediente anche la ripresa di temi neo-platonici.
Inoltre, per la cultura del Cristianesimo la "verità", pur non essendo empirica, non era tuttavia
neanche statica, la verità era essenzialmente un 'cammino', in quanto la storia dell'Uomo è allo
stesso tempo una historia salutis ed una historia veritatis. Ci si può vedere la radice di quella idea
di "progresso", di continua ricerca della verità e di continuo avvicinarsi ad un ideale pratico e
teorico, che sarà il tema di fondo della cultura tecnica, scientifica e industriale moderna.
Non è forse irrilevante che probabilmente il primo a distinguere tra la conoscibilità
dell'esistenza di Dio e la inconoscibilità della sua essenza fu Filone di Alessandria, contemporaneo
del Cristo, giudeo di lingua greca e cultura neo-platonica. Allo stesso ambiente religioso e
culturale è probabilmente da ascrivere il testo biblico della Sapienza biblica, ove si trova una frase
che spesso risuonerà nel progressivo sviluppo della idea moderna di scienza nel Medio Evo: "tutto
Tu disponesti in misura, numero e peso" (11, 21)
E' con Sant'Anselmo (XI secolo) che l'infinito attuale e quello potenziale si riuniscono in Dio:
…Signore, tu sei non solo ciò di cui non può pensarsi
nessuna cosa maggiore (quo maius cogitari nequit), ma sei
anche più grande di tutto ciò che può essere pensato
(quiddam maius quam cogitari possit). (Proslogion, XV)
Più precisamente, in termini aristotelici, coincidono nel pensiero l'"infinito attuale" ("il più
grande di tutto") e la negazione dell'"infinito potenziale" ("non esiste niente di più grande").
Da notare come quest'ultima caratterizzazione negativa è la base della cosiddetta prova
ontologica dell'esistenza di Dio. Lo schema dell'argomento parte dall'assunto che Dio è "ciò di cui
non può pensarsi alcuna cosa maggiore", e dal fatto che questa asserzione è presente nell'intelletto
anche del non credente, il quale purtuttavia ne nega l'esistenza. Ma ciò che esiste solo
nell'intelletto è inferiore a ciò che esiste anche realmente, ragion per cui la non esistenza di Dio
sarebbe contraddittoria con la stessa idea di Dio.
Questo argomento resterà centrale nel dibattito filosofico-teologico per secoli, e verrà
precisato da Descartes osservando che nell'argomento la stessa esistenza deve essere trattata come
un attributo; qui Leibniz sottolineerà che l'argomento tuttavia garantisce la sola 'possibilità' di Dio,
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e l'argomento uscirà di scena solo con Kant, col riconoscimento che l'esistenza non può essere
considerata un predicato e quindi non può essere ricavata dall’essenza.
Che l'argomento sia connesso alla relazione tra esistenza ed essenza e che si concluda con la
netta separazione tra le due, che non verrà mai più messa in discussione, riflette una progressiva
frattura che si apre, e su cui torneremo più volte, tra la verità e la deducibilità, e questo
significherà l'affermazione progressiva di una "scienza sintattica".
III
OCCIDENTE
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
BOEZIO
S. AGOSTINO
GERBERT
TERTULLIANO
ORIENTE
DIOFANTO
PAPPO
XI
S.ANSELMO
FILOPONO
PROCLO
SIMPLICIO
PLOTINO
AL KHWARIZMI
AL KHAYYAM
ALHAZEN
ISLAM
Un 'mondo di segni' più ricco infatti comparirà nel Medio Evo, introducendo la notazione
numerica indo-araba, i cui numeri erano oggetti della computazione simbolica, l'algoritmo. Su
questa base si fonderà la nuova algebra simbolica e quella straordinaria costruzione che
chiamiamo numero reale, con la connessa centralità del continuum, il cuore della scienza
moderna.
La nostra idea di continuo e discreto è infatti quella delineata da Aristotele, ma espressa in
forma algebrica e numerica solo con la nascita della scienza moderna, in un'epoca che include
Stevin, Descartes, Pascal, ove il discreto è visto come un ‘campionamento’ del continuo (i numeri
interi sono particolari numeri reali), e il continuo è ‘esprimibile’ tramite il discreto (i numeri reali
sono rappresentati da una sequenza infinita di cifre). Spesso si dice che noi consideriamo oggi i
numeri reali una estensione (come i relativi e i razionali e poi i complessi) a partire dai naturali
allo scopo di trovare soluzioni ad equazioni a coefficienti interi. In realtà una tale estensione porta
solo ai numeri algebrici complessi, la storia è molto più complessa.
MATEMATICA ALTO-MEDIEVALE NELL’ISLAM E IN EUROPA
Nell’alto Medioevo in Oriente, diversamente che in Occidente, la tradizione matematica
pratica vive un periodo di grande evoluzione: si sovrappone la tradizione della matematica
babilonese in Mesopotamia con aree di cultura greca, dall’Egitto alla Siria, ed aree orientali, dalla
Persia all’Afghanistan, in cui si avverte l’influenza della matematica indiana. E saranno soprattutto
queste aree più orientali, intorno alla Baghdad delle ‘mille e una notte’, il centro della matematica
islamica.
In queste aree nel VII secolo si afferma l’Islam, con una incredibile capacità di espansione,
che lo porterà a dominare dalla Spagna sino all’India occidentale, lungo quella che era sempre
stata la grande strada di comunicazione tra occidente ed oriente. E quella islamica sarà una grande
matematica, con le sue radici nella tradizione pratica ma capace di comprendere anche gli aspetti
più avanzati della tradizione teorica greca. Importanti gli sviluppi nell’ottica, nell’alchimia, nella
trigonometria, nella astronomia, ma vanno soprattutto sottolineati i contributi della matematica
islamica in due campi: la nuova notazione numerica decimale di origine indiana e lo sviluppo
dell’algebra.
Di solito si ritiene il ruolo della civiltà islamica nella scienza limitato alla importazione delle
cifre indiane, ma in realtà la matematica araba è una realtà molto complessa che connette la
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tradizione greca con quella antico babilonese e le influenze indiane. L’Islam infatti già un secolo
dopo la morte di Maometto ha conquistato paesi quali l’Egitto, la Siria, la Persia che erano tanto i
luoghi in cui si era meglio conservata la antica matematica greca e la patria della matematica
caldea quanto aree di scambio con la civiltà indiana.
Estremamente importante la modifica della notazione numerica, col passaggio al sistema
indo-arabo, notazionale ed algoritmico, diffuso a partire dai testi di al-Khwarizmi (780-850 circa).
Questo sistema appare in India almeno dal 595, ma è probabilmente parecchio precedente. Lo
zero, sunya, “il vuoto”, appare per la prima volta come un cerchio nell’870. Come poi in Europa, e
cifre sono quelle da 1 a 9 e lo zero appare come un semplice ‘segno’, circulum parvulum in
similitudine o litere, circulus sit qui nichil est. Vi è d’altra parte la consapevolezza che la
notazione può estendersi all’infinito.
In genere questo passaggio viene considerato come puramente notazionale, la sua importanza
ascritta soprattutto al suo carattere posizionale, il valore di ogni simbolo essendo legato alla sua
posizione all’interno del numero. Ma non è il carattere posizionale l’aspetto essenziale, esso c’era
già nel sistema sessagesimale, oltre che sull’abaco. La novità essenziale è invece la nascita
dell’idea di algoritmo, come procedura di manipolazione sintattica dei segni numerici. I segni
numerici infatti nella matematica dell’abaco non entravano nel calcolo, servivano solo per
registrare i dati iniziali e finali. Le cifre indo-arabe sono invece gli ingredienti essenziali degli
algoritmi con cui le operazioni vengono svolte.
Sembra che il passaggio dall’abaco agli algoritmi sia stato nei paesi islamici meno travagliato
di quanto sembra sia stato in Europa. Vedremo con l’abaco di Gerbert come probabilmente ci
siano stati anelli di congiunzione tra i due metodi, forse all’inizio gli stessi calcoli coi numerali
venivano fatti sull’abaco (i numerali indo-arabi occidentali venivano detti ghubar, ‘polvere’), ed in
ogni caso nell’Islam non ci sono tracce di una contrapposizione ‘rigida’ fra essi: del resto, come
già detto, lo stesso abaco aveva una struttura di base posizionale e in genere anche decimale per gli
interi: probabilmente il nuovo sistema era inizialmente soprattutto un uso di simboli nel calcolo
con l’abaco.
E l’idea di ‘algoritmo’ porta con sé una inaudita estensione del concetto di ‘numero’, in
quanto quegli algoritmi vengono estesi rapidamente alle frazioni. Progressivamente comincia a
cambiare l’idea della frazioni, anticamente ridotte ad interi, numero di parti, e ad affermarsi l’uso
di scriverle come numeratore e denominatore separati da una linea, mentre nel contempo gli
algoritmi numerici portano a considerare il rapporto come un singolo numero, il risultato della
divisione.
E tra i ‘segni’ appare anche lo ‘zero’ (un circoletto per denotare la colonna vuota sull’abaco),
mentre l’‘uno’ viene trattato come le altre cifre (come nell’abaco). L’antica idea di numero si
sfalda così a partire dal suo uso algoritmico, mentre nel contempo si riduce la distinzione tra le
tradizioni pratica e teorica. Nelle operazioni si presuppone di poter scrivere e cancellare, e quindi
si presuppone ancora l’uso di una tavola coperta di sabbia, polvere o cera, l’abaco. Nel X secolo
Abu’l Hasan al-Uqlidisi copiatore di manoscritti di Euclide inventa la notazione decimale,
completa di punto decimale, con gli algoritmi di calcolo relativi, della quale non c’è traccia nella
matematica indiana. Da notare anche da parte sua l’abbandono dell’abaco per carta e penna, ma
solo per non essere confuso con gli astrologi .
Anche le grandezze incommensurabili sono trattate come numeri (irrazionali): è il concetto di
misura che fa da ponte e porta a considerare i numeri razionali come approssimazioni degli
irrazionali, con i rapporti ricondotti alla antica definizione pre-eudossiana. Al Hayyam parte dalla
definizione classica di numero ma poi si chiede:
il rapporto è legato al numero non per natura, ma con
l’aiuto di qualcosa di esterno, o il rapporto è per natura
un numero e non ha bisogno di niente di esterno?
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E conclude riconoscendo l’esistenza di una nuova categoria di numeri, ed è l’idea pratica di
misura ad essere considerata come punto di partenza. Si deve riconoscere in Al Hayyam l’idea di
un numero associato ad ogni rapporto e quindi, data una unità di misura, anche ad ogni segmento,
inclusi i numeri irrazionali e trascendenti.
In astronomia e trigonometria i rapporti incommensurabili appaiono come misure di intervalli,
diventando di fatto ‘numeri’, ignorando la complessa teoria dei rapporti di Eudosso: per Omar alKhayyām l’essenza del rapporto doveva essere la sua misura, e si chiede se “il rapporto sia legato
al numero non per natura, ma con l’aiuto di qualcosa di esterno, o il rapporto sia per natura un
numero e non abbia bisogno di niente di esterno”: il rapporto è ormai un numero. Dopo sei secoli
Newton definirà viceversa il numero (reale) come un rapporto tra una grandezza ed un’altra
grandezza della stessa specie intesa come unità.
I numeri diventavano segni, non erano più caratterizzati come attributi delle cose, ma sempre
più solo operativamente dagli algoritmi e dalle misure. E l’estensione dell’idea di numero arriva
quasi a prefigurare l’idea di numero reale e dell’isomorfismo tra il continuo geometrico della retta
e il continuo numerico dei numeri reali.
Ma l’idea di numero come ‘molteplicità’ (intero positivo) concettualmente sarà dura a morire,
così che l’estensione della notazione indo-araba ai decimali dovrà attendere Simon Stevin, e nel
frattempo le grandezze trigonomentriche saranno sempre indicate, in oriente come in occidente,
come numeri interi relativi a cerchi di raggio grande, tanto più grande quanto migliore deve essere
la loro approssimazione (Regiomontanus userà un raggio di 600 milioni!).
Un altro contributo essenziale della matematica araba consiste nell’introduzione, sempre da
parte di al-Khwarizmi, delle tecniche algebriche, con l’uso di simboli speciali per denotare i
diversi fattori delle equazioni da risolvere, la cui risoluzione è tuttavia sempre basata sulle
tecniche geometriche del II libro degli Elementi e su antiche tecniche babilonesi, così che ad
esempio non viene seguito il principio di omogeneità.
La stessa parola ‘algebra’ deriva dalle parole iniziali dell’opera di Al-Khwarizmi: al-jabr wa
al-muqabala, che indicavano le operazioni basilari dello spostare da un membro all’altro
cambiando di segno e la eliminazione dello stesso termine dai due lati dell’equazione per
trasformarla in una delle sei forme canoniche che si ottengono tre ponendo a zero uno dei
coefficienti e tre per le possibili scelte dei segni. Difficile individuarne le origini: probabilmente
orientali, mesopotamiche o indiane, forse tramandate oralmente, difficilmente influenzate dalla
algebra geometrica dei greci.
La nascita del formalismo algebrico non si basa ancora su una unificazione degli enti
matematici quanto sulla unità delle operazioni algebriche: “operare su quantità incognite usando
gli strumenti aritmetici che l’aritmetico usa su quantità note”, procedendo così ad una
aritmetizzazione algoritmica della algebra.
La tecnica di al-Khwarizmi ignora le conquiste 'simboliche' di Diofanto, anche se vengono
usati termini 'generali' e non 'esempi numerici'. Appare però diversa anche dai precedenti di tipo
euclideo o pre-euclideo. La figura non è infatti costruita a partire da una 'falsa posizione', bensì da
un processo analogo alla costruzione algebrica anche se in forma geometrica. E’ rilevante che la
soluzione delle equazioni algebriche non ha più un senso geometrico come nella tradizione antica,
bensì assume un senso aritmetico, come in al-Khayyam, pur potendo essere le soluzioni tanto
numeri quanto grandezze, in tal caso ottenute tramite costruzioni geometriche, ed essendo usate
figure geometriche per ricavare le soluzioni.
Rispetto all’algebra babilonese l’algebra islamica ha di fatto una struttura ‘anfibia’, da un lato
la tecnica sintattica per trasformare il problema in equazione e dall’altro la tecnica geometrica per
risolvere le equazioni. La prima tecnica è fondata sull’intuizione che un problema è già una
equazione tra due espressioni, e sulla esperienza che tale equazione può essere trasformata con
semplici manipolazioni, ad esempio un termine può essere spostato da un membro all’altro della
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equazione semplicemente cambiandogli il segno. Oggi si eseguono queste trasformazioni su
equazioni scritte in linguaggio simbolico, gli arabi lo facevano operando sulle frasi scritte in
linguaggio naturale, ma anche così la manipolazione algebrica trattava le ‘parole’ sintatticamente,
come ‘segni’. Con queste trasformazioni le equazioni potevano essere poste in una forma
canonica: tutte le equazioni di II grado potevano essere ridotte ad una delle sei forme seguenti
(tradotte in linguaggio algebrico moderno) con l’eventuale coefficiente di x2 eliminato dividendo
ambo i membri per esso:
x2 = bx, x2 = c, x = c, x2 + bx = c, x2 + c = bx, x2 = bx + c
Non troviamo come in Diofanto un elenco di problemi svolti, ma tecniche generali di
soluzione: in fig.10 mostriamo la soluzione generale dell'equazione del tipo "un quadrato e radici
uguale a numeri", cioe x2 + b x = c. Il quadrato al centro ha raggio x, i 4 rettangoli laterali hanno
lati x e b/4 (noto). Si costruiscono i quttro quadrati angolari di lato b/4, ed allora il grosso quadrato
ha area x2 + 4 (b/4) x + 4 (b2/16) = c + b2/4 (noto). Si estrae la radice e da essa si sottrae b/2,
ottenendo x. Si noti il perseverare della interpretazione geometrica e delle conseguenti limitazioni
di generalità, da cui discende che l'equazione di II grado richiede sei procedure differenti a
seconda del 'segno' dei coefficienti.
b/4
x
Fig.10
Se si confronta l'approccio di al-Khwarizmi coi precedenti babilonesi si nota una differenza
essenziale anche all'interno di una comune connessione alla fondazione 'geometrica'. In entrambi i
casi la equazione di II grado appare in 'forme' diverse, ma nei babilonesi tali 'forme' sono differenti
problemi di natura geometrica, "somma e prodotto dei lati", "somma dei lati e dei loro quadrati",
etc., in al-Khwarizmi, come negli algebristi italiani successivi, le differenti 'forme' si differenziano
'algebricamente', in termini cartesiani in base al segno dei coefficienti nella equazione: "censo e
cose ugual numero", "censo e numero ugual cose", etc.
Le tecniche di manipolazione simbolica si estendevano poi al calcolo di espressioni
contenenti radicali, come ad esempio (usando una notazione moderna)
◊(a + ◊b) + ◊(a - ◊b) = ◊(2a + 2 ◊(a2 – b) )
molto utile quando (a2 – b) è un quadrato perfetto. I matematici arabi raggiunsero in generale una
grande capacità di connettere le tecniche simboliche a quelle geometriche.
Un esempio brillante si trova in Alhazen, creatore tra l’altro dell’ottica moderna, nel calcolo
di una relazione generale tra le somme della potenza K-esima dei primi N interi: SN,K = ÊN i=1 iK
49
Dalla fig.11 si ricava direttamente:
(N+1) SN,K = SN,K+1 + ÊNp=1 Sp,K
Infatti il membro di sinistra è semplicemente l’area del rettangolo totale, nel membro di destra
il primo termine è la somma dei rettangoli ‘verticali’ e la sommatoria successiva la somma dei
rettangoli ‘orizzontali’. Da questa formula si possono calcolare iterativamente tutti gli SN,K.
K
K
K
SN,K = 1 + 2 +…….+ N
1
.............................
K
K
K
S3,K = 1 + 2 + 3
K
S2,K = 1 + 2
S1,K = 1
1
K+1
1K
NK+1
K
N
3K+1
K
..........
2K+1
2K
3K
NK
FIG.11
Non deve sfuggirci la sottile omogeneità algoritmica e sintattica che lega la nuova notazione
numerica indo-araba alla nuova algebra simbolica: come già in Diofanto, il trattamento sintattico
algebrico affonda le sue radici nella manipolazione aritmetica della tradizione pratica, in cui è
assente la opposizione tra numeri e grandezze. Questo è in fondo anche abbastanza ovvio poiché
entrambe le tecniche nascevano su una base aritmogeometrica, ma ora accade che questi aspetti
della tradizione pratica causano mutamenti nella stessa struttura cognitiva della matematica
teorica.
Sostanzialmente si delinea un ruolo inedito dei segni, che nella matematica greca avevano un
ruolo secondario. Tanto l’estensione del concetto di numero e la numerazione indo-araba quanto la
nascita della manipolazione algebrica simbolica significano che caratterizzante l’idea di quantità
non sono più confrontabilità e uguaglianza, ma il ruolo dei segni come elemento essenziale negli
algoritmi. I numeri e le grandezze cominciano ad uniformarsi nell’essere soprattutto segni, e i
segni cominciano ad essere gli ingredienti essenziali dell’algoritmo, che a sua volta si caratterizza
come manipolazione di segni secondo regole.
La matematica europea conservava invece molto poco della matematica greca: gli scritti dei
tardi commentatori romani quali Martianus Capella o Boethius lasciavano pochissimo del passato:
pochi cenni della geometria euclidea ed una serie di tecniche pratiche di natura aritmetica e
metrica, residui di una antichissima tradizione di agrimensori che risaliva alla matematica egizia e
babilonese. Bisogna ricordare che anche nel periodo di massima fioritura dell’Impero Romano la
cultura greca si era diffusa verso ovest solo per quanto riguardava la filosofia e la retorica, mentre
discipline come la geometria teorica e la logica vi erano rimaste quasi del tutto sconosciute, e con
la frattura dell’Impero Romano in due (Occidente e Oriente) solo nella parte orientale si era
preservata la tradizione matematica greca.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente la situazione peggiora ulteriormente. Rimane
solo un minimo di uso pratico. Addirittura lo strumento principale per il calcolo non è più tanto
l’abaco quanto ormai le semplici mani: la tecnica del contare sulle dita era parte dell’antica
tradizione mediterranea, mai scomparsa ai livelli elementari dell’insegnamento e della pratica, e
nel Medioevo ritrovava una nuova fioritura, apparendo ancora in Fibonacci.
50
La tradizione di Erone e degli agrimensori romani, detti gromatici dalla groma, lo strumento
base del loro lavoro, si ritrova nel cosiddetto Corpus Agrimensorum, una collezione di testi di
datazione variabile probabilmente dal I sec. a.C. all’ VIII sec. d.C., come nel Codex Arcerianus
redatto a Corbie, culla della matematica pre-carolingia. Gli agrimensori costituivano la parte più
coriacea della antica tradizione comune mediterranea, e i loro scritti mostrano la presenza delle
formule per il calcolo dei numeri poligonali, probabilmente segno di un ruolo metrico antico della
teoria dei numeri figurati pitagorici. Vi si ritrova una geometria legata alla grande tradizione di
matematica pratica le cui origini si possono trovare nella matematica babilonese ed egizia e che
mai scomparve in Oriente e nel Mediterraneo. Il calcolo di aree vi appare fatto in modi diversi e
contrapposti: l’uso dei numeri poligonali, corrette tecniche basate sul teorema di Pitagora tra cui la
formula di Erone (probabilmente dovuta ad Archimede), l’uso di strumenti di misura, la tesi che
l’area di una figura si può calcolare dal suo perimetro, regole babilonesi quale quelle secondo la
quale l’area di un quadrilatero è data dal prodotto delle semisomme dei lati opposti, diverse
approssimazioni per e i numeri irrazionali. Appaiono le definizioni euclidee, talora riscritte in
modo pratico, così la definizione di ‘estremo’ appare legata ai diritti di proprietà: extremitas est
quousque uni cuique possidenti ius concessum est, aut quousque quisque suum servat, e teoremi
derivanti dai primi quattro libri degli Elementi. Non esistono dimostrazioni ma solo esempi.
E’ una tradizione che connette Boethius e gli agrimensori, e che tende a riconnettere la antica
tradizione pratica diffusa in tutto il bacino mediterraneo e in Oriente con gli elementi base della
geometria euclidea.
Non vi è traccia della geometria greca teorica (quella che il medioevo chiamerà speculativa):
le approssimazioni numeriche dei rapporti tra grandezze incommensurabili, le idee sulla
quadratura del cerchio, il calcolo di aree più complesse sono affrontate con uno stile non diverso
da quello che si trovava nella matematica babilonese. Al punto che appare difficile datare e
ascrivere ad autori precisi e fonti riconoscibili molti testi: li si può collocare indifferentemente tra i
Caldei, in Erone, in rielaborazioni bizantine, o all’inizio del Medio Evo: è certo una matassa che
può essere filologicamente dipanata, ma culturalmente appare segno della continuità della
tradizione matematica pratica.
Beda il Venerabile (672-735) descrive il calcolo sulle dita, derivato da San Gerolamo, morto
nel 420, che probabilmente si era trasmesso per tradizione orale, mentre sul calcolo con le frazioni
non c’è nulla di più dell’uso dell’as e dell’oncia, legate dalla relazione che 1 as = 12 once. Dopo
l’anno 1000 cominciano ad apparire nei testi calcoli con frazioni più complesse del tradizionale
sistema di unità e sottounità di misura di tradizione romana. Ma il più significativo problema
matematico, o meglio l’unico significativo al di là delle più semplici tecniche del commercio e
della agrimensura, era il calcolo della Pasqua!
L’aritmetica riflette gran parte dei problemi dell’aritmetica greca, anche quando si notano
novità come il trattamento dei numeri negativi che appare già in un’opera erroneamente ascritta al
Venerabile Beda, ma comunque molto antica, VIII-IX secolo. Qui il numero positivo è verum, o
anche ‘essente’ o ‘esistente’, mentre il numero negativo è minus, non essente e non esistente:
verum essentiam, minus nihil significat.
A partire dall’undicesimo secolo l’Europa occidentale comincia a risollevarsi dalle condizioni
miserabili dell’alto Medioevo. Riprendono i commerci, rifioriscono le città, ed anche militarmente
gli eserciti europei cominciano ad affermarsi nelle guerre contro l’Islam: la Reconquista della
Spagna e le Crociate ne saranno gli aspetti più evidenti. In questo processo gli Europei si aprono
alla matematica islamica. Soprattutto in Spagna vengono importate tecniche e strumenti, e tradotti
dall’arabo testi tanto arabi che di origine greca. Inizia in realtà un’ondata imponente di traduzioni,
realizzate proprio grazie al carattere multilinguistico della civiltà medievale che in Spagna
raggiunge il suo culmine in città come Toledo, dove le traduzioni sono legate alla compresenza di
51
dotti parlanti più lingue, l’arabo, il latino, l’ebraico, nonché i nascenti dialetti spagnoli. Si
traducono testi medici, astrologici e alchimistici, e poi i classici della matematica e il corpus
aristotelico.
Emblematica di quest’epoca la figura di Gerbert d’Aurillac, che fu papa col nome di Silvestro
II e morì nel 1003. I suoi viaggi lo avevano condotto in Spagna in cui aveva avuto contatti con la
scienza araba, e da questa esperienza aveva riportato strumenti astronomici ed un curioso abaco,
che si differenzia da quelli tradizionali per usare gettoni con incise le cifre indo-arabe al posto
delle pietroline, così che invece di mettere quattro pietroline si metteva un gettone col numero 4
(da notare che non serviva alcun gettone per il numero zero, che nell’abaco era solo la colonna
vuota). Forse questo abaco è una traccia della derivazione della nuova aritmetica da quella antica
legata all’abaco, quasi l’‘anello mancante’.
E’ la prima apparizione delle cifre indo-arabe in Occidente. Gerbert conobbe probabilmente le
cifre arabe in Spagna e le introdusse nel suo abaco probabilmente per la prima volta nell’Europa
cristiana. I nomi delle cifre appaiono di origine apparentemente araba: ingi; 1, andras, 2, ormis,3
arbas, 4, quimas, 5, caltis,6, zenis, 7, temeniam, 8, celentis 9. Ed infine un piccolo circoletto °,
sipos. Quest’ultimo non appare tanto uno ‘zero’, che sull’abaco è semplicemente una colonna
vuota, quanto il segno di un marcatore di un posto.
Ma la diffusione delle nuove tecniche matematiche sarà più lenta e incerta di quanto accadeva
nei paesi islamici, le procedure di calcolo resteranno in Europa a lungo quelle tradizionali.
Ad esempio a Gerbert veniva posta la questione se il triangolo equilatero, il cui lato ha
lunghezza 7 piedi, possedesse area 28 (7ä8/2) o area 21 (7ä6/2). Rispondeva 21, valore
approssimato corretto, derivato dalla regola secondo cui l’altezza del triangolo equilatero e sempre
1/7 più piccola del suo lato (fig.12 destra). Interessante osservare che il 28 derivava invece dalla
regola dei numeri triangolari. Infatti aritmogeometricamente sono 28 le ‘monadi’ che
costituiscono il triangolo (fig.12 sin.).
Altro esempio interessante è un calcolo che appare in un testo del XII secolo: “il nostro
algorista ha realizzato la divisione di 100 librae per 11 merciai. La singola libra restante dalla
divisione egli la pone uguale a 40 solidi. L’ulteriore resto di 7 solidi viene trasmutato in nummi,
dei quali 12 fanno un solidus. Di nuovo rimangono dalla divisione altri 7 nummi, e per questi si
devono comprare uova delle quali i merciai si devono servire a pranzo. Per ogni nummus si
ottengono 13 uova, in totale così 91 e si dividono di nuovo queste per 11, così rimane ancora un
resto di 3 uova. Queste si devono dare in ricompensa a chi ha realizzato la spartizione o barattare
con del sale che debba essere mangiato probabilmente sulle uova”. I numeri sono ancora solo
interi con diverse unità di misura, eterogenee ma connesse tra di loro mediante rapporti di
conversione fissi.
Quadratum
VI
VII
Fig. 12
52
Alla fine dell’alto Medioevo l’Europa sembrava destinata a seguire anch’essa la strada della
progressiva attenuazione della separazione tra scienza e tecnica, notata già nei Monasteri all’inizio
del Medioevo. C’era un diffuso pragmatismo nello studio anche dei problemi matematici; ad
esempio sembrava strano ritenere rette e curve inconfrontabili: bastava un filo piegato in modo da
coincidere con la curva e poi raddrizzato per poterlo misurare.
Ma verso la fine dell’XI secolo si profila una trasformazione profonda nella realtà culturale
europea: la nascita delle università. Con esse di nuovo il solco tra scienze e tecniche si
approfondirà, fino alla fine del Medioevo. Così Leonardo da Pisa fu presente e ammirato alla
Corte di Napoli di Federico II negli stessi anni in cui il sovrano creava l’Università di Napoli
anche con scopi eminentemente pratici: ebbene non ci sono tracce di un rapporto tra Leonardo e
quella università. E’ il segno di una frattura che caratterizzerà con pochissime eccezioni
(soprattutto italiane) la storia della matematica medievale.
Nelle università si leggono gli Elementi di Euclide, ma, mentre nella matematica islamica il
testo aveva il ruolo di fonte di conoscenze utilizzabili, in Europa esso apparirà sempre come
riferimento ‘ideologico’ di un sapere scientifico assolutamente certo e necessario, ma indifferente
alle tecniche: nell’Islam i ‘risultati’ euclidei, in Europa lo ‘stile’ euclideo. Non sarà però solo un
passo indietro, ma solo una deviazione per aprire la via ad una nuova scienza dai caratteri
assolutamente inimmaginabili.
IL BASSO MEDIO EVO
Nel XII secolo ci fu un grande fiorire in occidente di traduzioni di autori arabi e molte
innovazioni arabe cominciarono a filtrare nella matematica europea, come risposta al risveglio
economico che creava in molte professioni una crescente domanda di matematica pratica..
Nel 1202 viene pubblicato il Liber Abaci di Leonardo da Pisa, detto Fibonacci. Nonostante il
titolo, il calcolo non si fonda sull’abaco, bensì su algoritmi basati sulle cifre indo-arabe, con
l’ausilio della notazione numerica sulle dita. Si conferma così come il termine ‘abaco’ nel basso
Medioevo finisse col denotare in generale tutta la tradizione pratica, quella che anche noi abbiamo
chiamato la ‘matematica dell’abaco’.
Il libro è dedicato ai temi classici della tradizione pratica, dagli algoritmi numerici alle
applicazioni commerciali (con grande attenzione a dettagli quali le unità di misura nelle diverse
città, le leghe metalliche, etc.) e all’algebra araba, ed anche lo stile, fondato su problemi, è nel
solco di quella tradizione. Va comunque sottolineato come Leonardo fosse un matematico
raffinato, buon conoscitore anche di quella parte della tradizione teorica che era entrata già nella
matematica araba, Euclide in primo luogo.
Siamo dentro la grande tradizione pratica in cui aritmetica e geometria (nel senso di algebra
geometrica) sono connesse, come ci ricorda lo stesso Leonardo nella dedica iniziale. Nel libro
l’autore introduce le cifre dall’1 al 9 come figure e lo 0 come semplice signum: nonostante lo zero
fosse ormai usato negli algoritmi come le altre cifre, esso non appariva ancora esplicitamente
come numero. Ci sarà la difficoltà di concepire una velocità ‘zero’ nei fisici (gli inglesi del Merton
College e Nicola Oresme) ancora nel XIV secolo.
I numeri sono ‘somma’ o ‘collezione’ di unità e vengono rappresentati come segmenti
(coppia di lettere) o come lettere singole, ma vengono usate le frazioni in maniera del tutto
naturale, ma con una notazione molto particolare. In generale
A1 A2 ….. An
An
An-1
A1
---------------------- rappresenta il numero ----- + ----- + ….+ -------------B1 B2 ….. Bn
Bn
Bn-1 Bn
B1 B2 ….. Bn
53
Ovviamente se tutte le Bi sono uguali a 10, si ottiene la rappresentazione decimale. Leonardo non
usa tale rappresentazione decimale, ma si può osservare che questo era ragionevole visto che le
sottounità di misura all’epoca erano molto varie e quasi mai decimali.
Molto usate le proporzioni nelle quali il rapporto è identificato con una frazione, e si
accettano anche soluzioni negative quando hanno un senso nel problema. I numeri sono sempre
definiti in modo usuale, come ‘somma’ o ‘collezione’ di unità, ma appaiono numeri negativi e
anche irrazionali, e vengono usate le frazioni in maniera del tutto naturale, ed anche rapporti tra
quantità eterogenee (quasi inevitabile nei commerci, basti pensare al ‘prezzo unitario’), con una
notazione anche molto particolare:
Era anche usata la rappresentazione egiziana, in cui ogni frazione era espressa come somma
di frazioni unitarie. Anche adoperato il ‘metodo della falsa posizione’ nel caso di relazioni lineari
Per dimostrare le regole adoperate si usavano tecniche di algebra geometrica, senza il
principio di omogeneità. Oppure i problemi algebrici venivano risolti col cosiddetto ‘metodo
diretto’ degli Arabi che consiste nel trattamento algebrico scritto tuttavia in linguaggio naturale,
così che l’incognita è la cosa, il suo quadrato il censo, etc. Talora appaiono anche più variabili, ad
esempio la cosa e la somma, oppure la cosa e la parte. Le equazioni di II grado, come in AlKhwarizmi, sono risolte facendo riferimento a tecniche di rappresentazione geometriche. In
algebra permane la duplicità tra una manipolazione sintattica ed una risoluzione aritmogeometrica:
se ne vede traccia nel fatto che l’incognita è la cosa nella costruzione algebrica del problema, la
radice nella equazione da risolvere.
Leonardo è anche consapevole che solo in geometria, e non in aritmetica, ogni numero
ammette radice, conosce anche il libro X degli Elementi, ed usualmente, per avere a che fare anche
nelle radici approssimate con numeri interi, moltiplica il numero da cui estrarre la radice con una
potenza pari di 10.
Leonardo non è però l’unico nome della nascita della matematica in Europa nella prima metà
del XIII secolo: va ricordato Jordanus Nemorarius, in qualche modo forse legato alla facoltà d’arti.
In lui lo stile euclideo si dispiega sulla aritmetica, partendo dai libri aritmetici degli Elementi.
Ma quelle proprietà algebriche che l’antica algebra geometrica vedeva in maniera esclusivamente
geometrica cominciano ad essere da lui trattate in maniera aritmetica e simbolica, usando lettere
per indicare i numeri generici e parole come et, ductu, equalis per indicare somme, prodotti ed
equazioni. Si riconosce ancora dietro i simboli un ‘senso’ geometrico nei passaggi, tentando di
mettere la tradizione araba in forma euclidea, però frequentemente con il carattere di una semplice
manipolazione simbolica di proprietà aritmetiche.
Così ad esempio il calcolo del quadrato del binomio, che nell’antichità si basava sulla
costruzione geometrica di fig.2, appare ora dedotto dalla proprietà distributiva e dal teorema “se
un numero è diviso in due parti, allora quello che si ottiene dal prodotto del numero intero per una
parte è quanto si ottiene dal prodotto della parte per se stessa e per l’altra parte”, cioè in formula
moderna (a + b) a = a2 + a b, a sua volta ricavato da un ragionamento puramente aritmetico.
Di Jordanus va ricordato anche lo studio matematico della statica, con la prima idea del
‘principio dei lavori virtuali’, dal quale inizia negli ambienti universitari europei quel rapporto tra
matematica e fisica, inedito nella matematica greca, che sarà uno dei caratteri essenziali della
scienza moderna.
Da notare che, pur restando il 'rapporto' una relazione tra due quantità e non una quantità, dal
punto di vista operazionale esso viene trattato sempre più come una 'frazione', così in Jordanus de
Nemore la nozione concettualmente vaga di 'composizione' di relazioni diviene la operazione
semplice e chiara di prodotto di due frazioni, per via della nozione di denominatio, completando
un processo che si era lentamente sviluppato sin dalla tarda antichità.
Leonardo e Jordanus non sono molto distanti fra loro, anche se appaiono avere una
estrazione sociale del tutto diversa: da un lato il mondo dei commerci e dall’altro quello delle
54
università. Il primo più attento alle applicazioni il secondo più attento allo stile dimostrativo, ma se
si fossero incontrati probabilmente si sarebbero capiti benissimo. Tuttavia i secoli successivi, fino
al Rinascimento, segneranno la divaricazione netta fra questi due mondi, e, dal punto di vista delle
pure e semplici conoscenze e scoperte, saranno secoli in cui la matematica sembrerà ristagnare.
Si devono così trattare per il basso Medioevo due ambienti matematici separati: le
professioni e le università. In quest’ultima le conoscenze e innovazioni matematiche nel periodo
sono estremamente limitate. Ma ci si trovano due aspetti che risulteranno importantissimi: il ruolo
della logica e del linguaggio da un lato, il rapporto con la filosofia naturale dall’altro.
Di fatto la novità più importante del medioevo cristiano sarà probabilmente la nascita della
università. Alla fine dell’XI secolo l’insegnamento stava rifiorendo in Europa e stava spostandosi
dai monasteri benedettini e cistercensi nelle campagne verso le scuole delle cattedrali nelle città, i
maestri delle università saranno quindi in qualche modo ‘clerici’ e nel XIII secolo verranno spesso
dagli ordini mendicanti, domenicani e francescani.
Il rifiorire delle città è forse il dato più appariscente dell’Europa dell’epoca, dovuto non solo
al risveglio della economia e dei commerci, ma anche al fatto che le città apparivano un luogo più
aperto e dinamico, meno soggetto ai condizionamenti della società feudale in disfacimento, “l’aria
della città rende liberi” diceva un detto germanico. E la figura di Pietro Abelardo, con il suo
tormentato amore per Eloisa, le sue disavventure, i suoi scontri con i maestri legati al mondo dei
monasteri e con le gerarchie della Chiesa, il suo insegnamento brillante di una logica erede di
quella greca ma nel contempo legata ai tempi nuovi, appare quasi l’emblema della nascita della
università parigina.
Esistevano due tipi di origini parzialmente diverse. In Italia le università nascono dalle
organizzazioni corporative (universitates) dei comuni: tra queste c’erano le corporazioni di
studenti, universitas studentorum, che si fanno riconoscere dalle autorità e assumono docenti,
cercano sedi, etc. In Francia e Inghilterra ci sono le scuole cattedrali in cui si formano ecclesiastici
ma anche col tempo un numero crescente di laici. Progressivamente queste strutture didattiche si
autonomizzano e si presentano come universitas. In realtà il peso della Chiesa ci sarà anche nelle
università italiane, ma sarà minore. Quanto questo fosse rilevante in Francia e Inghilterra si nota
dal fatto che i docenti universitari dovevano sempre essere clerici. Addirittura lo stesso Newton
alla fine del XVII secolo avrà bisogno di una dispensa speciale per restare un laico nella
università.
Qualche anno prima Irnerio aveva portato i libri legales, i codici del diritto romano, da Roma
a Bologna, e qui ne aveva iniziato l’insegnamento. Tanto gli studenti quanto i docenti dovevano
adeguarsi al clima sociale delle città, basato sulla struttura delle ‘corporazioni’, le cosiddette
universitates. Nascevano in Europa nel clima dei nuovi ‘comuni’ urbani, strette tra le gerarchie
religiose ed il potere politico, le università, destinate a mutare la storia del pensiero e della civiltà.
Avevano una spiccato carattere professionale: le tre facoltà maggiori erano giurisprudenza,
medicina e teologia, e poi, propedeutica a queste, la facoltà di arti, nella quale veniva insegnato il
Quadrivio matematico ed il Trivio (grammatica, retorica, logica). La matematica insegnata era
poca e rudimentale, un po’ di Euclide e di aritmetica. Col tempo crebbe il ruolo della astrologia,
destinata anche ad avere un ruolo importante nella medicina. Ma nelle università gli aspetti più
interessanti della matematica li ritroveremo nel suo rapporto con la filosofia naturale.
Per la storia della matematica ovviamente la più importante sarà la facoltà di arti. Le
università medievali avranno il loro periodo di massimo splendore nel periodo della Scolastica
(secoli XIII e XIV), poi comincerà un lento declino, meno netto in quelle italiane, ma anche nei
secoli XVII e XVIII, in cui la loro crisi sarà più evidente, resteranno un riferimento importante per
la scienza europea.
Rifiorisce la logica e la filosofia: è la cosiddetta “Scolastica” che riscopre e riporta in auge il
pensiero aristotelico. Sono i secoli in cui in Europa riappaiono e vengono tradotti (in latino) i
grandi classici filosofici e scientifici greci, provenienti dai paesi arabi e bizantini. Fino al
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Rinascimento questa fioritura culturale accompagnerà lo sviluppo di una nuova economia in cui
avranno un ruolo cruciale nuove figure artigiane e commerciali le quali avanzeranno una domanda
di cultura matematica e scientifica crescente: si pensi alle esigenze computazionali del commercio
o a quelle ingegneristiche delle officine e delle fabbriche delle cattedrali: Leonardo Fibonacci
(prima metà del XIII secolo) e Leonardo da Vinci (seconda metà del XV, inizio del XVI secolo)
sono solo figure emblematiche di queste spinte nella transizione dal Medioevo al Rinascimento.
L’attenzione all’analisi dei testi linguistici è uno dei caratteri essenziali della cultura
medievale, in quanto base della sapienza e del sapere dell’epoca non era la natura ma un libro,
anzi ‘il libro’, la Bibbia. E la disputa teologica sino dai primi concili della antichità si era svolta
con l’analisi logica dei testi. Il sapere degli antichi riguardava un mondo ‘visto e descritto’, per i
medievali il sapere è soprattutto ‘scritto e interpretato’.
La logica aristotelica era pervenuta, ma solo in parte, ai dotti del Medioevo soprattutto
attraverso gli scritti di Boezio e di un tardo commentatore di Aristotele, Porfirio. Era stata
sufficiente però per dare un aspetto caratteristico alle questioni teologiche dell’epoca. Si può a
questo proposito ricordare la celebre ‘prova ontologica’ della esistenza di Dio, dovuta a
S.Anselmo. In essa ci si pone nei panni di un non credente, il quale, proprio in quanto non
credente in Dio deve avere nella mente l’idea di Dio, della quale aspetto essenziale è la perfezione
divina. Ma l’idea stessa di perfezione deve contenere l’idea di esistenza, in quanto una cosa
esistente è più ‘perfetta’ di una non esistente, così che anche il non credente deve in definitiva
riconoscere la necessaria esistenza di Dio. I punti dubbi di questa prova costituiranno per secoli
argomento di discussione sul concetto stesso di ‘esistenza’.
Ma anche questo esempio mostra la differenza tra la logica medievale e quella aristotelica. In
quest’ultima il fondamento era il sillogismo costruito ad imitazione della relazione causale tra i
fatti, nel medioevo il fondamento sarà l’analisi dell’uso dei termini nel linguaggio, il quale assume
un carattere più tecnico e convenzionale, altro effetto della natura multilinguista della cultura
dell’epoca. Ed è anche più autonomo dalla realtà, che non deve semplicemente rispecchiare.
Altro aspetto della logica scolastica che si rivelerà fertile per l’algebra futura è l’attenzione ad
una ars inveniendi più che ad una ars demonstrandi. E’ questa una distinzione che ricorda quella
antica tra analisi e sintesi, ma che viene posta in termini di argomentazione logica più che
matematica: il sillogismo è la classica procedura per ‘dimostrare’ il suo termine inferiore da quello
superiore utilizzando il medio, ma se scopo della scienza è ‘trovare’ la dimostrazione, allora, dati i
due estremi, occorre ‘trovare il medio’. E inoltre la logica medievale stava abbandonando l’idea
che l’unica forma argomentativa fosse il sillogismo, così che l’‘arte del trovare’ assumeva sempre
più il carattere di un ‘metodo scientifico’ generale.
La filosofia che si insegnava nelle università medievali è nota col nome di Scolastica, ed
appare purtroppo molto ostica alla cultura moderna, ma in essa appaiono mutamenti cruciali sui
temi del linguaggio e del carattere linguistico della scienza, la matematica in primo luogo.
La scienza per i Greci riguardava, attraverso gli ‘universali’, direttamente le ‘cose’ ed era in
questo una ‘immagine’ fedele del mondo, col linguaggio tramite quasi naturale e non tematizzato.
E’ il francescano William Ockham ad abbandonare quest’idea e ad intuire come invece la scienza
sia strutturata in proposizioni con cui il mondo vada descritto. Sembra una tipica questione
‘scolastica’, ma di qua deriverà anche l’idea che la scienza non sia semplicemente l’insieme di
tutte le verità necessarie, ma un ‘metodo’, un processo in cui essa si costituisce come ‘discorso’
intorno al mondo. Nella scienza antica una delle categorie con cui trattare le cose era la quantità,
un sistema di concetti, attributi immanenti nel mondo e presenti nel linguaggio naturale come
aggettivi delle cose: numeri e figure. Ma Ockham si accorge invece come essi non siano necessari
per descrivere il mondo, a tal fine bastando le cose stesse, le sostanze, e le loro caratteristiche, le
qualità. Era una svolta traumatica poiché la matematica era stata nell’antichità il cuore della idea
stessa di ‘scienza’, ora ne veniva estromessa.
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L’idea che la scienza sia un insieme di proposizioni, e quindi un linguaggio, con cui parlare
del mondo è un tema nuovo, che investe i successori di Ockham. Tra questi Giovanni Buridano,
che si pone il problema di trovare un linguaggio che sia non l’‘immagine’ del mondo, ma qualcosa
di autonomo con cui si possa costruire una ‘scienza’, che parta dall’esperienza e dalle conoscenze
individuali per giungere tramite l’induzione alle conoscenze universali, una scienza che non si
contrapponga più alle tecniche in quanto le sue verità non sono più necessarie e certe.
In questa analisi il linguaggio naturale viene letto in termini ‘algebrici’, come nella
concezione dell’individuo come determinatum (Socrates, una costante) o vagum (hic homo,
un’incognita o un segno, analogo alla cosa degli algebristi, singolo numero incognito), la cui
‘vaghezza’ si dissipa tramite l’aggiunta delle condizioni del problema, sino alla sua individuazione
come incognita o alla sua caratterizzazione universale nel luogo geometrico. Il ‘risultato’
dell’equazione è l’individuo caratterizzato ex circumlocutione come in Sophronisci filius.
Buridano insiste che il ‘segno’ può avere un significato anche se non rappresenta una cosa
esistente (come nei problemi che non ammettono soluzione), e ci si chiede se l’equazione abbia
un’unica soluzione come ci si chiede se primus rex Franciae christianus individui univocamente.
L’individuum vagum ricorda anche (come in aliquis homo) la x come ‘termine generale’, la
cui ‘vaghezza’ si dissipa tramite l’aggiunta delle condizioni del problema, sino alla sua
individuazione come incognita o alla sua caratterizzazione universale nel luogo geometrico.
Aristotele aveva interpretato il caso del bambino che chiama tutti gli uomini ‘padre’ come
conseguenza della mancanza in lui degli universali, Buridano lo interpreta come l’esistenza
iniziale di un individuo ‘vago’ da cui derivano tanto gli individuali che gli universali.
Tipica della scrittura medievale era poi l’abitudine massiccia di abbreviare le parole con
contrazioni, troncamenti, simboli sovrascritti o convenzionali. Una prassi, pressocchè assente nel
mondo islamico, che nasceva dal carattere meccanico della copiatura dei manoscritti insieme col
carattere tecnico e artificioso del latino medievale, una prassi che sarà all’origine del simbolismo
che caratterizzerà l’algebra europea: non solo le lettere ma autentici nuovi simboli quali +, -, =, e
poi simboli per le potenze, per le radici, etc.
La traduzione in forma algebrica nella scienza sarà un processo che durerà secoli, sarà ancora
assente in Galileo e trionferà solo con la scienza newtoniana. Nel 1343 Johannes de Muris
parlando di statica scrive "puoi provare questo tramite lettere dell'alfabeto, ma per me i numeri
sono più chiari". E, come accade spesso nella storia della matematica, i simboli diventano cose,
delle quali parla un linguaggio. Si assiste così lentamente alla trasformazione dell’algebra araba,
attraverso la linguistica e la scrittura medievale, nel lento emergere di un nuovo linguaggio
‘algebrico’ dotato di una sua autonoma sintassi. Questo accadrà molto tardi, nel XVII secolo, ma
sarà il medioevo a predisporre l’universo linguistico da cui poteva emergere questo ‘intruso’: le
radici dell’algebra simbolica si trovano nella scolastica medievale.
In tale linguaggio i segni appaiono nell’algebra e negli algoritmi: due termini arabi, apparsi
con la matematica islamica dove appare per la prima volta la vocazione sintattica della
matematica. I segni a questo punto non sono più l’antico aliquid stat pro aliquo, ma qualcosa di
inedito, e si caratterizzano attraverso tre prerogative:
1. con l’algebra il segno si svuota di significato e di senso: della x non conosciamo
immediatamente né il valore né la natura, è l’incognita, poi diventerà il segno generico, e
infine la variabile. Il segno sta per l’indefinito, per ciò che non si conosce neanche
qualitativamente, sta per il nulla, è uno spazio ‘vuoto’.
2. le cifre indo-arabe sono una rivoluzione non perché posizionali (già la notazione
sessagesimale e lo stesso abaco erano posizionali), né per la presenza dello zero, ma
perché quei segni diventano gli ingredienti essenziali degli algoritmi (le operazioni in
colonna), diversamente da quanto accadeva con l’abaco: gli algoritmi diventano loro i
portatori unici di quel senso che i segni da soli avevano ormai perduto.
57
3. ‘processo meccanico’ e ‘regola generale’ coincidono, il segno è anfibio, nel contempo
ideale e materiale, astratto e manipolabile secondo regole, una novità che appare nel
Medioevo con gli orologi meccanici e la quantificazione delle qualità, ed è quindi una
tecnica, ma relativa alle attività intelligenti dell’uomo.
Ma questo non basta ancora per creare un linguaggio: non casualmente, a fare dell’algebra
un linguaggio, il primo linguaggio formale della storia, costruito come linguaggio autonomo e
non come frammento di un linguaggio naturale, saranno dei dotti francesi di cultura retorica,
giuridica e filosofica, e solo amateurs della matematica, quali Viete, Descartes, Fermat. E sarà
Leibniz, un metafisico tedesco formatosi come matematico a Parigi, a stabilire una volta per tutte
che l’Uomo conosce il mondo solo attraverso i segni. Dio no, perché il mondo l’ha creato, ma gli
uomini non hanno altra via di accesso alla scienza, che in quell’epoca era la meccanica, la
scienza geometrica del moto e delle sue cause. La sua ars combinatoria apre la strada a tutti i
linguaggi formali che nasceranno dopo l’algebra, dal calcolo differenziale alla logica
matematica, dalla teoria degli insiemi ai linguaggi di programmazione
LA MATEMATICA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO
Se da un lato la matematica greca antica, i cui testi cominciano ad essere tradotti in latino,
trova qualche spazio nelle università medievali, dall’altro lato si conquista uno spazio autonomo la
matematica pratica, erede della tradizione millenaria e mai interrotta che dai babilonesi e gli egizi
si era conservata per tutta la antichità, sia trovando un’espressione più elegante in Erone, sia
restando vitale nell’opera di agrimensori ed architetti.
XII
XIII
XIV
XV
XVI
ABELARDO OCKHAM
GROSSETESTE CALCULATORES
BURIDANUS
UNIVERSITÀ
S.ANSELMO
ORESME
NICOLA CUSANO
JORDANUS
FIBONACCI
MATEMATICI
RAMO
COPERNICO
CARDANO
REGIOMONTANUS
BOMBELLI
DEL FERRO
MAESTRI D’ABBACO
FERRARI
PACIOLI TARTAGLIA
Nel Medioevo vediamo riapparire la geometria teorica intorno all’anno 1000 e svilupparsi nei
secoli successivi. La geometria pratica si oppone a quella teorica già in Ugo di San Vittore nel
1130 e il suo uso si estende anche verso la meccanica. Si caratterizza per l’attenzione verso i
problemi applicativi, gli strumenti e le misure, di fronte ad una geometria teorica basata su
dimostrazioni. La base teorica è molto limitata, basata sulle proporzioni e la similitudine dei
triangoli, senza riferimenti teorici, le stesse proprietà geometriche euclidee sono da un lato molto
semplici, dall’altro menzionate senza prove. Spesso le proprietà geometriche, come quella sulla
somma degli angoli di un triangolo, sono provate per via sperimentale. E la geometria si fonde con
l’aritmetica nell’uso di numeri e frazioni per le misure e per le unità di misura, ed anche nell’uso
dell’abaco, la mensa Pythagorica. Come conseguenza andava attenuandosi la antica opposizione
greca tra numero e grandezza. Lo stile euclideo penetrerà solo lentamente dalla prima metà del
XIV secolo nella geometria pratica e l’uso dei rapporti numerici per grandezze geometriche
apparirà con la trigonometria nel XV secolo.
Il rapporto tra la ‘monade’ e l’’uno’ era al centro della aritmetica euclidea: la prima
definizione del VII libro degli Elementi recita: “La monade è ciò per la quale ciascuna delle cose
che esistono è detta una”. Ma questa connessione complessa tra due termini distinti, monade e
58
unità, nel medioevo scomparirà per la unificazione linguistica dei due termini, come nella
traduzione di Campano: Unitas est qua unaqueque res una dicitur.
Altrettanto notevole è che questo approccio riduce effettivamente i rapporti a numeri, le
“frazioni”, fractiones, e nel contempo le tratta come quantità continue, nel senso che ogni rapporto
appare infinitamente divisibile, nel senso che quanti si vogliono medi proporzionali si possono
trovare in ogni rapporto. E’ il primo postulato, petitio o suppositio, “Tra due quantità continue
diverse ogni numero di medie può essere assegnato all’infinito” e quindi “ogni proporzione è
possibile tra quantità continue”.
In Bradwardine il rapporto sembra una qualità (“la proporzione è similitudine di rapporti”, ma
nel contempo sembra apparire l’idea ‘generale’ di frazione come rapporto fra due ‘termini’ e
l’idea che due relazioni siano ‘similari’ o ‘uguali’ se possiedono la stessa denominatio tra
‘termini’. Anche in un autore senza pretese teoriche quale Wigandus Durnheimer (fine del XIV
secolo) si trova l’idea della riduzione delle frazioni a forma minima.
Il carattere numerico di questa idea di frazione appare nell’uso di una terminologia aritmetica
(multiplicatio in Campanus, dividere in Oresme, ma subtrahere in Durnheimer) per le operazioni
tra rapporti, anche se la incertezza sulla operazione in questione rivela come il carattere numerico
della frazione sia ancora un ‘work in progress’ e che il rapporto non sia ancora inteso come
numero. La rappresentazione della proporzione come denominatio tramite numeri appare già in
Grosseteste, limitatamente ai rapporti commensurabili, ed Oresme considera i rapporti una
quantità continua in quanto infinitamente divisibile, e la terminologia frazionale è sempre
possibile per rapporti razionali, ma non è verosimile che questo accada per i rapporti irrazionali.
Osserviamo tuttavia come ancora nel XVII secolo Isaac Barrow si opponesse alla tesi che faceva
dei rapporti una specie di quantità.
Nelle università era filtrato quasi nulla della nuova matematica degli arabi, oltre i rudimenti
sugli algoritmi numerici, anche se la riflessione sulla scienza e sul linguaggio aveva posto il
problema della collocazione stessa della matematica all’interno del sapere.
Invece fuori delle università la nuova matematica investiva il tumultuoso sviluppo della
società e della economia tardo-medievale. I commercianti, gli artigiani, gli architetti, i pittori, si
rivolgevano alla matematica degli arabi per le esigenze delle loro professioni.
Resisteva la tradizione degli “abacisti”, che ignorano gli algoritmi numerici, ed operano con i
classici algoritmi sull’abaco, usando le frazioni romane duodecimali. Ma ad essi si
contrappongono sempre più i cosiddetti “algoristi”: quegli scrittori che mostrano chiaramente la
loro dipendenza immediata dai matematici arabi attraverso l’apparire della mal compresa parola
‘algoritmo’, attraverso l’uso di valori posizionali delle cifre con inclusione dello zero, attraverso il
non uso dell’abaco, attraverso procedure di calcolo numerico, inclusa la radice quadrata. La loro
disciplina verrà insegnata fino al Rinascimento non tanto (in latino) nelle università quanto invece
nelle “scuole d’abbaco” dai “maestri d’abbaco” (anche se non usano più l’abaco, ma ‘abaco’ era il
termine generico per indicare la tradizione pratica) e presto i testi relativi, i “libri d’abbaco”,
saranno in lingua volgare, e si rivolgerà non alla formazione delle professioni ‘dotte’ quanto a
mercanti, artisti, architetti, etc. Centro di questo insegnamento sarà l’Italia ed in particolare
Firenze, ma si diffonderà rapidamente in tutta Europa.
Soprattutto in Italia, ma anche in Germania, la nascita dei ‘comuni’ aveva segnato lo sviluppo
di tali professioni e la crescente domanda di conoscenze matematiche si era tradotta nella nascita
delle ‘scuole d’abbaco’, talora organizzate dai Comuni o dalle Corporazioni, talora iniziative
private. Appaiono verso la seconda metà del XIII secolo nell’Italia centro-settentrionale, a Firenze
soprattutto, e fioriscono sino all’inizio del XVI secolo. Le ‘scuole d’abbaco’ (nelle quali non vi era
traccia di veri abaci) sono l’istruzione superiore di un diffuso processo di formazione: Giovanni
Villani ci informa che a Firenze intorno al 1330 c’erano da otto a diecimila giovani che
frequentavano le scuole elementari pubbliche e circa 1000-1200 che, dopo gli undici anni,
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imparavano “l’abbaco e algorismo” per due o tre anni, e che era normale per un artigiano saper
leggere e far di conto.
L’insegnamento da parte dei ‘maestri d’abbaco’ era in volgare e all’inizio puramente orale.
Successivamente appariranno i ‘trattati d’abbaco’, nei quali compare un programma tutto interno
alla tradizione pratica, molto più semplice per intenderci del Liber Abaci. Ma questi trattati
diventeranno col tempo più completi e rigorosi e in essi si cimenteranno anche artisti come Piero
della Francesca. Una tendenza che culminerà con l’opera di Luca Pacioli, il cui sodalizio con
Leonardo da Vinci, ‘omo sanza lettere’ ma attento lettore di matematica, è paradigmatico del
rapporto inedito che si stringe tra questi matematici pratici e molti grandi artisti del Rinascimento,
con interessi artistici, meccanici e matematici.
Quasi emblematica di questa connessione è la nascita della prospettiva, che nasce nella forma
di regole pratiche per dare il senso della profondità nei quadri, ma che presto diviene una precisa
tecnica matematica da cui si svilupperà la geometria proiettiva.
Nel Rinascimento la tradizione pratica è ancora dominante, ma diventa strettamente
algoritmica e la conoscenza degli algoritmi assume quel carattere mnemonico che tutto sommato
caratterizza ancor’oggi l’insegnamento della matematica elementare. Nell’antichità la
memorizzazione delle procedure si appoggiava probabilmente soprattutto su esempi numerici e
figure geometriche, ora esse vengono memorizzate più astrattamente e verbalmente, più in là
assumeranno anche l’aspetto di formule. Gli algoritmi non vanno compresi e neanche dimostrati,
vanno bensì memorizzati: tabelline pitagoriche, regola del tre, prova del nove, estrazione della
radice quadrata, etc.
E’ difficile alla fine del Medioevo ritrovare qualche legame tra la matematica delle università
e quella delle scuole d’abbaco. Soprattutto in Inghilterra e Francia, laddove, anche a causa della
guerra dei cent’anni, le università avevano perso il dinamismo che le aveva caratterizzate nel XIII
e XIV secolo. Migliore la situazione in Italia e Germania.
Nicola Cusano era un cardinale tedesco, importante perchè appare quasi una cerniera tra
medioevo e tempi moderni. Per quanto riguarda la matematica il suo nome va ricordato per come
faccia della riflessione sull’infinito il grimaldello per rompere lo schema delle opposizioni
aristoteliche. Moto e quiete erano opposti per Aristotele, ma un infinito rallentamento del moto è
la quiete, così anche retta e curva erano opposti, ma la retta poteva essere considerata come una
circonferenza di raggio infinito.
E in lui si trova un’idea che si diffonderà nei secoli successivi, diventando un luogo comune
nel Seicento: che sia la matematica e non la logica la base della argomentazione scientifica. In
realtà per i Greci la matematica era soprattutto la scienza dell’essere, mentre era la logica a fornire
la base della scienza del divenire e delle relazioni causali, la ‘fisica’. Nel cinquecento gli
aristotelici sottolineano i limiti della dimostrazione matematica (estranea alla causalità fisica, non
univoca, non sillogistica, etc.) al punto da escludere la matematica dalle scienze. I platonisti e i
meccanici, Leonardo da Vinci per primo, trovavano invece nella matematica la ‘logica’ delle loro
‘macchine’ e lo strumento base per tutte le scienze. Inizierà un lungo dibattito su quale fosse tra le
due la dimostrazione ‘più potente’, di fatto iniziava per la logica un lungo periodo di ristagno,
interrotto prima dell’ottocento solo dalla figura di Leibniz.
Occorre anche ricordare l’invenzione della stampa intorno alla metà del XV secolo. Con essa
il libro, anche il libro di matematica, usciva dall’angusto mercato dei copisti universitari per
diventare un bene relativamente di massa: nel giro di pochi decenni le stamperie si moltiplicarono
in Italia, in Germania, in Olanda, e i libri comparvero in tutte le case della borghesia benestante.
L’attenzione degli Umanisti per le lingue antiche aveva lasciato in eredità anche una
maggiore attenzione al rigore delle traduzioni, così che il cinquecento vedrà un fiorire di nuove
traduzioni dei classici della matematica greca. Tra i più attivi matematici in questa attività di
diffusione del libro matematico c’era anche Johann Müller, detto Regiomontanus, famoso anche
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per i suoi studi di astronomia e trigonometria. Con lui inizia una tradizione di studi astronomici
nella Mitteleuropa che porterà ai nomi di Copernico, Tycho Brahe e Kepler.
Il Rinascimento sarà anche caratterizzato dall’esplicito interrogarsi sul linguaggio. Ormai la
civiltà era diventata largamente multilinguistica: i vernacoli erano diventati lingue nazionali, si
traduceva tra di esse o dall’arabo o dal greco o dal latino o dall’ebraico. I linguaggi apparivano
tutti convenzionali, ma, quasi per contrappeso, nasceva l’esigenza del linguaggio universale, in
cui le cose avessero il loro vero nome. Poteva essere il linguaggio originario, quello di Adamo,
simile all’ebraico, o un linguaggio iconico, come il cinese proposto da Leibniz. Quindi un
linguaggio da riscoprire o anche da creare. Era una indagine impensabile nella Grecia antica, in
cui il greco era l’unico linguaggio che non fosse un balbettio, o nell’Islam, laddove l’arabo era
l’unica lingua ‘vera’ e immutabile, quella in cui era scritto il Corano.
L’INFINITO E IL TRANSFINITO
In generale sull'infinito ed il continuo restarono dominanti le tesi aristoteliche almeno per
tutto il periodo della Scolastica, anche se non erano assenti accenti platonisti e pitagorici che
riprendevano la teoria di un continuo realmente fatto di punti indivisibili. Anche la finitezza
dell'universo veniva messa in discussione: con Nicola Cusano l’universo diventava ‘interminato’,
e con Giordano Bruno l’universo diventava infinito e illimitato, e lo spazio vuoto e uniforme. Ma
l'infinito attuale acquista lentamente una crescente audience, e comincia ad apparire la tesi che la
retta sia di fatto composta dai suoi punti.
Soprattutto ragioni teologiche deponevano a favore dell’esistenza dell’infinito attuale:
potendo Dio fare tutto nei limiti del principio di non-contraddizione, l’infinito attuale sarebbe
impossibile solo se contraddittorio; ma tale contraddizione non appariva evidente.
Anche l'idea, di natura teologica, di un tempo esistente ab aeterno riproponeva il problema
dell'infinito attuale. E progressivamente questa novità teologica filtrava anche nella filosofia
naturale e nella matematica della scolastica nell’università di Oxford, a cominciare da Robert
Grosseteste. Matematico era l’esempio della creazione di un oggetto infinito in un tempo finito:
Dio potrebbe creare una quantità in mezz’ora, la stessa quantità nel successivo quarto d’ora, la
stessa ancora nel successivo ottavo di ora, etc. e così dopo un’ora aver creato una quantità
attualmente infinita.
All'interno di questa 'emergenza' occorre sottolineare l'apparire di una distinzione che si
rivelerà cruciale per la matematica moderna: quella tra infinito attuale, inteso come "tutto
massimo" e quindi in fondo inanalizzabile e inconfrontabile, e quello transfinito, "che eccede ogni
finito al di là di ogni determinata proporzione" (infinitum est quod excedit quodcumque finitum
ultra omnem proportionem determinatam), che esplicitamente rivela la traduzione matematica del
problema e si pone come negazione del ‘finito’, e all'interno della quale si possono realizzare
confronti tra infiniti.
FIG.13
Tale lettura matematica dell’infinito si traduceva in un problema nuovo e di grande portata
per il futuro della matematica: il ‘confronto’ tra infiniti, un tema di grande importanza nel XIX
secolo. Gli infiniti sono tutti ‘uguali’? O esistono infiniti ‘più grandi’ di altri infiniti? E su questo
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la Scolastica si dividerà. Gregorio da Rimini (XIV secolo) osserva che sorgevano paradossi
connessi all’idea (assurda nel finito) che una collezione potesse essere contenuta propriamente in
un’altra e nello stesso tempo essere messa in corrispondenza biunivoca con essa. Qui entravano in
conflitto due principi fondamentali della matematica: uno di origine geometrica, ‘il tutto è
maggiore della parte’ (V assioma degli Elementi), l’altro di origine aritmetica, due moltitudini che
si possono mettere in una corrispondenza 1-1 sono uguali. Esistevano diversi paradossi in cui
questi due principi entravano in conflitto. Paradossi sia geometrici (fig.13: in un triangolo coi lati
disuguali le parallele alla base istituiscono una corrispondenza 1-1 tra i punti dei due lati pur
essendo il minore riducibile ad una parte del maggiore, in due cerchi concentrici i raggi
istituiscono una corrispondenza 1-1 tra i punti delle circonferenze), che aritmetici (i numeri interi e
i numeri quadrati si possono mettere in corrispondenza 1-1 pur essendo i secondi una parte propria
dei primi).
La fine del Medioevo apre così una nuova fase di riflessione sull’infinito. L’impianto restava
ancora aristotelico con il conseguente rifiuto dell’infinito attuale. L’infinito restava una 'potenza'
che può divenire 'atto' in un processo mai simultaneamente, non infinitum in facto, ma infinitum in
fieri. Il punto non veniva considerato grandezza, come del resto lo zero esisteva in forma solo
simbolica e l’uno non era considerato un numero in senso stretto. Secondo la tradizione antica,
accettata quasi universalmente fino al XIV secolo, i punti, le linee, le superfici esistevano solo
come 'terminali', così che non erano "grandezze" e non si poteva considerare il continuo composto
di punti. Così si rigettava l’idea che una curva fosse fatta di infiniti punti: aristotelicamente il
continuo non era composto di indivisibilia, ma di semper divisibilia.
Esempio tipico dei paradossi del continuo è la cosiddetta rota Aristotelis, nota già ad Erone.
In tale esperienza 'mentale' si consideravano due punti (allineati col centro comune) su cerchi
concentrici che rotolano solidalmente e quindi descrivono segmenti uguali (fig.15 bis). Analoga
antinomia, resa celebre da Galileo, si otteneva nel discreto tra i naturali e i pari (o i quadrati
perfetti). La ratio Achilles, di ascendenza zenoniana, consisteva invece nell’osservare come se il
tempo fosse composto di istanti e lo spazio di punti, allora tutte le velocità sarebbero uguali poiché
in ogni istante verrebbe occupato uno e un solo punto.
La soluzione antica richiedeva il rifiuto dell’infinito attuale e della idea che il continuo
potesse essere considerato come composto di punti, ma la liceità, anzi la necessità, dell'infinito
attuale diventa inevitabile per un rapporto tra fede e ragione. Di questo capovolgimento è esempio
l'analogia tra poligono/circolo e conoscenza umana/assoluta: laddove il pensiero greco si era
ritratto, persino in Archimede, davanti al limite infinito, il pensiero cristiano ne fa la sua ragion
d'essere e vede nella riflessione sull'infinito la traccia della natura divina dell'anima. In Nicola
Cusano l’idea della contraddittorietà dell’infinito non è una ragione per rigettarlo: possiamo infatti
dargli un nome, ma descriverlo non può essere fatto se non a spese di antinomie. "L'infinità non
sopporta in sé alterità perché nulla è al di fuori di essa.", senza maggiore, minore o uguale, senza
parti; un termine che sia termine senza termine è però nell'indeterminato e nel confuso,
nell'ignoranza ed oscurità dell'intelletto: la dotta ignoranza. Alla omogeneità tra retta e curva o tra
unità e molteplicità non portava quindi solo il pragmatismo della cultura medievale ma anche la
ormai piena liceità ‘teologica’ dell’idea di infinito attuale, la quale porterà Descartes ad affermare
qualche secolo più tardi “vedo manifestamente che si trova più realtà nella sostanza infinita che
nella sostanza finita, e quindi che ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del
finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso.” [Meditationes de prima philosophia, III].
CONTINUO E DISCRETO
La rottura del sistema culturale medievale apparirà come superamento dell'aristotelismo. Non
è casuale allora che gli stimoli per la nascita della scienza moderna appaiano nel rifiorire del
platonismo nel XV secolo, come reazione all’aristotelismo scolastico.
62
La fine della Scolastica è il tracollo di quel lessico teoretico, la cui creazione era stata la
grande opera aristotelica. Tutti i concetti della nuova scienza saranno 'sghembi' rispetto alle
categorie e alle opposizioni dell'aristotelismo: categorie, sostanza/accidente, forma/materia,
atto/potenza, individuale/universale, genere/specie, e tesi al superamento della opposizione rigida
tra le coppie pitagoriche: moto/stasi, retta/curva, limitato/illimitato, uno/molti.
Il passaggio dalla potenza all'atto nell'ambito delle sostanze è necessariamente istantaneo,
mentre tipicamente il mutamento, pure interno alla relazione tra atto e potenza in quanto
aristotelicamente motus est actus entis in potentia secundum quod in potentia, si compie invece
nel tempo. La prima caratterizzazione presuppone una descrizione in linguaggio naturale
sostanzialistica e dominata dalla opposizione polare essere/non essere, la seconda richiede un
linguaggio nuovo in cui il moto sia costruito analogicamente allo spazio, e questo è il punto di
partenza di quella intensio et remissio formarum che vedremo decisiva per la nascita della scienza
moderna.
La frattura con l’interpretazione sostanzialistica della quantità appare già in William Ockham.
La scienza aristotelica aveva al suo centro l’idea di sostanza e dei suoi attributi, in primo luogo
qualità e quantità. Ockham sottopone tutti gli enti della filosofia scolastica ad uno scrupoloso
esame per verificarne la indispensabilità: l’esito negativo ne comporta la eliminazione, e nota che
la quantità in fondo è superflua: il mondo può essere descritto analiticamente in termini delle
sostanze e delle loro qualità, la quantità può essere espulsa dalla descrizione della percezione
comune.
La dotta ignoranza del Cusano è la base della coincidenza degli opposti. Non si tratta di un
residuo eracliteo, ma dell'onda lunga di una riflessione teologica che da Tertulliano e lo pseudoDionigi coglie quanto stretto sia il paradigma aristotelico per inserirci l’idea di infinito emersa
nella civiltà cristiana durante il Medioevo. Così difronte a Dio tutte le opposizioni rigide
aristoteliche si dissolvono: "perché Dio è al di sopra della coincidenza dei contradditori, essendo,
secondo Dionigi, opposizione degli opposti".
Quanto questo sia rilevante per la storia della matematica si comprende quando si osserva
che tra le opposizioni aristoteliche c’era quella tra moto e quiete: "moto e quiete e la loro
opposizione … sono posteriori a questa infinità". Il moto si pone come allontanamento da uno
stato, e muoversi è passare da quiete in quiete, il movimento non è che una quiete ordinata o stati
di quiete posti in serie. Esplicitamente il Cusano tenta di introdurre il "più e il meno" nello schema
delle opposizioni aristoteliche basate sulle "essenze".
In Aristotele l’opposizione essere/divenire si rifletteva nella inapplicabilità della matematica
(scienza dell’essere immutabile) alla fisica (scienza del divenire): solo le scienze relative ad una
realtà immutabile potevano essere quantificate (statica, ottica, astronomia, musica). Inoltre la
quantità continua sembrava doversi limitare alle grandezze spaziali e temporali. Nella antichità
questo era stato quasi un dogma, e ancora in San Tommaso l’applicazione della matematica alla
descrizione della realtà naturale si riduceva a discipline concernenti lo spazio, come l’astronomia e
l’ottica. Così quando due oggetti si scambiavano calore si doveva avere la perdita di precedenti
attributi qualitativi e acquisizione di nuovi.
Sempre ad Oxford, nel Merton College, lavorano nella prima metà del XIV secolo un gruppo
di filosofi (Thomas Bradwardine, William Heytesbury, Richard Swineshead), noti come
Calculatores, ai quali si deve il tentativo di estendere il ‘campo d’azione’ della quantità a quelle
che la filosofia antica e medievale considerava qualità (non solo velocità, illuminazione, calore,
etc., ma anche grazia, carità, etc.) e che il Medioevo definiva ‘intensive’ poiché potevano
aumentare o diminuire di intensità, quasi fossero grandezze: si parlava di intensio et remissio
qualitatum seu formarum. In termini moderni la “estensione” era sostanzialmente l’integrale (lo
spazio totale, la quantità di calore, il peso) mentre l’”intensione” era il valore puntuale (la velocità,
la temperatura, la densità), che ‘avendo una latitudine’ era considerata sempre come continua.
63
L’esempio preferito era la velocità, e ai Calculatores va ascritto quello che è noto come
‘teorema mertoniano’, in termini attuali quello secondo cui lo spazio percorso in un moto
uniformemente accelerato è uguale a quello percorso nello stesso tempo in un moto uniforme a
velocità media tra quella iniziale e finale.
A Parigi poco dopo Nicola Oresme tradurrà questo teorema in una rappresentazione e
giustificazione geometrica (fig.15bis, sin.).
VELOCITÀ
TEMPO
FIG.15 BIS
Bisogna però non confonderla con una rappresentazione ‘cartesiana’, in quanto non è una
‘rappresentazione’ pur essendo una imaginatio. Infatti per Oresme un calore ‘triangolare’ ‘punge’
di più di uno ‘rettangolare’! La figura è fuori della realtà comune ma ha effetti reali. Inoltre
l’ambiguità tra indivisibili eterogenei o omogenei fa si che l’area venga vista sia come ‘spazio
percorso’ che come ‘velocità totale’ (in quanto una somma di ‘velocità’ istantanee deve essere una
‘velocità’).
L’aumento era inteso in termini di gradi discreti, anche se magari infiniti. Questo è uno degli
aspetti più caratteristici dello sviluppo della ‘quantificazione’ medievale. Nei campi più diversi (il
tempo degli orologi meccanici; la rappresentazione della musica tramite i neumi, gli antenati delle
nostre note su uno spartito; la temperatura in termini di gradi; la velocità delle navi in termini di
nodi) il Medioevo quantificava discretizzando le qualità intensive anche se le presentava come
intervalli, latitudines, cioè come grandezze continue.
Tuttavia la ‘stranezza’ si attenua se si ricorda che tutti i modi per esprimere una quantità, che
fossero numeri o semplici parole, erano discreti, in quanto i ‘numeri reali’ ancora non esistevano, e
quanto nebulosa fosse la distinzione tra discreto e continuo nella tradizione pratica, allora ancora
intuitivamente dominante, sebbene questo si sovrapponesse ad una struttura teorica aristotelica che
quella distinzione invece riteneva netta. Per questo motivo la ‘misurazione’ era solo formale, era
una quantificazione discreta, ma intuita geometricamente e senza misura empirica.
Nel sistema aristotelico il divenire delle "qualità" era descritto tramite le coppie di 'opposti'
del tipo caldo/freddo, pesante/leggero, umido/secco, mentre gli stessi fenomeni nella scienza
moderna diventeranno graduazioni continue di una singola grandezza, quale calore, peso, umidità.
Questo significava esprimere il mutamento in forma di dipendenza funzionale. Questo fu fatto
in parte in forma linguistica, ma più significativa fu l’utilizzazione di diagrammi, analoghi a quelli
della futura geometria analitica, soprattutto da parte di Nicola Oresme (XIV secolo). L’estensione
dell’oggetto era rappresentata orizzontalmente, l'intensione della qualità/forma verticalmente, e
quindi l’area sotto la curva dava l’"estensione della forma", la "quantità di velocità" ovvero lo
spazio secondo Oresme. Non era acora geometria analitica soprattutto perché la rappresentazione,
detta da Oresme ymaginationes, all’inizio era solo geometrica. Interessante osservare che nella
concezione di Oresme “sulla continuità dell’intensione: ogni cosa misurabile, eccetto i numeri, è
concepita come quantità continua”. E quindi, quando la grandezza non sia numero e si rappresenti
come un tutto divisibile, essa finisca col doversi rappresentare geometricamente e col dover essere
considerata continua.
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L’ALGEBRA IN ITALIA NEL CINQUECENTO
In Italia appaiono le novità più rilevanti in campo matematico, in algebra soprattutto.
L’algebra in Europa aveva progressivamente guadagnato un ricco bagaglio di simboli e si era
sviluppata l’abilità nella manipolazione di espressioni algebriche. Andava crescendo la
consapevolezza che i risultati dell’algebra geometrica potevano essere ottenuti tramite la
manipolazione di espressioni, ed in questo gli algebristi italiani del Cinquecento stavano
raggiungendo una indiscutibile abilità. Ciononostante l’algebra era ancora essenzialmente una
disciplina della tradizione pratica, rivolta quindi esclusivamente alla risoluzione di problemi. In
particolare i problemi che portavano ad equazioni di grado superiore al secondo solo raramente
erano risolubili in quanto non esistevano procedure generali per la loro risoluzione.
L’ambiente matematico appariva poco strutturato: qualche collegamento con le università,
posizioni all’interno delle corti, legate anche al ruolo che i matematici svolgevano come meccanici
e ingegneri nei problemi bellici o idraulici o architettonici. C’era una grande attenzione verso gli
scritti di Archimede, e si diffondeva l’idea di una meccanica come scientia media intermedia tra
geometria e fisica, ma nel contempo anche autonoma. Molto richiesta la matematica per
l’astrologia, che si diffondeva in tutti gli strati della popolazione, Curia e Corti incluse. Esisteva
una diffusa e aspra concorrenzialità tra i matematici che si traduceva in autentici ‘cartelli di sfida’
in cui un matematico sfidava altri matematici a risolvere problemi, e la storia della scoperta della
risoluzione delle equazioni di III grado mostra il clima acceso che circondava tali sfide, in quanto
molti problemi delle sfide riguardavano tali equazioni.
La gloria dell'algebra rinascimentale italiana è in gran parte legata alla risoluzione delle
equazioni di III e IV grado. Senza addentrarsi nelle complesse questioni di priorità, la risoluzione
della equazione cubica è da ascrivere a Scipione del Ferro e Nicolò Tartaglia e quella della
equazione di quarto grado a Ludovico Ferrari, entrambe diffuse poi dalla Ars Magna (1545) di
Gerolamo Cardano e dall'Algebra di Rafael Bombelli (scritta nel 1550 e pubblicata in parte nel
1572).
Alcuni aspetti rimangono sostanzialmente immutati da al-Khwarizmi fino agli algebristi
italiani del XVI secolo, da Tartaglia e Cardano a Bombelli, precursori di Viete e Descartes, è in
primo luogo la doppia 'versione', algebrica e geometrica: la prima quasi una ricetta mnemonica in
termini di esempi numerici o in termini di "cose" e "censi" come espressione delle potenze
dell'incognita, la seconda un oggetto geometrico la cui costruzione permette la soluzione
dell'equazione in maniera rigorosa: l’aspetto geometrico doveva in ogni caso dare il ‘senso’
generale della soluzione. In secondo luogo il rifiuto di coefficienti negativi o nulli richiede la
presentazione di innumerevoli casi, così, ad esempio, nell'Algebra di Bombelli appaiono 5 casi per
la risoluzione dell'equazione di II grado, 16 per l'equazione di III grado e ben 42 per l'equazione di
IV.
La risoluzione delle equazioni di III e IV grado, il punto più alto dell'algebra rinascimentale
ed anche l'ultimo exploit della antica "tradizione" aritmetica, si sviluppa secondo le tecniche
classiche di tale tradizione. Consideriamo la risoluzione della equazione cubica (fig. 16): viene
ridotta ad esempio alla forma
x3 + p x = q ,
e, come nell'approccio di al-Khwarizmi per le equazioni di II grado, si considera il cubo di lato
x=AB, si 'completa' il solido nella forma di un cubo di lato u=AC, in modo che i tre
parallelepipedi di lati x, u, e v=u-x=BC diano un volume px. La somma di tale volume e del cubo
di lato AB vale quindi q e risulta uguale, con semplici ragionamenti di natura geometrica, alla
differenza tra i volumi del cubo di lato AC e del cubo di lato BC. Da questi dati è possibile
calcolare u e v e quindi x. La risoluzione della equazione di IV grado procede sulla stessa linea,
con la novità che una delle 'lunghezze' considerate vale x2 , con una rottura implicita così del
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principio di omogeneità.
F
E
D
A
B
L
C
K
G
H
Fig. 16
E’ molto difficile capire se questa soluzione fu trovata tramite un ragionamento geometrico o
algebrico, se cioè il ‘completamento del cubo’ fu realizzato sulla figura o tramite la formula del
cubo del binomio (come nella nostra traduzione algebrica). L’equivalenza dei due linguaggi
all’epoca non era ancora esplicita, ma intuitivamente era già diffusa anche tra non matematici
come Pietro Ramo.
Ma d’altra parte la scoperta della soluzione per l’equazione di IV grado (impensabile in un
approccio puramente geometrico) da parte di Ludovico Ferrari, un allievo di Cardano, testimonia
della raffinatezza delle tecniche di manipolazione simbolica. Infatti nella procedura di risoluzione
occorre porre ad un certo punto un intervallo uguale al quadrato di un altro intervallo, ignorando il
principio di omogeneità dimensionale: qualcosa di lecito nell’antica tradizione aritmogeometrica,
ma teoricamente inaccettabile. Tuttavia alla metà del XVI secolo stava ormai maturando una
matematica del tutto nuova che in un certo senso saldava le due antiche tradizioni, teorica e
pratica. E’ qualcosa che si intravede già nell’opera dell’ultimo grande algebrista italiano del XVI
secolo: Rafael Bombelli, nel quale linguaggio algebrico e geometrico si interscambiano con la
massima naturalezza. Parlando di aritmetica e geometria egli scrive: “Queste due scientie hanno
intra di loro tanta convenientia che l’una è la prova dell’altra e l’altra la demostration dell’una”
[Algebra, 476], e dimostra le risolventi delle equazioni secondo una pluralità di approcci,
geometrici ed aritmetici.
Nell' Algebra di Rafael Bombelli, scritta intorno al 1550 e pubblicata in parte nel 1572,
appaiano alcune novità che preannunciano il XVII secolo: compaiono segmenti di lunghezza
negativa, i numeri irrazionali sono ormai numeri, anche se è "impossibile poterli nominare", e
compare l'uso nei 'numeri immaginari' (la nostra i è chiamata il "men di meno").
Al polo opposto alcune costruzioni geometriche non danno come risultati metodi numerici,
ma direttamente costruiscono enti geometrici. L'uso della incognita e delle sue potenze compare
per la prima volta nelle risoluzione approssimata di radici quarte: si potrebbe dire che appare un
po' come sostituto quando fallisce sia l'intuizione aritmetica che quella geometrica.
66
Le risolventi sono dimostrate secondo una pluralità di approcci, geometrici ed aritmetici. Si
consideri ad esempio l'equazione di primo grado a x = b. Viene risolta in tre modi. Nel primo (fig.
17 (a)) "in superficie composto di numero", b è una superficie, x e a sono lunghezze (viene
preservato il principio di omogeneità), f è l'unità di misura ed a è un numero esplicitamente dato
(nell'esempio, 3). I due rettangoli devono avere la stessa area, ragion per cui x si trova
numericamente dividendo b per il numero dato a. L'altra soluzione (fig 17 (b)) "in superficie senza
numero": b è una superficie data, la cui base viene prolungata di a. Si completa il rettangolo
superiore e si traccia la semiretta diagonale fino ad incrociare il prolungamento dell'altezza del
rettangolo b. Completando la figura si ottiene x, in quanto i due rettangoli opposti alla diagonale
hanno, in base ad un noto teorema degli Elementi di Euclide, la stessa area b. La terza soluzione
f
f
b
x
b
x
b
x
a
f
a
a
(a)
(b)
(c)
fig.17
"in linea" (fig. 17 (c)) tramite il segmento unitario abbandona il principio di omogeneità e b ed a
diventano lunghezze esplicitamente date. Per un semplice teorema x si ottiene dividendo b per a.
Risolventi analoghe si ripetono continuamente nel testo: appaiono dimostrazioni in cui il principio
di omogeneità vale e si ritrovano le classiche tecniche dell'algebra geometrica e appaiono invece
dimostrazioni in cui il principio viene ignorato e la risoluzione appare puramente data dalla
costruzione geometrica, spesso tramite 'artifici meccanici' del tipo "squadri materiali" che si
muovono solidalmente, nelle soluzioni "in superficie piana".
Nonostante questa molteplicità di tecniche vi è consapevolezza che la grandezza geometrica
ed il numero appaiono pressocchè indistinguibili: "tanto è a dire una quantità, quanto una cosa di
numero".
MATEMATICA E FISICA
La tesi dell'onnipotenza divina nei limiti del "principio di non-contraddizione" portava tra
l’altro ad una accresciuta 'libertà' dell'immaginazione che si tradurrà in quella pratica, cruciale
della fisica moderna, a partire da Galileo e Stevin fino alla meccanica relativistica e quantistica,
basata sui Gedanken-experimente, che altro non sono che autentiche esperienze realizzate in un
mondo autonomo di modelli geometrici e meccanici, con gli "occhi della mente", nei soli limiti del
principio di non-contraddizione e in obbedienza 'condizionale' delle leggi naturali da testare. E’
qualcosa di più che l’uso della dimostrazione per assurdo (come nella dimostrazione di Archita
della infinitezza dell’universo): c’è la presenza di un sistema di assiomi ‘intuitivi’ di natura fisica
da cui dedurre principi fisici espliciti. Un esempio particolarmente brillante di questa attività
sperimentale nel "mondo mentale" è quella dovuta a Stevin (vedi fig.15).
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Qui si suppone una catena poggiata su un solido a sezione triangolare scalena (parte sinistra
della figura).
L'impossibilità 'evidente' di un moto perpetuo della catena intorno al solido implica che essa
starà in equilibrio. Se eliminiamo la parte della catena pendente, per ragioni di simmetria la parte
restante resterà ancora in equilibrio (parte destra della figura). Questo vuol dire che per i due lati
della catena restante, la cui massa è proporzionale alla lunghezza e quindi inversamente
Fig.15
proporzionale al seno dell'angolo alla base, la parte del peso effettiva sarà proporzionale al seno
dell'angolo alla base. Otteniamo così il "teorema sulla accelerazione lungo un piano inclinato" per
via puramente 'deduttiva'.
Se confrontiamo lo schema di questa argomentazione coi risultati di Archimede, ad esempio il
suo metodo o il teorema sull'equilibrio dei pesi, in parte noti o comunque abbastanza omogenei
alla geometria di Eudosso e Euclide, e consideriamo il ruolo che vi svolgono ragioni di simmetria
e intuizioni 'fisiche', possiamo convincerci della continuità della evoluzione dei GedankenExperimenten e del mondo mentale nel suo versante matematico e modellistico, dalla geometria
pitagorica fino alla meccanica classica. Ma dobbiamo notare che lo spirito modellistico con cui la
scienza moderna realizza gli esperimenti mentali sconta due aspetti assenti nella tradizione greca:
da un lato la "artificialità" dell'esperimento scientifico versus la "naturalità" dell'esperienza
aristotelica, dall'altro la struttura quasi fisica di un mondo mentale che nella filosofia e matematica
greca era stato solo sede di idee e di sillogismi.
Il rapporto tra matematica e realtà naturale assume aspetti nuovi ma conserva anche tratti
antichi. Oresme tratta con disinvoltura l’infinito e la probabilità. E’ consapevole che esistono
infiniti rapporti irrazionali inesprimibili in forma esponenziale. E, tornando alla originale
vocazione dinamica di questa teoria, Oresme nota modernamente che la probabilità che siano
commensurabili è molto bassa e intuendo come gli irrazionali fossero più ‘numerosi’ e ‘densi’
rispetto ai razionali: "un eccesso impercettibile…distrugge un'uguaglianza e trasforma un rapporto
da razionale in irrazionale".
Di conseguenza anche le lunghezze dei periodi astronomici devono essere probabilmente
incommensurabili, e questo motiva il rigetto delle teorie astrologiche e dell’idea del “grande
anno”, pur essendo convinto dell’influenza delle cose celesti sulle attività umane.
Oresme sembra considerare indifferentemente rapporti tra numeri o grandezze, quantità
razionali e irrazionali, superando la antica contrapposizione tra di esse anche se sembra sempre
preservare la distinzione euclidea. La stessa accettazione formale di Euclide, anche quando nella
sostanza ci si distacca, si ritrova nella asserzione secca che “l’unità è parte di ogni numero”,
ascritta all’inizio del VII libro degli Elementi.
La associazione di numeri alle grandezze geometriche passa per l’introduzione degli aspetti
metrici nella geometria teorica: Bradwardine nella sua Geometria speculativa parla di ‘uguale in
area’ a proposito delle figure geometriche.
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Più in generale, aritmetica e geometria costruiscono sequenze infinite di enti, per cui le loro
conclusiones sono infinite, implausibili per un intelletto creato e finito, necessariuamente
rimandano ad un intelletto increato e di potenza infinita.
Grosseteste e Henry of Harclay avanzano anche la tesi della esistenza degli indivisibili e che
quindi tempi e lunghezze fossero misurate dal loro numero di istanti e punti, tesi contrastata da
Bradwardine.
A questo punto, all’alba della nuova scienza, si può fare un confronto tra la matematica
europea e quella araba, per rispondere a quello che è il più grande interrogativo della storia della
scienza: perché in Europa? Perché la scienza moderna nasce qui e non in Cina o nell’Islam?
Limitandoci al solo confronto con la scienza islamica, e considerando i soli aspetti scientifici,
si deve osservare come la matematica islamica appaia a prima vista aver fatto passi avanti nella
direzione della scienza moderna anche più decisivi di quella europea: nella matematica islamica
risulta più chiara ed esplicita la confluenza di continuo e discreto e la riduzione del rapporto a
numero, nonché più avanzato lo sviluppo delle tecniche algebriche sintattiche (anche se senza un
nuovo simbolismo). Anche nelle scienze ‘medie’, dall’astronomia all’ottica, i progressi appaiono
più significativi, e più sviluppate appaiono anche le tecniche alchimistiche e la strumentazione
astronomica.
La matematica europea, dopo l’improvvisa fioritura legata ai nomi di Fibonacci e Jordanus
Nemorario, appare invece dominata dalla frattura tra una matematica universitaria antiquata e
inutile, ed una matematica ‘d’abbaco’ terribilmente rozza. Certo ci sono fenomeni positivi nell’uso
della matematica su temi fisici da un lato, e su questioni tecniche e professionali dall’altro. Ma
niente di rilevante: ancora all’inizio del cinquecento l’unico settore scientifico ben caratterizzato
della matematica europea era l’astrologia. Eppure nella matematica del tardo Medioevo si
preparano i caratteri di una svolta epocale.
In De Commensurabilitate Nicola Oresme, l’ultimo dei grandi scolastici del XIV secolo,
descrive il dibattito tra Aritmetica e Geometria, guidato da Apollo, che discutono sulla
commensurabilità dei moti celesti. Aritmetica difende la commensurabilità sia per il piacere che
procura in musica che per l’utilità che rivela nella costruzione delle tavole astronomiche,
Geometria osserva invece, con la simpatia di Oresme, che l’incommensurabilità garantirebbe una
grande varietà di effetti, anche nella musica celeste. Aritmetica difende la conoscenza esatta,
Geometria sostiene invece il doversi accontentare di approssimazioni. Apollo introduce anche il
tema della impossibilità di una conoscenza esatta tramite i sensi.
L’opposizione tra continuo e discreto è comunque confermata: magnitudo…species opposita
numero, ma si sottolinea, come già Aristotele accennava, che la grandezza può tradursi nella
natura numerica: magnitudo…fit in natura numeri, quando sia rationalis et numerata, e in tal caso
scientia de numero descendit in scientiam de magnitudine.
E ci si pone il problema, rilevante perchè funzionale a questioni astrologiche, se i tempi di
percorrenza delle orbite planetarie siano commensurabili o no, osservando (molto modernamente)
che la probabilità che siano commensurabili è molto bassa, intuendo come gli irrazionali siano
molto più ‘numerosi’ dei razionali. La ‘modernità’ di Oresme appare anche nella capacità di usare
argomenti matematici per problemi fisici, ma la questione appare a noi anche abbastanza arcaica,
per il confronto tra una proposizione matematica ed una empirica in cui si ignora che la prima può
parlare di uguaglianza in senso stretto, la seconda solo di uguaglianza a meno di errori nelle
osservazioni inevitabili e imprevedibili.
Ecco, qui si intravede l’evoluzione verso la matematica e la scienza nella Rivoluzione
Scientifica. ‘Dove’ era infatti la matematica nell’antichità e nel medioevo? Era immanente, sulla
superficie del mondo, era un frammento del linguaggio naturale che trattava di alcuni attributi
delle cose, numeri interi e figure, immediatamente percepibili: per Platone era un mondo di idee
che apparivano nelle cose, per Aristotele veniva ‘astratta’ dalla realtà, in primo luogo eliminando
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la materia ed il moto. Aveva poi un ruolo cruciale nelle catene causali e quindi era la base della
scienza, e, se non era solo un insieme di tecniche, riguardava solo la verità necessaria e l’essere
immutabile.
I filosofi naturali del Medioevo avevano cominciato a vederla anche nel movimento: sarà
Nicola Cusano a vedere una ‘curva’ nel moto di un punto su una ruota che rotola, e sarà Tycho
Brahe a vedere nei cieli non più sfere fisse ma ‘traiettorie’ di corpi in moto. Nicola Oresme
arrivava addirittura a geometrizzare qualità fisiche come la velocità, la temperatura, etc., con la
imaginatione. Tuttavia esse restavano sempre immanenti anche se non normalmente percepite.
Quindi i tempi di rivoluzione planetaria erano ancora, come attributi, grandezze precise, i cui
rapporti dovevano essere, per il ‘terzo escluso’, commensurabili o incommensurabili.
Del tutto diverso il ‘luogo’ della matematica per la scienza moderna: essa svanirà dalla realtà
immanente, si collocherà nelle leggi fisico-matematiche di una realtà nascosta e profonda, nelle
innumerevoli relazioni causali che spiegano il divenire di ogni evento nel mondo reale e che per
‘sommarsi’ negli effetti dovranno assumere un carattere numerico. Questa matematica non appare
nel mondo della vita quotidiana, richiede un linguaggio autonomo per essere descritta e non
tratterà più di numeri interi e figure, quanto invece di simboli algebrici, derivate e integrali, serie e
limiti, numeri reali, infiniti e infinitesimi, termini di un mondo che nella vita quotidiana
semplicemente non esiste. E la scienza non sarà più un sistema stabile di verità riguardo le
sostanze e i loro attributi, ma diventerà un sistema per rispondere a ‘problemi’ relativi alle
relazioni tra grandezze osservabili, diventerà un metodo: un’idea che serpeggia nel cinquecento e
che poi caratterizzerà Descartes. Tre secoli dopo Hilbert sosterrà che fin quando esisteranno
problemi matematici la matematica sarà una scienza viva.
Ogni fenomeno reale sarà l’effetto di numerosissime relazioni causali scritte in forma
algebrica, e la cui misura è possibile solo in laboratorio: solo in un ambiente artificiale è infatti
possibile dipanare la matassa delle innumervoli leggi naturali che regolano la realtà, isolandole. E’
questa la distanza tra la antica esperienza (naturale e qualitativa) ed il moderno esperimento
(artificiale e quantitativo). Ed è questa la stessa logica che sovrintende alla idea di macchina,
anch’essa il luogo artificiale in cui si cerca di semplificare il sistema delle cause (eliminando gli
attriti, misurando esattamente le dimensioni, garantendo l’invarianza delle condizioni e dei
materiali, etc.) per ottenere tutti e soli gli effetti voluti. La matematica non è più ‘appiccicata’ alle
cose sulla superficie del mondo ma giace nella sua penombra, solo indirettamente e
approssimativamente da noi percepibile e utilizzabile, e per questo non avrà più senso chiedersi se
il rapporto tra i periodi di rivoluzione dei pianeti sia commensurabile o no. La nuova
‘dislocazione’ della matematica avrà effetti epocali: gli stessi aspetti estetici della musica, che fino
al seicento hanno carattere matematico ed oggettivo, entro il settecento saranno ormai del tutto non
quantitativi e soggettivi, mentre la matematica sarà solo nelle equazioni differenziali, la ‘forma
impercepibile’ delle leggi fisiche delle onde sonore.
Ed è questo sottile mutamento a rendere possibile la nascita di una teoria della probabilità,
una ‘scienza del caso’ che apparirà quasi all’improvviso verso la metà del Seicento in autori quali
Fermat, Pascal, Huygens. Infatti in un mondo di catene causali deterministiche il caso è solo una
mancanza soggettiva di conoscenza e dell’ignoranza non può esservi una scienza. Ma in un mondo
in cui ogni evento è effetto di innumerevoli causalità naturali i cui effetti si sommano, ed in cui la
scienza può solo cercare di isolarne alcune per prevederne il divenire, si può costruire una scienza
degli effetti minori trascurati e imprevedibili, degli innumerevoli ‘mondi possibili’ che in ogni
istante si aprono davanti al presente.
La transizione fra queste due diverse ‘collocazioni’ della matematica domina i primi secoli
dell’era moderna, l’alba della Rivoluzione Scientifica.
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: GALILEO
70
Col XVII secolo si apre una stagione di trionfi per la scienza moderna e per la matematica che
ne è il cuore. Il mutamento è tanto profondo che è invalsa l’abitudine di parlare di una autentica
“rivoluzione scientifica”, atto di nascita della scienza moderna.
La Rivoluzione Scientifica è un processo complesso, ma oggi spesso è descritta nei libri di
storia della scienza come il vestito di Arlecchino, il generico effetto di una zuppa di ‘fattori’
diversi, sociali, economici, tecnologici, culturali, filosofici, religiosi, etc.
C’è invece un filo rosso che la percorre tutta, e tale filo è proprio il nuovo ‘luogo’ della
matematica, descritto nelle pagine precedenti. Ed è la meccanica il centro di questa nuova
collocazione, anzi direi l’idea stessa di macchina (e di esperimento) è al centro della riflessione
per tutto il seicento.
Il pensiero aristotelico era una ‘totalità’ in cui i diversi aspetti si tenevano insieme; ragion per
cui nonostante i dubbi e le critiche cui erano stati sottoposti quasi tutti i suoi caposaldi poteva
crollare solo ‘tutto insieme’, e questo non accadde fino al seicento, quando Galileo e Descartes
smantellarono praticamente tutto l’edificio aristotelico.
Alla base di questo mutamento ci sono alcune novità che vanno sottolineate:
- il ‘divenire’ (e quindi il moto) viene inserito nell’‘essere’ e cessa di essergli opposto, e così
cessa di essere sostanzialmente una contraddizione impermeabile alla conoscenza o un segno di
imperfezione. Le dottrine tardo-medievali considerano ancora il moto una sorta di ‘qualità’ delle
sostanze ma la "quiete" tende a divenire un valore particolare (nullo) del moto, la "somma tardità"
in Galileo, e non il suo opposto, così come lo zero è un numero particolare e non l’assenza del
numero, all'interno di una idea di continuità che si estende al di là della semplice grandezza
geometrica. La sintassi della opposizione polare basata sulla negazione viene sostituita dalla
sintassi della progressiva coincidenza di grandezza e numero, basati su uguale, maggiore, minore.
E sarà come numero "variabile" che il 'divenire' aprirà la strada alla nuova scienza fisicamatematica.
- la filosofia aristotelica era basata sugli oggetti individuali la cui caratterizzazione doveva
dare conto della evoluzione. Era un pensiero di ‘sostanze’ ed ‘accidenti’ tipicamente incapace di
trattare i concetti di tipo ‘relazionale’ e ‘funzionale’. Essendo allora il moto connesso a qualche
sostanza non poteva essere relativo, né aveva senso parlare di composizione di moti
qualitativamente differenti. Questa difficoltà comincia a svanire solo con la fine della Scolastica e
crolla con Galileo. Tuttavia, fino alla metà del settecento non compare alcuna frattura tra fisicamatematica e filosofia: Galileo vorrà essere nominato ‘primo filosofo e matematico’, il capolavoro
di Newton sarà il Philosophiae Naturalis Principa Mathematica, che il recensore sul Journal des
Sçavans, osservando come lo studio newtoniano delle forze fosse matematico e l’attrazione fosse
da un ‘punto’ inesistente nella realtà e non da un ‘corpo’ reale, definirà “un’opera di meccanica ma
non di fisica”, intesa come filosofia naturale. In realtà, con le eccezioni di fisici ‘puri’ come
Galileo e Huygens, saranno praticamente sempre princìpi di natura metafisica e teologica alla base
delle leggi fisiche, da Descartes e Kepler a Leibniz e Newton.
- la connessione immediata tra realtà e conoscenza, tipica della Antichità, rimane, ma muta
lentamente il 'linguaggio di rappresentazione': dal classico ‘lessico teoretico’ di Aristotele si passa
ad un linguaggio matematico, dapprima geometrico e poi algebrico, che viene considerato del tutto
omogeneo alla realtà naturale e unico strumento per superare le discrepanze tra fenomeni soggetti
al mutamento e leggi scientifiche immutabili e necessarie, per costruire una "scienza" a partire
dall’esperimento. Di questo spostamento fa parte il rifiuto della 'logica' identificata con il
sillogismo scolastico ed in quanto tale da un lato legata ad una 'esperienza comune' opposta al
nuovo 'esperimento scientifico', dall'altro di natura puramente verbale: "insegnarvi delle parole,
ma non delle verità, che son cose" (Dialogo sui massimi sistemi, 242):
A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e
le
dimostrazioni
già
fatte
e
trovate
procedano
concludentemente; ma che insegni a trovare i discorsi e le
71
dimostrazioni concludenti, ciò veramente
(Discorsi intorno a due nove scienze, 707)
non
credo
io
Il metodo cartesiano e l' ars inveniendi di Leibniz manifestano così l'esigenza non di tecniche di
'prova' quanto invece di strumenti di 'scoperta' delle leggi naturali.
- Anche la incompatibilità tra matematica e fisica tipica dell'Aristotelismo tende a svanire. Il
personaggio aristotelico inventato da Galileo, Simplicio, tende a contrapporre la tangenza di una
retta ad un cerchio in geometria, laddove si realizza in un singolo punto, e nella realtà fisica, dove
si verifica in un intervallo. Galileo/Salviati fa notare che è ancora più difficile in realtà trovare due
corpi che si tocchino su una intera superficie che su un singolo punto.
- Il mondo 'mentale' acquista una crescente autonomia e si configura sempre più come un mondo
di 'modelli meccanici'. Di questa evoluzione è traccia lo sviluppo, notevole in Galileo, degli
"esperimenti mentali". Tra questi quello famoso che porta alla conclusione delle indipendenza
della accelerazione di gravità dal peso: consideriamo due oggetti che cadono separati e poi
collegati con una corda; non è pensabile che questo legame muti sostanzialmente il loro moto pur
essendo il nuovo oggetto dotato di un peso somma dei due pesi iniziali. Qui si nota come nel
mondo mentale galileano le proprietà dinamiche siano "analitiche", agenti cioè sui singoli
elementi indipendentemente, senza che in questa azione entrino fattori dovuti alla "totalità".
- La meccanica si caratterizza come disciplina connessa alla geometria più che come parte
della fisica. E vengono analizzate solo le proprietà meccaniche quantificabili: grandezza, figura,
numero, movimento (qualità primarie per Boyle e Locke), considerando secondarie le altre, non
quantificabili, che invece nella fisica aristotelica erano quelle principalmente caratterizzanti le
sostanze (colore, essenza, calore, umidità, potenzialità). Essa era una disciplina speciale, non solo
una scientia media, intermedia tra matematica e fisica (che restava ancora sostanzialmente
qualitativa), come l’astronomia e la musica, ma anche il terreno di una mediazione inedita tra
scienza e tecnica. Vi è assoluta continuità tra meccanica e geometria, scriverà Newton: “il metodo
è derivato immediatamente dalla natura stessa” [de methodis], fluenti e flussioni “avevano luogo
nella realtà della natura fisica”. Quella geometrica non è una ‘rappresentazione’, ma una immagine
immediata e fedele di una realtà non percepibile se non per via sperimentale e non esprimibile che
geometricamente. Per Newton non è più la meccanica una scienza mista subordinata alla
geometria, ma è la geometria una forma di meccanica, in quanto la prima si attua tramite le
operazioni meccaniche di tracciare linee e costruire figure e la seconda in più ha il tracciamento di
forze e moti.
- i ‘segni’ estendono la loro influenza oltre il commercio e la scrittura, cominciando ad investire
anche la produzione. Gli artigiani e gli ingegneri impegnati nelle grandi opere idrauliche, fortezze,
cattedrali usano principi di statica soprattutto rinverdendo la tradizione archimedea.
Progressivamente l’‘esperienza comune’ diventa l’‘esperimento’, progettato tramite segni e con
risultati quantitativi, ‘misure’ e quindi ‘segni’, e, prima di essere realizzato in ‘laboratorio’, sarà
realizzato nelle ‘officine’ (i due ambienti sono inizialmente quasi indistinguibili, ad esempio per
gli alchimisti). Così anche distinzioni aristoteliche, chiarissime all'interno della ‘esperienza’, quale
la opposizione tra moto naturale e violento, perdono di senso nell'ottica dell'’esperimento’.
Ma ancora fino al XVI secolo la tradizione sperimentale e quella matematica restano
abbastanza indipendenti: un grande sperimentatore come William Gilbert e il teorico dello
sperimentalismo Francis Bacon ignorano la matematica: già Ockham aveva capito che la quantità
era estranea alla descrizione empirica della realtà comune. E’ col XVII secolo che i due filoni
tendono a fondersi.
In Stevin il legame è esplicito: le osservazioni sperimentali (in astronomia, alchimia,
medicina) devono essere fatte da molte persone in molti luoghi diversi, e i risultati devono essere
confrontabili. A questo fine serve una lingua comune: il greco, meglio ancora il fiammingo, ma
72
l’ordine migliore di presentazione, quello che diventerà canonico, si ha con la matematica,
linguaggio comune delle osservazioni e delle leggi.
Archimede aveva usato la statica per sviluppare la geometria, e aveva anche, con Apollonio
ed altri, cercato di usare il moto per dare soluzioni ai problemi irresolubili con riga e compasso
(spirale). Tuttavia le sue idee geometriche e statiche erano state applicate da lui anche per scopi
pratici. In Grecia la matematica studiava enti immutabili, e la meccanica era solo un punto di
partenza o un ausilio da abbandonare per giungere a vera conoscenza. In Galileo l’’essere’ è
invece oggetto della meccanica e la matematica ne è lo strumento conoscitivo principe, assieme
all’esperimento. Tuttavia in Galileo compaiono pochissimi numeri, mentre vi sono molte figure
illustrate con proposizioni di stampo geometrico: in questo Galileo è un ‘rinascimentale’, al di quà
della riduzione sintattica e del nuovo ruolo dei segni che verrà realizzato dall’algebra moderna:
La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che
continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico
l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara
ad intendere la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è
scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri
son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche... (Il
Saggiatore)
L’universo è un libro matematico, e quello che c’è scritto in caratteri geometrici è la ‘filosofia
naturale’: Galileo non dice l’universo è ‘descritto matematicamente’ nel libro (della scienza) o le
leggi naturali dell’universo ‘sono scritte matematicamente’ in un libro. Tra la matematica, la fisica
e il mondo c’è lo stesso rapporto che c’è tra i caratteri, il testo e il libro. La matematica di Galileo
è quindi ancora sostanzialmente immanente, ma gli enti matematici non sono più gli attributi reali
ed immediati delle cose, sono invece la descrizione geometrica della realtà sottostante ignota, di
cui la realtà immediata comincia ad essere ormai solo la manifestazione superficiale: il ‘peso’ è il
fenomeno di una ‘gravità’ sulla cui natura Galileo non si pronuncia, ma della quale descrive la
struttura matematica. Le differenze tra matematica e realtà non sono più dovute alla presenza della
materia che perturba le pure forme geometriche, ma al fatto che diversi aspetti geometrici
descrivono diverse causalità, e la realtà percepita ne è la somma. I pianeti allora, con tutte le loro
irregolarità mostrate dal telescopio, sono corpi geometrici a tutti gli effetti, quanto la più perfetta
delle sfere.
Per Galileo la matematica era la ‘geometria’, poichè fino all’ottocento la matematica era
centrata sulla geometria e l’aritmetica svolgeva un ruolo marginale, mentre quella formulazione di
funzioni per via simbolica che noi chiamiamo solitamente ‘algebra’ prima di Descartes era
sostanzialmente assente e dopo Descartes trovava il suo senso solo nella geometria analitica.
Il linguaggio è quasi sempre il volgare. Particolarmente significativo è il superamento della
dicotomia essere/non-essere, non solo nella idea di quiete/moto (ad esempio rifiutando l’obiezione
avanzata al cannocchiale secondo la quale avrebbe trasformato oggetti invisibili in visibili,
trasformando il non essere in essere). La velocità inoltre non è ancora esplicitamente un rapporto
tra spazio e tempo, si possono solo fare rapporti tra grandezze omogenee, secondo la tradizione
euclidea.
Tuttavia questa rappresentazione, quando applicabile, è assolutamente certa, "così assoluta
certezza, quanto se n'abbia l'istessa natura": di queste conoscenze Dio ne conosce di più, le
conosce per semplice intuito e non "con discorsi e con passaggi", ma non per questo le sue sono
più certe.
La continuità del moto è forse il problema matematico più evidente in Galileo.
Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo ne osserva i caratteri matematici: nel
moto di un grave lanciato verso l’alto è evidente che ad un certo punto esso si ferma e poi
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comincia a cadere. Per quanto tempo si ferma? Per un solo istante? E nell’istante successivo alla
quiete con che velocità si muove? Simplicio trova difficoltà ad accettare che un oggetto che cade
“passi per tutti i gradi di velocità inferiori a qualsivoglia grado di velocità”, “senza restar pure un
momento stazionario”. Come è possibile concepire un passaggio continuo dalla quiete al
movimento, dal nulla al qualcosa, dal non essere all’essere, passando per infiniti gradi di velocità:
si intravede l’idea di velocità nell’istante e quindi si sentono i paradossi di Zenone, tanto l’Achille
quanto la freccia.
Il grave passa invece per tutti i gradi di velocità: Salviati spiega che il passaggio avviene
“senza dimorare in veruno”, dando così realtà fisica all'istante e la quiete, “somma tardità” viene
così immersa nel moto. Questo è un passaggio cruciale: moto e quiete cessano di essere opposti, e
la quiete diviene un particolare moto. Questo si ritroverà confermato in Descartes; in Leibniz
l’omogeneità di moto e quiete caratterizzerà la possibile mutua trasformazione ‘continua’.
a
a
n
s
n
s
fig.18
E’ questa l’idea cruciale, più che la legge del moto per cui lo spazio percorso dal grave cresce
col quadrato del tempo. Occorre ricordare che Galileo non conosce il ‘numero reale’ ed alle spalle
ha una tradizione in cui la velocità cresceva di un gradus alla volta. Lo zero non esiste, al suo
posto c’è il non gradus, ma non è solo un problema di termini, semplicemente non c’è un numero
zero che separi i positivi dai negativi, come un punto su una retta la divide in due semirette.
Caratteristico di questa difficoltà è un diagramma (a sinistra in fig.18) in cui Galileo illustra il
problema con un intervallo ns che si muove nella direzione della freccia sino ad annullarsi nel
vertice a, che si presenta come una sorta di limite, passando con continuità per tutti i valori
intermedi. La fig.18-destra in Galileo non esiste, non può esistere: in essa a sarebbe lo 0 che
divide positivi e negativi. Quello che Galileo concepisce è una sorta di processo di rallentamento
al limite dalle grandezze finite (di grado in grado?) fino al non gradus: la nuova idea di ‘numero’
basata sul numero reale richiederà tempo per affermarsi del tutto.
Riguardo all’infinito Galileo conserva la tesi tradizionale secondo la quale: “...dell’infinito
una parte non è maggiore dell’altra”, ma parla ormai esplicitamente di un infinito attuale. Anche
sui concetti geometrici che saranno cruciali per la nascita del calcolo infinitesimale (come la
tangente), Galileo non ha nessun timore nel parlare dell'infinito e dei limiti, anche se in senso
ovviamente ancora solo intuitivo.
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Nei Discorsi intorno a due nuove scienze egli analizza l’esperimento mentale della ‘rota
Aristotelis’, sostituendo un esagono al posto della ruota e scoprendo così che se rotola la figura
maggiore, la minore deve fare delle specie di salti. Se i lati sono mille essa è “interrottamente
composta di mille particelle uguali a i suoi mille lati con l’interposizione di mille spazi vacui”,
quando il poligono diventa un cerchio, quello maggiore ha infiniti lati e quello minore ha i lati e i
vacui infiniti, in tutti i casi ‘non quanti’, cioè inestesi. Vengono rifiutati gli ‘strascicamenti’ perchè
essi sarebbero infiniti e quindi realizzerebbero una linea infinita. Occorre immaginare al limite "i
lati non son quanti, ma bene infiniti, così gli interposti vacui non son quanti, ma infiniti", e la linea
va immaginata "risoluta in parti non quante, cioè nei suoi infiniti indivisibili,… distratta in
immenso senza l'interposizione di spazi vacui quanti, ma sì bene d'infiniti indivisibili vacui", la
‘condensazione e rarefazzione’ si traduce in “infiniti indivisibili ritiramenti” nella linea disegnata
dalla figura maggiore. E questa di Galileo è l’unica caratterizzazione ‘geometrica’ non intuitiva
Fig.19
del concetto di continuità che si trova nella storia della matematica: nell’antichità il concetto era
fisico e qualitativo, nell’era moderna esso diventerà un concetto aritmetico (fig.19): l'idea di
continuità non riesce ancora a trovare una espressione credibile nella fisica rinascimentale.
Allo stesso modo si confrontano due linee: entrambe hanno infiniti punti pur essendo di
diversa lunghezza. Difficoltà ottenute “dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e
terminate”. Poi c’è l’esempio degli insiemi degli interi e dei quadrati degli interi, che si possono
porre in corrispondenza biunivoca pur essendo il secondo sottoinsieme proprio del primo: “gli
attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo negl’infiniti”. “Le parti quante nel continuo
terminato... non esser nè finite nè infinite”. Poi fa un altro esempio: quello del cerchio che cresce e
si trasforma in una retta da un lato, in un punto dall’altro.
Di fronte a quello che Leibniz chiamerà il "labirinto del continuo" appare ragionevole la
antica sfiducia aristotelica sulla applicabilità della matematica alle cose fisiche, come commentava
Simplicio obiettando che “son cose matematiche, astratte e separate dalla materia
sensibile...applicate alle materie fisiche e naturali non camminerebbero secondo coteste regole”.
Simplicio riprendeva argomenti protagorei per distinguere il cerchio matematico da quello reale,
ma Galileo rispondeva che la sfera o il piano reali erano sì irregolari ma forme geometriche non
meno ‘precise’ del cerchio o del piano matematici: era a caccia di leggi matematiche reali come
sostanza del reale, anzi per lui proprio del non matematico era l’essere soggettivo, e avvalorava la
tesi di enti composti di infiniti elementi indivisibili, anche se era acutamente consapevole dei
rischi che si correvano nel concludere con la realizzazione di processi attualmente infiniti: appare
in lui una duplicità tra l'aspetto dinamico, il processo potenzialmente infinito di suddivisione, e
l'aspetto statico, l'infinito attuale, il limite del processo.
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C’è l’esempio particolarmente fascinoso della ‘scodella’ e ‘cono’ in cui “la circonferenza di
un cerchio immenso possa chiamarsi uguale a un sol punto”, in quanto allo stesso tempo bordo
A
O N
N
C
L
B
P
F
E
Fig. 20
della scodella e vertice del cono. (Discorsi intorno a due nuove scienze, 598); in fig.20: il
semicerchio AFB ruotando intorno all'asse FC descrive una semisfera, il triangolo CDE descrive
un cono, il rettangolo ABED un cilindro. Si vede, per ogni punto P sull'asse, con semplici calcoli
che l'area del settore circolare formato nella rotazione da ON è uguale all'area del cerchio di raggio
PL. Questa relazione vale per ogni P, e in particolare per C, laddove il settore circolare diviene
una circonferenza e il cerchio diventa un punto
Lo stesso principio di inerzia nasce dalla completa liceità, anzi dalla fertilità scientifica,
dell'idea di "infinito". Galileo vi arriva infatti immaginando un piano inclinato la cui inclinazione,
diventando infinita, lo rende piano orizzontale, e soltanto su tale piano 'ideale' il principio si
manifesta. Ed è solo a questo limite all'infinito che il moto, conservandosi, finalmente passa dal
regno del divenire e della contraddizione nel regno dell'essere e della scienza. L'infinito è il luogo
in cui si rompono le opposizioni aristoteliche, così che un cerchio di raggio crescente, all''infinito'
diventa una retta.
Tuttavia, anche qui, nelle possibilità di una trattazione matematica, l'infinito resta limitato alla
sua manifestazione potenziale e soprattutto 'cinematica', carattere questo che conserverà fino
all'Ottocento, ma già ora l'infinito attuale è 'dicibile', anche se ad esso non si possono applicare
concetti e proprietà delle quantità finite. Per trattare il continuo al di fuori dei vincoli aristotelici
Galileo, alla questione della composizione del continuo, cui gli Aristotelici rispondevano
classicamente esservi parti finite in atto, infinite in potenza, risponde:
non esser né finite né infinite… tra le finite e le infinite
ci sia un terzo medio termine, che è rispondere ad ogni
segnato numero (Discorsi intorno a due nove scienze, 607)
LA “RIVOLUZIONE SCIENTIFICA”: L’ALGEBRA
Nel Seicento muta anche il sistema delle istituzioni scientifiche: tramonta il sistema delle
scuole d’abbaco e le università diventano sempre più ininfluenti (Galileo e Newton saranno
inizialmente universitari, ma lasceranno le università per altri incarichi). Il dibattito culturale si
trasferisce nelle Accademie che fioriscono ovunque nel seicento, le quali sono poi la punta
dell’iceberg di una intensa corrispondenza interpersonale tra i principali uomini di scienza.
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Rispetto alla tradizione medievale vi è una svolta radicale soprattutto sui fondamenti della
matematica, anche se i successi pratici metteranno un po’ in ombra tali aspetti fondamentali,
mentre la nuova fisica si fonda rielaborando temi di filosofia naturale.
Un primo dato importante che si riscontra da Descartes a Newton è l’idea diffusa che la
conoscenza degli enti matematici proceda direttamente dalla osservazione del reale, quasi
naturalmente, tramite un corretto metodo scientifico. Per Galileo il linguaggio matematico è quello
del libro della natura, per Descartes basta affidarsi alle idee “chiare e distinte”, per Newton le
nozioni del calcolo appaiono quasi immediate dalla osservazione scientifica. In Descartes le idee
matematiche appaiono praticamente innate e organicamente legate alla immediata percezione del
cogito, in Leibniz sono derivare immediatamente dai principi logici in quanto sostanzialmente
analitiche, tautologie, e quindi ancora una volta immediate. Strano, poiché tali enti non sono più
attributi della conoscenza comune, numeri e figure, ma enti strani, non percepibili nella realtà
quotidiana: segni algebrici, serie infinite, numeri reali, derivate e integrali, equazioni e funzioni.
Così tanto il problema ontologico quanto quello epistemologico si riducono al solo problema
metodologico.
E' noto che la geometria analitica di Descartes segna un nuovo rapporto tra algebra e
geometria, tra una nuova notazione e la tecnica delle coordinate geometriche, sviluppatesi nei
secoli precedenti con saltuarie mutue connessioni, ma che solo in Descartes troveranno la struttura
di un linguaggio, destinato a segnare la storia della scienza moderna. Sarebbe tuttavia impreciso
dire semplicemente che la geometria analitica segna l'applicazione dell'algebra alla geometria,
poiché proprio della ‘trasfigurazione’ dell’algebra stiamo parlando.
Sappiamo che algebra e geometria teoretica provenivano dalle due anime diverse della
matematica greca: l'algebra discendeva dalla matematica pratica di origine babilonese, preservata
e sviluppata dagli algebristi arabi ed italiani nel Medio Evo nella teoria della risoluzione delle
equazioni, sempre con un doppio approccio, da un lato puramente sintattico dall'altro tramite le
tecniche dell'antica aritmogeometria.
La geometria era rifiorita invece con le nuove edizioni di Euclide, Archimede, Apollonio,
Pappo. I suoi temi più dibattuti erano centrati sui 'loci' e sul calcolo di aree e volumi, ed anche la
Geometrie cartesiana parte da un problema relativo ad un 'locus', studiato da Pappo.
In questa nuova sintesi l'"incognita", numero ignoto nella tradizione algebrica, diventava la
“grandezza generica” costitutiva del ‘locus’ e poi la "variabile", punto che 'genera' la linea. La
"proprietà" legata allo studio dei 'luoghi' geometrici doveva diventare la "equazione" algebrica. Il
"punto" della curva doveva diventare la coppia di "coordinate", numeri reali.
Questa novità appare in Francia all’inizio del Seicento, e Viete, Fermat, Descartes hanno
radici culturali del tutto diverse dagli algebristi italiani. Questi avevano una formazione
matematica e meccanica, spesso molto pratica, e talora erano collegati a facoltà come medicina. I
francesi invece hanno una formazione giuridico-retorica e filosofica, e sono amateurs della
matematica.
Il bagaglio tecnico da cui partono italiani e francesi non è molto diverso, ma c’è tra di essi una
grande differenza: la notazione algebrica degli italiani si trasforma nei francesi in un linguaggio
algebrico. Per la prima volta nella storia la matematica si dota di un suo autonomo linguaggio
simbolico (la costruzione geometrica era stata solo una presentazione iconica ed il lessico euclideo
era interno al linguaggio naturale).
Vediamo come cambia l’espressione di una equazione dalla metà del cinquecento alla
Geometrie di Descartes (1637). Erano già comuni i simboli per le operazioni aritmetiche, in
aggiunta Bombelli scriveva un’equazione come
“agguagliasi 13+27 a 62 ”
Viete invece scrive
“aggiungere Z a A piano/B, la somma sarà (A piano) + (Z in B)”
77
B
Descartes infine scriverà
“ z2  a z + b b”.
Bombelli ha una notazione in cui può esprimere i polinomi ( è la incognita) e poi una parola
(‘agguagliasi… a…’) per esprimere l’equazione. Viete estende la notazione per esprimere attributi
dei termini (‘piano’ esprime che la grandezza A è bidimensionale) ed ha lettere tanto per le
costanti che per le incognite, ma sarà Descartes a fare della equazione una ‘proposizione’ in un
nuovo linguaggio totalmente simbolico ( è il segno di uguaglianza).
Cambia anche il ruolo della x, la cosa degli algebristi rinascimentali. Per questi essa era
ancora semplicemente la grandezza incognita, tra gli algebristi francesi essa diventerà anche la
grandezza generica, con cui rappresentare curve e luoghi geometrici, e i suoi quadrati e cubi
diventeranno ‘potenze’. Più tardi, quando la meccanica imporrà il trattamento geometrico del
divenire, diventerà anche la grandezza variabile per esprimere le grandezze fisiche.
Sempre più evidente l’isomorfismo tra l’algebra geometrica e quella simbolica. In Viete
domina l’equivalenza tra diversi linguaggi: quello geometrico, quello algebrico, quello meccanico,
quello delle proporzioni, senza una gerarchia.
Poi apparirà sempre più netta la centralità di quello simbolico, la quale appare anche nello
sviluppo del concetto di ‘numero’: il ‘numero reale’ già apparso nella generalizzazione degli
algoritmi numerici e nella notazione decimale di Stevin. Ora il simbolo algebrico, sin da Diofanto
considerato un simbolo aritmetico, appare rappresentare una ‘grandezza’ ed il ‘numero reale’
appare come la sua istanziazione metrica. Ma alcune equazioni mostrano soluzioni formali che
non paiono ‘grandezze’. In primo luogo soluzioni negative, e poi soprattutto, con l’autonomizzarsi
delle tecniche di manipolazione algebrica, appare anche l’idea di ‘numero immaginario’.
Questa estensione si lega all’intuizione, che verrà dimostrata successivamente da Gauss, che
una equazione di n-esimo grado ammetta n radici, anche se non tutte distinte. Ma esistevano
invece equazioni di secondo grado senza soluzioni o di terzo con una sola soluzione, e già Rafael
Bombelli si era accorto che esistevano equazioni di III grado la cui unica soluzione appariva
immaginaria, ove soluzione ‘immaginaria’ era la soluzione formale che conteneva la √(-1), il
numero immaginario che verrà poi indicato con i, per formare numeri complessi, ottenuti come
somma formale di un numero reale e di uno immaginario: a+ib. E soprattutto di poterla mostrare
equivalente ad una reale manipolando algebricamente la soluzione che dall’algoritmo appariva
complessa. Infatti l’quazione x3 = bx + c ammetteva come soluzione:
x= 3 {c/2 +  [(c/2)2 – (b/3)3]} + 3 {c/2 -  [(c/2)2 – (b/3)3]}
la quale per (c/2)2 < (b/3)3 dà una somma di radici di numeri complessi. E tuttavia dalla
manipolazione algebrica si otteneva una soluzione reale, e questo in un certo senso mostrava una
certa ‘omogeneità’ dei numeri complessi con quelli reali.
All'inizio della sua Geometria Descartes introduce l' "unità di misura" e la procedura con cui
definire un segmento la cui 'misura' è il prodotto della 'misura' di due segmenti, segnando così la
fine della "legge di omogeneità" e l'inizio della natura relazionale dell'idea di 'misura' che quindi
assume il carattere di un numero 'adimensionale' di unità di misura 'dimensionali'. Questo viene
realizzato con la costruzione già introdotta da Bombelli che sostanzialmente inverte la costruzione
dei razionali in Euclide (vedi fig.17(c)). In Aristotele il concetto di "misura" era tout court il
numero di unità di misura la cui natura sostanziale implicava la natura sostanziale della misura,
ora la misura acquista invece un senso ‘relazionale’. Il crollo dell'impianto 'sostanzialistico' apre
anche la strada alla analisi dell'aspetto relazionale di concetti essenziali, quali l'"uguaglianza" o la
"causa/effetto" che erano rimasti difficilmente trattabili nella logica aristotelica. E la legge di
omogeneità scompare così a livello simbolico ma non semantico, se è vero che per trarre la radice
cubica di una espressione come a2 b2 -b, "si deve considerare la prima quantità divisa per l'unità e
la seconda moltiplicata due volte per l'unità."
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L’algebra ed il numero reale segnano la fine della opposizione tra tradizione pratica e teorica,
e anche di quella tra geometria/continuo e aritmetica/discreto. Appare una disciplina ‘algebrica’,
talora chianata mathesis (o arithmetica) universalis, che tratta delle ‘grandezze’ in generale,
indifferentemente aritmetiche o geometriche.
Quegli ‘algebristi’ francesi in realtà preferivano definirsi ‘analisti’, poiché si richiamavano
alla ‘analisi’ (in contrapposizione alla ‘sintesi’) di cui si è parlato a proposito della matematica
greca. Addirittura c’era tra di essi l’impressione di stare riscoprendo tecniche ‘analitiche’, nascoste
dai loro antichi autori. Ma in realtà l’antica coppia analisi/sintesi si sovrappone nel seicento da un
lato alla distinzione di origine aristotelica tra ‘composizione’ (procedere dall’universale al
particolare, secondo l’ordine naturale) e ‘risoluzione’ (procedere dal particolare all’universale,
secondo l’ordine della conoscenza), dall’altro alla alternativa tra algebra simbolica e geometrica.
L’approccio geometrico appariva quasi sempre sintetico (anche se il tentativo di una analisi
geometrica appare in Newton), e quello algebrico sempre analitico. Così che la procedura sintetica
non era semplicemente l’inverso di quella analitica, ma talora era la semplice ricostruzione
geometrica della soluzione simbolica o una procedura del tutto diversa. In generale più che l’antica
opposizione analisi/sintesi trionfa l’idea di Viete di una generale intertraducibilità tra i diversi
linguaggi matematici, ed è in realtà quella tra metodi algoritmici simbolici e metodi geometrici
l’alternativa principale che appare nella nascita della nuova scienza nel XVII e XVIII secolo.
Sia Viete che Descartes fanno riferimento a Pappo, ma il primo per le sue idee metodologiche
sulla 'sintesi' e la 'analisi', su 'teoremi' e 'problemi', il secondo per uno specifico, classico problema
di ricerca di un "luogo" geometrico. Rappresentando i punti tramite coordinate il nuovo linguaggio
assume una autonomia inedita così che è la stessa geometria ad assumere per la prima volta una
forma simbolica.
La Geometrie di Descartes è quanto di più diverso si possa immaginare dalla geometria di
Euclide: niente assiomi e postulati, niente definizioni, niente teoremi. Inizia semplicemente con la
descrizione dell’isomorfismo tra operazioni aritmetiche e operazioni geometriche, tra cui il
prodotto, poiché occorreva fare si che il prodotto di due intervalli fosse un intervallo e non un
rettangolo, e la soluzione di Descartes è proprio quella intuita da Bombelli (fig.13 destra (c)).
Bastano questi caratteri (niente struttura assiomatico-deduttiva, niente principio di omogeneità) a
confermarci come l’algebra simbolica derivasse dalla tradizione pratica. Ma per Descartes il
metodo, e quindi l’algebra, ha un ruolo centrale, e così, diversamente da Viete, questa volta c’è
una gerarchia: è la geometria che sempre più deve essere ‘tradotta’ in linguaggio algebrico.
Anche quando esplicitamente richiesto, nelle Seconde Obbiezioni, di dare struttura euclidea
alle sue Meditationes, la realizzazione di Descartes è solo apparentemente tale: sono
esplicitamente elencate in maniera ordinate le stesse "riflessioni" e "considerazioni" presenti nella
versione originale, come se la differenza tra il suo metodo e quello euclideo fosse solo quella tra
quelle che gli antichi greci chiamavano "analisi" e "sintesi", mentre invece in gioco vi è la
sostituzione della semplice deduzione con un metodo. Qui appare la diffidenza, comune a gran
parte del pensiero scientifico post-scolastico, verso il processo 'sintetico' della tradizione
aristotelica ed euclidea. La svolta è epocale: la scienza non è più un riflesso del mondo, sintetica in
quanto dimostrativa, dimostrativa in quanto il sillogismo è l’immagine della relazione di
causa/effetto. La scienza è un processo attivo di interrogazione e soluzione di questioni, analitica
in quanto sono le questioni a guidare l’indagine.
Fermat e Descartes riescono ad associare equazioni a curve, distinguendo le curve
geometriche da quelle meccaniche sulla base della esistenza di una singola equazione algebrica tra
intervalli che la descrive (così ad esempio la spirale non è geometrica poiché non posso
rappresentarla senza coordinare un moto rettilineo con uno circolare). E Descartes classificherà le
curve dapprima sulla base di criteri geometrico-meccanici, quali la semplicità della macchina per
tracciare la curva, ma alla fine si baserà soprattutto sul grado dell’equazione.
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Nella geometria nel Seicento francese non c’è solo la ‘analisi’ di Descares e Fermat, un altro
capitolo importante è la ‘geometria proiettiva’ di Desargues e Pascal. Essa appare legata ad una
doppia origine: la teoria delle sezioni coniche sviluppata nell’antichità e la prospettiva apparsa
nell’arte e nell’ingegneria rinascimentale. In entrambi i casi la collocazione del ‘centro di
proiezione’ rispetto al ‘piano di proiezione’ modifica la figura ottenuta dalla proiezione (un
cerchio diventa un’ellisse, rette parallele diventano convergenti). Ed appare l’esigenza di
considerare ciò che nella descrizione del mondo esterno rimane invariante al variare del ‘soggetto
che conosce’ e che misura le grandezze, una esigenza che caratterizzerà la geometria moderna nel
suo rapporto con le scienze fisiche fino alla teoria della Relatività. E’ in fondo l’antica esigenza
che la ‘scienza’ sia intersoggettiva, la stessa per tutti gli esseri razionali.
Fig.21
A Desargues si deve un teorema della geometria proiettiva che ha sempre attirato l’attenzione
dei matematici: “Se due triangoli sono in prospettiva da un punto, allora i tre punti di intersezione
dei lati corrispondenti sono allineati, e viceversa” (fig.21). Il teorema è ovvio nello spazio, nel
quale può essere dimostrato facilmente dagli assiomi di incidenza. Nel piano invece stranamente
la dimostrazione è più complessa, richiede l’assioma di congruenza tra i triangoli, a meno che non
venga ottenuta come semplice proiezione del teorema dallo spazio sul piano.
IL RAZIONALISMO E IL NUMERO REALE
Caratteristica dell'epoca è la tematizzazione della funzione della mente nella conoscenza, ma
diversamente dalle tendenze materialiste, sensiste ed atomiste, quali si riscontrano con Hobbes e
Gassendi, in Descartes la mente, sotto le insegne del "pensiero", acquista una autonomia inedita,
cessando di avere quel ruolo 'derivato' dai sensi che aveva avuto nella Scolastica: nihil est in
intellectu quod prius non fuerit in sensu. A cui Leibniz aggiungerà nisi intellectus ipse. Per
Descartes sono in primo luogo l' "io" e le idee di Dio e anima che non sono nei sensi, sono idee
innate che derivano direttamente dal 'dubbio' cartesiano.
Caratteristico del pensiero cartesiano è poi il dualismo tra estensione e mente. La divisione
in parti era tipica dei corpi, assurda per l’anima. Il cogito ergo sum è la via di ingresso alla
scoperta del "soggetto" e dell'anima come irriducibili alla pura estensione.
E’ la ‘ghiandola pineale’ il luogo ‘ufficiale’ in cui per Descartes si incontravano lo spirituale
e il materiale. Tuttavia nella sua matematica questo ruolo di collegamento viene svolto dal segno
algebrico: oggetto ‘ideale’ in quanto infinitamente riproducibile in istanze identiche e
perfettamente distinguibile, oggetto ‘reale’ nell’essere del tutto manipolabile e reperibile. E’
l’inizio di un processo che culminerà tra XIX e XX secolo nella aritmetizzazione della analisi,
nella logica matematica e nella computer science.
La continuità contrassegna invece l'essere, nella descrizione spaziale come linguaggio
geometrico e rifiuto del vuoto, nella descrizione temporale come differenza rispetto al 'sogno'. Ed
è il ruolo cardine dell'estensione intesa come sostanza del reale che garantisce la riducibilità
matematica della natura e così la ricostruzione della armonia tra verità ed essere.
La geometria cartesiana è il registro sul quale si creerà il concetto di modello geometricomeccanico del reale e che avrà nel settecento una forma sintattica in quelle leggi algebriche della
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natura che si svilupperanno insieme alla analisi matematica. La grande idea del paradigma di
Descartes consisteva proprio nell’identificare l’algebra, oggetto generale della sua ‘mathesis
universalis’ a base simbolica, con la sostanza del mondo basata sulla ‘estensione’, e quindi legare
algebra e geometria e, nel contempo, geometria e realtà, proponendo un nuovo ‘programma’
complessivo della conoscenza matematica della natura, il primo dopo quello di Pitagora, anche se
Descartes non riuscirà ancora a dare forma algebrica alla sua descrizione matematica della realtà.
Il meccanicismo richiedeva una riorganizzazione del mondo delle "qualità" che
nell'aristotelismo era il centro della fisica e si opponeva al mondo delle "quantità". Erano qualità
infatti anche il caldo, il peso e il movimento, quest'ultimo poteva essere solo 'quantità accidentale'
in quanto spazio nel quale si è svolto il moto in un certo tempo. La "quantità" tende a comprendere
tutti i "sensibili comuni" (poiché non legati ad un singolo organo di senso) della filosofia
aristotelica: moto, quiete, numero, figura che verranno ricostruiti, per analogia con l'estensione,
come numeri reali e diventeranno gli "attributi primari e oggettivi” della fisica rinascimentale,
relegando fuori della fisica gli altri "secondari e soggettivi” come il colore, l'odore, il sapore, etc.
Alcuni di questi, come il colore o la temperatura, verranno progressivamente introdotti tra le
grandezze quantitative durante lo sviluppo della fisica moderna.
La costruzione del "numero reale" è connessa alla nascita della geometria analitica, un'idea
che rimase del tutto estranea alla matematica greca ed 'emerse' lentamente nel cuore della
matematica e della cultura, o addirittura dell'uomo, medievale. Scriveva Coolidge che
L'opinione corrente tra i matematici è che la geometria
analitica spuntò con tutte le armi dalla testa di Descartes
come Atena da quella di Zeus. 'Proles sine matre creata' è
l'espressione pittoresca di Chasles per dire la stessa cosa
(History of geometrical methods, 117)
Forse l'opinione corrente sarebbe quella della scoperta di qualcosa platonicamente 'esistente in
sé', implicita già nella matematica più antica, e semplicemente 'scoperta' con lo sviluppo della
scienza europea e del ruolo giocato in essa dalla matematica. Eppure la geometria analitica ha nel
suo DNA il segno di una origine non semplicemente 'tecnica': occorre infatti anche ricordarsi che
la Geometrie di Descartes appare nel 1637 come 'essai', quasi appendice di quell'opera filosofica
ma anche antropologica cruciale per la storia del pensiero europeo moderno che è il Discourse de
la methode.
Il ‘numero reale’ emerge lentamente in maniera intuitiva come parte intera e sequenza
infinita di decimali, che sembra apparire tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo in Stevin e
in Descartes, e del quale l'idea di 'approssimazione' numerica di quantità inesprimibili in maniera
finita era parte integrante, ma senza trovare una vera sistemazione fino al XIX secolo, ma sempre
più ‘presente’ nella pratica del calcolo e dell’algebra. Occorre a questo punto cercare di delineare
la nuova forma che il "numero reale" conferisce alla conoscenza scientifica moderna in una
evoluzione iniziata nel Rinascimento e completatasi il secolo scorso.
Di tale idea qualche segno era già apparso nella matematica greca. Che  fosse una grandezza
approssimabile con numeri e frazioni (fra 3 1/7 e 3 10/71) è esplicito in Archimede (Misura del
Cerchio, 3), anche se non vi è la consapevolezza, che pur si aveva per i rapporti tra grandezze
incommensurabili, di una sua 'irrazionalità', meno che mai di una sua 'trascendenza'.
Ma la difficoltà a trattare l'”infinito attuale”, che, così come il “punto”, finiva col divenire una
'breccia' aperta all'ingresso della confusione tra essere e non essere nella pura "dottrina
dell'essere", rendeva impensabile lo studio matematico del "continuo".
Rispetto alla aritmetica greca, soprattutto nella sua ultima forma diofantea, appare il
superamento del numero come eidos: non è più un ente astratto, intermedio tra forma ideale e
81
realtà o comunque derivato da quest'ultima nella sua descrizione linguistica comune, ma diventa
da un lato un linguaggio di rappresentazione della realtà fisica nella forma della misura, dall'altro,
nella sua forma algebrica e simbolica, diventa un "ente" autonomo, ingrediente essenziale
dell’algoritmo, manipolabile attraverso regole sintattiche. Quindi l’astrazione non genera la
‘species’ ma il simbolo, la ‘variabile’. E l’estensione in Descartes, per la sua natura simbolica è
oggetto dell’algebra, per la sua natura reale è la sostanza del reale e questo ne garantisce la natura
'rappresentativa' e, per così dire, 'condensata' nella funzione di base del processo di misura.
E, più che semplici numeri determinati di unità, Stevin tratta illimitate possibilità di
combinare cifre per definire regole di calcolo. Così le quantità divengono simboliche, numeri e
grandezze coincidono. Il segno non serve solo a memorizzare, ma viene trattato come un numero,
oggetto di manipolazione sintattica negli algoritmi di calcolo.
Tende a svanire la frattura fra le diverse forme di "grandezza" tipiche della matematica greca
(numeri, rapporti, grandezze geometriche anche incommensurabili). Ancora in Stevin (1548-1620)
si distinguono numeri aritmetici e geometrici (con dimensione), la stessa distinzione in Viete porta
alla legge di omogeneità, la quale scompare solo in Descartes con l’idea della geometria analitica,
in cui l’esistenza di una ‘unità’ predeterminata rende tutte le ‘grandezze’ omogenee nel loro
carattere simbolico, come visto precedentemente. Anche qui si vede una nuova "contaminazione"
tra l'unità numerica ed il continuo geometrico, impensabile nella matematica greca dove i due
universi apparivano rigidamente separati tanto che anche gli aspetti 'metrici' degli Elementi
avevano sempre un carattere 'non numerico'. Sarà questa infatti l’idea base di “numero reale” da
Stevin a Newton fino a Cauchy: il rapporto tra due grandezze omogenee.
Il ‘continuo aritmetico’ appare in quegli stessi anni con l’idea del numero reale, un’idea che
era stata impensabile fino a pochi decenni prima e che rapidamente ora diventava ovvia, tanto
ovvia che nessuno si doveva preoccupare di definirla precisamente prima dell’ottocento.
Gran merito per questo si deve a Simon Stevin, tipica figura di quest’epoca di transizione tra
cinquecento e seicento. Ingegnere e matematico, come tanti personaggi importanti per la storia
della matematica di questi anni, in cui la matematica pratica si sovrappone con le questioni
teoricamente più nuove. Altri personaggi simili (Bürgi, Napier) in quegli stessi anni avevano
tabulato le funzioni trigonometriche e introdotto (e tabulato) i logaritmi per facilitarne le
operazioni. Questa pratica aveva reso familiari gli uomini dell’epoca con numeri indefinitamente
‘lunghi’ in quanto quelle tavole, diventando sempre più precise, utilizzavano un numero crescente
di cifre significative. Erano in genere approssimazioni e l’uso pratico di rapporti irrazionali aveva
reso coscienti che esistevano ‘grandezze’ la cui misura numerica esatta non si poteva esprimere
finitamente, ma la cui approssimazione numerica si poteva dare con qualsiasi precisione
desiderata. A questo punto Stevin introduce la notazione decimale potenzialmente illimitata,
praticamente la stessa che usiamo oggi.
Stevin usava come pratica computazionale le frazioni decimali e realizzava l’esistenza di
frazioni, come 1/3, la cui scrittura richiede infinite cifre, con un uso notazionale che scontava la
sostanziale accettabilità dell'infinito potenziale, e John Napier introdusse la moderna notazione
decimale con il punto separatore. La rappresentazione del numero reale è basata sul sistema
decimale e posizionale, praticamente superiore a quello greco e a quelli degli altri popoli della
antichità. Appaiono così numeri approssimati e potenzialmente infiniti: dopo che la trigonometria
era stata sviluppata da Johannes Mueller Regiomontanus (XV secolo), i logaritmi sono scoperti da
John Napier (1614), il regolo calcolatore inventato da William Oughtred (1622). Nella prima metà
del XVII secolo la nostra notazione decimale e le relative tecniche computazionali potevano dirsi
ormai completate.
Occorre qui anche ricordare che nella matematica greca le frazioni, quando non fossero
grandezze numeriche sessagesimali, erano per così dire 'schizoidi' tra una caratterizzazione
geometrica come "rapporto" di natura non numerica ed una caratterizzazione numerica la cui base
82
computazionale era ancora quella della tradizione pratica, in cui i calcoli con le frazioni
richiedevano uso di procedure e notazioni varie e prive di basi scientifiche.
Ma quello che più colpisce è che questa innovazione nella notazione si affianca alla intuizione
del continuo numerico e alla completa scomparsa della opposizione tra continuo e discreto. E’
asserita la "comunanza e similarità…quasi identità" tra grandezza e numero, e di conseguenza i
numeri sono strutture continue e non discrete, e quindi non solo le frazioni ma anche gli irrazionali
sono numeri.
Ad una grandezza continua corrisponde il numero continuo che
gli è assegnato… il numero è per la grandezza come l'umidità
per l'acqua: penetra come questa in ogni parte dell'acqua; e
come ad una acqua continua corrisponde una continua umidità,
così ad un numero continuo corrisponde una grandezza
continua (L'arithmetique)
La sottrazione di un numero coincide con l’addizione di un numero negativo, ed in generale è
la possibilità di estendere le "operazioni" sui numeri a permettere l'estensione del concetto di
numero. Già Leonardo Fibonacci (inizio XIII secolo) aveva introdotto le frazioni infinite. La
rappresentazione dei numeri irrazionali tramite somma di infiniti razionali diventa quasi
paradigmatica in Leibniz, che ad essa paragona la conoscenza dei concetti, alcuni dei quali
richiedono una analisi infinita e che quindi solo Dio può realizzare compiutamente.
L’unità diventa un numero in quanto “la parte è dello stesso materiale” del tutto. Non l’unità,
ma lo zero è “il vero e naturale principio”, esso, e non l’unità, è l’analogo del punto geometrico,
principio della linea ma non linea (Stevin). L’unità per gli antichi era ‘principio del numero’,
indivisibile, per i moderni è grandezza continua, e per gli antichi solo gli interi erano numeri,
mentre ora il numero è soprattutto un rapporto, quindi adimensionale, e l’aritmetica è in primo
luogo una teoria dei rapporti (Wallis).
In Descartes la radice "reale" appare opposta alla grandezza "immaginaria", con una
connotazione quindi di 'realismo geometrico' in cui la corrispondenza tra grandezza geometrica e
segno numerico non è ancora completa, ma già esplicita nella esigenza della 'linea unitaria' per
legare il più possibile enti geometrici e numeri.
Il numero reale segna un nuovo rapporto tra continuo e discreto, tra misura e numerazione, e
si fondono così quelle due tradizioni, "teoretica" e "pratica", che avevamo riconosciuto lungo tutta
la tradizione antica, e questo accade sullo sfondo di una nuova funzione 'intellettuale' della
matematica nello sviluppo della società moderna, come patrimonio di ingegneri, artigiani e
commercianti.
Effetto del superamento della distinzione tra misurare e contare, tra geometria ed aritmetica,
è che, con Descartes (1596-1650), la mathesis universalis esclusivamente simbolica coincide con
la sostanza del mondo che è “estensione”. Oggetto dell’algebra è una teoria astratta delle
proporzioni, algebra e geometria coincidono, ed anche le operazioni aritmetiche corrispondono ad
operazioni geometriche. La tradizione cartesiana porta così la geometria a coincidere con la realtà,
e la sovrapposizione di geometria e moto (e quindi tempo) a definire la meccanica. Il centro della
dottrina è nel concetto di grandezza geometrica e fisica, come risposta al problema ontologico e
nella sua traduzione come numero reale e segno algebrico, come base della conoscenza teoretica.
In Wallis (1616-1703) appare l’idea che gli oggetti aritmetici abbiano una natura più astratta
ed ‘alta’ di quelli geometrici, e che quindi comincia a balenare l'idea che la geometria possa essere
subordinata alla aritmetica: il carattere adimensionale dei numeri ne diventerà segno di 'purezza'
concettuale coincidente con la loro natura simbolica. D'altro canto tutte le grandezze fisiche sono
considerate continue, come conseguenza della fondamentale metafora estensionale, spaziale e
83
meccanica, mentre la loro valutazione è in base a processi di misura, caratterizzati quindi in forma
simbolica ed approssimata.
Si amplia anche il trattamento formale delle proprietà aritmetiche, ed in Pascal (1623-1662)
appare il principio di induzione aritmetica.
Il XVII secolo segna una svolta nella struttura del “paradigma sintattico”. Il Rinascimento
aveva reso un luogo comune l’idea che il mondo fosse un grande libro i cui segni erano percepibili
dall’uomo: prima che i caratteri matematici di Galileo potevano essere i segni alchimistici o
magici. Nel XVII secolo l’attenzione si sposta sul linguaggio e sul suo uso per rappresentare la
natura, e si aprono subito due diverse ipotesi: da un lato l’idea di un linguaggio puramente
‘convenzionale’ creato allo scopo di rappresentare la realtà, dall’altro l’idea della esistenza di un
linguaggio fondamentale, originario, naturalmente strutturato per rappresentare la realtà. La prima
tesi si può leggere soprattutto in Hobbes, la seconda caratterizza soprattutto Leibniz.
Il "paradigma sintattico" di Descartes si caratterizza anche per il ruolo diverso giocato in esso
dal mondo mentale. Un mondo apparso pallidamente in Parmenide e cresciuto nella filosofia greca
classica senza mai intaccare l'idea di una scienza basata su una "ontologia in III persona" nella
quale non si tematizzava il ruolo della mente e del soggetto. Il "dubbio" ed il "cogito" cartesiano
pongono invece il mondo mentale ed il soggetto della conoscenza alla radice della stessa
possibilità di una 'scienza'. Dal dubbio è in primo luogo il "soggetto pensante" che emerge come
un’isola di terra ferma in un oceano di incertezze, e da esso procede la ricostruzione del triangolo
semiotico. In un certo senso il cogito cartesiano recita <se sono ingannato allora esisto: di questo
non posso essere ingannato>.
Tutta la scienza moderna nasce sotto l'insegna del rifiuto della logica, considerata sterile di
fronte al nuovo metodo scientifico basato sull'esperimento e la rappresentazione matematica delle
leggi di natura.
La certezza di quelle proprietà geometriche (ad esempio del triangolo) che era garantita in
passato dalla 'logica', divengono effetto di una "conoscenza chiara e distinta", le cui metafore sono
tutte legate alla 'visione' e alla 'luce'. Potremmo dire che il "mondo delle idee" si è reso ormai tanto
immediato da potersi caratterizzare come percepibile con gli "occhi della mente". Questo grande
sviluppo del 'mondo mentale' sarà alla base di tutto il disinteresse che la scienza moderna porterà
verso la logica e di quelle tecniche quali il modello meccanicistico e il Gedanken-Experiment che
la caratterizzeranno nei secoli successivi. E daranno alla "geometria" quel surplus di verità e realtà
che ne faranno il fondamento della descrizione scientifica anche nella forma della analisi
infinitesimale.
L'aspetto "metodologico" del cartesianismo rimanda all'abbandono della descrizione della
conoscenza come fatto statico a vantaggio di una descrizione del 'processo', guidato da "regole",
da un "metodo", che ne garantisce la 'verità'. La I regola recita: "il fine degli studi deve essere di
guidare la mente a giudizi sicuri e veri". Questo a sua volta sposta l'attenzione dal 'teorema' al
'problema', dalla 'sintesi' alla 'analisi', dalla 'completezza dell'esposizione' al 'piacere della
scoperta', e così l'abbandono della logica classica e dello stile euclideo appare come la punta di un
iceberg, alla cui base vi è il passaggio da una "verità" intesa come qualcosa di dato ad una "verità"
vista come risultato di un progresso governato da un metodo.
Nello schema aristotelico realtà e conoscenza erano facilmente connesse attraverso
l'esperienza comune dalla quale l'astrazione ricavava quel mondo di 'forme', nel contempo base
della realtà e della scienza, sulle quali si poteva costruire la scienza teoretica per via logica.
Questo schema svanisce sotto la critica galileana, e tocca a Descartes ricostruire una connessione
armonica tra realtà e conoscenza. L'esperienza comune, l'astrazione e la logica non servono più.
Serve un metodo, regole per indirizzare l'indagine a partire dalla esperienza progettata,
l'esperimento, e dalla chiarezza ed evidenza delle idee coinvolte, la cui natura intellettuale è nello
stesso tempo una natura simbolica. L'idea di esperimento comincia ad assumere la sua
84
connotazione moderna, di "laboratorio", come conseguenza dell'impianto analitico, che richiede
sia l'isolamento artificiale del fenomeno, sia la sua riduzione ad elementi gerarchicamente ultimi,
sia la sua esplorazione 'combinatoria':
Se desideriamo comprendere perfettamente una questione, essa
deve essere separata da ogni concetto superfluo, deve essere
semplificata il più possibile, e deve essere divisa mediante
l'enumerazione in parti che siano le più piccole possibili
(Regola XIII).
La stessa 'deduzione' ne fa parte, ma non può essere 'insegnata' perché, come l'intuito, deve
essere considerata una capacità 'primitiva', ed ogni ulteriore strumento dialettico si rivelerebbe un
ostacolo "perché al puro lume della ragione non può essere aggiunto niente che in qualche modo
non lo oscuri" (Regola IV)
LA PREISTORIA DEL CALCOLO
Sempre nella prima metà del XVII secolo riappaiono due antichi problemi geometrici relativi
a figure non rettilinee, diffusi soprattutto nel corpus archimedeo: la costruzione della tangente e la
quadratura. Sono i problemi che saranno alla base della nascita del calcolo delle derivate e degli
integrali. Perché questo accada nella matematica dovrà entrare in gioco il concetto di ‘infinito’, un
altro concetto estraneo al mondo comune ma che sarà decisivo per la costruzione del mondo della
fisica-matematica.
Entrambi i problemi erano centrati sulla idea di continuo e sui relativi processi al limite, in
qualche modo legati all'infinito attuale. Non casualmente tali problemi erano rigettati dal 'realismo'
dei Sofisti: Protagora non accettava linee dei "geometri", diverse da quelle sensibili, e quindi
anche che il circolo potesse toccare la tangente in un punto solo (Metaphysica 997b), mentre
Antifonte pensava che aumentando il numero di lati di un poligono iscritto bel cerchio, prima o
poi tale poligono sarebbe diventato coincidente con la circonferenza (Physica 185a).
Il problema della tangente era presso i Greci un problema esclusivamente geometrico, che
doveva divenire problema di calcolo solo con la trattazione matematica della cinematica. Il
problema delle aree e dei centri di massa fu invece sin dall'inizio un problema in qualche modo
metrico, trattato in genere col metodo di esaustione
Tuttavia esistono tracce di un approccio ‘finitista’ ai problemi differenziali in Fermat e
Descartes. L’idea di fondo è molto semplice: in problemi ‘estremali’ come la tangente o la ricerca
del massimo o minimo accade che più ‘soluzioni’ si identifichino.
Ad esempio Descartes si pone il problema della costruzione algebrica della ‘normale’ ad una
curva in un punto P (chiaramente equivalente alla costruzione della tangente). Considerando
l’intersezione tra la curva ed un cerchio passante per P è chiaro che se il centro del cerchio è sulla
normale per P alla curva, allora P è una soluzione multipla (fig.22, destra).
Fermat invece si pone il problema del massimo di una funzione, per esempio bz2 – z3 (usiamo
anacronisticamente il termine ‘funzione’, che era un’idea non ancora emersa, la formula era solo
una ‘cosa’ attaccata ad una curva per sintetizzarne aspetti di natura aritmetica). Fermat considera
l’equazione bz2 – z3 = c (vedi fig.22 sinistra), siano x e y le radici: Fermat osserva che per c troppo
grande non ci sono soluzioni e che per c abbastanza piccolo ce ne sono due, ma che per un valore
di c massimo della funzione le radici della equazione coincidono e quindi x = y. Quindi bx2 – by2
= x3 – y3. Da qui, dividendo per x – y, consegue bx + by = x2 + xy + y2 , e uguagliando le radici
2/3 b = x, valore del massimo. Da notare che, sebbene sia facile tradurre queste procedure in
termini di calcolo infinitesimale, esse siano in realtà procedure finite senza bisogno di introdurre
limiti o infinitesimi.
85
c“
F(z)=b z2 – z3
3
4 b /27
p
p
c’
z
2b/3
b
fig.22
Gli infinitesimi/indivisibili appaiono invece da subito nell’altra questione: quella delle
quadrature. L’idea è quella di calcolare un’area come una somma infinita di elementi o omogenei
(una superficie somma di rettangolini) o eterogenei (una superficie somma di segmenti). La
seconda soluzione appare ad esempio nell’opera di Cavalieri, la prima nell’opera di Keplero o di
Pascal. C’è la vaga impressione che i due approcci possano coincidere, ma la vaga idea di un
principio di continuità che porti un numero finito di rettangolini sempre più stretti a diventare
infiniti segmenti ancora ha un senso troppo geometrico per fondare l’idea di limite.
Il linguaggio degli ‘indivisibili’ appare geometricamente in Cavalieri, Wallis lo tradurrà in
termini aritmetici e riterrà giustificato sfumare la distinzione tra infinitesimi e indivisibili finiti,
considerando nella somma gli indivisibili di dimensione inferiore come infinitesimi omogenei. Il
simbolo ¶ serve tanto a contare il numero n di elementi da sommare, quanto la loro dimensione
1/¶, la cui somma diventa finita quando n  ¶. L’idea di limite è in fondo estranea alla dottrina
degli indivisibili, la quale apparirà ancora un po’ in Leibniz ma verrà poi sostanzialmente
abbandonata.
Gli eventuali ‘indivisibili’ che costituivano il continuo potevano essere omogenei (cioè
intervalli per intervalli, superfici per superfici, etc.) secondo una tradizione vagamente atomista, o
eterogenei (cioè punti per intervalli, intervalli per superfici, etc.) secondo una tradizione
vagamente platonico-archimedea, in tal caso magari generabili dal moto di un indivisibile (un
punto in moto genera la linea, etc.). La tesi atomista si scontrava con l’incommensurabilità, quella
archimedea coi paradossi legati alla esistenza reale dei punti. Celebre ad esempio il paradosso
della rota Aristotelis (fig.12, destra), già noto ad Erone: due cerchi solidali e concentrici rotolano
finchè la ruota esterna ha percorso un’intera circonferenza. I punti più bassi delle due ruote
percorrono entrambi un intervallo uguale alla circonferenza maggiore, ritornando nelle stesse
condizioni di partenza, pur essendo le circonferenze di diversa lunghezza.
Su questi temi si nota il mutamento che il pensiero di Ockham e Buridano impone alla
matematica: svanisce il problema se i punti esistano o meno, poiché la scienza è fatta di
proposizioni ed i punti sono solo termini che possono entrare, magari come ipotesi, in determinate
proposizioni, e questa loro esistenza ‘ipotetica’, secundum imaginationem, è sicuramente lecita.
Anche perchè, diversamente da altri enti solo ‘immaginabili’ (come chimere e grifoni), tale
esistenza è utile per la ragione.
Fra Descartes e Newton la distanza è notevole. Descartes segna il trionfo della filosofia
meccanica, alla cui base appaiono principi di carattere metafisico, ed il mondo descritto è fatto di
palle che si urtano, pendoli oscillanti, funi e pulegge, proiettili e gravi che cadono o restano in
equilibrio. La sua geometria-meccanica concerne relazioni tra proprietà immanenti degli oggetti
materiali (lunghezze, figure, tempi, pesi), come nella filosofia naturale medievale, con l’aggiunta
della velocità, proprietà relativa, ma ormai quantificata come qualità intensiva già dai Mertoniani e
in Oresme. E l’algebra appare un linguaggio per esprimere problemi geometrici, e in qualche
modo espressione di un metodo generale, ma non ancora un linguaggio di rappresentazione della
realtà fisica.
86
La meccanica inizialmente era strutturalmente geometrica, nella sua tradizione archimedea
come in quella aristotelica, dalle sue radici ingegneristiche cinquecentesche a Galileo e Newton.
Anche se è sostanzialmente falsa la tesi di un Galileo insensibile alla misurazione numerica, è
indubbio che tanto i suoi schemi argomentativi quanto la sua prassi sperimentale erano
prevalentemente geometrici: è infatti l’osservazione astronomica il suo contributo sperimentale più
rilevante. Ed anche Newton, nonostante le sue eccezionali capacità algebriche, scrisse i suoi
Principia in uno stile quasi esclusivamente geometrico, senza formule. Tra i due anche Descartes,
padre del formalismo algebrico, scrive la sua Geometrie per tradurre i problemi geometrici in
linguaggio algebrico, ma la sua fisica è tutta in una presentazione puramente geometrica, anche
laddove una rappresentazione algebrica sembrava a portata di mano: nel moto dei gravi, nella
teoria degli urti, nella legge di rifrazione.
Il linguaggio algebrico anche dopo il Seicento conserverà il peccato originale di essere parte
della tradizione pratica: uno strumento euristico, utile, ma inadatto a costruire una ‘scienza’. Era
solo una ars inveniendi, non una ars demonstrandi. Non casualmente allora l’algebra diventerà,
soprattutto in Descartes, parte essenziale del ‘metodo’: agli occhi del filosofo razionalista il
metodo è tutto e quindi l’algebra è centrale, ma solo nel metodo e non come linguaggio di
rappresentazione della realtà fisica, mentre agli occhi del fisico empirista la scienza è tutto, ha
carattere geometrico e quindi l’algebra è solo una tecnica spesso utile, ma fisicamente ‘opaca’.
La fisica-matematica newtoniana si libera dello stile meccanico, non solo tratta di enti non
immanenti come la forza di gravità, ma la matematica stessa tratta di un mondo non più
immanente nelle cose, ma ad esse sottostante, i cui principi sono la matematica stessa e la prassi
sperimentale. E la matematica ‘è’ questo mondo di leggi, ne fornisce la natura geometrica, in esso
forze e flussioni sono realmente esistenti.
Dall’algebra comincia invece ad emergere il calcolo, un linguaggio che abbandona del tutto i
termini della matematica antica, figure e numeri, fatti per parlare del mondo immediato
dell’esperienza quotidiana, e tratta invece di enti matematici (differenziali, integrali, serie di
potenze, etc.) del tutto estranei all’esperienza ed al mondo quotidiano, ma immanenti, direttamente
presenti e percepibili nel mondo artificiale in cui facciamo scienza, il laboratorio (per Newton
però il calcolo ha ancora solo un ruolo pratico). A tal fine occorre far fronte ai paradossi
dell’infinito, a quel labirinto del continuo, che per Leibniz, insieme al paradosso della giustizia
divina, era la più grande sfida per il pensiero umano. E non solo di sopravvivere ad essi, ma farne
la base per una scienza del tutto nuova, capace di gestire il divenire di un mondo tecnico, in cui
l’empiria da naturale, qualitativa e semantica diventerà artificiale, quantitativa e sintattica, da
esperienza diventerà esperimento.
La nuova meccanica emerge in questo ‘mondo tecnico’, sottostante quello reale, e se ne
vedono le tracce nelle figure geometriche che appaiono nei libri di fisica. I mertoniani avevano
rappresentato le configurazioni delle qualità intensive in schemi autonomi, senza connessioni col
mondo delle grandezze spaziali reali. In Galileo e Huygens invece nelle figure appaiono nel
contempo grandezze spaziali e velocità, in Newton appariranno anche le forze.
Le tematiche che saranno alla base del futuro calcolo infinitesimale appaiono nel Cinquecento
a ridosso della riscoperta dei testi archimedei, come ad esempio l’individuazione del centro di
gravità dei solidi ed i problemi di quadratura delle superfici curvilinee (aree delimitate da
parabole, iperboli, spirali, etc.). Anche la tecnica è quella archimedea del metodo di esaustione
fondato sulla doppia riduzione all’assurdo, una tecnica che a lungo apparirà come il termine di
riferimento rigoroso rispetto al quale le tecniche simboliche presentavano solo il vantaggio della
facilità d’uso; e ci sarà la diffusa convinzione che i metodi analitici appena scoperti fossero sempre
stati alla portata dei matematici greci Qualcuno sottolineerà anche come essi siano una ars
inveniendi inconfrontabile col rigore della ars demonstrandi (Wallis) ed altri daranno al simbolico
un valore metafisico particolare (Leibniz), ma sarà solo nel Settecento che l’approccio simbolico si
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affermerà definitivamente e bisognerà aspettare l’Ottocento per riconoscere al simbolico un senso
autonomo, indipendente dal presupposto di senso geometrico.
Il primo tentativo di liberarsi della tradizione sintetica antica appare probabilmente in Simon
Stevin, che cerca di porre il problema in termini logici: supposto che <se due quantità differiscono,
esse differiscono per una quantità non nulla>, allora <due quantità che differiscono per meno di
ogni quantità non nulla non sono differenti>.
C’è qui il nucleo della idea di limite e di infinitesimo. Vale la pena chiedersi perchè questo
approccio non fosse stato effettivamente sviluppato dai Greci al posto del complesso metodo di
esaustione.
FIG.23
I greci, oltre alle difficoltà con l’infinito, non potevano concepire concetti negativi come lo
zero (il numero era sempre finito e determinato, un semplice aggettivo), nè mischiare concetti
geometrici (grandezza) con concetti aritmetici (differenza). Invece nel Medioevo lo zero era ormai
accettato e svaniva la opposizione tra geometria e aritmetica (come nell’assioma aritmeticogeometrico “il tutto è uguale alla somma delle parti”, apparso solo nel Medioevo).
Certo in Stevin o in Galileo lo ‘zero’ come numero non appare, sostituito da una sorta di
limite delle grandezze verso il ‘nulla’, ma l’idea di una grandezza esistente ma minore di qualsiasi
grandezza (noi diremmo di ‘misura nulla’) non era assurda: poteva essere una semplice superficie,
come nel ‘paradosso della scodella’ di Galileo.
Luca Valerio osserva come la differenza tra cilindri circoscritti e iscritti ad un paraboloide
(fig.23) è uguale all’ultimo cilindro circoscritto (risultato già noto in Archimede), e quindi,
aumentando il numero di cilindri, essa possa essere resa minore di qualsivoglia volume e di
conseguenza il centro di gravità possa essere trovato considerando una sola delle due sequenze di
cilindri. Ma il suo approccio è solo geometrico e l’idea di limite non appare.
Sullo stesso problema Stevin scoprirà che le approssimazioni attraverso i cilindri pongono il
centro di massa ad un terzo dell’altezza più una quantità che si dimezza al raddoppiare del numero
di cilindri, e può quindi essere resa minore di qualsiasi quantità, ma tradurrà infine il ragionamento
in una argomentazione analoga al metodo di esaustione.
Comunque nei problemi di quadratura il Seicento continuerà a distinguere, anche se con
difficoltà, tra indivisibili, costanti e senza quantità come i punti, e infinitesimi, costanti minori di
ogni quantità o variabili con una grandezza che diventa zero.
Un'altra fonte di ispirazione veniva dalle somme di sequenze di numeri. Ad esempio molti
matematici, tra cui Wallis, si accorsero che le somme delle potenze degli interi ni=1 ik
mostravano una certa regolarità: si sapeva che
ni=1 i = n(n+1)/2  n2/2
ni=1 i2 =
3
n(n+1)(2n+1)/6  n /3 (ove  denota l’approssimazione sempre migliore al crescere di n), e per
valori di k maggiori la somma sembrava approssimare il valore nk+1/k+1.
Wallis introduce un principio di interpolazione e analogia col quale estende la formula di
Newton,(1-xp)q, a esponenti frazionali, nulli e negativi, e la applica al problema geometrico di
calcolare l’area di un quadrante del cerchio unitario. A tal fine arrivò a estendere la formula anche
per k fratto. In realtà questi risultati non erano ‘dimostrati’, ma verificati fino a certi valori finiti di
n e di k, ed estesi per ‘analogia’. Da essi poi Wallis con una idea intuitiva di ‘interpolazione’
ricavava la formula per il calcolo di 
88
μμμμμμμμμμμμ
L’interesse per le somme finite si saldava così con l’interesse per le somme infinite, le serie
(il cui calcolo delle era pure tutt’altro che rigoroso), usate anche per calcolare le aree al di sotto di
certe curve. Molto nota la quadratura della parabola proposta da Mercator. Data la parabola di
equazione y = 1/(1+x) l’area tratteggiata (fig.24) veniva approssimata come somma di
rettangolini circoscritti, le cui aree erano poi sviluppate come serie geometriche, e, usando le
approssimazioni di Wallis su citate, risultava essere uguale a T – T2/2 + T3/3 – T4/4 +…=
log(1+T)
Y
0
T
X
FIG.24
Per tale sviluppo in serie compariva una tecnica che sarà portata al massimo sviluppo da
Newton: l’uso formale degli algoritmi aritmetici. Ad esempio per sviluppare in serie la funzione
1/(1+x), basta dividere 1 per (1+x) applicando le usuali regole della divisione in colonna per
ottenere 1-x+x2–x3+ …. Analogamente lo sviluppo in serie di una formula sotto il radicale si trova
sviluppando l’algoritmo in colonna per l’estrazione della radice.
Questa tecnica ci fa toccare con mano non solo l’origine pratica del calcolo infinitesimale, ma
soprattutto la sua natura algoritmica fondata su una fiducia nel trattamento simbolico corroborata
dal suo successo. Non c’è da stupirsi se si troveranno frequentemente filosofi critici dell’approccio
simbolico, soprattutto in Inghilterra: Hobbes lo definiva “una scabbia di simboli”, Berkeley
definirà gli infinitesimi “fantasmi di quantità defunte”. E vedremo che diffidenze verso tale
approccio si troveranno anche in Newton. Del resto nella usuale definizione di derivata, si
divideva per un infinitesimo il quale poi nel calcolo veniva posto uguale a zero, il che dal punto di
vista aritmetico è un errore. Certo, si intuiva che la procedura aveva una natura algoritmica e non
dimostrativa, ma il problema dello ‘status’ del calcolo infinitesimale simbolico resterà di fatto
aperto fino all’ottocento.
Una terza tendenza appare l’approccio cinematico, nel quale la curva è la traiettoria descritta
da un corpo/punto in movimento. In questo approccio la tangente appariva il moto che il corpo
avrebbe percorso per ‘inerzia’. La stessa teoria delle curve cartesiana faceva spesso riferimento al
tracciamento della curva tramite moti complessi. Anche funzioni come seno e logaritmo erano
state definite come sovrapposizione o confronto di due moti (noi diremmo tramite una descrizione
parametrica). Diffusa soprattutto tra i matematici anglosassoni, eredi dei "calculatores" mertoniani,
attraverso Isaac Barrow e sino alle fluxiones newtoniane. L’importanza della lettura cinematica
della derivata non stava solo nelle applicazioni fisiche del calcolo, ma nel fatto che la connessione
meccanico-geometrica ne fornirà il vero ‘senso’ per circa due secoli: di fronte alle incertezze e
contraddizioni del calcolo si potevano sempre ricondurre derivate e integrali tanto al moto e allo
spazio percorso, quanto alla tangente e all’area.
LEIBNIZ E NEWTON
Queste tendenze porteranno nella seconda metà del secolo a dare al calcolo infinitesimale,
nell’opera di Newton e Leibniz, la forma che, almeno dal punto di vista delle tecniche, conserverà
89
fino ad oggi. Nonostante le feroci polemiche sulla priorità che scoppieranno fra i due, i loro
approcci saranno equivalenti (almeno per quanto riguarda gli aspetti algoritmici), ma le differenze
concettuali saranno non di meno nette (e anche per uno stesso autore nel tempo ci saranno
differenze rilevanti) ed eloquenti per illuminare il complesso processo cognitivo che portava
all’emergere del calcolo infinitesimale.
Il problema di partenza era il trattamento del continuo, come tema sia matematico (area e
tangenti delle figure curve), che meccanico (il moto). Le radici del “labirinto del continuo” erano
in fondo nel fatto che si poteva parlare di un istante o punto ‘successivo’, ma non dell’istante o del
punto ‘immediatamente successivo’. Era il problema degli insuperabili paradossi che si
incontravano quando si pensava il continuo come composto di elementi indivisibili di dimensione
nulla, punti, segmenti, superfici.
Newton e Leibniz abbandonano quella via e affrontano il problema da due punti di partenza
distinti, anche se entrambi in definitiva centrati sulla difficoltà di trattare gli infinitesimi, cioè
grandezze infinitamente piccole ma non nulle, e orientati nel cercare in una idea intuitiva di
‘limite’ o di ‘continuità’ la soluzione per distinguerli dagli ‘indivisibili’, sostituendo il punto
‘immediatamente successivo’ ad un punto P con un punto P’≠ P che però si può avvicinare quanto
si vuole a P, con PP’ intervallo non nullo ma nel contempo minore di ogni intervallo finito.
Newton lo fa concependo una curva descritta da un moto locale, e quindi in termini spaziali
usando il tempo come variabile indipendente. Considera sempre una grandezza fisica fluente, x, il
cui mutamento, più o meno rapido, chiama flussione, indicato con ẋ, ed è un attributo della
variabile x. E’ una ‘matematica del moto’ in cui si può riconoscere una tradizione tipicamente
inglese, dai Mertoniani ai logaritmi di Napier e alla matematica di Isaac Barrow, il maestro di
Newton, che sviluppa una concezione cinematica di processi continui. Newton considera un tempo
infinitesimo, denotato in genere con o, così che un aumento infinitesimo (momento) di x risulta
oẋ: Il 'momento' della linea è inteso come "un segmento infinitamente breve", ma non nullo. Le
difficoltà vengono aggirate dall’idea cinematica, sostenendo il carattere 'potenziale' e non 'attuale'
dell’infinito processo al limite.
Da notare che tale tecnica viene applicata uniformemente a tutta la equazione, differenziando
cioè tutti i termini contenenti ‘fluenti’ (ad esempio x e y) per ottenere una equazione contenente
‘fluenti e flussioni’. Per trovare la tangente occorrerà risolverla ottenendo il rapporto ẏ/ẋ.
Da un punto di vista algoritmico il calcolo si basa sulla flussione della potenza xn, data da n
n-1
x . Questo risultato viene ottenuto da z = xn scrivendo z + ż·o = (x +ẋ·o)n, sviluppando il
secondo membro, sottraendo z = xn, dividendo per o, trascurando tutti i termini contenenti o, e
ottenendo ż= n xn−1ẋ. Per funzioni più complesse strumento chiave è la teoria delle serie, tramite
la quale tali funzioni vengono ridotte a somme di potenze, che per Newton sono anche uno
strumento di calcolo approssimato. All’interno di questa tecnica si inserisce anche la celebre
estensione dello sviluppo della potenza del binomio a potenze qualsiasi: se la potenza è un intero
positivo lo sviluppo dà un polinomio, altrimenti si ottiene una serie di potenze. Questa tecnica
appare sicuramente più fondata della semplice interpolazione e analogia di Wallis, anche se in
definitiva basata su una presupposta omogeneità algoritmica tra finito ed infinito.
Newton osserva come si possa generalizzare la formula della potenza del binomio a potenze
non intere (razionali positivi) ottenendo una serie:
(a+x)r = a r + r x a r-1 + …… + r (r-1) (r-2) +….. + (r-k+1)/ k! x k a r-k + ………….
Scoprendo che ad esempio questo sviluppo per a=1 ed r=-1 dava un risultato coincidente con la
serie geometrica:
(1+x) -1 = 1 – x + x 2 - x 3 + …….
90
Che si può anche ottenere applicando formalmente l’algoritmo della divisione in colonna.
Tuttavia Newton col tempo si distaccherà, almeno dal punto di vista teorico e nella sua fisica,
dall’approccio algebrico-simbolico (il punto di svolta si può collocare negli anni settanta, ma
all’inizio del Settecento Newton sembra riconsiderare questa scelta) a vantaggio di un approccio
geometrico e fondato sui rapporti, secondo la antica tradizione teorica, così che gli infinitesimi
saranno per lui solo una notazione conveniente da sostituire nei calcoli rigorosi con il "metodo dei
primi e ultimi rapporti" (limite di rapporti incrementali). In termini geometrici l'idea rigorosa è che
quando due punti sulla curva tendono a coincidere anche l'arco, la tangente e la secante sulla curva
tendono a coincidere. Newton insisterà che non si tratta di studiare un rapporto tra infinitesimi, ma
di studiare un rapporto tra quantità finite che, in quanto rapporto ben definito, ‘tende’ ad un limite
ben definito, e considererà il suo calcolo coincidente con quello degli antichi liberato dei ‘fastidi’
della dimostrazione per assurdo del metodo di esaustione. Per difendersi dalle critiche sulla
inesistenza del rapporto tra quantità evanescenti Newton farà il paragone con un corpo che in moto
all’improvviso si arresta, considerando la sua ‘ultima’ velocità al momento dello stop: anche essa
prima dello stop non è l’ultima e allo stop non c’è più. Ragionamento ‘strano’ perché per chiarire
l’idea del rapporto tra quantità evenescenti non c’era bisogno di immaginare un arresto
improvviso, una qualsiasi altra velocità istantanea (come limite del rapporto tra differenze di
spazio e tempo) sarebbe andata altrettanto bene.
La fig.25 a sinistra mostra il ragionamento che porta Newton al teorema fondamentale del
calcolo, al fatto cioè che derivazione e integrazione sono due operazioni inverse l’una dell’altra, e
mostra anche come il linguaggio delle proporzioni resti alla base del ragionamento geometrico.
Newton pone AC = 1, z e x sono le aree rispettivamente al di sotto della curva e al di sotto
dell’asse (e quindi x è anche l’ascissa). Di conseguenza le flussioni di z e x sono rispettivamente
DB e BE=1. DB sarà quindi anche il rapporto tra le flussioni di z e di x, quello che potremmo
chiamare la derivata di z. Ma z è l’integrale della curva, la quale curva quindi coincide con la
derivata del suo integrale.
Per Newton la cinematica era il fondamento del calcolo, il suo metodo “derivava direttamente
dalla natura”, e questo era il motivo per la preferenza per l’approccio geometrico e la diffidenza
verso quello simbolico, il calcolo era qualcosa di ‘evidente’ per enti geometrici, poco credibile per
semplici simboli. Le entità geometriche ‘esistevano’, mentre il trattamento simbolico introduceva
numeri immaginari e infinitesimi. Quando tradotta in linguaggio naturale, la geometria
funzionava, l’algebra invece ‘provocava nausea’, era ridondante, aveva un ruolo solo euristico e
un carattere meccanico privo di chiarezza referenziale, le dimostrazioni geometriche avevano
invece un chiaro contenuto, e tutto un complesso processo aritmetico corrispondeva al semplice
tracciamento di una linea. Quindi il metodo sintetico delle flussioni, basato sul moto continuo e sui
‘primi ed ultimi rapporti’, e non su infinitesimi, era preferibile a quello analitico.
D
F
P
T
P’
M
A
A’
Z
A
B
1
C
X
X
E
FIG.25
S
N
L’approccio di Leibniz si basava invece sulle somme e differenze finite, generalizzate per
diventare infinitesime, “…mi accorsi che le differenze corrispondevano alle tangenti e le somme
91
alle quadrature….” [Lettera a Wallis, 28-5-1697], ed il linguaggio della teoria delle proporzioni,
centrale in tutta la storia della matematica fino ai suoi tempi (Newton incluso), gli sembra inutile,
riducibile ai più fondamentali segni di divisione e uguaglianza.
L’idea del triangolo caratteristico era già apparsa in Pascal ed è la base della connessione tra
la teoria degli infinitesimi e lo studio delle tangenti. Leibniz dirà di essere rimasto stupito di come
Pascal non ne avesse colto le potenzialità, ma occorre ricordare come esse richiedessero da un lato
una fusione tra geometria e aritmetica (la determinazione della tangente, fatto tipicamente
geometrico e quasi iconico, riconducibile a differenze, concetto aritmetico, tra ascisse e ordinate)
all’epoca ancora in statu nascendi, dall’altro un trattamento algoritmico degli infinitesimi.
Nella fig.25 destra il triangolo caratteristico è TPM, simile al triangolo PAS (ed anche al
triangolo PAN, con PN normale alla curva). Confondendo T e P’, in quando infinitamente vicini A
e A’, otteniamo che il rapporto tra gli infinitesimi P’M e PM è uguale al rapporto tra l’ordinata AP
e la subtangente SA. Pascal l’aveva usato per studiare i problemi di quadratura, Barrow per quelli
relativi alle tangenti. Ed è evidente dalla figura che come la quadratura è la somma dei valori della
funzione in rettangolini infinitesimi, così la tangente è individuata dalla differenza tra i valori della
funzione in punti la cui distanza è infinitesima. Ma la somma è l’operazione opposta alla
differenza, ed è anche chiaro che la differenza tra le due quadrature di f(x) nei punti x+dx e x è
proprio la f(x) moltiplicata per dx: ci sono tutti gli elementi per intuire aritmeticamente il ‘teorema
fondamentale del calcolo’.
Anche per lui gli infinitesimi non esistono realmente: violano il principio di Archimede, sono
diversi da 0 ma in fondo indistinguibili da esso, e per il principio di continuità possono essere
trattati come quantità ordinarie, come il continuo stesso non erano enti reali bensì finzioni, ma
servivano tramire la loro algebra a fare i calcoli. Tuttavia l’infinitamente piccolo non gli appare un
artificio, un inganno che ostacola lo sviluppo delle leggi naturali, ma qualcosa che ha un
fondamento reale legato al ruolo dell’infinito, che entra nella realtà, non materialmente ma come
fondamento intellettuale nel ‘principio di continuità’.
Il 'differenziale' è un simbolo autonomo: quantità non nulla ma non in nessun modo 'variabile'
o 'tendente' verso qualcosa, "finzioni utili per abbreviare e parlare universalmente". E' un metodo
molto più vicino a quello oggi usato e che dovrà affermarsi anche per la efficienza delle tecniche
di manipolazione simbolica connesse. A lui si rivolse la critica di considerare i suoi infinitesimi
come se fossero addirittura nulli, e la sua risposta a Bernard Nieuwentijdt sottolinea che "non è
necessario ricadere in controversie metafisiche, quale la composizione del continuo", che "sarà
sufficiente fare uso di questi come uno strumento utile per il calcolo, come per gli algebristi le
radici immaginarie".
Il differenziale non è quindi un infinitesimo, anche se è incomparabilmente minore delle
quantità ordinarie, ma è come un grano di sabbia rispetto al cielo, talora inteso come una variabile,
talora come una costante, e comunque sempre omogeneo alla grandezza differenziata. Per lui, dato
un numero dx, dy è quel numero tale che dy/dx è la pendenza della tangente: il differenziale appare
quindi un numero non nullo, “una linea retta scelta arbitrariamente”, e la tangente “la linea che
connette due punti a distanza infinitamente piccola” o “il lato di un poligono con un infinito
numero di angoli” [nova methodus]. Il ruolo svolto in Newton dall’idea di ‘limite’ viene svolto in
Leibniz dal principio di continuità: “in ogni transizione supposta terminante in qualsiasi termine,
si può istituire un ragionamento generale in cui tale termine finale è incluso”. Essa in realtà
semplicemente asserisce la natura continua (metafora della grandezza geometrica) delle grandezze
fisiche, anche di quelle che venivano analizzate da Aristotele come coppie di opposti, con esempi
del tipo "la legge dei corpi in quiete è un caso speciale della legge di ciò che esiste in movimento".
Cioè le tradizionali opposizioni movimento/quiete, disuguaglianza/uguaglianza, curva/retta, vanno
considerate come un continuo (il primo termine) di cui il secondo è un caso speciale (Nuovi saggi
sull'intelletto umano, II,8)
92
Resta la preclusione verso una teoria degli indivisibili, ma l’integrale gli appare non il limite
di una somma ma una totalità, come nelle dottrine degli indivisibili di Cavalieri e Wallis. Usa
inizialmente scrivereÛx, come una sorta di somma di ‘linee’, ovvero con dx=1, e solo
succesivamente Ûx dx, come una somma di rettangoli infinitesimi.
Anche lui stabilisce senza prova le regole della differenziazione, usando implicitamente l’idea
di infinitesimi, i differenziali di variabili come differenze variabili, e così la d agisce come un
operatore, in modo da permettere di definire differenziali di ordine superiore, qualcosa di difficile
nell’approccio geometrico newtoniano. Così "esistono differenti gradi di infinito e di infinitamente
piccolo" e che "quantità le cui differenza è incomparabilmente piccola sono da considerarsi
uguali".
La differenziazione per Leibniz non si applica genericamente ad una equazione (come in
Newton) bensì ad una funzione (usa proprio questo termine per indicare quantità geometriche,
coordinate, tangente, corda, etc., associate ad una curva): una grandezza geometrica legata alle
altre tramite una espressione algebrica.
Quella di Leibniz è infatti una ‘aritmetica dell’infinito’ ed il suo approccio è esplicitamente
simbolico ed algoritmico, nei suoi fondamenti e non solo in pratica: “Tutto il calcolo differenziale
appare solo un aspetto di una ‘arte combinatoria’ generale, ‘un alfabeto del pensiero umano’”
[Lettera ad Oldenburg, 27-8-1676], connaturata all’arte umana della scoperta, l’ars inveniendi,
quasi un metalinguaggio rispetto al linguaggio aritmetico o algebrico.
Leibniz fu il testimone più autorevole della crescita del registro simbolico nella nuova
matematica. Questa forse la differenza essenziale tra lui e Newton: per questi il simbolismo aveva
un ruolo secondario mentre per Leibniz esso assumeva un ruolo centrale. La notazione simbolica è
“un mezzo sensibile e palpabile che guida la mente”: si pensi ad esempio alla forma
autoesplicativa che assume nella sua notazione la regola di derivazione della funzione composta:
dz/dx = dz/dy ÿ dy/dx. Ed il suo linguaggio algebrico si adatterà al trattamento del continuo creando
una sintassi in grado di evitare i paradossi noti già ai Greci. Considerare il punto x+dxsignifica in
fondo solo prendere il punto ‘successivo’ ad x, così che dxè diverso da zero perché il punto è
distinto ma poi si pone uguale a zero perché la distanza tra i due punti deve essere minore di ogni
possibile distanza finita, altrimenti vi sarebbero altri punti intermedi, e questo nel continuo
aritmetico significa zero: dy è “la differenza delle due y più vicine” [Lettera a Oldenburg, 21-61677].
Gli infinitesimi furono oggetto di aspre critiche (del resto anche Cantor li considerava
assurdi). In generale ‘infinitamente piccole quantità’ erano ritenute semplicemente nulle. Leibniz
rispondeva che col calcolo infinitesimale si potevano ritenere uguali grandezze che differivano di
quantità infinitesime e che esistevano diversi gradi di infinito o di infinitamente piccolo: una palla
è un punto rispetto alla terra e la terra un punto rispetto alla sfera delle stelle fisse.
Jacques Bernoulli li riteneva quantità variabili, il fratello Jean invece li riteneva realmente
esistenti, Leibniz quantità “piccole quanto si ritiene necessario perché siano incomparabili e no ci
siano conseguenze negli errori prodotti” e si appellava al suo “principio di continuità” ed al fatto
che le figure rettilinee sono un caso particolare di figure curvilinee.
Il vescovo Berkeley sottolineò la natura ‘spettrale’ degli infinitesimi, qualcosa di ‘nullo’ e
‘non nullo’ nello stesso tempo, legati alle difficoltà connesse ai concetti di infinito e di continuo.
Berkeley attaccò gli infinitesimi di Newton: “ghosts of diparted quantities”, le sue ‘flussioni’:
“velocities of evanescent increments…neither finite quantities, nor quantities infinitely small, nor
yet nothing”, e la tradizione empirista si fece carico anche della critica del concetto di infinito
attuale: si ritrovavano antichi problemi, risalenti alla filosofia greca ma, di fronte ai paradossi
legati al concetto di ‘infinitesimo’, l’immagine ‘geometrica’ della tangente e quella ‘fisica’ della
velocità istantanea, insieme ai crescenti ed indubbi successi della nuova fisica matematica,
sembravano sufficienti a dissolvere tutti i dubbi, e si apriva l’epoca d’oro della analisi applicata
alla fisica. Seguirà un’epoca di successi ininterrotti, nella meccanica, nella termodinamica,
93
nell’ottica, nell’elettromagnetismo. La forma differenziale delle leggi della natura si rivelerà
perfettamente corrispondente alle verifiche sperimentali e l’intuizione geometrica, poggiata anche
sul prestigio millenario degli Elementi di Euclide, sarà sufficiente a tacitare dubbi e antinomie.
IL REGNO DEI SEGNI
Il solo Leibniz sembrerà tentare una ripresa della logica, ma anche in lui, come in Descartes,
prevale il ruolo delle idee "chiare e distinte", termini che in qualche modo nel mondo delle idee
tendono a riproporre la antica mimesi 'iconica', anche se Leibniz sottolinea sempre la differenza tra
una idea e una immagine (l'esempio del chiliagono, difficilmente immaginabile, ma la cui idea è
perfettamente chiara). La ripresa della logica appare più che una "ars demonstrandi" una "ars
inveniendi", è l’ars combinatoria, la possibilità cioè di individuare un insieme di idee elementari,
rappresentabili tramite numeri, indefinibili e comprensibili per analogia o intuitivamente, con cui
costruire idee complesse, ottenibili come prodotto di numeri, rappresentabili simbolicamente e
comprensibili per definizione. La characteristica universalis è la capacità del linguaggio
simbolico di rappresentare compiutamente l’universo oggetto di una scienza, permettendo una
perfetta corrispondenza tra oggetti, idee e segni, e ad essa si deve affiancare un calculus
ratiocinator, la capacità algoritmica di effettuare ragionamenti inoppugnabili manipolando segni,
traducendo ogni ragionamento in un calcolo. Metodi di questo calcolo sono la scomposizione dei
concetti nei loro componenti elementari, i sillogismi ed i principi di identità e di noncontraddizione.
La ars combinatoria di Leibniz si delinea sin dall’inizio come la scienza della pratica
simbolica il cui essere ‘anfibio’ la rende nel contempo prassi algoritmica e linguaggio della
scienza umana. La sua idea giovanile e cartesiana di un ‘alfabeto del pensiero umano’ evolve
nell’idea che in realtà l’uomo conosce attraverso i segni, una idea che oltre l’algebra influenzerà
tanto l’analisi combinatoria che la logica formale, sino ad apparire una profezia dei futuri
linguaggi algoritmici.
E di qui l’utopia razionalista in cui Leibniz prevedeva il giorno in cui difronte ad ogni
diatriba filosofica ci si potesse sedere e risolverla semplicemente ‘calcolando’. C’è addirittura in
Leibniz l’idea che ogni verità (anche quando ci appare ‘empirica’) sia, per un essere capace di
deduzioni anche infinite, sempre analitica, riducibile cioè all’inclusione del predicato nel
soggetto.
In Leibniz i segni assumono per la prima volta un carattere esplicitamente costitutivo della
conoscenza umana, e quindi, nella loro struttura complessiva, non hanno un carattere puramente
convenzionale, poichè la loro sintassi, intesa in senso generale come la regolamentazione della
loro manipolazione, deve riflettere la reale connessione tra le idee.
Già nella matematica islamica era apparsa la nuova connessione tra segni ed algoritmi, nei
quali i segni non erano più solo usati per registrare i valori numerici, ma diventavano gli
ingredienti essenziali dei secondi. Alla base c’era la loro natura ‘anfibia’: da un lato oggetti
‘concreti’, scrivibili, leggibili, manipolabili, spostabili, e quindi trattabili algoritmicamente,
dall’altro enti ‘ideali’, gli unici per i quali si poteva parlare di ‘assoluta uguaglianza’ e ‘assoluta
differenza’: due 7 sono lo ‘stesso’ numero anche se scritti con grafia diversa, un 4 e un 5 sono
numeri del tutto ‘diversi’ anche se talora scritti in modo simile.
E non è forse casuale che grandi analisti come Viete e Wallis si impegnassero anche come
decrittatori di codici. In questa diffusione del simbolismo algebrico si affacciava quindi un
processo che dominerà la matematica moderna e in fondo la stessa civiltà moderna: l’’irresistibile
ascesa’ del regno dei segni.
Si intuisce che a questo punto sempre più per segno si intende il segno matematico. Così i
segni sono la via per cui noi giungiamo alla conoscenza, essendoci preclusa l'intuizione unitaria
delle cose, e tali segni, sebbene arbitrari in quanto ciò che non deve essere arbitrario è il loro uso e
la loro connessione, per Leibniz dovrebbero essere anche il più possibile "naturali", simili alle
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cose da rappresentare, secondo lo schema tipico dei geroglifici, con un esplicito riferimento a
caratteri cinesi.
La analisi puramente logica della definizione, la definizione nominale, ne può garantire la
semplice possibilità quando non contenga alcuna contraddizione, ma la esistenza reale richiede
una autonoma dimostrazione, di tipo sostanzialmente generativo, e solo a questo punto otteniamo
una definizione reale. E questo si riflette nell'altro grande principio, che in Leibniz governa il
mondo fisico, il principio di ragion sufficiente, secondo il quale ogni fenomeno deve essere
spiegato come effetto di una determinata causa. Esempio paradigmatico di questo principio è la
teoria della bilancia di Archimede, in cui una simmetria geometrica della configurazione reale è
sufficiente per asserire l'equilibrio statico della configurazione stessa.
Ogni essenza prelude alla esistenza, è una possibilità qualora non porti a contraddizioni. In
altri termini ciò di cui è possibile farsi una idea non contraddittoria è anche possibile. Quali delle
possibili esistenze si realizza dipende dal massimo bene perché Dio fa si che questo sia "il
migliore dei mondi possibili".
Il razionalismo di Leibniz significa anche un nuovo assetto alla problematica del rapporto tra
identità e uguaglianza, basato sul rapporto tra identità e indiscernibilità ("indistinguibilità").
L'"indiscernibilità degli identici" appare indiscutibile, la "identità degli indiscernibili" significa
semplicemente ridurre l'individuo alla somma delle sue caratteristiche. In altri termini la "forma"
diventa una somma di proprietà e l'"individuo" la somma di tutte le sue proprietà. Consideriamo
ad esempio l'"autore dei primi due goal alla finale della Coppa del Mondo" e il "vincitore della
coppa di miglior giocatore dell'anno"; entrambi coincidono con Z.Zidane. Nella 'monade' Zidane
entrambe le proprietà sono incluse e quindi dire che "il vincitore della coppa di miglior giocatore
dell'anno è l'autore dei primi due goal alla finale della Coppa del Mondo" per una conoscenza
'divina' non è un fatto empirico, ma è una semplice identità: "Zidane è Zidane". Le difficoltà nel
ridurre tutta la complessità delle "verità di fatto" alle "verità di ragione" è solo nella umana
impossibilità di deduzioni e caratterizzazioni infinite.
Il trattamento simbolico permetteva anche di trattare matematicamente l’idea di infinito. In
Descartes esso appare prerogativa divina:
Noi non ci avvolgeremo mai nelle dispute dell’infinito...noi
che siamo finiti...non asseriremo che esse siano infinite ma
le crederemo solo indefinite...la quantità può essere divisa
in parti il cui numero è indefinito (I,26)…riservare a Dio
solo il nome d’infinito (I,27) …l’intelletto non si estende
che a quei pochi oggetti che si presentano a lui, e la sua
conoscenza è sempre limitatissima, mentre la volontà in
qualche
modo
può
sembrare
infinita,
poichè
noi
non
percepiamo nulla che possa che possa essere l’oggetto di
qualche altra volontà...ciò che è causa che noi la portiamo
ordinariamente oltre quello che conosciamo chiaramente e
distintamente...non è meraviglia se ci accade di ingannarci
(I,35) (Principi della filosofia)
E così in Leibniz l’infinito attuale lungi dall’essere un’idea da rigettare, entra a buon diritto
nella prassi conoscitiva, e così anche il continuo:
Sono tanto a favore dell’infinito attuale, che… ritengo che
la natura lo presenti ovunque per meglio mostrare la
perfezione del suo autore. Così credo che ogni parte della
materia è, non dico divisibile, ma attualmente divisa.
95
Un primo aspetto di questa funzione dell'infinito appare nelle riduzione dei concetti a concetti
elementari, punto chiave dell’idea di riduzione sintattica della conoscenza. La risoluzione di tutte
le verità anche empiriche in verità a priori può essere ottenuta tramite la pura analisi dei concetti,
il che per l’uomo richiede un regresso infinito, almeno per quanto riguarda le verità 'contingenti',
de facto, paragonabile alla rappresentazione di un numero irrazionale mediante una somma di
razionali, mentre è per Dio invece realizzata compiutamente, a-priori e finitamente (cosa che per
l'uomo accade solo per la conoscenza delle verità 'di ragione', de jure, in quanto riducibili tramite
principi di contraddizione e definizioni a proposizioni identiche).
Quindi l’uomo può conoscere il mondo con la stessa certezza divina, unica differenza essendo
la finitezza dell’uomo di fronte all’infinitezza di Dio, e questo farà dell’infinito l’orizzonte della
nuova scienza: i numeri reali, le serie, i limiti saranno i concetti infinitari che caratterizzeranno la
matematica nei secoli successivi. Ed anche essi si riveleranno ostici ad una matematica
tradizionale, geometrica, richiedendo invece una matematica sintattica e logica per essere
affrontati.
Ma la combinatoria si connette ad un’altra intuizione leibniziana, quella dell’uso della
probabilità per trattare casi in cui non si può dimostrare ma si può solo discutere la evidenza, come
ad esempio in ambito giudiziario.
Intorno al 1660 appare quasi senza preavviso una lunga serie di studi che oggi possiamo
inquadrare come inizi di una “teoria della probabilità”: nel 1654 Pascal risolve due problemi
probabilistici, nel 1657 Huygens scrive un libro sulla probabilità, nel 1662 la logica di Port Royal
riporta l’argomento probabilistico di Pascal sull’esistenza di Dio (dal punto di vista decisionale,
per massimizzare l’utile, è sempre preferibile credere in Dio), in quegli anni Leibniz scrive il suo
saggio sulle combinazioni e vengono calcolate le annualità dei vitalizi in maniera corretta, nel
1662 vengono pubblicate le prime statistiche di mortalità.
Sin dall’inizio nell’idea di probabilità convivono due aspetti: uno ‘statistico’ concernente
processi casuali ed uno ‘epistemologico’ concernente le credenze e le decisioni relative. Quanto
fossero intrecciati i due aspetti si può vedere nel fatto che i due riferimenti a Pascal concernono i
due diversi aspetti.
Di tipo ‘statistico’ erano i problemi di ‘divisione’. Ad esempio: supponiamo che una partita che
doveva svolgersi sino a che uno dei contendenti non avesse n vittorie venga interrotta quando uno
dei due abbia ottenuto h e l’altro k vittorie: come si deve dividere la posta? Pascal osserva che il
primo deve vincerne altre n-h e il secondo n-k.
Sicuramente in 2n – h – k +1 partite uno dei due vincerà. Basta allora considerare i coefficienti
binomiali (triangolo di Pascal) su 2n –h –k +1 elementi e sommare da un lato quelli fino a n-h
dall’altro i restanti. Il rapporto fra i due numeri darà la divisione richiesta.
Il metodo non è del tutto esatto poiché non è necessario svolgere tutte le partite: ci si fermerà
quando uno dei due avrà raggiunto le n vittorie, ma il procedimento è concettualmente e
numericamente corretto.
Di tipo ‘epistemologico’ è la decisione sulla fede in Dio. Qui appare la “teoria delle decisioni”:
occorre valutare il ‘vantaggio atteso’. Qualunque sia la probabilità (non nulla) della esistenza di
Dio il vantaggio conseguente alla sua esistenza e alla fede in Dio è infinitamente superiore a
quello conseguente alla sua non esistenza ed alla non fede in Dio, considerando poi irrilevante lo
svantaggio dovuto alla non esistenza in Dio ed alla fede e drammatico lo svantaggio conseguente
alla esistenza di Dio ed alla mancanza di fede.
Sulla via dei segni si dovrà incamminare anche la logica. Sarà Leibniz il primo ad asserire la
natura analitica delle verità matematiche, il loro essere deducibili come verità logiche, puramente
96
formali, a prescindere dal loro contenuto: tautologie, vere per la sola forma senza bisogno di
riferimenti agli enti matematici. Se si guarda la dimostrazione leibniziana di una somma già si
intravede la futura logica matematica, in cui la dimostrazione e calcolo coincidono, con la stessa
natura algoritmica e sintattica.
E’una logica inconfrontabile con quella medievale, che era una logica dei termini del
linguaggio naturale, ed anche con quella antica, che era un’immagine esplicativa della physis. In
essa appare inoltre un’idea che avrà un ruolo centrale nella logica moderna: quella della possibile
‘aritmetizzazione’ del pensiero, nella quale le idee complesse sono ottenute da operazioni
aritmetiche (moltiplicazioni o addizioni) sui numeri associati alle idee semplici.
Il pensiero di Leibniz appare lo sviluppo più coerente dell’idea, già intravista nel
Cinquecento, che all’interno dell’argomentazione matematica ci fosse il nucleo di una logica
generale della scienza di cui il sillogismo era solo un capitolo, un’idea spesso contrassegnata come
mathesis universalis, che svolgeva un ruolo centrale nel metodo di Descartes.
ogni a è b
nessun a è b
qualche b è a
a
a
a
b
qualche b non è a
b
a
b
b
Fig.26
Oltre che con la matematica, la logica del seicento si legava anche alle scienze naturali. Ad
esempio, nella logica di Port Royal, si trova la distinzione, molto sfumata in Aristotele e apparsa
vagamente nel Medioevo, tra intensione ed estensione di un predicato: ad esempio, dell’aggettivo
<rosso> l’estensione era l’insieme degli oggetti rossi, l’intensione era invece il concetto di ‘rosso’,
cioè un ente essenzialmente mentale. Era una distinzione chiara anche a Leibniz, ma per lui
probabilmente irrilevante poiché i due ambiti erano legati nella sua armonia prestabilita. Nel
secolo successivo Euler introdurrà quella rappresentazione insiemistica estensionale che ancora
oggi domina nelle nostre scuole (fig.26).
Più in generale si diffondeva l’idea che quel mondo reale, ma inattingibile alla conoscenza
comune, che era diventato l’oggetto della scienza, avesse una struttura simbolica. Era conoscibile
solo in laboratorio ma, come osservava Weyl, anche la misura sperimentale è in fondo solo il
confronto tra due ‘segni’, uno risultato dalla manipolazione di leggi naturali in forma algebrica e
uno letto su uno strumeno di misura. Nel giro di un secolo tutta la fisica sarà scritta in linguaggio
algebrico, il linguaggio delle funzioni e delle equazioni differenziali.
IL SETTECENTO
Il XVII secolo è coronato dalla pubblicazione dei Principia newtoniani, nei quali la nuova
fisica viene costruita non con i concetti del calcolo infinitesimale ma col linguaggio della
geometria. Tuttavia l’algebra simbolica si era costruita uno spazio crescente, anche se all’inizio
era adoperata solo perché i segni aiutavano la memoria, esplicitavano i passaggi, semplificavano
gli algoritmi, e quindi essa apparteneva solo al metodo dell’indagine. Ma si diffondeva
l’impressione che essa aprisse nuove strade precluse al ragionamento geometrico: non è casuale
che le prove fatte col metodo di esaustione tendessero a scomparire.
Il simbolismo algebrico era stato utilizzato come un puro strumento, neutro e nel contempo
affidabilissimo, ed applicato anche a questioni come il calcolo differenziale-integrale e la teoria
delle serie che hanno a che fare direttamente con l’infinito ed il continuo. Lo stile ‘euclideo’ e la
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logica aristotelica scompaiono assieme alla scolastica: la Geometrie di Descartes non contiene
assiomi, postulati e neanche dimostrazioni, Newton ritrova il suo calcolo direttamente nella realtà
naturale, e persino un autore attento al rigore logico come Leibniz non si pone alcuna questione
logica o fondazionale nel suo uso degli infinitesimi. Questo approccio inizia con il XVII secolo e
dura fino alla fine del XVIII.
Ad esempio alla metà del XVII secolo John Wallis calcola somma dei cubi degli interi fino ad
n mostrando la regolarità del valore di tale somma per n da 1 a 6 e fornisce la formula
commentando “questo è evidente dal precedente ragionamento”: sembra di risentire Nicomaco.
Analogamente nella seconda metà del settecento fa Leonhard Euler.
Ad esempio egli parte dalla formula che esprime un polinomio tramite le sue radici non nulle:
P(x) = c (1- x/r1) (1- x/r2) (1- x/r3) …. (1- x/rn)
da moltiplicare per x nel caso di una radice nulla. E la ‘applica’ allo sviluppo della funzione
seno,con radici 0, +1, -1, +2, -2, etc.:
sin x = cx (1-x/1) (1+x/1) (1-x/2) (1-x/2)……
passando al limite per x0 ottiene che c vale . E quindi
sin x = x (1- x2/1) (1- x2/4)….
Ma il teorema di Taylor gli permette di scrivere anche
sin x = x/1! - x3/3! + x5/5! -…..
Uguagliando i coefficienti allora
/3! = -1/1 –1/4 – 1/9 -….)
ovvero /6 =
 1/n .
n
2
Dopo aver sommato una trentina di termini della serie si convinse della correttezza della
formula.
Ma tale disinvoltura non sempre ha successo.
Che i tempi stiano cambiando lo si vede nello stesso Euler che si sforza di rispondere alle
perplessità sull’uso degli infinitesimi sollevati ad esempio da Berkeley pochi decenni prima: la sua
idea è di analizzare il rapporto tra due zero, distinguendo tra un metodo aritmetico ed uno
geometrico. Il primo porta a dare a tale rapporto valore unitario, mentre il secondo permette di
dargli valori diversi. E’ ancora l’ambito geometrico l’unico che permette di dare un senso al
calcolo differenziale.
All’inizio del nuovo secolo per difendere le tecniche simboliche, di sicura efficacia ma di
dubbio fondamento, D’Alembert esortava che ‘le calcul porte sa preuve avec soi’ e ‘allez de
l’avant, la foi viendra ensuite’.
Il settecento verrà caratterizzato dall’opera di grandi fisici-matematici, quali i Bernoulli (Jean,
Jacques, Daniel), Euler, d’Alembert, Lagrange, che daranno al calcolo infinitesimale la sua forma
analitica attuale. A prima vista potrebbe sembrare una fase ‘minore’, ma ci sono due aspetti di
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questa ‘sistemazione’ che vanno sottolineati: la rottura tra filosofia naturale e scienza fisicamatematica, ed il passaggio, progressivo ma definitivo, del calcolo infinitesimale dalla forma
geometrica a quella algebrica. Sarà questo aspetto sintattico lo sfondo della più poderosa tecnica
per l’applicazione della analisi alla fisica-matematica: la risoluzione delle equazioni differenziali.
Il primo testo sul calcolo sarà quello del marchese de l’Hopital, pubblicato nel 1696, ma
dovuto in gran parte a Jean Bernoulli. Qui appaiono le definizioni di ‘quantità variabile’, che
cresce e decresce con continuità e la cui parte infinitamente piccola è il ‘differenziale’, e due
postulati: “due quantità la cui differenza è una quantità infinitamente piccola possono essere prese
o usate indifferentemente”, “una curva può essere considerata come un poligono con un infinito
numero di lati, ognuno di lunghezza infinitamente piccola, che determinano la curvatura della
curva dagli angoli che fanno tra di loro”.
Si esplicita il concetto di funzione come espressione: per Euler la ‘funzione di quantità
variabile’ è “una espressione analitica comunque composta di tale quantità variabile e di numeri o
quantità costanti”, per Lagrange sarà “un’espressione algebrica comunque composta di variabili e
contenente un numero qualsiasi di costanti”, la stessa ‘derivata’ sarà allora una ‘funzione’. Il
carattere ‘sostanziale’ delle espressioni algebriche (anche infinite) appare nel fatto che per Euler la
serie di potenze diventa la forma più generale per esprimere una funzione, e la ‘continuità’ viene
caratterizzata dall’esistenza di un’unica espressione algebrica per la funzione. Classicamente nel
XVIII secolo una ‘funzione’ era necessariamente data da una espressione analitica. Per Eulero la
distinzione decisiva è quella tra espressioni finite (funzioni algebriche) e serie infinite (funzioni
trascendenti).
Parallelamente inizia il processo di traduzione della meccanica newtoniana nel formalismo di
Leibniz.
Quindi i matematici del Settecento accetteranno inizialmente l’esistenza degli infinitesimi più
dei 'padri fondatori', Newton e Leibniz: per Jean Bernoulli “nella misura in cui il numero dei
termini è infinito, l’infinitesimo esiste ipso facto”.
Ma in realtà l’approccio ‘realista’ al calcolo (sia nella sua versione ‘geometrica’ che in quella
‘simbolica’) stava tramontando a vantaggio di un approccio puramente algoritmico, senza
riferimento agli infinitesimi, alle figure geometriche o al moto. Così il problema ‘metafisico’ della
loro natura riceveva soluzioni che oggi appaiono strane: per Euler il differenziale non è altro che
lo zero ed il calcolo solo una procedura per calcolare espressioni del tipo 0/0 che per scopi pratici
utilizza i differenziali, e motiva la sua opinione facendo vedere come la loro manipolazione si
possa ricondurre a proprietà dello zero. Boyer scrive che di 28 pubblicazioni tra il 1754 e il 1784
da lui analizzate 15 interpretavano il calcolo con i differenziali leibniziani, 6 in termini di limiti, 4
in termini di zero euleriano. E poi c’era Lagrange, il quale definiva le derivate come i coefficenti
nello sviluppo in serie di Taylor:
f(x+h) = f(x) + h f’(x) + h2/2! f’’(x)+….+ hn/n! f(n)(x) +…
In Euler il calcolo infinitesimale ha ancora caratteri spiccatamente geometrici, ma nel 1788
Lagrange pubblica la sua Mécanique Analytique, il più importante libro scientifico dopo i
Principia newtoniani, nella quale si vanta di non utilizzare più figure ma solo formule. E lo fa
veramente: un libro di 600 pagine senza neanche una figura! E spesso qualche figura sarebbe
anche utile per seguire meglio le formule, ma non c’è. Con l’affermarsi della forma algebrica
simbolica, la nuova analisi infinitesimale diventava sempre più la base non solo della meccanica
ma della fisica tout court (astronomia, acustica, ottica, teoria del calore).
Anche la teoria delle equazioni differenziali parziali, legata al concetto di funzione, cresceva
intorno a problemi di fisica. Uno dei più celebri fu quello delle corde vibranti, la cui forma è data
da una funzione u(x,t) soluzione della equazione differenziale
∂2u/∂t2 = a2 ∂2u/∂x2
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la cui soluzione nel caso di un’onda stazionaria (le oscillazioni delle corde degli strumenti
musicali non si propagano nello spazio) era una somma di sinusoidi, e quindi periodica. Motivo di
discussione tra D’Alembert ed Euler in questo studio era la funzione iniziale, se dovesse essere già
periodica, come voleva d’Alembert, o no, come voleva Euler sulla base della plausibilità fisica:
infatti una corda ferma viene di solito messa in vibrazione tirandola in alto per il suo punto medio
e poi lasciandola andare, una forma iniziale quindi non periodica e neanche data da una sola
espressione algebrica (una spezzata formata da due segmenti di retta, fig.27 destra).
FIG.27
Nella seconda metà del XVIII secolo lo studio delle vibrazioni di una corda diventa il cuore
del dibattito tra i grandi matematici dell’epoca: D’Alembert, Euler, D.Bernoulli, Lagrange.
Occorreva trovare e poi risolvere le equazioni differenziali che potevano caretterizzare il
problema. A questo punto occorreva dare le condizioni iniziali e queste, nel caso di una corda
pizzicata, potevano richiedere una funzione che noi oggi diremmo non differenziabile in un punto
e data da due spezzate. Euler estende il concetto sino a comprendere anche funzioni discontinue
definite ‘a pezzi’ e comincia ad apparire la concezione moderna di ‘funzione’ come legge che
definisce, dato il valore delle variabili, il valore della funzione, a prescindere dalla sua
espressibilità algebrica.
Euler e Lagrange fondano la meccanica su principi, quali il principio di minima azione, il
principio dei lavori virtuali, il principio della minima altezza del centro di massa, i principi di
conservazione, e caratteristica dell’epoca è la quasi impossibilità di distinguere tra matematica e
fisica, come ad esempio nel calcolo delle variazioni. Esso appare con il problema della
brachistòcrona, cioè della curva che, dati due punti su di essa a diversa altezza, in presenza della
sola gravità e del vincolo di seguire la curva, consente la discesa tra essi in un tempo minimo (non
è la retta, che dà invece la curva di minima lunghezza, fig.27 sinistra). Chiaramente questo è un
problema di minimo, ma non ‘su una curva’ bensì ‘in una famiglia di curve’, affrontato per la
prima volta alla fine del XVII secolo da Jean Bernoulli e poi dal fratello Jacques.
Essi studiarono in generale il problema di trovare in una famiglia di curve (funzioni) F quella
che minimizzava il valore di una certa funzione (il tempo, nel caso della brachistòcrona) che
dipendeva dalla curva variabile in F, una funzione di funzione che assumerà il nome di funzionale.
A questo fine Lagrange distinguerà tra la d che esprime la differenziazione lungo la curva e la 
che esprime la variazione in una famiglia di curve. Tali problemi di minimizzazione apparivano
sempre più spesso in una meccanica che si andava caratterizzando con principi di massimo e
minimo o di conservazione. Il calcolo delle variazioni è alla radice della moderna analisi
funzionale, ma la sua motivazione era fisica, problemi fisici ne segnarono lo sviluppo, e fisico fu
l’esito principale della teoria: quella meccanica lagrangiana che diventerà lo standard della fisica a
partire dalla fine del XVIII secolo.
Non diverso un altro capitolo centrale della matematica settecentesca: il metodo dei
moltiplicatori di Lagrange. Fu questo metodo sviluppato per studiare il minimo o massimo di una
funzione tra punti vincolati a variare su una linea o una superficie. Detta f la funzione e detti gi=0 i
vincoli, il metodo consisteva nel minimizzare la funzione f + l1 g1 + l2 g2+…+ ln gn al variare non
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solo delle incognite ma anche dei parametri li. Il metodo ha una elegante motivazione matematica
(in fondo riconducibile alla intuizione di Descartes e Fermat che un punto di massimo o minimo è
anche un punto ‘multiplo’, in cui cioè più soluzioni vengono a coincidere), ma ammetteva anche
una parallela motivazione fisica: le linee o superfici di vincolo per il moto di un corpo potevano
essere determinate dall’azione di forze (ad esempio di tipo pressione o resistenza che
costringevano il corpo a muoversi sulla linea o superficie), ed allora il moto veniva dedotto dai
principi di minimo della meccanica applicate senza i vincoli ma in cui fossero presenti anche tali
forze, il cui valore era proprio dato dagli li.
Quanto nell’opera di Lagrange derivasse dal problema matematico e quanto derivasse dal
problema fisico è difficile da dire, in realtà l’impressione è che mai come nel settecento tra
meccanica e calcolo simbolico la distinzione fosse impalpabile.
Nel 1744 Maupertuis introduceva il principio di minima azione, partendo dal problema della
rifrazione di un raggio di luce, ma basato su ragioni teologiche, Euler dava a tale principio un
fondamento più fisico, ma dal 1768 al 1772 nelle sue Lettere ad una principessa tedesca sulla
filosofia naturale anche lui ancora fondeva fisica, matematica, filosofia e teologia senza soluzione
di continuità.
Ma quando nel 1779 l’Accademia delle Scienze di Berlino indice un concorso sul tema delle
‘cause’ della forza, tema ragionevole per gli scienziati-filosofi del Seicento, molti filosofi
partecipano, ma nessun fisico-matematico, c’è anzi tra questi una certa ironia sul tema.
Un altro sviluppo che alla fine del settecento preannuncia la nuova analisi matematica
dell’ottocento è l’abbandono progressivo del riferimento geometrico: già Lagrange si vanta di
avere introdotto solo “operazioni algebriche” senza “né costruzioni né ragionamenti geometrici o
meccanici” per chiarire i concetti, partendo dall’idea che ogni funzione era sempre sviluppabile in
serie di potenze. E nella Mécanique Analytique di Lagrange del 1788 gli aspetti filosofici sono
ormai del tutto assenti: viene utilizzato il ‘principio di minima azione’, ma esso non ha più alcuna
motivazione che non sia puramente fisico-matematica. Oramai la fisica-matematica si separava
definitivamente dalla filosofia: il suo fondamento era da un lato nella certezza della dimostrazione
geometrica e del calcolo algebrico, dall’altro nella sua capacità di risolvere i problemi fisici.
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