storia e fondamenti della matematica
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STORIA E FONDAMENTI DELLA MATEMATICA Luigi Borzacchini (Dip. di Matematica, Università di Bari) Parte I. Dalle origini alla matematica moderna Perché un corso di storia e fondamenti della matematica nella formazione dei futuri docenti di matematica? Non basta che conoscano la matematica stessa? Cambia qualcosa nell’insegnamento della matematica se ne conosciamo la storia? Ma partiamo dalle inchieste sull’insegnamento che in passato hanno delineato una situazione abbastanza paradossale: gli studenti in genere ritengono i loro docenti di matematica abbastanza preparati, ma incapaci di insegnarla, tanto da fare della matematica la materia meno amata dagli adolescenti. Incidentalmente: la materia più detestata è la matematica, seconda, la storia. Quindi la ‘storia della matematica’ è per uno studente quanto di peggio si possa immaginare! Perché accade questo disastro didattico nella matematica? Certo lo studio di tecniche didattiche e pedagogiche può migliorare la tecnica del docente di matematica, ma c’è una questione più radicale: diversamente dalle altre discipline in cui si impara progressivamente, l’apprendimento della matematica è qualcosa che procede per improvvise ‘illuminazioni’, per passaggi dalle tenebre alla luce. E’ normale l’esperienza di ritenere qualche idea matematica astrusa e incomprensibile per molto tempo, e poi, improvvisamente, capirla chiaramente una volta per tutte. In questo modo di apprendere normalmente le difficoltà precedenti vengono rimosse, considerate quasi un momento di cecità di fronte a qualcosa di evidente. Così lo studente di matematica e futuro docente della stessa materia ritiene ovvio quello che prima gli era astruso e ‘rimuove’ le passata difficoltà, considerandole quasi un peccato di giovinezza, e quando deve insegnare si stupisce che i suoi studenti non trovino ovvio quello che per lui è da tanti anni diventato ovvio, pur essendo stato precedentemente incomprensibile. Il maestro irlandese fra le due guerre descritto da Frank Mc Court nel Le ceneri di Angela faceva ripetere ai suoi studenti ogni mattina <chi non capisce Euclide è scemo>. In realtà la matematica non è ovvia, non è naturale, non è logica, è una conquista complessa, un faticoso processo di maturazione concettuale e mentale, non capirla è ovvio, è naturale, è logico. Per questo può aiutare la storia della matematica: può rendere chiaro questo faticoso processo, esplicitare le difficoltà, relativizzare le certezze acquisite. Occorre che un professore guardi la matematica con un doppio sguardo, uno che ne veda la certezza e la perfetta struttura architettonica, e un altro che ne veda la faticosa e incerta costruzione. Esiste la necessità di ‘fondare’ la matematica? Si potrebbe tranquillamente rispondere di no. Se consideriamo infatti gli ultimi quattro secoli davanti ai nostri occhi si presenta uno scenario segnato da una sequenza continua di stupefacenti trionfi della applicazione della matematica al mondo reale nella meccanica, ottica, elettromagnetismo, termodinamica, fisica atomica, astrofisica, biologia, etc. Ma forse proprio questo stupefacente trionfo rende ancora più affascinante il problema del trovarne le ragioni: che cosa rende il mondo ‘matematico’? Un’altra caratteristica che distingue la matematica anche dalle altre scienze è il suo rapporto con la verità e la certezza. E’ indubbio che un ‘fatto’ matematico (ad esempio che 261 non è un numero primo) anche se verificato una sola volta appare molto più certo di qualsiasi regolarità naturale, anche se verificata miliardi di volte (ad esempio che domani sorgerà il sole). Anche questa ‘certezza’ che contraddistingue il ‘fatto’ matematico non può non renderci almeno curiosi sulla sua origine. 1 E la matematica è la più antica delle discipline: uno scriba mesopotamico di quattromila anni fa potrebbe fare il suo corso di matematica elementare anche oggi: sembrerebbe solo un po’ ‘sperimentale’. Di nessuna altra disciplina si può dire lo stesso. Cioè, diversamente da tutte le altre discipline il problema filosofico in matematica non nasce tanto dalle sue incertezze o mutabilità, ma proprio invece dai suoi successi e dalla sua immutabilità. E forse per questo motivo i fondamenti della matematica non sono oggi una disciplina di natura filosofica come i fondamenti della fisica, ma si presentano come una specifica branca della matematica. In questo distingueremo il problema dei fondamenti della matematica dalla filosofia della matematica, che invece conserva un impianto filosofico. Storicamente il problema dei fondamenti sembra apparire verso la fine dell’ottocento, emergendo dalla filosofia della matematica ma diventando parte integrante del pensiero matematico. Tipicamente due problemi sono centrali nel dibattito sui fondamenti della matematica. In primo luogo il problema ontologico: quale è la natura degli enti matematici. Sono realmente esistenti? sono creazioni della mente umana? O che altro? In secondo luogo il problema epistemologico: come conosciamo la matematica? La scopriamo empiricamente? La creiamo? La intuiamo? Corollario a questi due interrogativi appare un terzo problema filosofico: perché le tecniche matematiche funzionano così bene nel mondo reale? Questo problema appare chiaro quando riflettiamo sulla profonda diversità tra ciò che vediamo intorno a noi, la realtà e quello che manipoliamo quando facciamo matematica, essenzialmente segni. Da qui possiamo far partire la nostra indagine: che cosa significa conoscere tramite segni? I SEGNI E LA RAPPRESENTAZIONE SINTATTICA La rappresentazione sintattica connette due mondi: l'essere, il mondo reale (brevemente: la semantica) e il linguaggio, il mondo dei segni (la sintassi), ogni segno ‘sta per’ qualcosa, aliquid stat pro aliquo. Ma che cosa intendiamo qui per segno? Una 'traccia' (scritta sulla carta, scolpita nella roccia, incisa sulla argilla) scelta da un insieme finito, un alfabeto, di tracce. Importante sottolineare che i nostri 'segni' sono anfibi: hanno qualcosa di astratto e ideale, in quanto li riteniamo infinitamente riproducibili in modo identico e perfettamente distinguibili tra di loro: anzi sono gli unici enti dei quali si possa realmente predicare la assoluta uguaglianza e diversità, i segni sono gli 'apriori' del concetto moderno di "uguaglianza" a partire almeno da Platone: si possono creare infiniti 5 e tutti identici fra di loro per quanto diversi possano essere dimensioni, materiali, stili di scrittura, e un 5 e un 4 sono totalmente diversi per quanto somiglianti possano apparire. Essi hanno tuttavia anche qualcosa di materiale e concreto, in quanto li riteniamo costruibili e manipolabili tecnicamente. Dal punto di vista della funzione di 'rappresentazione', vengono ritenuti convenzionali nella forma e intersoggettivi nel significato e nell'uso (secondo "regole"). Sono insomma i nostri segni logici, numerici, algebrici, ma anche quelli alfabetici nella misura in cui il linguaggio naturale viene usato come 'protocollo di comunicazione' di fatti. La linguistica contrappone spesso questo tipo di rappresentazione 'sintattica' ad una rappresentazione 'iconica', in cui gli elementi del mondo reale sono rappresentati da loro 'immagini' più o meno stilizzate (ad esempio le silhouettes di uomini e donne sulle porte delle toilettes). I segni e la loro funzione di rappresentazione sintattica sono la base di ciò che qui intendiamo per pensiero formale. Qualcosa che fa parte integrante della nostra vita, al punto da apparire del tutto ovvia. Ma è davvero tale? Ma che cosa è il ‘pensiero formale’? Può avere diversi significati, ma noi lo intendiamo come ragionare senza comprendere. E’ qualcosa di comune in logica e matematica. Confrontiamo queste due deduzioni: <ogni barese è pugliese, Giovanni è barese, quindi Giovanni è pugliese> e 2 <ogni sarchiapone è sesquipedale, Joe è un sarchiapone, quindi Joe è sesquipedale>: quale è la differenza? Le deduzioni sono identichea, ma la prima deduzione ha un ‘senso’, possiamo addirittura conoscere un tale Giovanni barese, la seconda è puramente formale, non ha alcun ‘senso’. Oppure consideriamo questi due problemi: <ogni cartone contiene 6 uova, la mamma compra 4 cartoni, quante uova compra? 24> e <ogni brik contiene 6 stuk, abbiamo 4 brik, quanti stuk abbiamo? 24>. Le operazioni sono le stesse, ma la prima è qualcosa di assolutamente comune, la seconda non significa niente, è puramente ‘formale’. Consideriamo ad esempio un astronomo (caldeo, rinascimentale o contemporaneo) che guarda la luna e ne rappresenta la posizione attraverso coordinate astronomiche (figura 1): è questo l'aspetto 'statico' della rappresentazione (descrive il regno della realtà, ed è erede della 'characteristica universalis' di Leibniz). | | | | | | | | | | | | | rappresentazione moto divenire mutamento 27°N 12°E calcolo deduzione regola 31°N 28°E interpretazione figura 1 Ma l'astronomo può anche prevedere, 'calcolare', attraverso tavole, operazioni, calcoli, equazioni, ecc., la posizione che la luna assumerà più tardi e verificare il risultato. Se la posizione così prevista e quella reale coincidono, la rappresentazione si dice corretta (matematicamente diremmo che il diagramma 'commuta'). Questo è l'aspetto 'dinamico' della rappresentazione (descrive il divenire, il mutamento, ed è erede del 'calculus ratiocinator' di Leibniz). I due 'mondi', sintassi e semantica, appaiono del tutto eterogenei e quindi si pone immediatamente il problema del come faccia questa "tecnica rappresentativa" a 'funzionare' (e che 'funzioni' è provato dalla sequenza praticamente ininterrotta di trionfi della nostra conoscenza 'sintattica', la matematica applicata soprattutto alla fisica, negli ultimi quattro secoli), non solo come 'ricetta' empirica di registrazione di fatti, ma addirittura come fondamento della stessa idea di "verità". Proviamo a delineare più precisamente le difficoltà connesse con l'idea di rappresentare la realtà tramite "segni". In primo luogo consideriamo la doppia caratterizzazione della rappresentazione sintattica, allo stesso tempo convenzionale e intersoggettiva. A pensarci bene la intersoggettività sarebbe meglio garantita da una rappresentazione iconica (e del resto la prima idea di 'rappresentazione' che troviamo nella cultura greca è mimēsis, "imitazione"), che da una sintattica, la quale invece, in quanto convenzionale, si presenta essenzialmente soggettiva. In parole povere: sulla porta della toilette, scrivere 'uomini' e 'donne' invece di usare le 'silhouettes' rende la rappresentazione più 'soggettiva' (ad esempio la rende incomprensibile a chi non capisce l'italiano). Le due caratterizzazioni del 'segno' appaiono così curiosamente contraddittorie: le ragioni della 3 "convenzionalità", legate soprattutto alla diffusione della scrittura, paradossalmente ne minano la "intersoggettività" . In secondo luogo confrontiamo, nell'esempio astronomico fatto più sopra, il moto reale della luna durante la notte, continuo, quasi uniforme e rettilineo, con le operazioni sintattiche fatte dagli astronomi, col moto delle palline sull'abaco o con gli scarabocchi delle operazioni aritmetiche o con le transizioni di stato in un calcolatore. Non solo questi sono processi discreti, ma presentano un carattere apparentemente caotico del tutto inconfrontabile col moto regolare della luna. Questa differenza continuo/discreto (regolare/caotico) si traduce in diverse difficoltà della rappresentazione: la 'rappresentazione sintattica' richiede simboli 'elementari' mentre quella 'iconica' no, le parti della rappresentazione di un oggetto non sono rappresentazioni delle parti dell'oggetto stesso (a quale parte di Socrate corrisponde la 'o' del suo nome?), mentre invece questo accade nella rappresentazione iconica (la mano nella immagine di Socrate è l'immagine della mano di Socrate), ed infine la relazione non è biunivoca: un predicato corrisponde a molti oggetti e un oggetto possiede molti predicati. In terzo luogo l’immagine reale è istantanea, distribuita su una superficie bidimensionale, mentre invece la rappresentazione simbolica si sviluppa nel tempo (nel caso della oralità) o lungo una linea da seguire con la mano o con lo sguardo (nella scrittura). In quarto luogo la corrispondenza è abbastanza semplice per termini osservativi (come "casa" o "giallo"), più complessa per termini astratti (come "bellezza" o "giustizia") o costrutti teorici (come "carica elettrica"), ma esistono parole per le quali la corrispondenza è del tutto impossibile, quali "essere", "verità", "negazione", ecc. Addirittura nella realtà rappresentata dalla proposizione "non c'è niente di rosso" non solo non troviamo qualcosa corrispondente a "non", a "niente" o a "c'è", ma neanche qualcosa corrispondente a "rosso". Un'ape forse può trasmettere informazioni sulla presenza di polline semplicemente 'mimando' direzione e distanza, ma può in tal caso 'mentire' o 'riconoscere un errore', in generale tematizzare il falso? Esistono poi i termini matematici, quali numeri o relazioni ("uguale" o "più/meno"), i quali non ammettono corrispondenze 'analitiche', ma solo 'olistiche', relative cioè alla 'totalità' della immagine, non sono ‘attributi’ ma ‘relazioni’ tra cose: in "ci sono due stelle" o "i pianeti hanno uguale luminostità" il 'due' o l''uguale' non possono essere predicati di nessun oggetto singolo, ma solo del fatto complessivo. Alla periferia della scienza europea troviamo zone dove, del pensiero formale, si perdono le tracce. Il bambino di Piaget arriva al pensiero formale lentamente tra i 6 e gli 11 anni, ed in modo in fondo abbastanza misterioso anche se la scuola sembra giocarvi un ruolo decisivo. Qualcosa di analogo si trova nelle indagini antropologiche, quali quelle di Levi-Strauss. Negli | | | | | | | | | | idee mente parole oggetti realtà rappresentazione linguaggio figura 2 anni ’30 Luria e Vigotskij approfittarono della politica stalinista di imposizione della scuola di massa per studiare la transizione in tempi rapidi da ‘culture orali’ a ‘culture della scrittura’. In Uzbekistan trovarono una popolazione di antica cultura, ma del tutto analfabeta, che fu costretta nel giro di pochi anni a passare ad una scolarizzazione integrale. Fratelli più grandi analfabeti e fratelli più piccoli secolarizzati. Impressionante il cambiamento per quanto riguardava il ‘pensiero 4 formale’, che sembrava quasi assente nei primi e ‘normale’ nei secondi. Ad esempio di fronte a questioni del tipo “Nei boschi qui intorno tutti gli orsi sono marroni. Se incontri un orso, di che colore è?” Entrambi rispondevano “ovviamente, marrone”. Ma di fronte alla stessa questione riferita però agli orsi bianchi (mai visti dagli uzbechi) dell’estremo nord, mentre il secondo rispondeva “ovviamente bianchi”, il primo mostrava difficoltà a fare una inferenza riguardo fatti di cui non aveva esperienza. Il Bororo di Levi-Strauss o l'uzbeco di Luria appaiono fuori del pensiero formale, ma LeviStrauss insiste che non si tratta di 'illogicità' ma di una logica "concreta" al posto di una logica "formale", e Luria sottolinea l'apparire del pensiero formale al seguito della scolarizzazione di massa. Il pensiero formale è nato 'una volta sola', intorno al V sec. A.C. in Grecia. Quali forze segnano questo emergere? Sono i secoli che segnano l'affermazione definitiva di una economia basata sulla moneta, della città e della sua scuola, l'emergere degli intellettuali come ceto laico, il crollo della famiglia allargata, la diffusione di massa della scrittura alfabetica. Di questa specie di 'melting pot' forse l'aspetto che ci interessa sottolineare, visto che dobbiamo studiare i 'segni', è il ruolo pervasivo della tecnologia alfabetica. Del resto diversi autori hanno sottolineato il ruolo decisivo delle forme linguistiche e del medium comunicativo nella stessa 'forma' di una civiltà: da von Humboldt all’inizio del XIX secolo sino, in tempi più recenti, a Whorf, Sapir, Havelock, MacLuhan. La idea di rappresentazione ha un ruolo cruciale nella 'novità' del pensiero greco, non solo nella astronomia geometrica e nel pensiero formale: si pensi alle carte geografiche che la tradizione ascrive ad Anassimandro, Ecateo, fino ad Aristagora, tiranno di Mileto, che porterà in Grecia "una tavola di bronzo su cui erano incisi i contorni di tutta la terra, con tutti i mari e tutti i fiumi". Ed anche l'alfabeto è nato 'una volta sola': tutti gli alfabeti sembrano essere derivati direttamente o indirettamente da un proto-alfabeto nato tra il Sinai e la Fenicia nella seconda metà del II millennio a.C. e poi perfezionato dai Greci. Nella cultura greca classica l'intera struttura del ceto e della funzione intellettuale viene stravolta dal ruolo sempre più rilevante assunto dalla scrittura. Di questo cambiamento epocale si sente l'eco nelle parole di Platone, nel Phaedrus 274b-275c, ove narra il mito sulla nascita della scrittura (oltre che della matematica e dei giochi combinatori) da parte del dio greco Theuth. Il dio mostra a re Thamus di Tebe le sue invenzioni e ne vanta l'utilità. Ma quando giunse alla scrittura, Theuth disse "Questa dottrina, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza." E il re rispose: "O ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di creare le arti e chi invece è capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, padre delle lettere, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza delle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi: dunque tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza poi tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: infatti essi divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza 5 insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti." Paradossale la 'paura' espressa da Platone, quando si pensi che grande scrittore egli sia stato, quanto dovette alla sua opera il pensiero formale e quanto debba il suo ruolo nella storia della filosofia al fatto di essere stato il primo filosofo i cui testi sono arrivati, grazie alla scrittura, sino a noi quasi integralmente. In mille e mille passi Platone ed Aristotele ci mostrano che è l'alfabeto la metafora di quella forma europea del sapere, centrata sulla rappresentazione sintattica. Un sapere fatto di enti discreti complessi costituiti di elementi irriducibili ad altro da sé e la cui conoscenza è fuori della dialettica. La dialettica compare al di là degli elementi, laddove essi si compongono e pongono le basi dell'idea gerarchica, composizionale e funzionale della conoscenza (sia la realtà che il linguaggio scientifico sono costituiti di oggetti complessi composti a partire da oggetti più semplici, ed il funzionamento e significato di questi si ricavano univocamente a partire dal funzionamento e significato di quelli), che resta l'impronta digitale della nostra civiltà. La matematica viene dall’Oriente e fino a quasi tutto il medioevo è sempre stata un ‘prodotto’ orientale: la Grecia antica in fondo era la ‘periferia’ dell’Oriente. Archimede di Siracusa è il più ‘occidentale’ matematico antico, ma i suoi riferimenti culturali erano tutti orientali. Si può considerare Leonardo da Pisa, detto ‘il fibonacci’, vissuto nella prima metà del XIII secolo, il primo matematico ‘occidentale’. E prima dei Greci la matematica era patrimonio degli ‘scribi’, quei sacerdoti del tempio e del palazzo che avevano il monopolio della cultura, della scrittura e della matematica, così che, pur apparendo negli antichi miti e rituali, aveva un aspetto essenzialmente pratico: calcoli relativi ad aree, a quantità di beni, a problemi amministrativi. Harpenodaptai (tenditori di corde) erano detti gli scribi egizi che dopo ogni inondazione del Nilo rimisuravano con corde e paletti i campi a fini fiscali. Probabilmente la matematica si svolgeva soprattutto sull’abaco che all’origine era solo una superficie piana coperta di sabbia sulla quale si potevano tracciare linee e poggiare sassolini. Era l’antenato del nostro pallottoliere ma serviva probabilmente anche a fare costruzioni geometriche, ad esempio per scoprire come calcolare le aree delle figure geometriche (la fig.2 bis mostra come si poteva scoprire sull’abaco la regola per il calcolo dell’area del rettangolo). Del resto lo stesso Archimede fu ucciso sulla spiaggia mentre faceva geometria sulla sabbia. I ‘sassolini’ finivano con l’essere nel contempo punti, quadratini unitari e unità, antenati di quelle che i Greci chiameranno monadi, così che tanto un intervallo di lunghezza n quanto il numero intero n saranno da essi considerati una sequenza lineare di n ‘monadi’ (fig.1, destra). FIG.2 BIS Non si trova traccia di ‘dimostrazioni’, ma non si deve credere che si trattasse di una matematica rozza. Ad esempio, gli egiziani avevano un algoritmo per la moltiplicazione tra interi, rapido e facile, che usava non le tabelline ma di fatto la scrittura binaria dei numeri. Supponiamo 6 ad esempio di voler moltiplicare 27 per 13. Iteriamo il raddoppio di 27 fino ad ottenere il suo multiplo 2n-esimo con 2n minima potenza di 2 maggiore di 13, e scriviamo 13 come somma di multipli di 2: otteniamo 13 = 8 + 4 + 1, contrassegniamo con una × i termini di tale somma: × × × 1 2 4 8 16 27 54 108 216 432 Ora sommiamo i multipli contrassegnati dalla ×: 27 + 108 + 216 = 351, che è il risultato cercato, senza tabelline. I NUMERI E L’INFINITO. I PITAGORICI E GLI ELEATI In realtà la storia della matematica fino al Rinascimento mostra lo sviluppo di due tradizioni, tra di loro talora comunicanti, ma nettamente distinte. Vi è una tradizione pratica, fondata sull’uso dell’abaco, senza dimostrazioni ma sviluppata solo con esempi, appresa oralmente per apprendistato, diffusa nella pratica di agrimensori, commercianti, architetti in maniera uniforme in tutto il Mediterraneo fino in Oriente. Non vi è una distinzione tra continuo e discreto, sull’abaco con l’uso di linee e pietroline tanto si svolgono calcoli aritmetici quanto si misurano superfici geometriche. Non vale il ‘principio di omogeneità’ (per il quale si possono sommare e confrontare solo grandezze della stessa dimensionalità). Questa matematica sopravviverà nei secoli più bui del Medioevo e crescerà con lo sviluppo economico della nuova civiltà europea. L’aritmetica pratica era legata al calcolo e alla misura. Inoltre apparirà organicamente legata alla filosofia e alla teologia, dominata da un clima pitagorico e platonico fino alla fine dell’antichità: il testo più importante dell’aritmetica greca fu quello di Nicomaco, vissuto ad Alessandria tra I e II sec. d.C., il più noto di una serie di testi in cui l’aritmetica veniva descritta all’interno della tradizione neoplatonica dominante, senza nessuna parentela con la grande tradizione dei geometri teorici e nella quale ogni numero era figurato, caratterizzato filosoficamente ed entrava direttamente nella costituzione stessa della realtà. Gli Elementi di Euclide includeranno anche tre libri aritmetici, il VII, VIII, IX, in cui l’aritmetica verrà trattata teoreticamente rappresentando i numeri come segmenti: una aritmetica basata su postulati e dimostrazioni, e sui concetti di rapporto e di proporzione, ma potremmo dire in un certo qual modo ‘adottata’ dalla geometria. I numeri erano interi, cardinali e finiti. Non esistevano i numeri reali ma anche i razionali non c’erano (eccetto le ‘parti’, le frazioni unitarie 1/n, molto usate già in Egitto). Ovviamente al mercato esistevano dei modi pratici per trattare le frazioni, ma questo non aveva nessuna eco nella aritmetica greca. L’altra tradizione è molto più effimera, è quella teorica dei grandi geometri greci, Archita, Eudosso, Euclide, Apollonio, Archimede, fiorita tra il IV e l’inizio del II secolo a.C., con alcuni epigoni successivi, come Pappo. E’ solo geometria non metrica, era puramente teorica e centrata sulla teoria delle proporzioni, e sui concetti di uguaglianza e similitudine, con dimostrazioni rigorose e principio di omogeneità, senza calcoli, esposta in libri e praticamente quasi del tutto inutile, scomparsa nella tarda antichità e riapparsa solo con le traduzioni dei classici greci alla fine del Medioevo. Appariva netta in essa, contrariamente alla tradizione pratica, la opposizione tra numeri e grandezze, tra aritmetica e geometria che durerà fino al Rinascimento. E proprio tale opposizione spiega la assoluta centralità della teoria dei rapporti e delle proporzioni nella matematica premoderna, come unico linguaggio per estendere alla geometria teorica concetti di natura aritmogeometrica. La tradizione teorica si tramandava attraverso la scrittura e nelle scuole, che nelle città greche andava assumendo i caratteri moderni: relativamente di massa, spesso pubblica e fondata ai livelli 7 elementari sul leggere, scrivere e far di conto, le fondamentali capacità della manipolazione dei segni, l’insegnare. Certo, ci furono matematici in cui si leggono entrambe le tradizioni: il ‘teorico’ Archimede fu anche grande ingegnere ed il ‘pratico’ Erone fu anche ottimo geometra: non causalmente ad essi si attribuisce la ‘formula’ per il calcolo dell’area del triangolo a partire dalla lunghezza dei lati, una regola che per il suo carattere metrico sarebbe stata impensabile in Euclide. Tuttavia la distinzione tra queste due tradizioni era molto più netta di quella attuale tra matematica pura ed applicata, le quali per noi in fondo condividono metodi, concetti, linguaggi, istituzioni formative e tecniche didattiche. Sono due tradizioni che si fonderanno all’epoca di Descartes per creare la matematica europea. Nelle tradizione pratica i numeri erano da un lato parole del linguaggio orale dall'altro segni scritti. Questi ultimi sembrano essere stati costruiti secondo lo schema generale di costruzione della scrittura più antica, come icone degli oggetti di calcolo, dita, pietroline, cerchi, bastoncini, mani etc., con tracce probabili di prestiti fonetici, cioè dell'uso di segni rappresentanti parole di uguale pronuncia. Come parole i numeri erano credibilmente sempre "numeri di…", potremmo dire aggettivi o determinativi, ed anche in greco 1, 2, 3, 4, 100, 1000 erano declinati per genere e caso. Il numero aveva cioè da un lato un carattere semantico-computazionale, dall'altro la natura di attributo cardinale di un insieme di oggetti concreti. Le operazioni venivano spesso effettuate su 'tavole' la cui natura può variare: semplici ripiani, ripiani in qualche modo quadrettati, abaci, sui quali vengono mossi 'pezzi' quali gettoni, pietroline, bastoncini, etc. Più complesso appare il ruolo della geometria. Sicuramente sembra svolgere un ruolo minore: appare uno dei tanti settori pratici in cui si applicano le tecniche su accennate. Occorre così ricordare quanto descritto da Erodoto ne Le Storie: quando il Nilo asportava pezzi di terra il Faraone mandava degli specialisti a computare l'area di quanto rimasto ai fini fiscali: era una funzione cruciale, ma era sempre una geometria puramente metrica. Tra le relazioni particolari messe in gioco nei problemi geometrici appaiono diverse proprietà concernenti l'area ed il perimetro di figure geometriche, volumi, similitudini e rapporti, e altre proprietà di natura metrica. Appare l'idea di calcolare l'area tramite dissezione della figura in questione (in Cina si trovano esempi di un simile calcolo anche per volumi), ed è largamente usato il "teorema di Pitagora". Ma credo sia possibile una valutazione più articolata. La geometria appare, sicuramente in Cina e presumibilmente in Mesopotamia, sotto un altro aspetto: come tecnica di dimostrazione e anche di memorizzazione di proprietà che noi diremmo algebriche: nel seguito ne daremo alcuni esempi (per il calcolo delle radici, per il teorema di Pitagora, etc.). Si comprenderebbe così perché la terminologia 'algebrica' sia di natura 'geometrica'. Questo ruolo 'metodologico' e 'algebrico' della geometria deriva verosimilmente da tecniche quali l'uso dell'abaco o strumenti analoghi in cui la disposizione geometrica di oggetti era alla base sia di calcoli geometrici che di tecniche aritmetiche ed algebriche. Forse di qui derivava la prassi pitagorica della rappresentazione figurata dei numeri (triangolari, quadrati, rettangolari, gnomone, etc.: vedi fig.3). Le pietroline sono quindi nel contempo unità, punti, quadrati unitari, monadi: una vera aritmogeometria. La risoluzione di problemi matematici basata in gran parte sull'uso di 'tabelle'. Così le frazioni vengono trattate nella matematica egiziana usando tabelle della decomposizione di una frazione generica in frazioni unitarie, e nella matematica babilonese la divisione si basa su tabelle degli "inversi". Questo aspetto porterà alla cosiddetta algebra geometrica che costituisce II libro degli Elementi di Euclide (vedi fig. 3bis, nella quale vi sono le dimostrazioni geometriche delle nostre formule algebriche ( a + b )2 = a2 + 2 a b + b2 e ( a + b ) ( a - b ) = a2 - b2, ed anche 8 Neugebauer osserva che "i contenuti dell'algebra geometrica utilizzano risultati che erano noti in Mesopotamia". fig.3 b a a-b a b b fig.3bis In fig 3ter una costruzione che appare come teorema nel II libro degli Elementi (le due figure nella parte superiore) e potrebbe essere la base della tecnica babilonesi di risoluzione delle equazioni di II grado. Siano date la somma s di due grandezze e il rettangolo P, BCEH in figura, che ha tali grandezze come lati. Prolunghiamo il lato CB di P per farlo diventare AB uguale ad s e tracciamo la diagonale AO (figura in basso a destra). Sia D il punto medio di AB e costruiamo il quadrato BDLN: se calcoliamo d, lunghezza di FG e quindi differenza tra s/2 e uno dei lati, possiamo calcolare i due lati. Sia MN = CE, allora i due rettangoli quadrettati sono uguali e il quadratino di lato d si può calcolare come differenza tra il quadrato di lato s/2 e lo gnomone DFGMNB, la cui area è proprio P. Ma s e P sono noti e quindi è noto il quadratino e di conseguenza anche d. La figura a sinistra era anche la base della procedura pratica per calcolare la √A (il lato del quadrato A). Se infatti a è una buona prima approssimazione di √A, allora √A= a+b, con b molto minore di a, e di conseguenza nel quadrato A il quadratino di lato b si può trascurare, ottenendo A ~ a2+ 2ab (corrispondente ad una figura ad L, differenza tra un quadrato e un quadratino in esso contenuto come in figura, detta uno gnomone). Così la seconda approssimazione si ottiene aggiungendo ad a il valore approssimato b ~ (A-a2)/2a. A tale nuova approssimazione si può riapplicare la stessa procedura per trovare una terza approssimazione, e così via. 9 b a a b s/2 b s/2 s/2 - b d/2 O P L S E F M N G H d fig.3 ter A C D B L’idea di infinito e l’opposizione continuo/discreto sono parte cruciale sin dall’origine della prima caratterizzazione e del punto di distacco della tradizione teorica greca dai modelli orientali. Di quelli egiziani e mesopotamici è rimasto molto poco, così che la mancanza di riferimenti all’infinito o al continuo/discreto potrebbe sembrare accidentale, dovuta alla mancanza di fonti. Considerando però la cultura cinese, possiamo analizzare una grande tradizione matematica che nel finito è stata fino a pochi secoli fa almeno confrontabile con quella occidentale, ed alla quale probabilmente dobbiamo la nostra notazione numerica, gli algoritmi numerici, e diverse tecniche combinatorie, oltre che le scoperte che hanno segnato l'inizio del 'moderno' in Europa: la bussola, la stampa, la polvere da sparo. Eppure in tale cultura l’infinito (ed il continuo) gioca un ruolo minore (potremmo dire nullo): rimane l’indefinitezza del tao ma niente di più. La nostra attuale idea di continuo e discreto è quella delineata oltre duemila anni fa da Aristotele, ma espressa in forma numerica solo con la nascita della scienza moderna, nel 'programma' di Descartes, ove il discreto è visto come un ‘campionamento’ del continuo (i numeri interi sono particolari numeri reali), e il continuo è ‘esprimibile’ tramite il discreto (i numeri reali sono rappresentati da una sequenza infinita di cifre). In maniera più formale i numeri reali si considerano una estensione (come i relativi e i razionali e poi i complessi) a partire dai naturali allo scopo di trovare soluzioni ad equazioni a coefficienti interi. Noi siamo così abituati a scrivere un numero reale come due sequenze di cifre separate da un ‘punto’: ... a3 a2 a1 . a-1 a-2 a-3 .... che non ci accorgiamo del fatto che quel piccolo ‘punto’ separa due universi radicalmente differenti in tutta la storia della matematica e del pensiero, che solo saltuariamente e provvisoriamente (come appunto nella rappresentazione del numero reale, nei secoli segnati dal trionfo della fisica matematica) hanno trovato un punto di raccordo. La prima sequenza sempre finita, a sinistra del punto, appartiene al dominio dei numeri interi, contabili, alla numerazione, per contare uomini e pecore, ed origine dei segni numerici. Al di là del punto, come al di là di uno specchio, la seconda sequenza appartiene all’universo delle grandezze, alla misurazione, legata alla realtà esterna, in primo luogo sociale ed economica, ma segnata anche dai fenomeni astronomici. Ed inoltre, mentre la prima sequenza è sempre finita, e solo ‘potenzialmente’ infinita (“esiste sempre qualcosa oltre” nella definizione aristotelica), la 10 seconda può e deve essere ‘attualmente’ infinita (“non esiste niente oltre” nella definizione aristotelica) per denotare un generico numero reale. Il concetto di 'infinito' non ha basi empiriche, inizialmente è solo un ‘indeterminato’, ma nel V secolo comincia ad assumere un carattere più esplicitamente quantitativo, "per addizione" con Archita (dimostrazione dell'illimitatezza dell'universo per l'assurdo di attraversare l'eventuale limite con un bastone) e "per divisione" con Anassagora (non esistenza di un limite alla divisibilità) ed Eudosso (tecniche di esaustione): in tutti i casi si tratta di un infinito 'dinamico', 'potenziale', legato cioè in fondo all'idea 'ordinale' di numero. Del resto anche il bambino concepisce l'infinità dei numeri quando si accorge che non c'è un limite al continuare a contare, con una notazione numerica linguisticamente e sintatticamente illimitata. L’idea di infinito che noi riteniamo 'ovvia' non emerge se non insieme ad un’idea astratta di ‘numero’, ben diversa dalla connotazione ‘aggettivale-cardinale’ del numero nella aritmetica greca, il “numero di…”. La stessa locuzione ‘infinito in numerosità’ viene usata da Platone per connotare questa idea ‘quantitativa’ di infinito o illimitato, a fronte credibilmente di una idea semplice di apeiron destinata a conservare ancora in Platone una qualche caratterizzazione di generica 'indeterminatezza'. Per le grandezze aritmetiche l'idea di infinito non si poneva, ma anche per le grandezze geometriche tale idea si rivelava ostica: ancora in Euclide ed Archimede eutheia è una linea retta finita, che può essere estesa all’infinito, ma non esiste una parola per distinguere il 'segmento' dalla 'retta'. Ma se per la retta esiste una idea di infinito ‘potenziale’, niente del genere per il piano o lo spazio: quella greca è una geometria piana senza il ‘piano’, solida senza lo ‘spazio’. Abbiamo notizie molto vaghe sulla dottrina dello stesso Pitagora. Il reale contributo suo e dei suoi immediati seguaci alla matematica è stato nettamente ridimensionato da Walter Burkert. Tale operazione è in larga parte condivisibile e probabilmente occorre considerare Pitagora all'interno dei rapporti stretti tra Grecia (Samo in particolare) ed Egitto, intensi ad esempio ai tempi della occupazione dell'Egitto da parte di Cambise nel 525 a.C.. Ed Erodoto attesta che questi contatti comprendevano rapporti coi sacerdoti egizi da parte di cittadini e commercianti greci. L'acquisizione di tecniche e idee della casta sacerdotale egizia era destinata ad avere però poi uno sviluppo del tutto originale in un ambiente culturalmente 'destrutturato' come quello delle colonie greche. Possiamo dire che anche per la matematica vale quello che vale per la invenzione dell'alfabeto greco a partire da quello fenicio: l'"emergenza" pressocchè immediata legata alla diffusione di un tipo di scrittura creata in una certa società per un certo linguaggio in un linguaggio e una struttura sociale del tutto diversi. La apparente 'banalità' del fatto rende ancora più sorprendente le dimensioni epocali delle sue conseguenze 'immediate'. Il fenomeno risulta più comprensibile se si ricorda che queste tecniche, sviluppate in ambienti sacerdotali, venivano ora applicate in una società 'aperta' e in rapida evoluzione: le figure intellettuali dei primi filosofi greci appaiono estranee al 'palazzo' e alla religione ufficiale, ma in qualche modo connesse alla nascita della polis greca. La matematica non è più tecnica specifica dello 'scriba' nella sua funzione di funzionario addetto alla amministrazione del 'palazzo', dei suoi conti e dei suoi calendari, ma diviene uno "schema di libera educazione". Il pitagorismo appare in tutta la sua dimensione se solo consideriamo il quadrivio, quella ripartizione delle scienze matematiche di stampo certamente pitagorico, che reggerà fino al Medio Evo e che appare del tutto eterogenea rispetto alla tradizione precedente, egizia, babilonese, ma anche alla tradizionale formazione del giovane nobile indo-europeo basata su musica e ginnastica I pitagorici consideravano le scienze matematiche divise in quattro parti: una metà riguardante la quantità, l'altra metà riguardante la grandezza; e ciascuna delle due la 11 consideravano duplice. Una quantità può essere considerata per il suo proprio carattere o in relazione ad un'altra quantità, le grandezze come stazionarie o in moto. L'aritmetica studia allora la quantità in quanto tale, la musica le relazioni tra quantità, la geometria la grandezza a riposo, la sferica [astronomia] la grandezza in moto.(Proclo, Commentari al I libro degli Elementi, 35-36) Caratteristica della tradizione teorica, dopo Pitagora, è la autonomia della geometria, superando la tradizione pratica che di trattava i problemi geometrici come semplici calcoli aritmetici senza principio di omogeneità, così che sia Erone che Diofanto sommavano aree e perimetri, aree e lati, etc., una tradizione che rimase estranea ai grandi problemi della geometria greca: l'incommensurabilità, il continuo, le parallele, etc. E questa autonomia diventerà anche centralità della geometria nella matematica che durerà fino al XIX secolo, relegando l’aritmetica ad un ruolo minore, fino a Gauss. B1 A2 B2 + B3 + B4 –B1 tg a = A1 -A5+A2+A3+A4–A1 a B2 A3 B3 A4 Fig.4 A5 B4 I babilonesi avevano creato una astronomia ricca di dati empirici, da cui erano in grado anche di prevedere fenomeni quali le eclissi di luna, ma senza un ‘modello’ dei cieli, i greci invece non fecero vere osservazioni astronomiche e usarono soprattutto dati babilonesi, ma crearono già nel IV secolo a.C. con Eudosso un modello dei cieli basato su sfere rotanti, un modello che Claudio Tolomeo complicò immaginando sfere rotanti incastonate su altre sfere rotanti. L’uso ‘modellistico’ della geometria: non apparve solo in astronomia ma anche nella rappresentazione geografica: si pensi alla carta del mondo di Anassimandro o al tunnel dell’ingegnere greco Eupalino di Megara, realizzato con una serie di costruzioni semplici ma testimoni di un uso modellistico della geometria, che consentiva di calcolare la tangente dell’angolo con cui occorreva perforare la montagna (fig.4). Ed anche questa caratteristica tutta greca ci riporta al problema della rappresentazione ed al pitagorismo. Infatti il continuo geometrico appare ai greci come il regno dell’essere, del reale, della sua diretta percezione (e della sua non denominabilità), mentre il discreto aritmetico è un piccolo regno dei segni e appare anche la sua possibilità di rappresentare e di conoscere l’essere, pure quando non immediatamente percepibile. E' Parmenide il vero padre del pensiero formale, in quanto ne inizia a rivelare tutte le difficoltà: 12 infatti identico è il pensare e l'esistere(28. 3,1) è necessario che il dire e il pensare siano l'essere (28. le vie di ricerca pensabili: l'una, che è e non è possibile negare, è la via della Persuasione (che segue alla Verità); l'altra, che non è e che è necessario negare, questo ti dico è un sentiero del tutto indagabile. E infatti non puoi né pensare né dire ciò che non è (non è infatti possibile). (28. 2,3-8) Non ti permetterò né di dire né pensare ciò che non è. Infatti non si può dire né pensare ciò che non è. (28. 8,79) E la necessità di trovare qualcosa di stabile nel flusso del divenire come condizione necessaria per una conoscenza esprimibile linguisticamente causa l'immediato apparire del "paradosso del giudizio negativo": se un'affermazione corrisponde ad un fatto che è, allora una negazione corrisponde a qualcosa che non è, ma una frase su ciò che non è, è intorno al nulla e quindi impossibile. Inevitabile tale paradosso quando si richieda una perfetta corrispondenza tra realtà, pensiero e linguaggio (il ‘triangolo semiotico’, fig.2). L'uomo europeo e la sua scienza sono il frutto di questa scelta, che consisteva in definitiva nella costruzione del pensiero formale, una scelta di cui è parte integrante l'apparire al suo interno dei paradossi del non-essere. Soprattutto la tradizione idealista da Parmenide a Platone è il risultato di questa scelta, come sottolinea Aristotele, nella Metaphysica, 1078 b 14-17: tutte le cose sensibili scorrono perpetuamente, di modo che, se c'è scienza e conoscenza di qualche cosa, devono esistere, al di fuori di quelle sensibili, certe altre entità che permangano stabilmente, giacché non potrebbe esserci scienza di cose che scorrono. Il paradosso è reso più 'virulento' dalla origine 'visuale' dei termini greci di conoscenza: idein, eidos, noein, theōriaTutti verbi connessi alla 'visione' e progressivamente divenuti espressione della conoscenza anche 'teoretica'. Una accezione 'visiva' della conoscenza, combinata con i problemi del 'non essere', implica la quasi coincidenza tra "pensare ciò che non è", "dire ciò che non è", e "vedere ciò che non è", e quindi accentua il carattere 'devastante' del paradosso del giudizio negativo: … E' possibile che un uomo pensi ciò che non è … Ci sono forse altri casi in cui si verifica una situazione del genere? Si, che qualcuno vede qualche cosa ma non vede nulla. (Theaetetus 188e) La opposizione di essere e divenire, di sostanza e di accidente, si traduceva sostanzialmente nella coincidenza tra divenire e contraddizione, e questo si manifestava ad esempio nella difficile concezione del “moto”, che essendo un ‘mutare’ (di luogo, affine ai mutamenti di sostanza, dimensione, qualità in Aristotele), non poteva “essere” in senso stretto. Una difficoltà il cui superamento si rivelerà cruciale per la fisica rinascimentale. Se ne vede traccia nei paradossi di Zenone rivelano alla radice della tematica del “continuo” i paradossi della divisibilità, del numero e dell’essere nell’antico pensiero greco. In “Achille e la Tartaruga” quest’ultima parte con un vantaggio e quando Achille lo avrà colmato la tartaruga avrà 13 ancora un vantaggio, quando anche questo sarà stato colmato la tartaruga avrà un nuovo vantaggio, etc.: Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Ne “la freccia” in ogni istante la freccia occupa uno spazio ben definito e quindi è sempre ferma. Comunque negli argomenti zenoniani la grandezza spaziale appare in qualche modo finita e infinitamente divisibile nel contempo, così che in un intervallo finito esistono infiniti punti di divisione. La grandezza temporale sembra però trattata in maniera un po’ diversa, in quanto infiniti istanti diventano un tempo infinito. Così nella ‘corsa tra Achille e la tartaruga’: l’infinita divisibilità implica che saranno infiniti i punti e gli istanti coinvolti. Tuttavia, mentre in un intervallo finito ci possono essere infiniti punti, gli infiniti istanti implicano che Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Nel paradosso della ‘freccia’ invece si considera come in ogni istante l’oggetto mobile sia in un punto, e quindi in ogni istante sia fermo, e questo riflette la concezione come passaggio contraddittorio tra essere e non essere. Fenomeno curioso della aritmetica greca è la sua terribile idiosincrasia verso lo zero, che nei sistemi semantici-computazionali (in Cina e in Mesopotamia) potette anche trovare qualche forma di espressione, ma che fu rifiutato dalla matematica greca. Quanto radicale fosse il rifiuto dello 'zero' si può notare nel fatto che in Euclide le definizioni sono costruite in modo da escludere esplicitamente cose come il "rapporto nullo" o l'"angolo nullo" (Def. I.8: “un angolo piano è l’inclinazione tra di loro di due linee in un piano che si incontrano e non giacciono sulla stessa linea. “ Def. V.4: “Grandezze sono dette avere un rapporto tra di loro quando sono capaci, se moltiplicate, di superarsi l’una con l’altra”) E' interessante osservare il legame esplicito tra il paradosso e la difficoltà dei Greci a pensare il numero 'zero', e come tale difficoltà e tale paradosso fossero connessi alla struttura del linguaggio, nel quale esistono i 'numeri' grammaticali. E soprattutto qui si può osservare il legame esplicito tra il paradosso e la difficoltà dei greci a pensare il numero “zero”, e come tale difficoltà e tale paradosso fossero connessi alla struttura stessa del linguaggio: Poni che uno alla domanda «a che cosa può essere riferito questo predicato, il “non essere” osasse dare una risposta, ebbene, a quale oggetto e con quali determinazioni di quantità e qualità riferirebbe tale espressione? […] a ciò che noi indichiamo con l’espressione “ciò che è” (to on) non può riferirsi il non essere, neppure a ciò che indichiamo con l’espressione “qualche cosa” (to ti) […] il singolare (ti) è segno di una cosa, il duale (tine) di due cose; il plurale (tines) di molte cose. E devi ammettere che chi non dice “qualche cosa” (ti) non dice niente in assoluto. Inoltre non possiamo ammettere che questo tale “usi un’espressione”, ma non dica nulla; bisogna riconoscere che chi crede di dire ciò che non è, non usa espressione alcuna: non “dice” neppure […] (Sophista, 237c-237e). Platone è chiaro: esiste il singolare, il duale, il plurale, nessuna forma esiste per “l’assenza”: il plurale caratterizza il “numero”, il duale la “diade” (che era spesso considerato un numero speciale), il singolare la “monade”, e il corrispondente del “nulla” allora semplicemente non esiste. L’uno non era un numero, ma il ‘seme’ delle due sequenze, e lo zero non esisteva. Addirittura le definizioni euclidee erano date in modo da escludere anche l’angolo nullo o il rapporto nullo. Esiste quindi l’uno, esiste il numero ma non esiste lo zero. La matematica greca era un frammento della lingua greca. 14 La struttura grammaticale delle lingue indoeuropee pone un limite insuperabile alla “dicibilità” del non-essere come numero: la declinazione indo-europea si riflette sulla dicibilità del non essere come 'molteplicità', e così l'impossibilità del non essere deriva alla stessa idea di rappresentazione tramite il linguaggio naturale, e questo a sua volta si riflette subito sul concetto di numero, nella sua accezione classica, cioè numero cardinale, "numero di…", attributo necessario di tutto ciò che 'è'. La notazione numerica dei Greci è imbarazzante. Niente di strano che al mercato usassero una notazione simile a quella degli antichi romani, con un asta per indicare l’uno e poi l’aggiunta di un’asta per il successore, e l’uso delle iniziali dei numeri in greco per indicare numeri particolari, cinque ( pente in greco), dieci (, deka in greco), etc. Strano invece che i grandi matematici greci usassero invece per i numeri le lettere dell’alfabeto: per l’uno, per il due, e così via. L’alfabeto greco ha 24 lettere, aggiungendo tre lettere arcaiche di origine fenicia si arrivava a 27 simboli con cui denotare le nove cifre, le nove decine, le nove centinaia. E poi, dopo 999? Bisognava usare apici. Ma con un simile sistema erano molto difficili anche le somme elementari. Perché questa assurdità? In primo luogo credo questo fosse una conseguenza dell’incastonamento della matematica greca nel linguaggio greco comune. E in secondo luogo credo occorra osservare come questa rappresentazione introducesse il carattere ordinale e non solo cardinale del numero, e Piaget ci ha insegnato come il numero astratto nel bambino nasca dal coordinamento tra i suoi aspetti cardinali e ordinali. In altri termini la difficoltà nel calcolo era il prezzo da pagare per fare della aritmetica un frammento autonomo del linguaggio, e concepire il numero come un ente astratto e non solo come un aggettivo. Noi siamo abituati a considerare la matematica dotata di un suo autonomo linguaggio, anzi la consideriamo essenzialmente un linguaggio. E conosciamo tanti linguaggi, alcuni naturali, altri artificiali. La nostra cultura, sin dal medioevo, è multilinguista: sappiamo dell’esistenza di molti linguaggi naturali e delle relative traduzioni, spesso ne conosciamo alcuni, e sappiamo dell’esistenza di linguaggi formali artificiali, l’algebra, la logica, i linguaggi di programmazione, etc. I greci in realtà conoscevano e consideravano solo il greco, erano rigorosamente monolinguisti. Certo sapevano che esistevano altre lingue, ma erano solo ‘balbettii’ (questo significava il termine ‘barbaro’). Anche le definizioni, come si è visto negli Elementi di Euclide, non servivano ad introdurre nuovi termini nel linguaggio ma a delimitare e precisare l’uso tecnico di normali parole in geometria. Forse il segno più visibile di questa centralità del ‘greco’ tra i greci è la parola logos, che in greco significava ‘parola, discorso’ ma anche ‘rapporto matematico’, ‘ragione’, ‘pensiero’, ‘definizione’. I termini tecnici della geometria euclidea non ricevevano il loro significato dalle definizioni, ma lo possedevano già come termini del linguaggio naturale che la definizione solo precisava Solo con la nascita della matematica moderna il numero diventerà 'misura relativa', dove lo 0 funzionerà da spartiacque tra positivo e negativo, mentre 'discreto' e 'continuo' saranno integrati nella rappresentazione decimale, così che ogni intero sarà un particolare numero reale e ogni numero reale sarà rappresentabile con una sequenza (infinita) di cifre o come limite di numeri razionali. Nella matematica greca invece numeri interi e "parti" (frazioni) sono i due mondi numerici che si contrappongono, spesso anche con base numerica diversa, 5 per il 'contare', 12 per il 'dividere', con l'1 che funziona come 'seme' della opposizione e lo 0 che non ha semplicemente ragione di esistere. Fuori della aritmetica restano le "grandezze geometriche" poiché eterogenee al numero. Un greco avrebbe rappresentato il sistema dei numeri disegnando due semirette puntate verso il basso, come una grande lettera e per questo detta ‘figura lambdoide’. L’origine comune era indicata con 1, una delle due semirette segnata con i numeri interi 2, 3, 4, … e l’altra con le frazioni ½, ⅓, ¼, …, quelle che i greci chiamavano le ‘parti’. 15 La scienza rinascimentale dovrà poi rendere numerico anche il "continuo", ridurre le grandezze meccaniche ad estensione geometrica, e così potrà superare l'idea del divenire come contraddizione e farne invece una forma dell'essere, a fare così della quiete una forma del moto, e dello 0 un particolare numero e non la negazione dell'idea stessa di numero come molteplicità. I due tipi di quantità possono essere infiniti in modo diverso. Il “discreto” può dare un infinito ‘per addizione’, ma esiste un limite nella direzione della ‘divisione’, in quanto esiste un minimo che è l’unità, mentre il “continuo” può dare un infinito ‘per divisione’, poiché non puoi trovare una grandezza minima, ma limitato per ‘addizione’ poiché non esiste una grandezza infinitamente grande. L’idea di continuo non aveva natura immediatamente matematica, ma veniva dalla indagine filosofica sull’essere e il divenire (il moto), iniziata dagli Eleati (e Zenone ne aveva rivelato i paradossi) e sviluppata in Platone ed Aristotele, il quale ne aveva data una doppia caratterizzazione che durerà fino ad oggi: l’(infinita) divisibilità (dalla quale deriva l’idea moderna di ‘denso in sé’) e la mancanza di lacune tra le parti. la dicotomia in parti con elemento comune (dalla quale deriva l’idea di ‘continuità’ di Dedekind). Etimologicamente sembra anteriore la seconda, ed in Aristotele essa appare come la vera 'definizione', ma la coincidenza è asserita con forza, al punto che anche la infinita divisibilità caratterizza il continuo. Era quindi un concetto ‘fisico’, estraneo alla matematica: il termine ‘continuo’ (syneches), come opposto di ‘discreto’, negli Elementi non appare mai. In Eudemo e Proclo, la divisibilità del continuo/grandezza si configura come un principio fondamentale e l'unico esplicitamente ipotizzato in geometria, mentre la mancanza di lacune appare solo implicitamente nelle costruzioni geometriche. Da sottolineare infine come queste due caratterizzazione aristoteliche siano affini alla densità in sé e alla separabilità (Dedekind) della matematica moderna, due concetti che noi sappiamo essere non equivalenti. L’architettura complessiva della matematica era quella del Quadrivio, in cui alle due discipline di base, aritmetica e geometria, si aggiungevano altre discipline che il medioevo chiamerà ‘miste’: in primo luogo astronomia e musica per completare il quadrivio, e poi anche ottica e statica. Altre scienze ‘miste’ verranno aggiunte nel Medioevo. Miste semplicemente perché apparivano ‘inquinate’ dalla fisica. La matematica non poteva essere applicata alla fisica, perché questa trattava del divenire, come nella meccanica, nella biologia, nella psicologia (perché anche l’anima era considerata un ente naturale). Ma in alcuni settori della fisica il divenire non appariva. Ovviamente nella statica, ma anche nell’ottica, che non considerava la luce come ‘in moto’, ma ne considerava solo gli aspetti geometrici, nella musica, che trattava delle consonanze come rapporti fissi, e in astronomia che ignorava il concetto di ‘traiettoria’ dei corpi celesti studiando solo le proprietà geometriche delle grandi sfere rotanti, ma fisse, nelle quali i corpi celesti erano incastonati. L’astronomia greca ci chiarisce poi un aspetto della geometria greca. I Babilonesi avevano creato una astronomia estremamente efficiente, con grandi quantità di dati ed una eccezionale capacità di previsione dei fenomeni astronomici (come le eclissi lunari), ma non vi si trova alcun ‘modello’ dei cieli. I greci invece crearono una astronomia praticamente senza dati osservativi, costituita solo da un modello dei cieli, il ‘cosmo’, basato su sfere rotanti e poi complicato da sfere rotanti incastonate in sfere rotanti, ma senza dati. Solo tardi, soprattutto con Claudio Tolomeo, questo modello geometrico si arricchirà dei dati osservativi e costituirà il cosiddetto ‘sistema tolemaico’ che reggerà fino a Copernico: l’Almagesto (nome arabo che significa ‘il più grande’) sarà il capolavoro di Tolomeo, insieme agli Elementi costituirà la grande eredità della scienza greca, e, assieme a Erone e Diofanto, segnerà l’epoca d’oro della tradizione pratica in Alessandria. Due temi di grande rilievo per il futuro meritano qualche osservazione. 16 In primo luogo, la scissione tra continuo e discreto è anche legata al fatto che le suddivisioni dell’unità sono unità di misura eterogenee rispetto all’unità iniziale, come accade nelle unità di misura misure inglesi, un “piede” si divide in dodici “pollici”, ma un piede di chi? Un pollice di chi? Sono unità di misura ‘accidentali’. Un gregge di pecore invece si conta avendo per unità una pecora, una ‘sostanza’. La misura era un concetto essenzialmente aritmetico: un numero ‘misurava’ i suoi multipli, ne era cioè una ‘parte’. Al mercato si misurava il peso o la lunghezza, ma erano numeri ‘accidentali’. Mentre infatti l’unità di misura del gregge di pecore era intrinseca, ‘sostanziale’ (la singola pecora), l’unità di misura della lunghezza era il ‘braccio’ o il ‘piede’. Ma il braccio o il piede di chi? Era una misura puramente ‘accidentale’, e città diverse avevano unità di misura diverse. La geometria si doveva quindi strutturare senza una metrica. E anche queste misure accidentali erano sempre numeri interi, connesse tra di loro tramite fattori moltiplicativi accidentali ed interi, come nelle misure inglesi: ci sono piedi e pollici, 12 pollici fanno un piede. Ma non è lo stesso che dire che cm.100 fanno m.1: infatti 12 è solo un rapporto accidentale tra unità autonome ed eterogenee, anche se convenzionalmente consolidato. La sostanza è unità di materia e forma, ma le parti di un individuo non sono individui in senso stretto (le parti di un uomo non sono uomini) e quindi non sono numerabili. Il concetto di ‘insieme’, fondamentale nella matematica moderna, e in generale tutto il nostro approccio 'analitico', non è quindi solo inutile nella matematica greca, ma addirittura impossibile come elemento di una "conoscenza teoretica". La definizione di qualcosa tramite le sue parti si può fare verbalmente, ma ontologicamente ed epistemologicamente "il tutto precede le parti" e la "forma" non è riducibile alle parti materiali. In secondo luogo, l’infinito attuale deve essere rifiutato perché finirebbe col costruire un ponte tra quelle coppie di opposti che caratterizzano la concezione del cambiamento dai presocratici al Rinascimento. Così un infinito rallentamento trasforma il moto in quiete, un poligono con infiniti lati diventa un cerchio e quindi la retta diventa curva, l’uno per infinita divisione diventa molti ed infiniti, il numero per infinita divisione diventa qualcosa di impensabile, lo 'zero', impensabile perché l'essere diventerebbe non essere, la grandezza geometrica per infinita divisione diventa una non grandezza, il punto: lo zero e l'infinito dovevano entrambi cadenzare la loro evoluzione sullo sviluppo di un'"algebra della negazione", in quanto entrambi resi impraticabili dalle opposizioni polari del pensiero greco. Di conseguenza alcune 'novità' della matematica moderna, dallo 'zero' all''infinito attuale', accompagneranno una fisica che sostituisca la struttura polare della scienza aristotelica. E questa fisica richiederà a sua volta il superamento della opposizione tra 'numeri' e 'parti' e la nascita dell'idea di "numero reale", che a sua volta richiede il superamento della opposizione tra aritmetica e geometria, tra discreto e continuo, che a sua volta, etc. La scienza aristotelica e la scolastica medievale era un sistema perfettamente integrato di conoscenze matematiche, logiche, fisiche, biologiche e filosofiche, e quindi il suo crollo doveva investire tutti tali versanti contemporaneamente, nessuno dei quali poteva accadere per ragioni puramente empiriche o logiche, perché tale sistema era ed è quello più vicino alla realtà naturale e il meno invischiato in contraddizioni tra quelli che il pensiero europeo abbia mai creato. LA DIMOSTRAZIONE La origine visuale e costruttiva della 'dimostrazione' nella matematica antica è stata sottolineata da numerosi autori (Cambiano, Knorr, Szabo). Un ulteriore supporto a questa interpretazione della matematica greca pre-euclidea si ricava osservando ad esempio che i primi tre postulati ed i primi tre teoremi degli Elementi, nonostante l'influenza platonica, sono "costruzioni", e che i termini relativi alle idee di dimostrazione o teorema sono diagramma, apodeixis, theōrēma,tutti derivanti, così come i verbi di conoscenza, da radici che esprimono il tracciamento di linee, la visione, l'ostensione. Ancora Aristotele sottolinea questo carattere 17 costruttivo, facendolo derivare dal fatto che "l'esercizio del pensiero è un portare qualcosa dal potenziale all'attuale". Ovviamente le dimostrazioni-costruzioni, direttamente visuali, sono compatibili con una matematica rigorosamente 'positiva' e 'finita'. Il passaggio dalla costruzione alla dimostrazione geometrica è uno degli episodi più affascinanti della storia della matematica. La dimostrazione all’inizio era probabilmente solo la descrizione per iscritto della costruzione di una figura eseguita precedentemente per via solo orale e visuale: in greco diagramma significava ‘dimostrazione’ oltre che ‘figura’, e negli Elementi ogni dimostrazione era associata ad una e una sola figura, talora di una banalità sconcertante. La semplice trascrizione sembra una novità irrilevante, ma i geometri greci si accorsero che così si evitava di ‘scoprire’ erroneamente proprietà non generali ma valide solo per una particolare figura. E inoltre introdussero un nuovo tipo di dimostrazione, quella per assurdo, che non corrispondeva a nessuna costruzione effettiva, ma solo ad una costruzione ‘impossibile’. Gran parte di tali dimostrazioni è una descrizione a parole della costruzione della figura, che d'altronde è sempre presente nei teoremi degli Elementi. Con però una grossa novità che doveva segnare la storia della matematica: la scoperta che la riduzione 'sintattica' della costruzione permetteva di evitare di trovare risultati 'falsi', in quanto dovuti a qualche particolarità non necessaria della costruzione. Fig.5 La transizione dalla 'geometria visuale' alla 'geometria deduttiva' può essere solo oggetto di speculazione. Possiamo tentare di immaginarne la traccia considerando un problema classico, che attraversa tutta la storia della geometria antica, dai babilonesi ad Euclide: il teorema di Pitagora e la teoria delle parallele. Il teorema di Pitagora era certamente noto, in tempi precedenti a Pitagora, ai babilonesi e, in tempi probabilmente poco successivi, ai cinesi. Essi conoscevano bene il teorema: non solo qualche terna pitagorica, come (3, 4, 5) oppure (5, 12, 13), ma la proprietà generale, che probabilmente ‘spiegavano’ e ‘ricordavano’ come costruzione geometrica. La sua dimostrazione era tuttavia probabilmente di tipo ‘visuale’ (fig.5): nella geometria antica, basata su un rappresentazione iconica, la dimostrazione doveva avere appunto la struttura di una costruzione evidente, un diagramma. Così un esempio di dimostrazione costruttiva può essere quello di figura 5: il risultato è 'perspicuo', ottenuto direttamente dalla figura stessa come conseguenza della costruzione. Questa ricostruzione di una 'antica' dimostrazione del teorema è anche supportata dall'esistenza di una figura simile (fig.5bis) in un antico classico della matematica cinese, Il classico aritmetico dello gnomone e dei sentieri circolari del cielo (Chou Pei Suan Ching). Ma la dimostrazione richiede necessariamente la costruzione di quadrati. Se si postula la costruzione del quadrato come si postulava da parte di Euclide quella del cerchio, il teorema ne consegue immediatamente. Tuttavia tale costruzione non è del tutto evidente. Anche ipotizzando la costruzione dell'angolo retto, che cosa garantisce che il quarto lato si chiuda col vertice iniziale? 18 Fig.5 bis E’ abbastanza facile riconoscere l’equivalenza, in un approccio deduttivo, di diversi enunciati (costruzione del quadrato o di una retta equidistante in tutti i suoi punti da un’altra retta, somma degli angoli interni di triangoli e quadrilateri, ecc.) con il quinto postulato: “se una retta che taglia due rette crea gli angoli interni dallo stesso lato minori di due retti, allora, se tali rette vengono prolungate indefinitamente, esse si incontreranno dallo stesso lato in cui gli angoli sono meno di due retti”. Sono tutti enunciati rigorosamente 'al finito', compreso il quinto postulato che in qualche misura inverte il teorema sulla somma degli angoli interni di un triangolo, il quale, nella sua forma 'visuale' di fig.5 già presupponeva il concetto di 'rette parallele'. Gli oggetti ‘infiniti’, le “parallele”, non compaiono, e la loro stessa definizione: “parallele sono rette che, essendo nello stesso piano e venendo prolungate indefinitamente in entrambe le direzioni, non si incontrano”, è in fondo costruita sulla doppia negazione e definisce semplicemente un ‘non-triangolo’. Ma esistono teoremi in cui appare la reductio ad absurdum, che non sempre si può ricondurre a una dimostrazione costruttiva. Talora questo accade, e si intuisce che la dimostrazione basata su un assurdo relativo ad un assioma dell'uguaglianza possa sostituire un'antica dimostrazione 'visuale'. Ma questo non accade sempre: in particolare non accade quando il risultato concerne l'infinito. Così l’infinito è indissolubilmente legato a tecniche non puramente 'costruttive', 'positive', di dimostrazione, poiché l'infinito è concetto puramente negativo e non si può costruttivamente mostrare la negazione dell’esistenza, mentre si può mostrare la non esistenza di una qualche costruzione.. MATEMATICA E FILOSOFIA. LA LOGICA ARISTOTELICA Nella filosofia greca classica appaiono le prime risposte alle domande che ci ponevamo inizialmente, riguardo l’ontologia e l’epistemologia dei concetti matematici. Dopo Pitagora, la tradizione sofistica aveva in generale guardato con sospetto alla peculiarità del ragionamento matematico, cercando di ricondurlo alla filosofia ingenua della conoscenza comune ai primi filosofi greci, che riconduceva la conoscenza ad un fatto puramente osservativo ed alla memoria. Protagora metteva in discussione la tesi che un cerchio ed una tangente ad esso si incontrassero in un solo punto, Antifonte credeva che approssimando una circonferenza con un poligono iscritto con numero crescente di lati prima o poi il poligono ed il cerchio avrebbero finito col coincidere. Era in generale il concetto di punto che risultava ostico: l’idea che un insieme di punti (non-grandezze) potesse coincidere con una grandezza geometrica urtava la rigida opposizione tra essere e non essere su cui si era sviluppato il pensiero greco dopo Parmenide sotto la forma del paradosso del giudizio negativo. La matematica e la filosofia si svilupparono come discipline ‘sorelle’. Entrambe concernevano immediatamente la verità necessaria, la scienza e il discorso razionale, trovando le loro radici nel fatto che vedere, conoscere ed essere per i Greci erano verbi profondamente connessi (‘idea’ e ‘video’ hanno un’origine comune e “non si può pensare senza immagini” [Aristotele, de memoria et remin., 450 a1]), la stessa ‘verità’ (alētheia) era originariamente la 19 negazione dell’oblio, e quindi gli enti matematici erano immanenti e immediatamente percepibili e nel contempo immediatamente scienza. E’ Platone il filosofo che inserisce invece gli enti matematici al cuore della teoria della conoscenza: nella sua Repubblica Platone colloca la matematica come mondo intermedio tra il “mondo delle idee”, l’unico nel quale domini l’essere e quindi l’unico che possa essere effettivamente oggetto di conoscenza, e il “mondo reale” dominato dal divenire e regno della semplice “opinione”. A questa ontologia si associa la concezione epistemologica secondo cui il conoscere è una forma di ‘memoria’ dell’anima: celebre il passo del Menone in cui Socrate interrogando uno schiavo analfabeta lo porta a scoprire i primi passi del ragionamento che porta verso la scoperta della incommensurabilità. Sul ‘materiale’ ereditato dalla matematica pregreca, i pitagorici e poi Platone avevano eretto una filosofia complessa che da un lato accettava l’aspetto pratico della matematica, economico e sociale, e dall’altro inseriva come parte integrante della ‘ontologia’ il numero e la figura geometrica, mediatori di una realtà ideale, un aspetto essenziale della stessa descrizione del ‘cosmo’: i Pitagorici vedevano nel ‘numero’ il costituente base della realtà, e per Platone gli enti matematici erano un ponte tra il ‘mondo delle idee’ e la realtà naturale, così che il Timeus platonico descriveva il cosmo con misure prive di ogni valore empirico ma tratte dai rapporti armonici musicali. Allo stesso tempo sembra che Platone esortasse Eudosso a ‘salvare i fenomeni’ astronomici, trovandone una descrizione matematica. Su questa base tutta la tradizione pitagorica e platonica per millenni coltiverà un miscuglio di numerologia filosofica e teologica, ma anche di geometria metrica descrittiva e di presenza dei numeri nella realtà. In Platone rimane la difficoltà di concepire i punti come qualcosa di diverso da una semplice ‘finzione’ matematica ed anche il rifiuto di teorie matematiche applicate (musica e astronomia soprattutto) centrate sulla osservazione empirica dei fenomeni. Pur sostenendo l’esigenza di teorie “che salvassero i fenomeni”, Platone introduce nelle sua cosmologia espressa nel Timeo dati numerici imposti da considerazioni puramente filosofiche di stampo musicale pitagorico. Riguardo i numeri, in ambito pitagorico e poi platonico, è importante sottolineare un doppio processo: il loro farsi sostanza, non più semplice attributo del gruppo di cose, così che i numeri divenivano il ponte tra ‘essere’ e ‘conoscenza’, e il loro acquistare un carattere ordinale, che pone in primo piano il problema della genesi sequenziale dei numeri e quindi il problema dell'infinito. Diversa la ‘collocazione’ della dottrina della scienza aristotelica, ove la matematica si trovava in una posizione un po’ ambigua: da un lato riguardava l’essere reale nei suoi aspetti puramente logici in quanto scienza della struttura esplicativa del reale, ‘scienza delle cause’, della spiegazione dei fenomeni e quindi ‘calco’ deduttivo per tutte le scienze, dall’altro il suo essere ‘astrazione’ (rispetto alla materia e al divenire) ne faceva una sorta di ‘impoverimento’ del reale. Ne seguiva un ruolo prevalentemente ‘epistemologico’ invece del ruolo ‘ontologico’ che essa aveva in Platone: la matematica era un frammento del linguaggio naturale che forniva la spiegazione razionale dei fenomeni, ma la sua stessa certezza era un limite, segno di una ‘purezza’ che era solo una ‘povertà’ rispetto alla realtà naturale. Al suo centro si collocava la geometria poiché la scienza greca era centrata sulla presentazione visuale dell’essere, impermeabile al divenire naturale, e quindi una geometria non metrica in quanto basata sulla forma. E in quanto scienza dell’essere la matematica non poteva essere applicata alla fisica, che invece trattava il divenire (physis era la ‘natura’ vista nel suo continuo fluire). In realtà la logica aristotelica aveva diverse radici: la teoria del sillogismo derivava dalla filosofia naturale (col sillogismo a ‘mimare’ la relazione causale), la dottrina della scienza dalla geometria, e infine il sistema dei principi dalla dialettica. Così che, più che di una derivazione diretta del sistema assiomatico-deduttivo euclideo dalla logica aristotelica, si deve piuttosto parlare di una profonda affinità. Concetti come infinito e continuo non appaiono nella matematica greca, ma nella filosofia naturale e con Aristotele acquistano caratteri che in fondo conservano ancor oggi. Con Aristotele 20 gli enti matematici perdono il carattere realista che avevano in Platone ed appaiono attributi ottenuti ‘per astrazione’ dalla realtà. Assumono così una forma di esistenza strettamente legata alla attività conoscitiva. In particolare i punti possono anche essere considerati ‘esistenti’, ma solo “in potenza”. La differenza tra ‘in potenza’ e ‘in atto’ è uno dei modi con cui Aristotele affronta il problema della opposizione essere/non essere, cercando di renderla meno rigida. Schematicamente possiamo dire che un seme è una pianta ‘in potenza’ ma non ‘in atto’, nel senso che la sua “essenza” già contiene il suo possibile sviluppo futuro, ma non ancora attuato. Anche per il concetto di infinito Aristotele ricorre a quella distinzione: anche l’infinito esiste solo ‘in potenza’ e consiste in “ciò a cui si può sempre aggiungere qualcosa”, rifiutando l’infinito ‘in atto’, “ciò a cui non si può aggiungere nulla”. Di conseguenza appunto il ‘punto’ esiste solo potenzialmente poiché le divisioni successive di una grandezza possono portare solo a grandezze, mentre la esistenza attuale del punto richiederebbe un infinito ‘attuale’ di suddivisioni. Da notare che infinito attuale e potenziale sono opposti tra di loro e non opposti del ‘finito’. Per Aristotele la matematica non necessita del concetto di infinito, perché i suoi oggetti sono finiti ed anche il cosmo è finito. Il "finitismo" aristotelico è sia 'naturalistico' (non si può concepire un processo di cambiamento infinito, che 'linguistico' (occorre esprimere con un numero finito di termini infinite cose) e 'logico' (una derivazione deve essere sempre finita e ogni risalire alle ipotesi deve essere un processo finito e non circolare. Quella preclusione si associava poi alla preclusione verso l’esistenza reale del punto. Il punto infatti, come sarà poi per il ‘numero reale’, richiede una suddivisione infinita ‘attuale’ del segmento, una suddivisione infinita potenziale producendo solo intervalli. E risulta chiara anche l’impossibilità di considerare un segmento come costituito dai suoi punti: come potrebbe un ente di grandezza finita essere costituito dalla unione di infiniti enti privi di grandezza o addirittura inesistenti? E si può concepire il punto immediatamente successivo ad un altro punto? No, poiché se tale punto è distinto allora tra i due punti esiste un intervallo il cui punto medio si colloca fra di essi, e quindi il punto trovato non è quello immediatamente successivo. Problemi già apparsi in Democrito, che si era posto il problema di considerare un cono come unione delle sue sezioni parallele alla base: se tali sezioni erano uguali allora la loro unione era un cilindro, se invece erano disuguali allora la loro unione era un cono ‘a gradini’. Platone considererà allora i punti solo ‘finzioni’ geometriche, in realtà non esistenti. Aristotele li considererà esistenti ma solo ‘in potenza’, così che tutti i punti di un intervallo esistono in potenza ma non possono costituirlo poiché avrebbero bisogno a tal fine di esistere ‘in atto’, creando le difficoltà su accennate. E del resto quando un punto divide in due un segmento il punto stesso si duplica come estremo di entrambi, e il duplicato nascerebbe dal nulla, ma nihil ex nihilo. L’idea insomma è che l’essere del punto si esaurisca nella sua individuazione come estremo o intersezione, ma non abbia altra forma di esistenza. Per Aristotele l’incommensurabilità era diventato un esempio canonico delle nuove forme del sapere teoretico, paradigma di una proposizione ‘vera’, un 'essere' non immediato, ma vero, dedotto dal ragionamento e non dalla ontologia, qualcosa di assolutamente nuovo rispetto alla coincidenza tra 'conoscenza' e 'visione/memoria', tipica di tutta la filosofia greca fino a Platone. I paradossi di Zenone erano invece ormai pura sofisticheria, ed Aristotele rigettava nettamente ogni connessione fra incommensurabilità e paradossi. Veniva rimossa quella forma rigida del "paradigma sintattico" che dopo Parmenide si era tradotta in una rete densissima di paradossi concernenti essere e non-essere, uno e molti, moto e quiete, uguaglianza e differenza. Il "paradosso del giudizio negativo" era il centro di questa struttura paradossale, e appare al centro della riflessione platonica, "la prima e più grande delle aporie", nella quale troverà la via della sua soluzione. La soluzione, o, forse sarebbe meglio dire, la semplice 'rimozione', del paradosso deve essere ascritta ad Aristotele, la cui ridefinizione del pensiero formale durerà incontrastata per duemila anni, fino alla nascita della Scienza Moderna, laddove quella rete di paradossi finirà col ricomparire. 21 Diciamo 'rimozione' perché Aristotele cambiava le 'regole del gioco': la sua 'soluzione' era basata su due grandi 'novità' apparse nel pensiero platonico: da un lato l'anima con le sue idee creava finalmente un 'ponte' sufficientemente 'lungo' per connettere il mondo dei segni e quello reale evitando i paradossi, cercando di distinguere tra funzioni soggettive, quali il 'dire' o il 'pensare' e funzioni oggettive quali il 'vedere' o l''essere'. E' un passaggio che compare già in Platone: “l'anima è il principio del conoscere mentre l'essere è ciò che viene conosciuto”, e nel Theaetetus l'anima, non gli occhi, possono 'percepire' concetti quali essere, uguale e gli altri concetti numerici. L’aspetto centrale della tradizione teorica era l’idea di una strutturazione deduttiva della matematica, intuita già dai Pitagorici. Il passo decisivo apparirà nel IV secolo tra i matematici, soprattutto nell’ambiente della Accademia di Platone, e sarà teorizzato da Aristotele, il più brillante degli allievi. Nascevano, soprattutto nei suoi libri analitici, la logica e la dottrina della scienza, a partire dalla dialettica platonica, dal lavoro dei matematici e dagli sviluppi della filosofia naturale. Al nome di Euclide si ascrive la nascita del “metodo assiomatico-deduttivo”, mentre ad Aristotele la nascita della “logica formale”. Dalle sue origini sino a Frege la logica si è sempre centrata su due settori di riferimento: la dimostrazione matematica e l’argomentazione in linguaggio naturale. Dopo Frege, con la nascita della logica matematica, le applicazioni matematiche o scientifiche sono diventate dominanti, rompendo il rapporto della logica con la retorica e la grammatica che era stata alla base del trivio fino al secolo XIX. La antichità ci mostra prima di Aristotele tracce di un metodo logico da Parmenide alla dialettica di Zenone e Platone, e dopo di Aristotele il fiorire della logica stoica. Nella logica greca quella aristotelica sembra legarsi di più alla dimostrazione matematica, lasciando la retorica ad occuparsi della argomentazione nel linguaggio naturale, la logica stoica invece appare più orientata verso quest’ultimo settore. Per queste ragioni noi ci soffermeremo solo su Aristotele, e occorre avere chiaro che la sua origine è molto complessa: la dottrina della scienza derivando dalla matematica, il sillogismo dalle scienze naturali, i principi formali dalla retorica. La struttura del ragionamento scientifico veniva organizzata nella forma del sillogismo, una forma di argomentazione in cui da due premesse con un termine in comune (il ‘medio’) si ricavava una conclusione, e che resterà per duemila anni la base della logica. La premessa riguarda la “appartenenza” di un termine A ad un termine B. In termini moderni potremmo dire, in prima approssimazione, che il sillogismo riflette le proprietà della relazione di inclusione tra insiemi o della relazione di implicazione tra proposizioni. Una forma semplice di sillogismo era: dalle premesse <tutti gli ateniesi sono greci> e <tutti i greci sono mortali>, la conclusione è <tutti gli ateniesi sono mortali>. Premesse e conclusione potevano poi essere universali o particolari, affermative o negative, le relazioni di opposizione tra i diversi tipi di premessa è data dalla figura: qui si vede lo schema relativo alle frasi universali e particolari, ove A rappresenta la affermativa universale (ogni A è B), I la affermativa particolare (qualche A è B), E la negativa universale (nessun A è B), O la negativa particolare (qualche A non è B). Il termine comune poteva trovarsi in ruoli diversi nelle premesse: Aristotele studiò tutte le combinazioni possibili e individuò quelle che effettivamente erano valide. E’ facile infatti notare che certe coppie di premesse non permettono di concludere nulla: ad esempio nulla si può dedurre sull’altezza degli ateniesi da <qualche ateniese è biondo> e <qualche biondo è alto>. 22 A contrario E Contradditorio Contradditorio I subcontrario O Fig.6 I sillogismi corretti ricevettero nel Medioevo nomi che servivano a memorizzare le premesse ed altre caratteristiche del sillogismo: ad esempio le tre “a” in barbara rappresentavano il sillogismo in cui due premesse universali affermative producevano una conseguenza universale affermativa. In Aristotele inoltre assumono forma moderna i principi formali con i quali si organizza la gestione formale della “negazione”, dell’”essere”, della “verità”. Alla sua base un sistema di principi formali: il terzo escluso (“di un oggetto una qualsiasi determinazione deve essere o affermata oppure negata”), il principio di non-contraddizione (“non è possibile affermare e al tempo stesso negare qualcosa di un oggetto”) [Anal. Post. I, 11] e la verità per corrispondenza (“è vero dire che è ciò che è e che non è ciò che non è, è falso dire che è ciò che non è e che non è ciò che è”) [Metaph. 1011 b26]. Questo sistema di principi valeva però al prezzo di frantumare il campo unitario platonico del sapere in un arcipelago di scienze ‘regionali’, solo all’interno di ciascuna delle quali i principi valevano. Era un mondo fatto di sostanze individuali cui potevano essere associati ‘attributi’, soprattutto qualità e quantità. Ogni ‘scienza’ doveva parlare di un genere di sostanze ben determinato, sulla base di un sistema di assiomi (proposizioni più note e universalmente accettate) e di definizioni di attributi appropriati per quel genere: la dimostrazione permetteva allora di costruire le verità di tale scienza. E le scienze non erano comunicanti tra loro, a meno che una scienza non fosse ‘subordinata’ ad un’altra (come la musica alla aritmetica o l’astronomia alla geometria). Non si potevano infatti usare i principi formali per dire che il numero sette era curvo oppure no. Tuttavia la logica aristotelica è anche una ontologia. Il discorso e la realtà sono inseparabili: “ciascuna cosa possiede tanto di verità quanto possiede di essere” (Metaphysica, 993b 30). Conseguenza di questo dato è che il sillogismo aristotelico è categorico e riguarda semplicemente termini e proposizioni tra tali termini, del tipo ‘…si predica di …’, supposte vere. La logica rispecchiava poi perfettamente la fisica: il sillogismo doveva in realtà ‘mimare’ le relazioni causali, ove la parola ‘causa’ aveva però un senso solo esplicativo dei fenomeni, era la risposta alla questione <perché?>. . E si può anche notare la distinzione, che si ritrova da Aristotele a Proclo, tra teoremi in cui la deduzione aveva un ruolo ‘causale’ e quelli in cui la deduzione era puramente ‘formale’, come ad esempio nel teorema precedente nella cui dimostrazione appaiono gli angoli esterni al triangolo, i quali non possono avere alcun ruolo ‘causale’ sul triangolo (la somma degli angoli interni sarebbe due angoli retti anche se gli angoli esterni non esistessero). Da un punto di vista moderno questa "semantica" della dimostrazione che distingue tra sillogismi solo in base al ruolo causale del ‘medio’ non ha senso, ma essa rappresentava un elemento di connessione tra verità e dimostrabilità che resterà indiscusso fino al secolo scorso. Infatti il sistema aristotelico-euclideo considererà verità e dimostrazione sostanzialmente coincidenti e questa coincidenza resterà qualcosa di ovvio, di non tematizzabile, per duemila anni. 23 Anche per uno studente di oggi un teorema è nel contempo 'vero' e 'provato'. Se io mi creo mille triangoli di cartone e ne misuro gli angoli ottengo qualcosa di molto vicino a 180° in tutti i casi, ma posso provare anche una sola volta il teorema relativo e ottenere la certezza che la somma di tali angoli è esattamente 180°. Sono due procedure totalmente differenti, ma che vengono connesse dalla idea che la dimostrazione fornisce una 'costruzione' ideale le cui realizzazioni concrete sono particolari istanze. Se per caso la somma degli angoli misurata col goniometro venisse 200° sospetterei piuttosto un errore di calcolo che una differenza tra verità e dimostrabilità. Analogamente la indiscussa certezza nella correttezza del metodo di prova (“tutto ciò che è dimostrato è vero”) non corrisponde ad una analoga certezza della sua completezza (chi mi garantisce che “tutto ciò che è vero possa essere dimostrato”?) Lo stesso carattere indifferentemente ‘sintattico’ e 'semantico' si ritrova in un altro aspetto della teoria aristotelica delle scienze teoretiche: l'idea che la definizione non possa essere ridotta ad una semplice equivalenza logica, ma che debba contenere la via per rivelare l’esistenza, o provata o ipotizzata, del definiendum in quanto l'esistenza riguarda il singolo ente e non generi e specie. Una connessione questa tra semantica e sintassi che si riflette anche nella natura dei "principi", per i quali non si poteva distinguere neanche in linea di principio tra assoluta oggettività ed immediata evidenza o dimostrabilità, così che il V postulato era assolutamente oggettivo anche perché necessario per dedurre conseguenze assolutamente 'oggettive' (dal teorema di Pitagora alla somma degli angoli interni del triangolo), ma, non sembrando del tutto evidente o empirico, 'doveva' essere dimostrato: gli 'autentici' postulati ‘dovevano’ essere veri. La mancata soluzione di questa aporia restò per duemila anni una ferita aperta sul corpo della geometria euclidea. Solo la esplicita tematizzazione di questa differenza, quale quella implicita negli apriori kantiani, potette permettere di 'pensare' una geometria basata su postulati non assolutamente 'veri' e permettere la creazione delle geometrie non-euclidee. Tutto questo riflette la non problematicità del rapporto tra realtà e conoscenza teoretica che reggerà praticamente senza scosse fino alla nascita della scienza moderna, che si affermerà come "scienza di segni", nel quale dovrà essere necessariamente tematizzato il rapporto tra semantica e sintassi. Verità e dimostrabilità potevano risultare ovviamente coincidenti nelle dimostrazioni costruttive, in cui la dimostrazione poteva sembrare solo un perfetto ‘schema’ per infiniti casi concreti, ma non quando dimostrazioni non costruttive assurgevano allo stesso status di quelle costruttive. Questo secondo tipo di dimostrazioni derivava la sua ‘certezza’ non dall’essere organica ad una teoria della conoscenza basata su percezione e memoria, ma dall’essere interna alla ferrea struttura formale del “paradigma sintattico” che richiedeva la necessaria falsità di ipotesi che portassero a contraddizioni e la necessaria verità della loro negazione. Così alla correttezza della dimostrazione costruttiva si associava la completezza della deduzione logica, per la quale ciò che non era dimostrabile, o meglio la cui costruzione portava a contraddizioni, doveva essere falso. Si trattava di una richiesta molto più forte, sulla quale si costruì gran parte della argomentazione medievale e della stessa teologia cattolica (basti pensare alla “prova ontologica” dell’esistenza di Dio), ed anche abbastanza estranea al metodo delle scienze naturali. Non è strano che diventasse molto problematico il rapporto tra 'verità' e 'dimostrabilità', tra 'oggettività' e 'intersoggettività', un rapporto richiesto da una concezione ‘deduttiva’ della scienza, che però trovò per duemila anni la sua credibilità in una ‘garanzia’ divina della ragione umana. Questa dottrina della scienza resterà pressocchè invariata fino al Rinascimento, anche se alla sua ombra sopravvivevano i sottili paradossi formali della logica, il più importante dei quali era il mentitore: <io sto mentendo>. Se è vero vuol dire che è falso, ma se è falso allora è vero. Un paradosso destinato a sopravvivere in fondo fino ai giorni nostri, e legato alla compresenza nella stessa proposizione della negazione, dell’essere, della verità. 24 In effetti l’‘assurdo’ era già apparso nella filosofia greca, ad esempio nei paradossi di Zenone, ma solo come una sorta di ‘sgambetto’ retorico da fare per polemizzare contro l’avversario. Dell’uso retorico delle contraddizioni erano maestri i Sofisti, e la storia della logica antica è fondata sullo sforzo dei grandi filosofi tra la fine del V e il IV secolo, Socrate, Platone, Aristotele, di riportare quelle tecniche della argomentazione nel campo delle verità e della scienza. Infatti la semplice confutazione di un discorso avverso non è la ‘dimostrazione’ della tesi contraria. Dimostrare che una tesi è assurda non significa dimostrare che la tesi opposta sia vera: a tal fine occorrono la ‘non-contraddizione’ ed il ‘terzo escluso’, i principi formali della logica aristotelica. Tuttavia è la teoria degli incommensurabili l'esempio cruciale dell’apparizione dell’infinito e del continuo nella matematica greca, e, nel contempo, dell'uso della 'dimostrazione per assurdo'. Il teorema sulla incommensurabilità di lato e diagonale del quadrato, per essere accettato come teorema, doveva anche far accettare il suo metodo di prova. Questo potrebbe spiegare il lungo periodo di transizione in cui il risultato progressivamente si è dovuto 'conquistare' lo statuto di ‘verità’ matematica negativa e non visuale in una geometria positiva e costruttiva. E’ difficile collocare storicamente la scoperta della incommensurabilità ed è anche difficile intuire la storia culturale di tale scoperta. L'ipotesi più comune riporta tale scoperta all'indagine del rapporto tra diagonale e lato del quadrato, ma tale approccio non è attestato in alcun testo ascrivibile ai Pitagorici ed appare solo in Platone (l'episodio dello schiavo del Meno e forse il brano riguardante le lezioni di Teodoro nel Theaetetus) e poi diffusamente in Aristotele. Altre interpretazioni geometriche fanno riferimento ad altre costruzioni geometriche, quali la sezione aurea, il pentagono regolare, il dodecaedro (von Fritz) oppure all'applicazione del metodo delle divisioni successive, l'antiphairesis (Fowler). Se ne deve riconoscere la natura pitagorica, ma la data della scoperta presunta sembra oscillare dagli allievi diretti di Pitagora, come Ippaso (prima metà del V secolo), fino ai tempi di Archita (fine V-inizio IV sec.). Questa difficoltà è forse spiegabile pensando che probabilmente l’incommensurabilità richiese molto tempo per assurgere al rango di ‘verità’ geometrica, partendo dall’essere una semplice stranezza. A questo proposito occorre osservare che: (i) Anche nella matematica babilonese la mancanza di un valore esatto per il rapporto tra diagonale e lato del quadrato era noto e trattato alla stessa stregua della mancanza di un inverso di 7. La differenza fra i due casi è apprezzabile quando si riveli che il secondo risultato è periodico nell'applicazione dell' antiphairesis e dipendente dalla base del sistema numerico (ma questi aspetti appaiono difficilmente rivelabili o apprezzabili per una aritmetica notazionalmente e computazionalmente rozza come quella greca), oppure quando questo venga 'dimostrato' e non sia più uhn semplice fatto numerico empirico. (ii) Proclo ci fa sapere che prima di Euclide esistevano libri di “elementi” che non utilizzavano dimostrazioni per assurdo o rigettavano la teoria delle proporzioni, ed erano probabilmente basati sull’idea ‘visuale’ e ‘costruttiva’ di dimostrazione. In Euclide le dimostrazioni per assurdo sono basate sull'idea e le proprietà dell' uguaglianza (‘nozioni comuni’) o sul regresso all’infinito (come in VII.31). Si possono tuttavia immaginare antiche dimostrazioni costruttive equivalenti basate sulla evidenza visuale, e pensare che antichi libri di ‘elementi’ utilizzassero simili dimostrazioni. Istruttivo a questo riguardo il teorema I.4, primo criterio di uguaglianza dei triangoli): per dimostrare la unicità del triangolo costruito occorre supporre che dati due punti esiste solo un segmento che li congiunge. Nelle edizioni critiche questo è semplicemente asserito senza motivazioni per la sua 'evidenza', mentre un successivo interpolatore motivò questa asserzione con la 'nozione comune 9': "Due linee rette non possono racchiudere uno spazio". Questo, come altri esempi, mostra che la sostituzione di risultati evidenti con dimostrazioni per assurdo basate su 'nozioni comuni' fu un lungo processo di cui gli Elementi di Euclide furono solo una tappa, anche se la più importante. 25 Questo non è possibile per l’incommensurabilità: non esiste una dimostrazione ‘positiva’ equivalente, il risultato è essenzialmente negativo, così che in quei libri di 'elementi' pre-euclidei cui accenna Proclo la incommensurabilità doveva essere necessariamente assente, e del resto, negli stessi Elementi euclidei, nonostante vi sia l'intero X libro dedicato all'argomento, la sola dimostrazione esplicita di incommensurabilità (relativa a lato e diagonale del quadrato) è una inserzione posteriore, che si trova anche accennata in Aristotele: se diagonale e lato del quadrato fossero commensurabili, le loro lunghezze sarebbero nel rapporto m:n , con m ed n interi e relativamente primi (se non lo fossero si potrebbero entrambi dividere per il fattore comune): in particolare non possono essere entrambi pari. Essendo 2 il rapporto dei quadrati costruiti su di essi sarebbe m2 : n2 = 2. Da qui m deve essere pari, diciamo m = 2 k, e quindi sarebbe n2 : k2 = 2. Quindi anche n sarebbe pari, contrariamente alla ipotesi secondo la quale m ed n sarebbero relativamente primi. Ma precedentemente (al passaggio tra V e IV secolo) la dimostrazione doveva essere di tipo geometrico e probabilmente, prima ancora, fondata sulla teoria aritmetica della musica, la cosiddetta armonica. Infatti la prima matematica greca originale, sviluppata dai Pitagorici e non derivata semplicemente dall’Oriente, fu lo studio delle consonanze fra le note, misurate dai rapporti tra le lunghezze delle corde che davano tali consonanze: tali rapporti erano molto semplici, 1:2 (armonia di ottava), 2:3 (di quinta), 3:4 (di quarta). Pitagora era un uomo di Samo, e, come tanti greci dell’epoca impegolato negli scontri politici della sua polis, fu costretto ad emigrare verso l’Italia meridionale, la Magna Grecia. Queste migrazioni erano un fenomeno diffuso nelle città greche dell’epoca. Provocate da ragioni politiche ed economiche trapiantavano in un terreno vergine frammenti di società greca, creando un ambiente sociale più destrutturato di quanto fosse la normale polis greca, che già si presentava come molto meno gerarchizzata delle società orientali (niente di paragonabile al palazzo dei faraoni o dei re mesopotamici) con una religione molto meno professionalizzata delle caste di scribi del tempio orientale. In questo ambiente, quasi una specie di antico far west, dominavano le questioni di potere politico, e i Pitagorici furono una setta politico-religiosa che trasmutò le conoscenze tecniche matematiche importate dall’oriente in una ‘educazione liberale’, in una ‘filosofia’, un sapere generale laico e religioso, politico e sociale, per governare le città della Magna Grecia: Metaponto, Crotone, Sibari, Taranto. Così aspetti tecnici come l’uso dei sassolini sull’abaco per studiare le figure geometriche sono forse all’origine di ipotesi filosofiche quale quella di studiare tutti i numeri, ed anche tutti gli oggetti reali, in base alla loro ‘forma’ geometrica discreta (triangolari, quadrati, rettangolari, lineari, etc.). E la musica era cruciale per questo scopo politico: essa non era un semplice ‘intrattenimento’ come oggi per noi, ma era l’autentica colonna sonora della vita religiosa e sociale della polis greca, un po’ come la televisione oggi, al punto che Platone ripeterà che “credo che i modi musicali non possano essere cambiati senza cambiare le leggi fondamentali della polis” [Respublica, 424c]. Per governare occorreva allora dominare i ‘modi’ musicali e questo creava problemi aritmetici: ad esempio per dividere in due parti uguali l’ottava occorreva trovare un x tale che 1:x=x:2. Oggi diremmo che x vale √2, un numero irrazionale, ma per i pitagorici i numeri erano solo interi, e verso la fine del V sec. a.C. Archita, l’ultimo grande pitagorico, scoprì che non esistevano soluzioni intere (o razionali). E questa è probabilmente l’origine della incommensurabilità. Tra gli storici della matematica si parla di frequente della scoperta degli incommensurabili come di uno 'scandalo logico' destinato a provocare una Grundlagenkrisis, una 'crisi di fondamenti', che avrebbe poi portato alla teoria delle proporzioni di Eudosso, alla assiomatizzazione euclidea e alla logica aristotelica. Il punto cruciale che fonda questa interpretazione è l'analogia con i paradossi insiemistici, la teoria di Cantor e il formalismo moderno: in entrambi i casi l'assiomatizzazione sarebbe stata la soluzione alla crisi. 26 Occorre tuttavia ricordare che l'assiomatizzazione come 'mossa' per il superamento dei paradossi era qualcosa di esistente nel secolo scorso, ma inesistente prima della matematica greca, e di conseguenza il nesso tra 'crisi di fondamenti' ed 'assiomatizzazione rigorosa' è un tipo di operazione oggi comune, ma del tutto non ovvia oltre due millenni fa. Quello che in fondo era un ‘fatto’ numerico già noto ai babilonesi divenne così un ‘teorema’, e non un teorema qualsiasi, ma l’architrave di una rivoluzione culturale la cui reale portata è tutt'altro che riducibile nei termini di una 'crisi dei fondamenti'. L’incommensurabilità infatti apriva una breccia nel rigido isomorfismo eleatico tra pensiero e linguaggio. E così Parmenide e Zenone in Aristotele non hanno l'aura di mistero e profondità che ancora presentano in Platone. La breccia nel paradigma sintattico parmenideo 'libera' il problema del "continuo" dall'essere solo una zuppa di paradossi essere/non essere o uno/molti e dalla indefinitezza in cui resterà nella matematica cinese. L'incommensurabilità in Aristotele diventa l'esempio paradigmatico di un "essere in quanto vero", un modo dell'essere garantito solo teoreticamente e solo 'potenziale' può essere l'infinito, poiché solo nel 'pensiero' si può realizzare. E' l'autonomia del pensiero rispetto all'essere e alla sua espressione è il passo fondamentale che supera lo stallo del paradigma parmenideo. E tale scoperta si accordava con una struttura preesistente del Quadrivio nella quale discreto e continuo non svolgevano alcun ruolo. LA GEOMETRIA EUCLIDEA li Elementi di Euclide sono considerati nella nostra tradizione un monumento matematico confrontabile, per stabilità e solidità, alle piramidi. Questo è dovuto all’uso in tale opera per la prima volta, tra le opere pervenuteci, e tuttavia già molto preciso, del metodo assiomaticoC D B G A L Fig. 7 deduttivo. Ma la struttura concettuale degli Elementi è invece, quando la si guardi con maggiore attenzione, segno di un passaggio e di uno squilibrio profondi, in qualche modo erede dell'impostazione pitagorica e di una filosofia platonica, ma anche punto di raccolta di una vasta tradizione matematica e esempio di una idea di scienza teoretica affine alla impostazione aristotelica. L'aspetto costruttivo appare evidente sin dai primi tre postulati che garantiscono la costruzione di un segmento fra due punti, la possibilità del prolungamento di un segmento e la costruzione di un cerchio. Non si deve tuttavia credere che questo disegni la geometria euclidea come una geometria 'empirica', basata sull'uso di riga e compasso. Infatti il compasso, garante della costruibilità del cerchio con raggio dato, non può essere usato per riportare distanze. Infatti, il teorema I.2, “porre una linea uguale ad una linea data con estremità in un dato punto”, che parrebbe apparentemente banale se attuato trasportando il raggio dato su un dato centro tramite il compasso, richiede invece in Euclide una costruzione complessa (vedi fig.7): sia BC la linea data e A il punto dato; si congiungono A e B e si costruisce il triangolo equilatero ABD. Si costruisce il cerchio di centro B e raggio BC e si prolunga BD fino ad incontrare il cerchio in G. Si costruisce il 27 cerchio di centro D e raggio DG, e si prolunga DA fino ad incontrare il cerchio in L: AL è la linea cercata. Da notare che il Euclide i teoremi non hanno alcun aspetto metrico, ma si parla solo e sempre di uguaglianza tra enti geometrici In generale in Euclide non esistono "distanze", e occorre sottolineare in generale la natura non metrica degli Elementi. Osserviamo che il termine usato da Euclide, diastēmapiù che 'distanza' significa 'intervallo, spazio tra due punti', senza connotazioni metriche. Non vi è traccia 'esplicita' di quelle procedure di calcolo di aree che erano invece comuni nella matematica pratica di origine babilonese ed egizia e che rimasero in funzione nella matematica antica, così che, ad esempio in Vitruvio, l'uso metrico del compasso era invece comune nelle applicazioni della geometria. E probabilmente per questo né in Euclide né in Archimede esiste una parola per ‘raggio’, termine sostituito dalla parafrasi ‘quello dal centro’. Non appare neanche l'idea di una "area" o "volume" distinta dalla "superficie" o "corpo", sebbene esista una sorta di algebra degli oggetti geometrici che permetta di 'sommarli' nel senso che essi si possono comporre per ottenere altri oggetti geometrici. Una figura non ‘ha’ la stessa o doppia area di un’altra, ma ‘è’ uguale o doppia dell’altra, oppure 'un quadrato costruito così è uguale ai quadrati costruiti così'. Per dire che due triangoli sulla stessa base hanno la stessa ‘altezza’, Euclide dice che i loro vertici sono su linee parallele alla base. Oggi si dice (e qualcosa di simile dicevano i babilonesi) “l’area del cerchio è r2” il matematico greco diceva invece “il rapporto fra due cerchi è il doppio rapporto dei diametri” (bisogna ricordare che i rapporti non erano numeri e ‘doppio’ significava solo ‘composto con se stesso’, ‘quadrato’ nella nostra terminologia). La teoria delle proporzioni è lo strumento fondamentale della geometria teorica greca appena questa va al di là delle proprietà elementari sostanzialmente ereditate dalle matematiche babilonese ed egiziana. Il concetto di rapporto svolge quindi un ruolo cruciale, lo stesso uso del termine logos per denominarlo ne rivela tale ruolo: logos infatti nella cultura greca è un termine fondamentale, spesso usato addirittura per caratterizzare la filosofia greca tout court. La sua radice è il verbo legō, che ha molti significati, quali “porre”, “raccogliere” e “dire”. Ancor più significati assume logos, quali “discorso”, “parola”, “linguaggio”, “narrazione”, “definizione”, “pensiero”, “ragione”, “opinione”, “importanza”, “resoconto”, “relazione”, e appunto “rapporto” in matematica. Il concetto matematico appare sin nei pitagorici, ma solo relativamente ai numeri, e viene definito come “relazione” tra due numeri, e mai come ‘numero’. Il rapporto quindi non è la frazione. La proporzione, analogia, è definita tramite l’idea di “stesso rapporto”, e due rapporti sono lo stesso rapporto quando hanno la stessa antyphairesis, termine in qualche modo collegato al numero di parti che mancano ad un intero. Da un punto di vista operativo il termine fa riferimento probabilmente all’algoritmo delle divisioni successive col quale si trovava il massimo comun divisore di due numeri e col quale quindi due rapporti potevano essere messi in forma irriducibile: avere la stessa forma irriducibile voleva dire essere lo “stesso rapporto”. La applicazione del concetto di rapporto alle grandezze geometriche non presentava alcun problema in una geometria metrica e probabilmente tra i pitagorici la connotazione geometrica coincideva con quella aritmetica. Ma la scoperta della incommensurabilità mostrava l’esistenza di coppie di grandezze tra le quali non esisteva una “misura comune” (cioè l’algoritmo delle divisioni successive non termina, teorema X.2 degli Elementi). Ad Eudosso (IV sec.) si devono alcuni dei risultati più eccezionali della storia della matematica. In primo luogo il modello geometrico dei cieli accennato nel paragrafo precedente. Un secondo contributo essenziale è la sua teoria delle proporzioni, una dottrina centrale per la matematica greca e medievale, essendo l’unico ponte tra discreto e continuo. Inizialmente il ‘rapporto’, il logos, era un concetto solo aritmetico, ma non un numero, bensì una relazione tra due numeri. Nella antica aritmogeometria ovviamente questo concetto aritmetico 28 poteva estendersi facilmente alla geometria: il rapporto tra base e altezza di un rettangolo nell’abaco era il rapporto tra il numero di monadi su di esse. Ma la geometria teorica greca si era distaccata dalla matematica dell’abaco e l’incommensurabilità tra lato e diagonale del quadrato dimostrava che non si potevano ridurre le figure geometriche a configurazioni di monadi: per quanto si riducesse l’unità di misura non si riusciva a misurare contemporaneamente lato e diagonale del quadrato con un numero intero. Qui Eudosso forse osservò come i rapporti tra segmenti incommensurabili, pur non essendo aritmeticamente definibili con esattezza, potevano essere aritmeticamente approssimati quanto si voleva. Infatti già i babilonesi avevano trovato ottime approssimazioni numeriche per la √2. Le approssimazioni si potevano fare o per difetto o per eccesso. Ad esempio per √2 una approssimazione per difetto è: 1→ 1.4 →1.41 → 1.414 → 1.4142→…, una per eccesso era: 2→ 1.5 → 1.42→ 1.415→ 1.4143 →… Qualunque numero razionale si prenda si può sempre dire se sia maggiore o minore di √2. Non potendosi esprimere con numeri un rapporto tra grandezze incommensurabili, la questione che Eudosso si pose fu se fosse possibile almeno dire se due rapporti a:b e c:d fossero uguali (ricordiamo che erano l’uguaglianza e la similitudine i temi della geometria dell’epoca), costruire cioè la proporzione a:b = c:d. Se si, le approssimazioni dei due rapporti dovevano essere comuni ed allora qualunque approssimazione m/n se era per eccesso per un rapporto lo era anche per l’altro, e quindi per ogni m ed n si aveva che mb>na se e solo se md>nc. Abbiamo usato una notazione algebrica e aritmetica inesistente all’epoca, ma il ragionamento si poteva fare ugualmente nel linguaggio matematico dell’epoca, e, considerando quella condizione non solo necessaria ma anche sufficiente, si otteneneva la definizione eudossiana della uguaglianza tra rapporti e la fondazione della teoria delle proporzioni per le ‘grandezze’: “grandezze sono dette essere nello stesso rapporto, la prima con la seconda e la terza con la quarta, quando, per qualsiasi multiplo, gli equimultipli della prima e terza siano entrambi maggiori o uguali o minori dei corrispondenti equimultipli della seconda e della quarta”. Su questa definizione si sviluppò la geometria teorica più avanzata. Quanto questa definizione fosse lucida e importante per il seguito si può facilmente osservare non solo dal suo uso nei libri successivi, ma anche dal fatto che essa sembrava preludere ad una possibile “matematica comune” che unificasse continuo e discreto, aritmetica e geometria, numero e grandezza. In realtà questo non avvenne nella matematica greca e la teoria di Eudosso venne applicata solo alla geometria, col risultato paradossale che teoremi identici a meno della terminologia aritmetica o geometrica dovevano essere dimostrati separatamente. La definizione per il suo carattere astratto fu del tutto incompresa nel Medioevo e rivelò la sua profondità concettuale quando riapparve nell’Ottocento: è evidente che se si accetta la identificazione del rapporto di grandezze con il numero reale questa definizione prelude alla definizione di “numero reale” e di “continuo” in Dedekind. Degno di nota anche che la soluzione 'complessa' fornita dal teorema I.2 consente di realizzare la 'uguaglianza per coincidenza' senza bisogno di introdurre idee cinematiche o intuitive, ma tramite una semplice costruzione geometrica. Questa osservazione ci porta al cuore di quello che mi sembra il problema centrale per un'opera, quale gli Elementi, che segna il passaggio da una geometria basata su costruzioni visuali e risultati evidenti verso una geometria basata su dimostrazioni a partire da postulati e procedure sintattiche: la traduzione della uguaglianza intesa come coincidenza evidente, visuale, con una uguaglianza dimostrata sintatticamente. Le idee di uguaglianza e similitudine saranno il denominatore comune tra matematica e filosofia greca: nella prima creando la teoria delle proporzioni e il sistema assiomatico, nella seconda sviluppando la dottrina delle idee/forme. Nella matematica greca l’”uguaglianza” riguardava non la misura ma la costruzione, tanto di figure geometriche quanto di rapporti; più tardi l'uguaglianza appare quando le istanze diverse di 29 un oggetto geometrico possono essere pensate derivare da un'unica 'forma', ove il termine 'forma' va letto in un approccio platonico o aristotelico e senza alcuna connotazione 'metrica'. fig.7 bis I rapporti erano ‘relazioni’ tra quantità omogenee (impensabile quindi la velocità come ‘rapporto’ tra spazio e tempo) e non erano numeri; ed anche le stesse figure non avevano ‘misure’, non si ‘sommavano’ le loro aree, bensì si univano le figure. Però su di esse si potevano fare confronti (una figura è ‘equivalente’ ad un’altra se tramite opportune trasformazioni la si può trasformare in una figura sovrapponibile alla seconda, la prima è invece ‘maggiore’ della seconda se, dopo le trasformazioni, la contiene). Le ‘trasformazioni equivalenti’ erano le operazioni di dissezione e riassemblaggio, e le equivalenze geometriche erano basate sugli assiomi dell’uguaglianza: nell’esempio in fig.7bis sono equivalenti i due rettangoli tratteggiati a sinistra e i tre triangoli a destra costruiti sulla stessa base. Esisteva quindi un doppio criterio di uguaglianza, in primo luogo quello arcaico della ‘sovrapponibilità’, in secondo luogo la trasformabilità nel rispetto degli assiomi dell’uguaglianza. L'uguaglianza in matematica appare all'inizio quindi una relazione tra "quantità", tra numeri o anche tra coppie di numeri (rapporti), o anche tra grandezze geometriche, ma solo quando sono coincidenti (nozione comune 4 degli Elementi), dove la coincidenza è semplicemente l'occupazione dello stesso spazio, e quindi la "uguaglianza" si differenzia dalla "somiglianza" così come lo "spazio" si differenzia dagli altri attributi. In una fase più avanzata, le quantità sono rese uguali tramite una serie di trasformazioni che soddisfano gli assiomi dell'uguaglianza (nozioni comuni 1-3 degli Elementi: transitività, uguaglianza della somma e della sottrazione di uguali). Da notare anche come questa idea sia del tutto diversa dalla pratica metrica della matematica più antica, nella quale la 'figura' in quanto tale aveva una 'dimensione' sostanzialmente legata alla lunghezza dei lati. Proclo osserva che il teorema I.35 che stabilisce l'uguaglianza di parallelogrammi con la stessa base e 'tra le stesse parallele' (cioè con la stessa altezza) aveva un che di paradossale, poiché diminuendo l'angolo alla base i lati potevano essere resi lunghi a piacere lasciando la figura 'uguale', così che apparivano avere 'la stessa dimensione' figure che in una tradizione più antica apparivano avere dimensioni del tutto diverse. I greci riuscirono a risolvere in generale il problema del ‘confronto’ per le figure rettilinee, ma non per le figure curvilinee, e questo era il problema della ‘quadratura del cerchio’: non il calcolo di per la cui approssimazione bisognerà attendere Archimedema la ricerca di una sequenza di trasformazioni sulle figure che rendesse equivalente un cerchio ed un quadrato. GLI ELEMENTI DI EUCLIDE ALCUNE DEFINIZIONI DEL I LIBRO 1. 2. 3. 4. Un punto è ciò che non ha parti Una linea è una lunghezza senza larghezza Le estremità di una linea sono punti. Una linea retta è una linea che giace ugualmente coi punti su di essa. 30 17. Un diametro del cerchio è ogni linea retta tracciata attraverso il centro e estesa in entrambe le direzioni fino alla circonferenza ed una tale linea taglia a metà il cerchio. 23. Linee rette parallele sono linee rette che stando sullo stesso piano e estese indefinitamente in entrambe le direzioni non si incontrano in nessuna direzione POSTULATI 1. 2. 3. 4. 5. Tracciare una linea retta da ogni punto ad ogni punto Estendere illimitatamente una linea retta finita in una linea retta. Descrivere un cerchio con ogni centro e intervallo Tutti gli angoli retti sono uguali tra loro. Se una linea retta tagliando due linee rette fa gli angoli interni sullo stesso lato minori di due angoli retti, le linee rette, se estese indefinitamente, si incontrano dal lato su cui ci sono gli angoli minori di due angoli retti NOZIONI COMUNI (ASSIOMI) 1. 2. 3. 4. 5. Cose che sono uguali alla stessa cosa sono anche uguali tra loro Se uguali sono aggiunti ad uguali i totali sono uguali Se uguali sono sottratti da uguali i resti sono uguali Cose che coincidono tra di loro sono uguali tra di loro. L’intero è maggiore della parte. Il ‘principio di omogeneità’, estraneo alla matematica babilonese e che durerà nella geometria "teorica" fino a Descartes, presuppone che tutti i numeri sono segmenti e i prodotti di numeri sono figure. E' vero che in IX,18 Euclide considera un segmento (e non un quadrato) come risultato del quadrato di un segmento, ma si tratta in realtà di numeri 'travestiti' in linguaggio geometrico secondo una tradizione dell'antico pensiero aritmogeometrico. La ragione di questa difficoltà a unificare i concetti di "numero" e "grandezza" è nel fatto che essi erano due campi del tutto eterogenei, per quanto questo sia difficile da comprendere per chi è cresciuto nella matematica post-cartesiana: il numero reale comincia allora ad apparirci in realtà una creazione sintattica originale finalizzata a creare un ponte tra discreto e continuo, tra numero e grandezza. Certo, i numeri erano connessi alle grandezze e tanto la tradizione più antica quanto l'impianto aristotelico ritrovavano, anche se in modo diverso, una qualche connessione tra ‘numero’ e 'misura', ma nella cultura greca i due concetti restarono sempre nettamente separati, sino a utilizzare sistemi numerici a base diversa. La riduzione sintattica del concetto di 'uguaglianza' è legata alla apparizione della 'dimostrazione per assurdo', che abbiamo visto essere verosimilmente assente in antichi libri di "Elementi". In Platone l'uguaglianza è una idea strategica per la costruzione del mondo delle idee, e che così si realizzi l'imperativo parmenideo della conoscenza come conoscenza di qualcosa fissato una volta e per sempre, al di là della variabilità e della diversità degli oggetti reali. Se l'uguaglianza garantisce questa costruzione, i suoi assiomi sono ciò la cui violazione garantisce la non-verità delle ipotesi, e permette così la introduzione della dimostrazione per assurdo al posto di molte antiche dimostrazioni 'evidenti'. Abbiamo già notato una traccia di questa trasformazione nel teorema I.4, primo criterio di congruenza fra triangoli. E questo ci pone anche sulla traccia della distinzione che credo più fondata tra postulati e nozioni comuni (o assiomi): i primi sono punti di partenza, come nell'antica pratica dialettica, spesso di natura costruttiva, i secondi sono principi di ragione con cui costruire 31 dimostrazioni, anche dimostrazioni per assurdo (quasi sempre basate su assurdi connessi all'uguaglianza o all'infinito) con cui sostituire antiche dimostrazioni per evidenza. Il ‘regresso infinito’ è l’unica forma di assurdo che non si riconduca alla negazione di una delle ‘nozioni comuni’ o di un teorema già dimostrato. E gli assurdi per il regresso infinito non potrebbero essere resi ‘positivi’ in dimostrazioni costruttive neanche intuitivamente. Infatti la geometria di Euclide tratta di oggetti 'finiti' ed effettivamente dati. Il termine eis apeiron, all’infinito, compare nella definizione I.23 di "parallela" e nel V postulato due linee estese 'indefinitamente' tagliate da una linea retta si incontrano sul lato su cui gli angoli sono meno di due retti. Ma è un infinito potenziale, e superfici e solidi restano rigorosamente limitati: quella eucldea è una geometria piana ‘senza il piano’, una geometria solida ‘senza lo spazio’ Anche l’idea di infinito non apparteneva alla matematica ed era un concetto sostanzialmente ‘fisico’. In Euclide il termine ‘infinito’ (apeiron) appare in forma solo avverbiale, per dirci che la retta può essere prolungata illimitatamente. Anche le sezioni coniche, prima di Apollonio, erano costruite su coni finiti. Quella euclidea è una geometria piana senza il ‘piano’, una geometria solida senza lo ‘spazio’, è una geometria di figure e solidi finiti che non richiedono un ‘ambiente’ infinito che li contenga. E’ qualcosa da ricordare per valutare precisamente la matematica greca. Ad esempio lo stesso Apollonio nel suo studio delle coniche introduce ‘rette di riferimento’ sulle quali ‘proiettare’ le posizioni di punti delle curve, individuando segmenti tra i quali riconoscere relazioni geometriche nella forma di rapporti caratteristici delle curve (chiamati symptoma). Molti storici hanno riconosciuto qui la ‘geometria analitica’ odierna (con gli ‘assi x, y, z’, le ‘coordinate’ dei punti, le ‘equazioni’ delle curve). La differenza è che i concetti di Apollonio erano ‘intrinseci’ alla curva (assi, diametri, tangenti), mentre quelli moderni sono ‘estrinseci’ ad essa e relativi invece ad uno ‘spazio’ indipendente che ‘contiene’ la curva. L’infinito appare in diverse forme, ma sempre secondo lo schema aristotelico dell’infinito potenziale: così nel II postulato eutheia è sempre una linea retta finita che può essere indefinitamente e continuamente estesa. L’impossibilità di processi infiniti attuali è adoperata nella teoria della incommensurabilità, mentre esistono prove di esistenza dell’infinito potenziale (i numeri primi). Anche nelle dimostrazioni di teoremi sono introdotte le ipotesi di estensione infinita, come per tracciare una perpendicolare da un dato punto (I,12) L’infinito appare anche nella forma della infinita divisibilità: per bisecare una linea (I,10) essa deve essere supposta infinitamente divisibile. Proclo, citando Geminus, (278) osserva come, in geometria, sia sufficiente ipotizzare che "il continuo è divisibile", mentre che "il continuo sia divisibile all'infinito" si può dimostrare tramite la costruzione di grandezze incommensurabili. Era anche difficile trattare l’‘insieme’ dei numeri, poiché questo significava trattare l’infinito, così che Euclide non dirà ‘ci sono infiniti numeri primi’, bensì “i numeri primi sono più di ogni molteplicità proposta di numeri primi” [Elementi, IX.20], e nelle dimostrazioni non comparirà mai esplicitamente il principio di induzione completa: per ogni proprietà P si ha che P(0) (x) (P(x)=>P(x+1)) => (x) P(x) che usualmente si ascrive a Pascal. Se ne trovano tracce precedenti in Maurolico, in Levi ben Gerson ed anche in autori arabi. In Euclide si trovano tracce di ragionamenti che sembrano preludere ad esso (VII 3, 27, 36, VIII, 2, 4, 13, IX, 8, 9), ma sono sempre ridotte a ragionamenti intorno a numeri (piccoli, tre o quattro) ben definiti. Vi è tuttavia qualcosa di molto simile al principio di induzione. L’infinito numerabile è in fondo accettabile (ad esempio nel teorema su i numeri primi) in quanto coincide con l’infinito potenziale, e la sua limitatezza per divisione (o sottrazione) implica la inesistenza di una sequenza 32 infinita decrescente di interi, che appare sostanzialmente coincidente col principio di esistenza del minimo1 e appunto col principio di induzione. E’ tuttavia degno di nota che il principio di induzione, che permette un uso ‘positivo’ dell’infinito, non appaia nella matematica greca, ma che qualcosa di logicamente equivalente vi appaia nella forma ‘negativa’ di un principio che nega l’esistenza di una sequenza infinita. La dimostrazione procedeva da ‘cose più note’ verso ‘cose meno note’, dagli assiomi/postulati ai teoremi/problemi, una procedura nota anche come sintesi, che caratterizza lo stile di Euclide negli Elementi. Ma nella matematica greca appariva anche la procedura opposta, detta analisi, che partiva da ‘ciò che si cerca’ per risalire a ‘ciò che già si sa’. L’idea fondamentale era quella che invertendo le deduzioni di una delle due procedure si otteneva l’altra, ma in realtà A=>B non implica B=>A, così che per garantire la correttezza logica dei risultati l’analisi andava sempre seguita dalla sintesi corrispondente. Gli psicologi cognitivi ci dicono che un bravo studente di geometria oggi è in genere abile nel mischiare in modo opportuno le due procedure, chiedendosi alternativamente ‘da quello che so che cosa posso conoscere?’ e ‘per ottenere il risultato richiesto che cosa mi serve?’. Maestro della ‘analisi’ fu Apollonio. Per capirne la grandezza basta pensare che sviluppò la teoria delle coniche (le figure ottenute per sezioni di un cono tramite un piano al variare della sua inclinazione: cerchio, ellisse, parabola, iperbole), nata probabilmente da esperienze di misurazione astronomica (meridiana, astrolabio), in quanto le stelle si muovono rispetto ad un osservatore terrestre su cerchi che col vertice nell’osservatore formano un cono, la cui sezione con un piano è una conica. Ebbene Apollonio ottenne per via geometrica tradizionale gran parte di quello che oggi si studia sull’argomento usando il formalismo algebrico. IL METODO DI ESAUSTIONE E ARCHIMEDE Un capitolo speciale della matematica greca, il cui sviluppo va da Eudosso ad Archimede attraverso il XII libro degli Elementi, è il metodo di esaustione. Nella preistoria del metodo di esaustione c’è Democrito, che si chiede: se noi tagliamo un cono con un piano otteniamo un cono più piccolo e un tronco di cono. Le sezioni, che ci danno la base del cono minore e la faccia superiore del tronco di cono, sono uguali? Ricordando che possiamo ripetere il discorso per le infinite possibili sezioni, se la risposta è no, allora avremo che il cono avrà una struttura irregolare a scalini; se la risposta è si, allora avremo che il cono è in realtà un cilindro. In Antifonte l’esaustione del cerchio con poligoni si realizzava in un numero finito di suddivisioni. Ippocrate di Chio, forse autore di gran parte dei contenuti più antichi degli Elementi, cioè della prima costruzione assiomatico deduttiva delle geometria già nel V secolo, aveva un idea già più corretta e cercava la quadratura intermedia tra poligoni circoscritti ed iscritti, così che a lui si ascrive la intuizione del teorema XII.2, secondo il quale “il rapporto tra due cerchi è quello tra i quadrati dei diametri”. In verità le radici del metodo si trovano nelle teoria di quelle che Euclide chiama semplicemente “grandezze”, e che potremmo dire, con Aristotele, ‘continue’, sviluppatasi assieme alla teoria delle proporzioni di Eudosso. Infatti già la def. V.4 asserisce che due grandezze “hanno un rapporto” se c’è un multiplo della minore più grande della maggiore; questa proprietà è in un certo senso proprio l’inversione della ‘infinita divisibilità’ considerata come un infinito potenziale: le “grandezze” per cui esiste un rapporto sono le entità non nulle ottenute da un numero finito di suddivisioni Su questa base X.1 mostra che se, date due grandezze, sottraiamo iterativamente dalla 1 Il principio del buon ordinamento asserisce che ogni insieme può essere ben ordinato, cioè posto in un ordine totale tale che ogni sottoinsieme limitato inferiormente ammette un minimo. Il principio di esistenza del minimo asserisce che ogni insieme non vuoto di interi ammette un minimo. 33 maggiore una grandezza maggiore della sua metà (ipotesi questa in verità non necessaria), resterà prima o poi una grandezza minore della minore delle due. E X.2 mostra che due grandezze sono incommensurabili se l’algoritmo per la massima comune misura, quello delle sottrazioni successive (X.3), non termina mai. Abbiamo già visto che questa proprietà, applicata a lato e diagonale del quadrato oppure alla sezione aurea, potrebbe essere stata il punto di partenza per la versione geometrica della incommensurabilità. Archimede assegna ad Eudosso il famoso lemma: “di linee, superfici, solidi disuguali, il maggiore eccede il minore di una quantità capace, aggiunta a se stessa, di superare qualsiasi grandezza di quelle confrontabili tra di loro”. Insieme alla def. V.4 dava una caratterizzazione matematica al concetto di grandezza continua e di confrontabilità tra grandezze omogenee. Tuttavia delle due proprietà che Aristotele assegna al continuo, l’"infinita divisibilità" e la "mancanza di lacune", solo la prima caratterizza la geometria euclidea, e per questa considerazione Dedekind potrà dire a ragione che questa ammette anche ‘modelli’ non continui, ma semplicemente ‘densi’. La base del "metodo di esaustione" consiste nell’'intuire' una relazione di uguaglianza (in senso metrico) tra due enti geometrici, e poi nel dimostrare tale uguaglianza, con due dimostrazioni per assurdo basate sulle proprietà suaccennate applicate alle due opposte disuguaglianze. A tale fine si devono costruire due sequenze di grandezze, una crescente e l’altra decrescente, una sempre minore della grandezza studiata, l’altra sempre maggiore. Ovviamente a questo scopo tutte i rapporti fra grandezze geometriche devono essere resi confrontabili coi rapporti tra segmenti, che, secondo il canone della geometria greca sono il 'prototipo' della idea stessa di grandezza. Così a questo fine sono dedicate le prime proposizioni de Sulla sfera e cilindro di Archimede. E’ interessante osservare il rapporto tra discreto e continuo che il metodo di esaustione configura. Il punto di partenza è la già citata definizione 4 del V libro, che caratterizza l’ambito delle grandezze (continue), cioè “aventi un rapporto tra di loro”, in quanto capaci quando moltiplicate di eccedersi l’un l’altra. Il passo successivo è il già citato teorema X.1 che garantisce il viceversa, cioè che una qualsiasi grandezza, se continuamente decrementata di almeno la metà di quanto resta, finisce con l’essere minore di qualsiasi altra grandezza. Su questa base si fonda il metodo di esaustione, che verifica una proporzione dimostrando per assurdo che le due disequazioni relative non valgono: non quindi la continuità come 'separabilità', ma la continuità come definita dalla 'divisibilità' e dall'assioma di Eudosso-Archimede. Supponiamo di voler dimostrare che il rapporto tra i cerchi è uguale al rapporto tra i quadrati con lati uguali ai rispettivi raggi (fig.7). Dimostriamolo per assurdo supponendo che il rapporto tra i cerchi A:B sia minore del rapporto tra i quadrati C:D, allora il rapporto tra i quadrati sarà uguale al rapporto tra il cerchio A ed una altra figura >B: A: =C:D. Circoscriviamo al cerchio B poligoni regolari con un numero di lati crescente (e quindi decrescenti come ‘area’): L1, L2, L3, …, prima o poi ne troveremo uno, Li, con tanti lati da rendere la sua differenza rispetto al cerchio B minore della differenza tra e BQuesto poligono sarà così tale che >Li>B. Costruiamo un poligono con altrettanti lati Mi circoscritto al cerchio A. Tra i poligoni regolari vale il teorema che il rapporto tra due poligoni simili è uguale al rapporto tra i quadrati costruiti su lati che hanno lo stesso rapporto dei lati dei poligoni (uguale nel nostro caso al rapporto tra i raggi dei cerchi A e B) e quindi Mi:Li=C:D. Ma A: =C:D e quindi A: Mi:Li e allora A:Mi:Li. Ma il cerchio è minore del poligono in esso circoscritto e quindi <Li. Ma Li era anche minore di : assurdo. Analogo assurdo se supponiamo che il rapporto tra i cerchi sia maggiore del rapporto tra i quadrati. 34 RADDOPPIANDO LE DIMENSIONI SI QUADRUPLICANO LE AREE C U A l U U l l ? D 2l 4U 2l 4U 2l B 4U FIG.7 La proposizione XII.2 applica questo metodo per mostrare che due cerchi sono nella proporzione del quadrato dei loro diametri. A e B sono i due cerchi, C e D sono i quadrati dei diametri. La proporzione è stata già dimostrata per poligoni simili. Le sequenze Li e Mi sono le sequenze di poligoni regolari iscritti nei due cerchi con numero crescente di lati. L’applicazione della procedura precedente dimostra il teorema. Non appaiono nè l’infinito nè lo zero. Infatti il metodo di esaustione si basava sul teorema X.1 degli Elementi: “fissate due grandezze disuguali, qualora dalla maggiore sia sottratta una grandezza maggiore della metà [in realtà questa condizione non è necessaria] e da quella restata fuori una maggiore della metà, e questo risulti in successione, sarà restata una certa grandezza che sarà minore della minore grandezza data”. Poiché la minore delle due grandezze date può essere scelta a piacere il residuo può essere reso minore di ogni grandezza. Tuttavia non poteva diventare zero poiché una grandezza non poteva diventare un non-essere, e l’infinito non era un limite ma solo un luogo impraticabile. In questo discorso le approssimazioni non sono più numeriche come nell’argomentazione fatta per l’uguaglianza tra i rapporti, bensì geometriche, ottenute da poligoni circoscritti (o iscritti) con un numero crescente di lati, ma il ragionamento è analogo. Il lemma di Eudosso serve ad asserire qui sostanzialmente che la differenza tra una grandezza (continua e incommensurabile) e un’altra grandezza (discreta) è sempre non nulla ed in grado di avere un rapporto con qualunque altra grandezza. La proprietà usata nel teorema sulla leva, ed anche i teoremi basati sul principio di esaustione come il XII.2, asseriscono che una grandezza continua è approssimabile da grandezze discrete con qualsiasi precisione finita non nulla. Il legame tra i due è dato dalla X.1, che garantisce che tramite sottrazioni successive tra due grandezze si può sempre ottenere una grandezza minore della minore delle due. Il metodo di esaustione ha però un aspetto che lascia perplessi: può servire per ‘verificare’ una ipotesi sulla proporzione tra figure, ma non per ‘scoprirla’. In certi casi (come nel caso del cerchio) il rapporto tra le aree sembrava intuibile, ma in altri casi questo non accadeva, come nel caso del rapporto tra figure curve e rettilinee, ove occorre sempre tenere presente che in generale per i Greci retto e curvo erano opposti e quindi inconfrontabili. Ad esempio Archimede dimostra col metodo di esaustione la correttezza della ipotesi che il rapporto tra un segmento di parabola ed il triangolo isoscele in esso iscritto sia 4/3. Ma questa ipotesi era tutt’altro che evidente. Come l’aveva scoperta? Questi interrogativi cominciarono a porseli i matematici del XVI secolo, quando gli scritti di Archimede, sebbene tradotti in latino già nel Medioevo, cominciarono ad essere studiati, capiti ed apprezzati. Molti sospettarono che Archimede avesse avuto un ‘metodo’ segreto per scoprire la ipotesi ‘giusta’. 35 Sorprendentemente un secolo fa Heiberg scoprì in un antico palinsesto un testo dove si leggeva il ‘metodo di Archimede’. La sorpresa doveva poi trasformarsi in ammirazione per il genio dell’autore. Nella dimostrazione si utilizzava una fusione inimmaginabile tra geometria e statica (teoria della leva), sviluppata da Archimede in diverse opere, costruendo una configurazione di equilibrio tra il segmento di parabola ed il triangolo, tramite la costruzione delle figure come unione delle loro sezioni parallele (segmenti, e quindi di dimensione inferiore alle figure). La figura da studiare è sezionata in elementi che diremmo infinitesimi. Tramite lemmi geometrici si costruiscono proporzioni in cui tali sezioni vengono rapportate ad altre più facilmente analizzabili. Tali proporzioni vengono lette come condizioni di equilibrio su una leva, avente da un lato la figura incognita e dall’altro una nota. Così la misura dell’ente geometrico incognito viene ridotta ad una misura nota. Tuttavia questo metodo viene usato da Archimede solo per scoprire la relazione di uguaglianza che rimane però sempre da convalidare poi con il metodo di esaustione. V a.C. IV III TRADIZIONE MATEMATICA ORIENTALE PRATICA EUDOSSO ARCHIMEDE APOLLONIO EUCLIDE ARISTOTELE PLATONE FILOSOFIA I a.C. I d.C. II III VITRUVIO NICOMACO DIOFANTO CL. TOLOMEO ERONE PITAGORICI ARCHITA TRADIZIONE TEORICA II PAPPO PLOTINO ELEATI Il Metodo di Archimede, la tecnica euristica da lui usata per scoprire relazioni da dimostrare col metodo classico di esaustione, semplicemente sostituisce le due sequenze X(n) e Y(n) con un infinità attuale di grandezze di dimensione minore (ad esempio segmenti se le sequenze erano figure piane). Nella dimostrazione si utilizza la possibilità di distribuire e unificare distribuzioni di massa intorno al centro di simmetria, e questo risultato si dimostra in Archimede per via assiomaticodeduttiva a partire da postulati che asseriscono l'equilibrio di pesi uguali a uguali distanze e lo squilibrio in caso si neghi l'uguaglianza di peso (anche se qualche ipotesi non esplicita compare implicitamente nella dimostrazione). T H F G M K E NW P B A O D C Fig.8 36 In fig.8 il 'metodo' è applicato per il calcolo dell'area del segmento di parabola ABC, uguale ai 4/3 dell'area del triangolo ABC. Sia DE l'asse della parabola e CF la tangente ad essa in C. Da A si tira AKF parallela a DE. Prolunghiamo CB sino a K e ad H, con KH=KC. Sia CH la bilancia di punto medio K. MO è una generica retta parallela ad ED e siano M, N, O, P i suoi punti di incidenza con le rette CF, CK, CA e con la parabola. Sull'asse EB=BD (risultato sulla parabola provato da Aristeo ed Euclide), e quindi FK=KA e MN=NO. Si sa anche che: MO:OP=CA:AO (Quadratura della Parabola di Archimede, 5) =CK:KN (Elementi di Euclide VI,2) =HK:KN. Sia poi TG=OP e poniamolo in H come centro di gravità. N è il centro di gravità di MO e MO:TG=HK:KN, e quindi TG in H e MO in N saranno in equilibrio (Sull'equilibrio dei piani I,67). Questo vale per ogni retta MO parallela a DE. Saranno in equilibrio intorno a K allora il sistema dei segmenti PO così ottenuti (e quindi il segmento di parabola ABC) e posti in H e il triangolo AFC lasciato dove è. Sia W tale che CK=3 KW; allora W è il centro di gravità del triangolo ACF (Sull'equilibrio dei piani I,15) e allora Area ACF: =HK:KW=3:1. Ma Area ACF= 4 Area ABC, da cui si ottiene la tesi. Ma anche in Aristotele si ritrova la traccia delle difficoltà a trattare l’infinito. Nelle dimostrazioni 'corrette' (Quadratura della parabola, 16-17 oppure 24), fatte per assurdo secondo il classico "metodo per esaustione", Archimede utilizza lemmi (rispettivamente 6-7,14-15 oppure 23), nel primo caso basato sul centro di massa del triangolo, con una logica che si ritrova nella proposizione 1 del Metodo, ove si risolve per via 'meccanica' lo stesso problema. La dimostrazione nel secondo caso è sostanzialmente fondata sulla serie geometrica di ragione 1/4, ma in una forma particolare che rimane al finito. Archimede dimostra che 1 + 1/4 + (1/4)2 + ….+ (1/4)n + 1/3 (1/4)n = 4/3 Fig.9 Appare nei commentatori il riferimento alla fig.9 (non essenziale nella dimostrazione, ma splendida per la 'evidenza' che dà al risultato) in cui un quadrato contiene un altro quadrato di lato dimezzato, che a sua volta contiene un quadrato di lato ancora dimezzato, etc., così che la serie diventa una somma di gnomoni, ciascuno 1/4 del precedente fino a completare un quadrato. La figura mostra chiaramente che il limite della serie è esattamente i 4/3 del primo 'gnomone', ma ci fa capire un po' l'impossibilità di evitare il metodo di esaustione con un passaggio al limite: il punto in basso a destra non farebbe parte di alcuno gnomone, fatto questo che nel nostro linguaggio significa solo che l'ultimo termine della somma 'tende' a zero, come l'ultimo quadrato 'tende' a diventare un punto, secondo Nicomaco una "estremità senza estensione" (Erone, Definizioni). In entrambi ragionamenti qualcosa che "è" diventa qualcosa che "non è". DIOFANTO 37 Per chiudere la parte relativa alla antichità greca, non si può ignorare l'opera di Diofanto, che per molti versi già preclude al futuro linguaggio algebrico di Viete e Descartes, e che dà una forma nuova, che potremmo già dire 'sintattica', all'uguaglianza. Per cogliere il cambiamento possiamo limitarci a considerare la risoluzioni delle equazioni quadratiche. Consideriamo il seguente esempio, relativo a due numeri la cui somma è 20 e la somma dei quadrati è 208. (HEATH 1910), confrontato con un problema analogo su un testo babilonese. In Diofanto, troviamo una nuova notazione: è la "incognita", probabilmente derivata da aithmos, è il suo "quadrato", derivato da dunamis, sta per il segno di "uguale", caratterizza una "costante intera", e ^ sta per il segno "meno". (In figura la colonna di destra traduce in termini moderni). ^ 20 208 poniamo ^ x+10 quadriamo x2 +20x+100 x2 +100-20x sommiamo sottraiamo dividiamo 2x2 +200 = 208 2x2 = x2 x 10-x ottenendo = = 12 8 4 2 8 Invece il problema babilonese BM 345658 VsII 10, dà la somma 23, e la diagonale (e quindi la radice quadrata della somma dei quadrati) 17. I calcoli sono fatti nel sistema sessagesimale : <lunghezza e larghezza sommate sono 23 e 17 la diagonale. Le grandezze sono incognite. 23 per 23 è 8,49. 17 per 17 è 4,49. 4,49 da 8,49 sottrai e rimane 4,0. 4,0 per 2 è 8,0. 8,0 da 8,49 sottrai e rimane 49. Che cosa devo prendere per ottenere? 7 per 7 dà 49. 7 da 23 sottrai e rimane 16. 16 per 0;30 prendi ed è 8. 8 è la larghezza. A 7 aggiungi 8 ed è 15. 15 è la lunghezza> o un simile problema, in forma normale, AO 6484 Rs 10-14, dove la somma è 2;0,0,33,20, e il prodotto è 1: <divisore e dividendo dà 2;0,0,33,20. con 0,30 moltiplica e dà 1;0,0,16,40. 1;0,0,16,40 con 1;0,0,16,40 moltiplica, dà 1;0,0,33,20,4,37,46,40. Sottraggo 1, rimane 0;0,0,33,20,4,37,46,40. Che cosa devo moltiplicare? Moltiplichiamo 0;0,0,44,43,20 con 0;0,0,44,43,20 dà 0;0,0,33,20,4,37,46,40. 0;0,0,44,43,20 sommato a 1;0,0,16,40 dà 1;0,45 il divisore. 0;0,0,44,43,20 sottratto da 1;0,0,16,40 dà 0;59,15,33,20 il dividendo.> Rispetto agli esempi concreti sulle tavole babilonesi in Diofanto il problema viene posto in modo astratto. La risoluzione babilonese sembrava seguire i passi di una procedura ben definita, 38 probabilmente legata alla costruzione di una figura nella quale interpretare i dati numerici del problema, che permetteva di ricavarne la grandezza incognita, mentre Diofanto sembra maneggiare diverse ‘condizioni’ in forme di equazioni che hanno la loro origine nell’algebra geometrica e nelle proprietà dell’uguaglianza, ma vengono ora manipolate per riscrivere le condizioni del problema. Il 'tempo' della risoluzione non è più quello della costruzione, ma è puramente funzionale, nel senso che la soluzione si ottiene nella sequenza di diversi passaggi a partire dai dati e dall’incognita del problema (spesso col vincolo di soluzioni intere), e la possibilità di iterare i simboli permette di esprimere potenze superiori alla terza, liberando così tali tecniche dalla limitazione del linguaggio geometrico. La origine pratica e geometrica delle tecniche e dello stesso linguaggio algebrico appaiono però chiare anche nell’approccio non geometrico di Diofanto, come nella accettazione di sole soluzioni positive, o nell’uso di un quadrato disegnato per denotare un quadrato aritmetico, o nell’uso del termine ‘lato’, pleura, per il valore di cui si fa il quadrato. Non esiste il prodotto tra incognite poiché il quadrato o il cubo non è il prodotto dei suoi lati, ma una figura; il prodotto tra un numero e l’incognita o la somma di termini sono date per semplice giustapposizione, come nella descrizione delle figure geometriche; i numeri sono semplici aggettivi che devono essere applicati ad un’incognita o alla monade per diventare termini. Il segno compare come la parola ‘meno’ nelle frasi in linguaggio naturale E' da notare come il calcolo segua la stessa evoluzione della dimostrazione a partire da una comune origine (la costruzione della figura geometrica) tramite una traduzione sintattica, una analogia questa tra ‘calcolo’ e ‘dimostrazione’ che ritroveremo ancora in matematica. La dimostrazione ne conserva la struttura temporale, appare una edizione sintattica della costruzione, mentre l’aritmetica di Diofanto crea un suo 'tempo', che parte dalle equazioni corrispondenti alle condizioni del problema e utilizza singole proposizioni dell’algebra geometrica. Quanto questo sia peculiare si può cogliere osservando come la tecnica delle equazioni non comparve mai nella matematica cinese, che così, nonostante il grande sviluppo delle sue tecniche di soluzione dei problemi, non riuscì mai a creare una vera algebra. DALL’ANTICHITA’ AL MEDIO EVO L’antichità per la matematica finisce prima della caduta dell’Impero Romano. I Romani avevano avuto una breve passione per la cultura greca, all’inizio dell’impero, al punto che in qualche misura l’impero era diventato bilingue: Cicerone per la filosofia e la retorica, Vitruvio per l’architettura erano state figure in cui riecheggiava la cultura greca. Ma progressivamente la ‘romanità’ era tornata a prevalere. Del resto la stessa lingua latina mostrava l’origine molto più pratica dell’idea romana di conoscenza: mentre i verbi greci di conoscenza richiamavano la visione e la memoria, quelli romani ricordavano l’esperienza pratica: sapio, sapientia (‘avere sapore’), puto, computo (‘potare’), penso (‘pesare’), verus (‘dritto’), forse anche cogito (‘raccogliere’). La divisione dell’impero in impero d’occidente ed oriente fu quindi non solo un espediente logistico, ma anche l’esito di una frattura culturale che a partire dal IV secolo d.C. vedrà la scomparsa definitiva della matematica (e della filosofia) greca dall’occidente, solo la retorica vi resterà come traccia di quella antica influenza. La matematica si rifugerà allora nella sua terra d’origine, l’Oriente. La filosofia platonica e ancor più quella aristotelica rimasero la base del sapere umano per circa due millenni e questo ci deve far riflettere su quanto poderosa doveva essere tale sistemazione e come il suo superamento richiedesse (al di là delle metafore del tipo dei “nani sulle spalle dei giganti”) un autentica catastrofe culturale, capace di rompere un meccanismo incredibilmente solido di riproduzione culturale di innumerevoli generazioni di figure intellettuali e un universo descritto mediante una coerenza ineguagliabile tra linguaggio e pensiero. Era un 39 mondo di 'individui' e di 'forme', cui si attaccavano attributi appartenenti a diverse categorie. La difficoltà di trattare con il problema del 'moto' e del 'mutamento' basta a caratterizzare questo mondo aristotelico: il moto era "l'atto di qualcosa in potenza, ma in quanto appunto in potenza". Per renderlo qualcosa di reale occorre legarlo al corpo in moto, qualcosa che il corpo ha già in potenza quando non è in moto, ma che poi si realizza, si attualizza. Ma se il moto fosse il suo esito finale, attuale, esso sarebbe il nuovo stato ottenuto per traslazione, la quiete in un altro luogo e non il moto. Occorre quindi considerarlo solo in quanto 'in potenza'. Nel pensiero aristotelico si erano fissati due temi costanti del pensiero dell'antichità: la necessità di una sostanza che caratterizzasse il "permanere" e quindi la conoscibilità del reale nel flusso del divenire, e la necessità di una serie di coppie polari di "contrari" sulla cui trama si disegnasse il divenire. I quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, ne garantivano i caratteri sostanziali e i quattro attributi caldo/freddo e secco/umido, insieme alla coppia materia/forma dovevano consentirne il mutamento. In realtà l'approccio aristotelico aveva un carattere più biologico e medico che fisico: i quattro elementi risalivano ad Empedocle, le due coppie di attributi opposti ad Ippocrate di Cos e si ritrovavano nei Pitagorici, e le idee di "causa", aitia, e di "forma", eidos, apparivano più mediche e naturalistiche che tecniche. L'opposizione tra divenire ed essere diventava in particolare l'opposizione tra moto e quiete. E il divenire nella cultura greca era in sé la contraddizione, il fondersi di essere e non essere, e la fisica, la scienza della ‘genesi’, del ‘mutamento’ e del ‘moto’, restava così bloccata dalle aporie del non essere, attestata sullo stretto passaggio della coppia aristotelica atto/potenza. Nel Rinascimento però l’attenzione finiva col fissarsi sul carattere reale del moto. Il carattere 'relativo' ed il suo 'essere', l’ossimoro dello ‘stato di moto’, la natura 'sostanziale' cioè di quello che era pur sempre solo un 'divenire', appariranno solo con Galileo e Descartes. Ma questa nuova soluzione, in cui il divenire, il moto in primo luogo, diventava un essere, e la quiete una forma particolare di moto, richiedeva una estensione della descrizione matematica del mondo e una nuova matematica del continuo e dell’infinito per considerare la ‘stasi’ il moto di quantità zero, e non il suo opposto, e quindi una matematica in cui lo 'zero', il nulla, fosse un numero come gli altri, e quindi in definitiva una filosofia che coniugasse il non essere se non come un modo dell'essere, almeno qualcosa che non fosse un opposto polare ed assoluto. Restava infatti intatto l'imperativo parmenideo: solo l'"essere" è pensabile, e quindi il moto nella accezione della fisica rinascimentale potrà 'essere' solo conservandosi. Nulla verrà mutato di questa filosofia dell'"identico" che niente testimonia meglio della irresistibile carriera dell'aggettivo uguale, isos, dalla antica caratterizzazione omerica in cui segna l'uguale rango tra re, dei, divinità e guerrieri, simmetria di posizione o di livello, fino al suo divenire la chiave di volta per la costruzione degli "universali", rappresentanti di individui 'uguali', possibili oggetti di una "scienza". Gli stessi inizi della geometria greca, con Talete e Pitagora, sono anche capitoli in questo sviluppo del concetto di 'uguaglianza', che progressivamente diviene sempre più un concetto 'metrico' e 'numerico', e quindi destinato a selezionare solo quegli universali che si rivelano 'misurabili'. Già in Diofanto isosdiventa termine tecnico per denotare l'"equazione". Ed anche il carattere 'quantitativo' del moto era del tutto inattingibile ad una matematica in cui il rapporto era tra numeri e tra grandezze omogenee, mai e poi mai tra grandezze eterogenee, quali la distanza e il tempo. Che il moto non potesse essere una 'grandezza' era confermato dalla inconfrontabilità di moti diversi quali quello rettilineo e quello circolare: era insomma il trattamento sintattico dell'"uguaglianza" il vero problema. D'altro canto la matematica, bloccata dalla antica concezione del numero e dal fatto che lo "zero" non era un numero, per confrontare grandezze eterogenee per confrontare grandezze eterogenee richiedeva una diversa concezione del mondo, in cui la 'monade' divenisse una unità di misura divisibile, e ogni grandezza fisica divenisse sostanzialmente e soprattutto qualcosa soggetta al "più" e al "meno", una misura e quindi semplicemente un numero, e non una sostanza o una qualità o una categoria. 40 Da notare che le proprietà fisiche diverse da tempo e spazio (peso, velocità, calore, etc.) erano ‘qualitative’. Quantità erano solo da un lato quelle geometriche ed il tempo (continue), dall’altro i numeri ed il linguaggio (discrete), e quindi le velocità potevano essere confrontate o come spazi percorsi in un tempo fisso o come tempi impiegati per percorrere una data distanza. Il progressivo spostamento dei concetti fisici dalle categorie e dalle opposizioni aristoteliche verso una progressiva caratterizzazione come "grandezza" e "quantità", e quindi a "numero" e "misura", in particolare rendeva la coppia moto/quiete, che in Aristotele era una opposizione del tutto inconciliabile e una coppia concettuale in fondo sghemba rispetto alla relazione principale tutta compresa tra le idee/forme e le cose, una generica quantità, diventando così la base concettuale della rappresentazione 'meccanica' del mondo. Anche il rifiuto dell'infinito non aveva niente di ideologico, ma era una caratteristica necessaria nella concezione del mondo degli antichi greci, tanto per l'esigenza di una 'sostanza' quanto per la necessità di 'opposizioni polari': la stessa geometria euclidea è fatta di figure finite individuali, costruite in modo tale da essere generali, e non porzioni di un piano o spazio infinito, ed anche l'infinità della retta appare solo come un indefinito prolungamento. L'uso linguistico di considerare 'ogni' , e non un 'qualsiasi', triangolo, 'la' data area, e non 'una' data' area, il fatto che solidi che noi consideriamo infiniti quali coni e cilindri sono generati dalla rotazione di figure finite, triangoli e rettangoli, le definizioni di rette e piani sempre come grandezze finite, dotate di estremità e contorni, con lunghezze, larghezze e profondità, confermano l'idea di una geometria piana senza il piano, di una geometria solida senza lo spazio, in un cosmo finito, una geometria di oggetti ben definiti in modo generale, ma sempre individualmente costruiti nel finito. Il cosmo, il mondo finito e strutturato di Aristotele è l'unico vero ‘mondo’ della scienza greca, gli accenni 'infiniti' rimangono solo esigenze di 'indeterminazione' o ‘illimitatezza’, e non casualmente resteranno marginali fino all'era moderna. La dottrina aristotelica dell’infinito e del continuo rimase parte integrante della "scolastica", ed in essa aspetti logici, fisici e matematici si sostenevano a vicenda in una unica cornice metafisica. L’impero romano d’oriente durerà mille anni dopo la caduta di quello d’occidente. E nei secoli tra la fine dell’antichità e l’inizio del Medioevo, soprattutto ad Alessandria, esso sarà la dimora della cultura classica. Qui troveremo gli ultimi grandi filosofi, da Plotino, padre del neoplatonismo, a Simplicio, uno dei massimi commentatori di Aristotele. Più interessante per noi la figura di Giovanni Filopono, altro esponente della fusione tra pensiero classico e cristiano, e primo pensatore a sottoporre la filosofia naturale dominante, quella aristotelica, ad una critica terribilmente moderna. Aristotele infatti rifiutava il vuoto e l’idea di uno spazio tridimensionale contenitore delle cose, considerava la fisica dei cieli e quella terrestre del tutto diverse, riteneva il mondo eterno, considerava la materia una realtà solo negativa, priva di proprietà e dimensioni, e credeva che la velocità di caduta di un grave crescesse col peso. Tutte tesi che Filopono rigettò, anche se occorrerà aspettare un millennio per vedere l’affermarsi di quelle critiche. In un lungo periodo, più o meno dal V all’X secolo d.C., in Europa occidentale le popolazioni di cultura latina assistono al disgregarsi del loro mondo, sottoposte ad invasioni e scorrerie continue da quasi tutti i punti cardinali, dalla Scandinavia, dall’Asia e dall’Europa orientale, dai paesi islamici. La crisi aggravandosi travolge la produzione economica, il commercio interregionale, la cultura, e segna una crisi profonda delle città. Dopo il crollo dell’impero di occidente le aggregazioni politiche che si creano hanno in genere vita grama, sempre più le popolazioni si rifugiano nei villaggi intorno ai castelli che diventano anche il cuore di tutta la struttura dei rapporti economici e sociali tra le persone: si delinea quella che viene detta la ‘società feudale’. 41 Della cultura rimane quasi nulla, svaniscono le scuole, e anche la conoscenza del latino (del greco neanche a parlarne) impallidisce, se non all’interno della vita religiosa, mentre nella vita quotidiana cominciano a formarsi dialetti locali che saranno le future lingue nazionali. Il latino rimarrà la lingua della cultura, unico strumento unificante della società europea, universale come la Chiesa, ma resterà uno strumento solo ‘tecnico’, una lingua senza vere radici sociali e senza neanche alcuna ‘aura’ religiosa: il suo ruolo sarà del tutto diverso da quello dell’arabo nell’Islam (il Corano non si può tradurre, i Vangeli sono multilinguisti sin dall’origine, la versione ufficiale della Bibbia in greco e in latino già nella tarda antichità, e tradotta poi, a partire dalla Riforma protestante, in tutte le lingue nazionali, senza che la traduzione ne infici mai il valore religioso), ed anche quando nel Rinascimento si cercherà una ‘lingua originaria’ nella quale trovare il ‘vero nome’ delle cose, la si cercherà nell’ebraico, o addirittura nel cinese, ma non nel latino. Della matematica rimane solo la tradizione pratica nella sua forma più elementare, legata ai più semplici calcoli del commercio, dell’agrimensura e della architettura. Un nome centrale nella storia della trasmissione del sapere logico e matematico antico al Medioevo latino è quello di Boezio, quasi l’emblema del tentativo dei popoli latini di salvare la loro identità culturale nella nascita della nuova Europa all’interno dei nuovi stati barbarici. Senatore sotto Teodorico, ne diventa il consigliere, ma non può evitare di essere coinvolto nelle trame di corte, in un’epoca in cui l’impero bizantino, romano e cristiano, è ancora presente in Italia. Viene giustiziato e la sua morte interrompe il suo tentativo di tradurre in latino tutti i classici della matematica e della logica antica. Alcune sue opere sono andate perse, quelle rimaste costituiscono il nucleo principale delle conoscenze scientifiche dei greci note nell’alto Medioevo europeo: un libro di aritmetica ed uno di armonica ricavati da Nicomachus, un libro di geometria che riporta i primi tre libri degli Elementi, quasi del tutto senza dimostrazioni. In realtà di quest’ultimo ci sono arrivate due versioni, entrambe però ascrivibili ad autori medievali successivi, anche se probabilmente basate anche sul testo di Boezio. Sebbene concettualmente molto inferiori all’opera di Euclide questi testi includono alcune aggiunte abbastanza caratteristiche del pensiero medievale. Così la Geometria II inizia definendo la misura, che negli Elementi era concetto puramente aritmetico, come “qualunque cosa si definisca” non solo in termini di lunghezza, ma anche di peso, capacità e ‘animo’! Dichiara il punto (che in Euclide era caratterizzato solo dall’essere ‘senza parti’) principium mensurae, include un libro di proposizioni metriche, e considera la geometria utile ai meccanici, ai medici e ai filosofi: una rilettura (caratteristica dell’alto medioevo) della geometria teorica all’interno della tradizione pratica, con l’idea agostiniana della estensione della categoria della quantità al di là delle grandezze geometriche e dei numeri. Solo verso la fine del Medio Evo, soprattutto sotto l'influenza dei matematici arabi, cominciano a riapparire frammenti più consistenti della grande matematica greca, la cui comprensione richiese tuttavia che altri secoli passassero. Il Medioevo non è un periodo ‘buio’ ma un periodo di lenta incubazione delle idee che nella era moderna cambieranno l’Europa. Già alla fine dell’alto Medioevo i popoli europei avevano mostrato una grande capacità di assorbire le novità tecnologiche che arrivavano dell’Oriente, sulla rotazione delle culture, sull’uso agricolo e bellico del cavallo, sulla produzione di energia dal vento e dall’acqua, nuove tecniche costruttive, destinate a trasformare non solo l’economia ma anche la potenza bellica degli europei. Anche successivamente le maggiori novità arriveranno dall’Oriente ma gli Europei sapranno utilizzarle in maniera originale ed efficace. Ma, anche se si intravedevano tutte queste novità, l’Europa occidentale nell’alto Medioevo restava, rispetto ai grandi imperi orientali, un continente sottosviluppato. Tali cambiamenti endogeni della economia e società europea provocavano l’emergere di nuove esigenze e nuovi ceti, ed anche una diversa collocazione dei ceti intellettuali e del sapere: furono in effetti i mercanti italiani a decretare il trionfo degli algoritmi numerici sull’abaco. 42 Analogamente la rottura dell’uso scolastico del latino a vantaggio del volgare, segno di un cambiamento radicale nella struttura, nella riproduzione e nei collegamenti del ceto intellettuale, preludeva alla fine della Scolastica, alla riapertura del problema del 'linguaggio della conoscenza', e quindi alla nascita del nuovo linguaggio algebrico come fondamento linguistico delle scienze. Ma la storia culturale del Medio Evo è dominata in maniera assoluta dal Cristianesimo. Una struttura culturale complessa, centrata su un ceto culturale che per secoli sarà esclusivamente interno alla Chiesa Cattolica, rompendo radicalmente con la organizzazione del ceto intellettuale antico, greco, ellenistico e romano, e del tutto emarginato dallo sviluppo della scienza moderna a partire dal Rinascimento. Una struttura culturale complessa, centrata su un ceto culturale che per secoli sarà esclusivamente interno alla Chiesa Cattolica, rompendo radicalmente con la organizzazione del ceto intellettuale antico, greco, ellenistico e romano, e del tutto emarginato dallo sviluppo della scienza moderna a partire dal Rinascimento. Per certi versi il Cristianesimo rigetta la cultura classica e frequentemente testi classici su pergamene vengono cancellati per utilizzarle per scriverci omelie. Di fatto sul versante della tecnica matematica si assiste ad un regresso di circa tremila anni, con la scomparsa pressocchè totale di ogni frammento di matematica che andasse al di là dei più semplici usi quotidiani. Ma non si deve nascondere che il cambiamento culturale che il Cristianesimo realizza nel mondo europeo disegna un ambiente del tutto nuovo per lo sviluppo della matematica e della scienza, tanto che quando ricompariranno i classici greci nella cultura europea avranno una lettura ed uno sviluppo del tutto inediti. Il Cristianesimo antico da un lato trovava la sua diffusione soprattutto tra strati popolari urbani e dall’altro si presentava come una struttura dogmatica decisamente sconcertante per la cultura classica: la divinità una e trina, il Cristo uomo e Dio, l’ostia che si trasmutava nel corpo del Cristo, la resurrezione dei corpi, etc. Era facile per i dotti pagani sottolinearne le assurdità ed anche la grossolanità. Non è quindi strano che all’inizio si manifestasse l’opposizione tra la nuova religione e l’antica cultura. Tertulliano ne è il testimone più celebre, “credo quia absurdum, … tanto stolto da credere in un dio nato, e da una vergine….” [De carne Christi, IV,6, V, 4]. La contrapposizione è totale : “Che hanno in comune Atene e Gerusalemme?” [De praesc. Haer. VII, 6, 9]. Il Cristianesimo apre una strada nuova quando rivendica l'"assurdità" dei suoi dogmi come segno di una più profonda verità, che sarà poi quella "dotta ignoranza" del Cusano che chiuderà il Medio Evo e aprirà l'Era Moderna. La fine della logica e della natura aristotelica è già chiara in Tertulliano: Morto è il figlio di Dio, è credibile poiché è irreale; e sepolto è risuscitato, è certo poiché impossibile. (Mortuus est Dei filius, credibile est quia ineptum est; et sepultus revixit, certum est, quia impossibile.) Se Dio può morire e se da morto può risorgere, che cosa resta delle opposizioni aristoteliche tra credibile e irreale, tra certo e impossibile? Ma per altro verso il cristianesimo sin dall’inizio sa di doversi misurare con la cultura classica, san Paolo predica all’Areòpago di Atene e Dionigi si converte. Così lentamente la Parola di Cristo si diffonde fra i dotti e inizia una delle integrazioni culturali più incredibili della storia. Per i popoli latini è quasi un percorso obbligato: la cultura delle nuove popolazioni barbariche si afferma come cultura popolare, nelle saghe ed epopee, con i cicli arturiano e carolingio, nelle poesie, col passaggio dalla quantità metrica all’accento e alla rima, e nella musica, con la nascita della polifonia e degli accordi di terza e sesta. La cultura di quelle romane, disfatta sul terreno della cultura popolare, si poteva trincerare solo nella religione e nella cultura filosofica, unica loro 43 forma di identità culturale nel Medioevo. E tutte le grandi questioni teologiche, le lotte contro le eresie in cui si formerà l’ortodossia cattolica, saranno terreno di battaglia per quelle argomentazioni filosofiche che avevano caratterizzato la cultura classica fino alla sua ultima fioritura romana di tipo dialettico e retorico. Tertulliano era un nordafricano e la sua formazione culturale era prevalentemente giuridicoretorica. Il Nord-Africa negli anni finali dell’impero romano è un centro culturale di primaria importanza. Di lì, da quelle terre e da quella formazione culturale, proviene anche il più importante pensatore cristiano della tarda antichità: Sant’Agostino. A lui si deve il primo grande tentativo di fondere il platonismo con il pensiero cristiano. Ma finisce anche col diventare uno dei canali, pochi e incerti, della trasmissione del pensiero matematico dell’antichità nella cultura del medioevo. A lui si devono poche pagine contenenti semplici definizioni (punto e segno, figure geometriche) nel de quantitate animae, che si ritroveranno nel Medioevo. E non solo si trovano definizioni geometriche, ma anche un problema nuovo: si può parlare di ‘quantità’ dell’anima? O della carità? L’anima non è un corpo, ma è in un corpo e le sue immagini e ricordi hanno dimensioni, si può parlare di una ‘grande’ anima o di una ‘maggiore’ carità. E le anime si possono anche contare. Si profila così la possibilità inedita di estendere la quantità al di là delle grandezze geometriche, del tempo e del numero di cose. L’estensione del ‘regno della quantità’ è una delle ‘novità’ medievali che risulteranno cruciali per la nascita della scienza moderna. Il superamento della distinzione tra scienze e tecniche, e la progressiva fusione tra tradizione pratica e teorica saranno un altro aspetto essenziale, anche se ci saranno momenti, come nelle università medievali o nell’Umanesimo, in cui riapparirà una forma di elitarismo della intellettualità rispetto alle tecniche: di fatto le università del basso Medioevo interromperanno un processo di osmosi tra scienza e tecnica evidente nell’alto Medioevo che riemergerà col Rinascimento. Un altro aspetto essenziale che emergerà nel Medioevo sarà il superamento della idea greca di scienza come pura ‘scienza di universali’, per cui era scienza descrivere col sillogismo la causa delle eclissi, ma non era scienza individuarne la data, era un fatto tecnico che solo con Claudio Tolomeo rientrava nella astronomia. Le idee generali della filosofia naturale aristotelica nel Medioevo si estenderanno invece ai fatti individuali e tecnici, segnando il trionfo di ‘scienze’ quali l’astrologia e l’alchimia. E l’attenzione verso l’‘individuo’ era uno degli aspetti del pensiero cristiano, che troverà nel Francescanesimo la sua lettura più radicale, destinato a caratterizzare una scienza che parlava anche di singole ‘cose’ e non di sole idee, e nella quale i fatti individuali non erano solo istanze individuali di attributi universali delle specie, ma fatti complessi, effetti di innumerevoli relazioni causali. Così fino al Rinascimento si assiste al formarsi di un sistema culturale medievale intorno al pensiero cristiano in cui cominciano a delinearsi i caratteri fondamentali della scienza moderna. A questo punto occorre fare un’osservazione generale sull’epoca che si apre: il Medioevo. Usualmente ritenuto una lunga sequenza di secoli bui, in cui nessuna luce veniva a rischiarare il pensiero, e dai suoi stessi difensori esaltato solo per la fede religiosa e la scarsa razionalità. Del resto il nome stesso delle tendenze culturali che ne segneranno la fine, il ‘rinascimento’ e la ‘rivoluzione scientifica’, mostra come la sua fine sia stata rubricata nella nostra storia culturale con un sospiro di sollievo e sotto l’egida della ragione e della scienza. Questa lettura ha portato a ignorare il fatto che gli aspetti essenziali della nuova scienza siano apparsi nel Medioevo, aspetti del tutto eterogenei rispetto alla scienza antica. E lo stesso intellettuale ‘europeo’ non ha il suo certificato di nascita nell’antichità in Atene o Alessandria d’Egitto, ma in quelle lande sottosviluppate che nell’alto medioevo costituivano l’Europa. E’ il monaco benedettino la sua prima forma. Ora et labora: scompare quella scissione netta tra scienza e tecnica tipica della cultura antica, che si formava nella schola, parola che in 44 greco e latino significava ‘ozio’. Nel monastero si studia, si ricopiano i codici antichi, si prega e d’altra parte si lavora nell’orto, nella falegnameria, nel laboratorio, lavorando la pietra e i metalli. Quelle minime capacità matematiche che servivano ai muratori per edificare le chiese antiche si affiancavano a quelle necessarie per calcolare la data della Pasqua. Sulla conservazione del patrimonio culturale della antichità i monasteri avevano una funzione contraddittoria: da un lato molti monaci avevano la brutta abitudine di cancellare antiche pergamene contenenti magari classici del pensiero greco per scriverci le loro omelie, d’altro lato nell’alto Medioevo i monasteri divennero gli unici luoghi in cui quegli stessi classici venivano ricopiati e letti. Ed anche il mondo dei Cristiani non era il mondo eterno e immutabile o ciclico degli antichi Greci, ma era un mondo ‘fatto’, creato da un Dio artigiano, artifex talora rappresentato col compasso e gli attrezzi a ‘produrre’ il mondo, e dal Rinascimento visto come il divino ‘orologiaio’ creatore della ‘macchina’ del mondo. Ed il mondo ‘creato’ era un mondo uniforme, ‘fabbricato’ da Dio: non c’erano divinità né negli astri né nei fiumi, appariva ingiustificabile la distinzione tra una fisica terrestre ed una celeste Questi aspetti creano anche una serie di tematiche nuove per la cultura ereditata dall’antichità. Così il Cristianesimo si presenta come una grande forza innovativa nell'universo culturale antico introducendo ad esempio la necessità dell'infinito attuale (tutti gli attributi divini sono ‘infiniti’), e quindi imponendo la necessità di una profonda frattura in quell'impianto aristotelico nel quale il rifiuto dell'infinito attuale era parte essenziale e che tra l'altro includeva l’assenza dello zero e l’incapacità di concepire la retta come composta di punti. Di questa rottura diventava un ingrediente anche la ripresa di temi neo-platonici. Inoltre, per la cultura del Cristianesimo la "verità", pur non essendo empirica, non era tuttavia neanche statica, la verità era essenzialmente un 'cammino', in quanto la storia dell'Uomo è allo stesso tempo una historia salutis ed una historia veritatis. Ci si può vedere la radice di quella idea di "progresso", di continua ricerca della verità e di continuo avvicinarsi ad un ideale pratico e teorico, che sarà il tema di fondo della cultura tecnica, scientifica e industriale moderna. Non è forse irrilevante che probabilmente il primo a distinguere tra la conoscibilità dell'esistenza di Dio e la inconoscibilità della sua essenza fu Filone di Alessandria, contemporaneo del Cristo, giudeo di lingua greca e cultura neo-platonica. Allo stesso ambiente religioso e culturale è probabilmente da ascrivere il testo biblico della Sapienza biblica, ove si trova una frase che spesso risuonerà nel progressivo sviluppo della idea moderna di scienza nel Medio Evo: "tutto Tu disponesti in misura, numero e peso" (11, 21) E' con Sant'Anselmo (XI secolo) che l'infinito attuale e quello potenziale si riuniscono in Dio: …Signore, tu sei non solo ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore (quo maius cogitari nequit), ma sei anche più grande di tutto ciò che può essere pensato (quiddam maius quam cogitari possit). (Proslogion, XV) Più precisamente, in termini aristotelici, coincidono nel pensiero l'"infinito attuale" ("il più grande di tutto") e la negazione dell'"infinito potenziale" ("non esiste niente di più grande"). Da notare come quest'ultima caratterizzazione negativa è la base della cosiddetta prova ontologica dell'esistenza di Dio. Lo schema dell'argomento parte dall'assunto che Dio è "ciò di cui non può pensarsi alcuna cosa maggiore", e dal fatto che questa asserzione è presente nell'intelletto anche del non credente, il quale purtuttavia ne nega l'esistenza. Ma ciò che esiste solo nell'intelletto è inferiore a ciò che esiste anche realmente, ragion per cui la non esistenza di Dio sarebbe contraddittoria con la stessa idea di Dio. Questo argomento resterà centrale nel dibattito filosofico-teologico per secoli, e verrà precisato da Descartes osservando che nell'argomento la stessa esistenza deve essere trattata come un attributo; qui Leibniz sottolineerà che l'argomento tuttavia garantisce la sola 'possibilità' di Dio, 45 e l'argomento uscirà di scena solo con Kant, col riconoscimento che l'esistenza non può essere considerata un predicato e quindi non può essere ricavata dall’essenza. Che l'argomento sia connesso alla relazione tra esistenza ed essenza e che si concluda con la netta separazione tra le due, che non verrà mai più messa in discussione, riflette una progressiva frattura che si apre, e su cui torneremo più volte, tra la verità e la deducibilità, e questo significherà l'affermazione progressiva di una "scienza sintattica". III OCCIDENTE IV V VI VII VIII IX X BOEZIO S. AGOSTINO GERBERT TERTULLIANO ORIENTE DIOFANTO PAPPO XI S.ANSELMO FILOPONO PROCLO SIMPLICIO PLOTINO AL KHWARIZMI AL KHAYYAM ALHAZEN ISLAM Un 'mondo di segni' più ricco infatti comparirà nel Medio Evo, introducendo la notazione numerica indo-araba, i cui numeri erano oggetti della computazione simbolica, l'algoritmo. Su questa base si fonderà la nuova algebra simbolica e quella straordinaria costruzione che chiamiamo numero reale, con la connessa centralità del continuum, il cuore della scienza moderna. La nostra idea di continuo e discreto è infatti quella delineata da Aristotele, ma espressa in forma algebrica e numerica solo con la nascita della scienza moderna, in un'epoca che include Stevin, Descartes, Pascal, ove il discreto è visto come un ‘campionamento’ del continuo (i numeri interi sono particolari numeri reali), e il continuo è ‘esprimibile’ tramite il discreto (i numeri reali sono rappresentati da una sequenza infinita di cifre). Spesso si dice che noi consideriamo oggi i numeri reali una estensione (come i relativi e i razionali e poi i complessi) a partire dai naturali allo scopo di trovare soluzioni ad equazioni a coefficienti interi. In realtà una tale estensione porta solo ai numeri algebrici complessi, la storia è molto più complessa. MATEMATICA ALTO-MEDIEVALE NELL’ISLAM E IN EUROPA Nell’alto Medioevo in Oriente, diversamente che in Occidente, la tradizione matematica pratica vive un periodo di grande evoluzione: si sovrappone la tradizione della matematica babilonese in Mesopotamia con aree di cultura greca, dall’Egitto alla Siria, ed aree orientali, dalla Persia all’Afghanistan, in cui si avverte l’influenza della matematica indiana. E saranno soprattutto queste aree più orientali, intorno alla Baghdad delle ‘mille e una notte’, il centro della matematica islamica. In queste aree nel VII secolo si afferma l’Islam, con una incredibile capacità di espansione, che lo porterà a dominare dalla Spagna sino all’India occidentale, lungo quella che era sempre stata la grande strada di comunicazione tra occidente ed oriente. E quella islamica sarà una grande matematica, con le sue radici nella tradizione pratica ma capace di comprendere anche gli aspetti più avanzati della tradizione teorica greca. Importanti gli sviluppi nell’ottica, nell’alchimia, nella trigonometria, nella astronomia, ma vanno soprattutto sottolineati i contributi della matematica islamica in due campi: la nuova notazione numerica decimale di origine indiana e lo sviluppo dell’algebra. Di solito si ritiene il ruolo della civiltà islamica nella scienza limitato alla importazione delle cifre indiane, ma in realtà la matematica araba è una realtà molto complessa che connette la 46 tradizione greca con quella antico babilonese e le influenze indiane. L’Islam infatti già un secolo dopo la morte di Maometto ha conquistato paesi quali l’Egitto, la Siria, la Persia che erano tanto i luoghi in cui si era meglio conservata la antica matematica greca e la patria della matematica caldea quanto aree di scambio con la civiltà indiana. Estremamente importante la modifica della notazione numerica, col passaggio al sistema indo-arabo, notazionale ed algoritmico, diffuso a partire dai testi di al-Khwarizmi (780-850 circa). Questo sistema appare in India almeno dal 595, ma è probabilmente parecchio precedente. Lo zero, sunya, “il vuoto”, appare per la prima volta come un cerchio nell’870. Come poi in Europa, e cifre sono quelle da 1 a 9 e lo zero appare come un semplice ‘segno’, circulum parvulum in similitudine o litere, circulus sit qui nichil est. Vi è d’altra parte la consapevolezza che la notazione può estendersi all’infinito. In genere questo passaggio viene considerato come puramente notazionale, la sua importanza ascritta soprattutto al suo carattere posizionale, il valore di ogni simbolo essendo legato alla sua posizione all’interno del numero. Ma non è il carattere posizionale l’aspetto essenziale, esso c’era già nel sistema sessagesimale, oltre che sull’abaco. La novità essenziale è invece la nascita dell’idea di algoritmo, come procedura di manipolazione sintattica dei segni numerici. I segni numerici infatti nella matematica dell’abaco non entravano nel calcolo, servivano solo per registrare i dati iniziali e finali. Le cifre indo-arabe sono invece gli ingredienti essenziali degli algoritmi con cui le operazioni vengono svolte. Sembra che il passaggio dall’abaco agli algoritmi sia stato nei paesi islamici meno travagliato di quanto sembra sia stato in Europa. Vedremo con l’abaco di Gerbert come probabilmente ci siano stati anelli di congiunzione tra i due metodi, forse all’inizio gli stessi calcoli coi numerali venivano fatti sull’abaco (i numerali indo-arabi occidentali venivano detti ghubar, ‘polvere’), ed in ogni caso nell’Islam non ci sono tracce di una contrapposizione ‘rigida’ fra essi: del resto, come già detto, lo stesso abaco aveva una struttura di base posizionale e in genere anche decimale per gli interi: probabilmente il nuovo sistema era inizialmente soprattutto un uso di simboli nel calcolo con l’abaco. E l’idea di ‘algoritmo’ porta con sé una inaudita estensione del concetto di ‘numero’, in quanto quegli algoritmi vengono estesi rapidamente alle frazioni. Progressivamente comincia a cambiare l’idea della frazioni, anticamente ridotte ad interi, numero di parti, e ad affermarsi l’uso di scriverle come numeratore e denominatore separati da una linea, mentre nel contempo gli algoritmi numerici portano a considerare il rapporto come un singolo numero, il risultato della divisione. E tra i ‘segni’ appare anche lo ‘zero’ (un circoletto per denotare la colonna vuota sull’abaco), mentre l’‘uno’ viene trattato come le altre cifre (come nell’abaco). L’antica idea di numero si sfalda così a partire dal suo uso algoritmico, mentre nel contempo si riduce la distinzione tra le tradizioni pratica e teorica. Nelle operazioni si presuppone di poter scrivere e cancellare, e quindi si presuppone ancora l’uso di una tavola coperta di sabbia, polvere o cera, l’abaco. Nel X secolo Abu’l Hasan al-Uqlidisi copiatore di manoscritti di Euclide inventa la notazione decimale, completa di punto decimale, con gli algoritmi di calcolo relativi, della quale non c’è traccia nella matematica indiana. Da notare anche da parte sua l’abbandono dell’abaco per carta e penna, ma solo per non essere confuso con gli astrologi . Anche le grandezze incommensurabili sono trattate come numeri (irrazionali): è il concetto di misura che fa da ponte e porta a considerare i numeri razionali come approssimazioni degli irrazionali, con i rapporti ricondotti alla antica definizione pre-eudossiana. Al Hayyam parte dalla definizione classica di numero ma poi si chiede: il rapporto è legato al numero non per natura, ma con l’aiuto di qualcosa di esterno, o il rapporto è per natura un numero e non ha bisogno di niente di esterno? 47 E conclude riconoscendo l’esistenza di una nuova categoria di numeri, ed è l’idea pratica di misura ad essere considerata come punto di partenza. Si deve riconoscere in Al Hayyam l’idea di un numero associato ad ogni rapporto e quindi, data una unità di misura, anche ad ogni segmento, inclusi i numeri irrazionali e trascendenti. In astronomia e trigonometria i rapporti incommensurabili appaiono come misure di intervalli, diventando di fatto ‘numeri’, ignorando la complessa teoria dei rapporti di Eudosso: per Omar alKhayyām l’essenza del rapporto doveva essere la sua misura, e si chiede se “il rapporto sia legato al numero non per natura, ma con l’aiuto di qualcosa di esterno, o il rapporto sia per natura un numero e non abbia bisogno di niente di esterno”: il rapporto è ormai un numero. Dopo sei secoli Newton definirà viceversa il numero (reale) come un rapporto tra una grandezza ed un’altra grandezza della stessa specie intesa come unità. I numeri diventavano segni, non erano più caratterizzati come attributi delle cose, ma sempre più solo operativamente dagli algoritmi e dalle misure. E l’estensione dell’idea di numero arriva quasi a prefigurare l’idea di numero reale e dell’isomorfismo tra il continuo geometrico della retta e il continuo numerico dei numeri reali. Ma l’idea di numero come ‘molteplicità’ (intero positivo) concettualmente sarà dura a morire, così che l’estensione della notazione indo-araba ai decimali dovrà attendere Simon Stevin, e nel frattempo le grandezze trigonomentriche saranno sempre indicate, in oriente come in occidente, come numeri interi relativi a cerchi di raggio grande, tanto più grande quanto migliore deve essere la loro approssimazione (Regiomontanus userà un raggio di 600 milioni!). Un altro contributo essenziale della matematica araba consiste nell’introduzione, sempre da parte di al-Khwarizmi, delle tecniche algebriche, con l’uso di simboli speciali per denotare i diversi fattori delle equazioni da risolvere, la cui risoluzione è tuttavia sempre basata sulle tecniche geometriche del II libro degli Elementi e su antiche tecniche babilonesi, così che ad esempio non viene seguito il principio di omogeneità. La stessa parola ‘algebra’ deriva dalle parole iniziali dell’opera di Al-Khwarizmi: al-jabr wa al-muqabala, che indicavano le operazioni basilari dello spostare da un membro all’altro cambiando di segno e la eliminazione dello stesso termine dai due lati dell’equazione per trasformarla in una delle sei forme canoniche che si ottengono tre ponendo a zero uno dei coefficienti e tre per le possibili scelte dei segni. Difficile individuarne le origini: probabilmente orientali, mesopotamiche o indiane, forse tramandate oralmente, difficilmente influenzate dalla algebra geometrica dei greci. La nascita del formalismo algebrico non si basa ancora su una unificazione degli enti matematici quanto sulla unità delle operazioni algebriche: “operare su quantità incognite usando gli strumenti aritmetici che l’aritmetico usa su quantità note”, procedendo così ad una aritmetizzazione algoritmica della algebra. La tecnica di al-Khwarizmi ignora le conquiste 'simboliche' di Diofanto, anche se vengono usati termini 'generali' e non 'esempi numerici'. Appare però diversa anche dai precedenti di tipo euclideo o pre-euclideo. La figura non è infatti costruita a partire da una 'falsa posizione', bensì da un processo analogo alla costruzione algebrica anche se in forma geometrica. E’ rilevante che la soluzione delle equazioni algebriche non ha più un senso geometrico come nella tradizione antica, bensì assume un senso aritmetico, come in al-Khayyam, pur potendo essere le soluzioni tanto numeri quanto grandezze, in tal caso ottenute tramite costruzioni geometriche, ed essendo usate figure geometriche per ricavare le soluzioni. Rispetto all’algebra babilonese l’algebra islamica ha di fatto una struttura ‘anfibia’, da un lato la tecnica sintattica per trasformare il problema in equazione e dall’altro la tecnica geometrica per risolvere le equazioni. La prima tecnica è fondata sull’intuizione che un problema è già una equazione tra due espressioni, e sulla esperienza che tale equazione può essere trasformata con semplici manipolazioni, ad esempio un termine può essere spostato da un membro all’altro della 48 equazione semplicemente cambiandogli il segno. Oggi si eseguono queste trasformazioni su equazioni scritte in linguaggio simbolico, gli arabi lo facevano operando sulle frasi scritte in linguaggio naturale, ma anche così la manipolazione algebrica trattava le ‘parole’ sintatticamente, come ‘segni’. Con queste trasformazioni le equazioni potevano essere poste in una forma canonica: tutte le equazioni di II grado potevano essere ridotte ad una delle sei forme seguenti (tradotte in linguaggio algebrico moderno) con l’eventuale coefficiente di x2 eliminato dividendo ambo i membri per esso: x2 = bx, x2 = c, x = c, x2 + bx = c, x2 + c = bx, x2 = bx + c Non troviamo come in Diofanto un elenco di problemi svolti, ma tecniche generali di soluzione: in fig.10 mostriamo la soluzione generale dell'equazione del tipo "un quadrato e radici uguale a numeri", cioe x2 + b x = c. Il quadrato al centro ha raggio x, i 4 rettangoli laterali hanno lati x e b/4 (noto). Si costruiscono i quttro quadrati angolari di lato b/4, ed allora il grosso quadrato ha area x2 + 4 (b/4) x + 4 (b2/16) = c + b2/4 (noto). Si estrae la radice e da essa si sottrae b/2, ottenendo x. Si noti il perseverare della interpretazione geometrica e delle conseguenti limitazioni di generalità, da cui discende che l'equazione di II grado richiede sei procedure differenti a seconda del 'segno' dei coefficienti. b/4 x Fig.10 Se si confronta l'approccio di al-Khwarizmi coi precedenti babilonesi si nota una differenza essenziale anche all'interno di una comune connessione alla fondazione 'geometrica'. In entrambi i casi la equazione di II grado appare in 'forme' diverse, ma nei babilonesi tali 'forme' sono differenti problemi di natura geometrica, "somma e prodotto dei lati", "somma dei lati e dei loro quadrati", etc., in al-Khwarizmi, come negli algebristi italiani successivi, le differenti 'forme' si differenziano 'algebricamente', in termini cartesiani in base al segno dei coefficienti nella equazione: "censo e cose ugual numero", "censo e numero ugual cose", etc. Le tecniche di manipolazione simbolica si estendevano poi al calcolo di espressioni contenenti radicali, come ad esempio (usando una notazione moderna) ◊(a + ◊b) + ◊(a - ◊b) = ◊(2a + 2 ◊(a2 – b) ) molto utile quando (a2 – b) è un quadrato perfetto. I matematici arabi raggiunsero in generale una grande capacità di connettere le tecniche simboliche a quelle geometriche. Un esempio brillante si trova in Alhazen, creatore tra l’altro dell’ottica moderna, nel calcolo di una relazione generale tra le somme della potenza K-esima dei primi N interi: SN,K = ÊN i=1 iK 49 Dalla fig.11 si ricava direttamente: (N+1) SN,K = SN,K+1 + ÊNp=1 Sp,K Infatti il membro di sinistra è semplicemente l’area del rettangolo totale, nel membro di destra il primo termine è la somma dei rettangoli ‘verticali’ e la sommatoria successiva la somma dei rettangoli ‘orizzontali’. Da questa formula si possono calcolare iterativamente tutti gli SN,K. K K K SN,K = 1 + 2 +…….+ N 1 ............................. K K K S3,K = 1 + 2 + 3 K S2,K = 1 + 2 S1,K = 1 1 K+1 1K NK+1 K N 3K+1 K .......... 2K+1 2K 3K NK FIG.11 Non deve sfuggirci la sottile omogeneità algoritmica e sintattica che lega la nuova notazione numerica indo-araba alla nuova algebra simbolica: come già in Diofanto, il trattamento sintattico algebrico affonda le sue radici nella manipolazione aritmetica della tradizione pratica, in cui è assente la opposizione tra numeri e grandezze. Questo è in fondo anche abbastanza ovvio poiché entrambe le tecniche nascevano su una base aritmogeometrica, ma ora accade che questi aspetti della tradizione pratica causano mutamenti nella stessa struttura cognitiva della matematica teorica. Sostanzialmente si delinea un ruolo inedito dei segni, che nella matematica greca avevano un ruolo secondario. Tanto l’estensione del concetto di numero e la numerazione indo-araba quanto la nascita della manipolazione algebrica simbolica significano che caratterizzante l’idea di quantità non sono più confrontabilità e uguaglianza, ma il ruolo dei segni come elemento essenziale negli algoritmi. I numeri e le grandezze cominciano ad uniformarsi nell’essere soprattutto segni, e i segni cominciano ad essere gli ingredienti essenziali dell’algoritmo, che a sua volta si caratterizza come manipolazione di segni secondo regole. La matematica europea conservava invece molto poco della matematica greca: gli scritti dei tardi commentatori romani quali Martianus Capella o Boethius lasciavano pochissimo del passato: pochi cenni della geometria euclidea ed una serie di tecniche pratiche di natura aritmetica e metrica, residui di una antichissima tradizione di agrimensori che risaliva alla matematica egizia e babilonese. Bisogna ricordare che anche nel periodo di massima fioritura dell’Impero Romano la cultura greca si era diffusa verso ovest solo per quanto riguardava la filosofia e la retorica, mentre discipline come la geometria teorica e la logica vi erano rimaste quasi del tutto sconosciute, e con la frattura dell’Impero Romano in due (Occidente e Oriente) solo nella parte orientale si era preservata la tradizione matematica greca. Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente la situazione peggiora ulteriormente. Rimane solo un minimo di uso pratico. Addirittura lo strumento principale per il calcolo non è più tanto l’abaco quanto ormai le semplici mani: la tecnica del contare sulle dita era parte dell’antica tradizione mediterranea, mai scomparsa ai livelli elementari dell’insegnamento e della pratica, e nel Medioevo ritrovava una nuova fioritura, apparendo ancora in Fibonacci. 50 La tradizione di Erone e degli agrimensori romani, detti gromatici dalla groma, lo strumento base del loro lavoro, si ritrova nel cosiddetto Corpus Agrimensorum, una collezione di testi di datazione variabile probabilmente dal I sec. a.C. all’ VIII sec. d.C., come nel Codex Arcerianus redatto a Corbie, culla della matematica pre-carolingia. Gli agrimensori costituivano la parte più coriacea della antica tradizione comune mediterranea, e i loro scritti mostrano la presenza delle formule per il calcolo dei numeri poligonali, probabilmente segno di un ruolo metrico antico della teoria dei numeri figurati pitagorici. Vi si ritrova una geometria legata alla grande tradizione di matematica pratica le cui origini si possono trovare nella matematica babilonese ed egizia e che mai scomparve in Oriente e nel Mediterraneo. Il calcolo di aree vi appare fatto in modi diversi e contrapposti: l’uso dei numeri poligonali, corrette tecniche basate sul teorema di Pitagora tra cui la formula di Erone (probabilmente dovuta ad Archimede), l’uso di strumenti di misura, la tesi che l’area di una figura si può calcolare dal suo perimetro, regole babilonesi quale quelle secondo la quale l’area di un quadrilatero è data dal prodotto delle semisomme dei lati opposti, diverse approssimazioni per e i numeri irrazionali. Appaiono le definizioni euclidee, talora riscritte in modo pratico, così la definizione di ‘estremo’ appare legata ai diritti di proprietà: extremitas est quousque uni cuique possidenti ius concessum est, aut quousque quisque suum servat, e teoremi derivanti dai primi quattro libri degli Elementi. Non esistono dimostrazioni ma solo esempi. E’ una tradizione che connette Boethius e gli agrimensori, e che tende a riconnettere la antica tradizione pratica diffusa in tutto il bacino mediterraneo e in Oriente con gli elementi base della geometria euclidea. Non vi è traccia della geometria greca teorica (quella che il medioevo chiamerà speculativa): le approssimazioni numeriche dei rapporti tra grandezze incommensurabili, le idee sulla quadratura del cerchio, il calcolo di aree più complesse sono affrontate con uno stile non diverso da quello che si trovava nella matematica babilonese. Al punto che appare difficile datare e ascrivere ad autori precisi e fonti riconoscibili molti testi: li si può collocare indifferentemente tra i Caldei, in Erone, in rielaborazioni bizantine, o all’inizio del Medio Evo: è certo una matassa che può essere filologicamente dipanata, ma culturalmente appare segno della continuità della tradizione matematica pratica. Beda il Venerabile (672-735) descrive il calcolo sulle dita, derivato da San Gerolamo, morto nel 420, che probabilmente si era trasmesso per tradizione orale, mentre sul calcolo con le frazioni non c’è nulla di più dell’uso dell’as e dell’oncia, legate dalla relazione che 1 as = 12 once. Dopo l’anno 1000 cominciano ad apparire nei testi calcoli con frazioni più complesse del tradizionale sistema di unità e sottounità di misura di tradizione romana. Ma il più significativo problema matematico, o meglio l’unico significativo al di là delle più semplici tecniche del commercio e della agrimensura, era il calcolo della Pasqua! L’aritmetica riflette gran parte dei problemi dell’aritmetica greca, anche quando si notano novità come il trattamento dei numeri negativi che appare già in un’opera erroneamente ascritta al Venerabile Beda, ma comunque molto antica, VIII-IX secolo. Qui il numero positivo è verum, o anche ‘essente’ o ‘esistente’, mentre il numero negativo è minus, non essente e non esistente: verum essentiam, minus nihil significat. A partire dall’undicesimo secolo l’Europa occidentale comincia a risollevarsi dalle condizioni miserabili dell’alto Medioevo. Riprendono i commerci, rifioriscono le città, ed anche militarmente gli eserciti europei cominciano ad affermarsi nelle guerre contro l’Islam: la Reconquista della Spagna e le Crociate ne saranno gli aspetti più evidenti. In questo processo gli Europei si aprono alla matematica islamica. Soprattutto in Spagna vengono importate tecniche e strumenti, e tradotti dall’arabo testi tanto arabi che di origine greca. Inizia in realtà un’ondata imponente di traduzioni, realizzate proprio grazie al carattere multilinguistico della civiltà medievale che in Spagna raggiunge il suo culmine in città come Toledo, dove le traduzioni sono legate alla compresenza di 51 dotti parlanti più lingue, l’arabo, il latino, l’ebraico, nonché i nascenti dialetti spagnoli. Si traducono testi medici, astrologici e alchimistici, e poi i classici della matematica e il corpus aristotelico. Emblematica di quest’epoca la figura di Gerbert d’Aurillac, che fu papa col nome di Silvestro II e morì nel 1003. I suoi viaggi lo avevano condotto in Spagna in cui aveva avuto contatti con la scienza araba, e da questa esperienza aveva riportato strumenti astronomici ed un curioso abaco, che si differenzia da quelli tradizionali per usare gettoni con incise le cifre indo-arabe al posto delle pietroline, così che invece di mettere quattro pietroline si metteva un gettone col numero 4 (da notare che non serviva alcun gettone per il numero zero, che nell’abaco era solo la colonna vuota). Forse questo abaco è una traccia della derivazione della nuova aritmetica da quella antica legata all’abaco, quasi l’‘anello mancante’. E’ la prima apparizione delle cifre indo-arabe in Occidente. Gerbert conobbe probabilmente le cifre arabe in Spagna e le introdusse nel suo abaco probabilmente per la prima volta nell’Europa cristiana. I nomi delle cifre appaiono di origine apparentemente araba: ingi; 1, andras, 2, ormis,3 arbas, 4, quimas, 5, caltis,6, zenis, 7, temeniam, 8, celentis 9. Ed infine un piccolo circoletto °, sipos. Quest’ultimo non appare tanto uno ‘zero’, che sull’abaco è semplicemente una colonna vuota, quanto il segno di un marcatore di un posto. Ma la diffusione delle nuove tecniche matematiche sarà più lenta e incerta di quanto accadeva nei paesi islamici, le procedure di calcolo resteranno in Europa a lungo quelle tradizionali. Ad esempio a Gerbert veniva posta la questione se il triangolo equilatero, il cui lato ha lunghezza 7 piedi, possedesse area 28 (7ä8/2) o area 21 (7ä6/2). Rispondeva 21, valore approssimato corretto, derivato dalla regola secondo cui l’altezza del triangolo equilatero e sempre 1/7 più piccola del suo lato (fig.12 destra). Interessante osservare che il 28 derivava invece dalla regola dei numeri triangolari. Infatti aritmogeometricamente sono 28 le ‘monadi’ che costituiscono il triangolo (fig.12 sin.). Altro esempio interessante è un calcolo che appare in un testo del XII secolo: “il nostro algorista ha realizzato la divisione di 100 librae per 11 merciai. La singola libra restante dalla divisione egli la pone uguale a 40 solidi. L’ulteriore resto di 7 solidi viene trasmutato in nummi, dei quali 12 fanno un solidus. Di nuovo rimangono dalla divisione altri 7 nummi, e per questi si devono comprare uova delle quali i merciai si devono servire a pranzo. Per ogni nummus si ottengono 13 uova, in totale così 91 e si dividono di nuovo queste per 11, così rimane ancora un resto di 3 uova. Queste si devono dare in ricompensa a chi ha realizzato la spartizione o barattare con del sale che debba essere mangiato probabilmente sulle uova”. I numeri sono ancora solo interi con diverse unità di misura, eterogenee ma connesse tra di loro mediante rapporti di conversione fissi. Quadratum VI VII Fig. 12 52 Alla fine dell’alto Medioevo l’Europa sembrava destinata a seguire anch’essa la strada della progressiva attenuazione della separazione tra scienza e tecnica, notata già nei Monasteri all’inizio del Medioevo. C’era un diffuso pragmatismo nello studio anche dei problemi matematici; ad esempio sembrava strano ritenere rette e curve inconfrontabili: bastava un filo piegato in modo da coincidere con la curva e poi raddrizzato per poterlo misurare. Ma verso la fine dell’XI secolo si profila una trasformazione profonda nella realtà culturale europea: la nascita delle università. Con esse di nuovo il solco tra scienze e tecniche si approfondirà, fino alla fine del Medioevo. Così Leonardo da Pisa fu presente e ammirato alla Corte di Napoli di Federico II negli stessi anni in cui il sovrano creava l’Università di Napoli anche con scopi eminentemente pratici: ebbene non ci sono tracce di un rapporto tra Leonardo e quella università. E’ il segno di una frattura che caratterizzerà con pochissime eccezioni (soprattutto italiane) la storia della matematica medievale. Nelle università si leggono gli Elementi di Euclide, ma, mentre nella matematica islamica il testo aveva il ruolo di fonte di conoscenze utilizzabili, in Europa esso apparirà sempre come riferimento ‘ideologico’ di un sapere scientifico assolutamente certo e necessario, ma indifferente alle tecniche: nell’Islam i ‘risultati’ euclidei, in Europa lo ‘stile’ euclideo. Non sarà però solo un passo indietro, ma solo una deviazione per aprire la via ad una nuova scienza dai caratteri assolutamente inimmaginabili. IL BASSO MEDIO EVO Nel XII secolo ci fu un grande fiorire in occidente di traduzioni di autori arabi e molte innovazioni arabe cominciarono a filtrare nella matematica europea, come risposta al risveglio economico che creava in molte professioni una crescente domanda di matematica pratica.. Nel 1202 viene pubblicato il Liber Abaci di Leonardo da Pisa, detto Fibonacci. Nonostante il titolo, il calcolo non si fonda sull’abaco, bensì su algoritmi basati sulle cifre indo-arabe, con l’ausilio della notazione numerica sulle dita. Si conferma così come il termine ‘abaco’ nel basso Medioevo finisse col denotare in generale tutta la tradizione pratica, quella che anche noi abbiamo chiamato la ‘matematica dell’abaco’. Il libro è dedicato ai temi classici della tradizione pratica, dagli algoritmi numerici alle applicazioni commerciali (con grande attenzione a dettagli quali le unità di misura nelle diverse città, le leghe metalliche, etc.) e all’algebra araba, ed anche lo stile, fondato su problemi, è nel solco di quella tradizione. Va comunque sottolineato come Leonardo fosse un matematico raffinato, buon conoscitore anche di quella parte della tradizione teorica che era entrata già nella matematica araba, Euclide in primo luogo. Siamo dentro la grande tradizione pratica in cui aritmetica e geometria (nel senso di algebra geometrica) sono connesse, come ci ricorda lo stesso Leonardo nella dedica iniziale. Nel libro l’autore introduce le cifre dall’1 al 9 come figure e lo 0 come semplice signum: nonostante lo zero fosse ormai usato negli algoritmi come le altre cifre, esso non appariva ancora esplicitamente come numero. Ci sarà la difficoltà di concepire una velocità ‘zero’ nei fisici (gli inglesi del Merton College e Nicola Oresme) ancora nel XIV secolo. I numeri sono ‘somma’ o ‘collezione’ di unità e vengono rappresentati come segmenti (coppia di lettere) o come lettere singole, ma vengono usate le frazioni in maniera del tutto naturale, ma con una notazione molto particolare. In generale A1 A2 ….. An An An-1 A1 ---------------------- rappresenta il numero ----- + ----- + ….+ -------------B1 B2 ….. Bn Bn Bn-1 Bn B1 B2 ….. Bn 53 Ovviamente se tutte le Bi sono uguali a 10, si ottiene la rappresentazione decimale. Leonardo non usa tale rappresentazione decimale, ma si può osservare che questo era ragionevole visto che le sottounità di misura all’epoca erano molto varie e quasi mai decimali. Molto usate le proporzioni nelle quali il rapporto è identificato con una frazione, e si accettano anche soluzioni negative quando hanno un senso nel problema. I numeri sono sempre definiti in modo usuale, come ‘somma’ o ‘collezione’ di unità, ma appaiono numeri negativi e anche irrazionali, e vengono usate le frazioni in maniera del tutto naturale, ed anche rapporti tra quantità eterogenee (quasi inevitabile nei commerci, basti pensare al ‘prezzo unitario’), con una notazione anche molto particolare: Era anche usata la rappresentazione egiziana, in cui ogni frazione era espressa come somma di frazioni unitarie. Anche adoperato il ‘metodo della falsa posizione’ nel caso di relazioni lineari Per dimostrare le regole adoperate si usavano tecniche di algebra geometrica, senza il principio di omogeneità. Oppure i problemi algebrici venivano risolti col cosiddetto ‘metodo diretto’ degli Arabi che consiste nel trattamento algebrico scritto tuttavia in linguaggio naturale, così che l’incognita è la cosa, il suo quadrato il censo, etc. Talora appaiono anche più variabili, ad esempio la cosa e la somma, oppure la cosa e la parte. Le equazioni di II grado, come in AlKhwarizmi, sono risolte facendo riferimento a tecniche di rappresentazione geometriche. In algebra permane la duplicità tra una manipolazione sintattica ed una risoluzione aritmogeometrica: se ne vede traccia nel fatto che l’incognita è la cosa nella costruzione algebrica del problema, la radice nella equazione da risolvere. Leonardo è anche consapevole che solo in geometria, e non in aritmetica, ogni numero ammette radice, conosce anche il libro X degli Elementi, ed usualmente, per avere a che fare anche nelle radici approssimate con numeri interi, moltiplica il numero da cui estrarre la radice con una potenza pari di 10. Leonardo non è però l’unico nome della nascita della matematica in Europa nella prima metà del XIII secolo: va ricordato Jordanus Nemorarius, in qualche modo forse legato alla facoltà d’arti. In lui lo stile euclideo si dispiega sulla aritmetica, partendo dai libri aritmetici degli Elementi. Ma quelle proprietà algebriche che l’antica algebra geometrica vedeva in maniera esclusivamente geometrica cominciano ad essere da lui trattate in maniera aritmetica e simbolica, usando lettere per indicare i numeri generici e parole come et, ductu, equalis per indicare somme, prodotti ed equazioni. Si riconosce ancora dietro i simboli un ‘senso’ geometrico nei passaggi, tentando di mettere la tradizione araba in forma euclidea, però frequentemente con il carattere di una semplice manipolazione simbolica di proprietà aritmetiche. Così ad esempio il calcolo del quadrato del binomio, che nell’antichità si basava sulla costruzione geometrica di fig.2, appare ora dedotto dalla proprietà distributiva e dal teorema “se un numero è diviso in due parti, allora quello che si ottiene dal prodotto del numero intero per una parte è quanto si ottiene dal prodotto della parte per se stessa e per l’altra parte”, cioè in formula moderna (a + b) a = a2 + a b, a sua volta ricavato da un ragionamento puramente aritmetico. Di Jordanus va ricordato anche lo studio matematico della statica, con la prima idea del ‘principio dei lavori virtuali’, dal quale inizia negli ambienti universitari europei quel rapporto tra matematica e fisica, inedito nella matematica greca, che sarà uno dei caratteri essenziali della scienza moderna. Da notare che, pur restando il 'rapporto' una relazione tra due quantità e non una quantità, dal punto di vista operazionale esso viene trattato sempre più come una 'frazione', così in Jordanus de Nemore la nozione concettualmente vaga di 'composizione' di relazioni diviene la operazione semplice e chiara di prodotto di due frazioni, per via della nozione di denominatio, completando un processo che si era lentamente sviluppato sin dalla tarda antichità. Leonardo e Jordanus non sono molto distanti fra loro, anche se appaiono avere una estrazione sociale del tutto diversa: da un lato il mondo dei commerci e dall’altro quello delle 54 università. Il primo più attento alle applicazioni il secondo più attento allo stile dimostrativo, ma se si fossero incontrati probabilmente si sarebbero capiti benissimo. Tuttavia i secoli successivi, fino al Rinascimento, segneranno la divaricazione netta fra questi due mondi, e, dal punto di vista delle pure e semplici conoscenze e scoperte, saranno secoli in cui la matematica sembrerà ristagnare. Si devono così trattare per il basso Medioevo due ambienti matematici separati: le professioni e le università. In quest’ultima le conoscenze e innovazioni matematiche nel periodo sono estremamente limitate. Ma ci si trovano due aspetti che risulteranno importantissimi: il ruolo della logica e del linguaggio da un lato, il rapporto con la filosofia naturale dall’altro. Di fatto la novità più importante del medioevo cristiano sarà probabilmente la nascita della università. Alla fine dell’XI secolo l’insegnamento stava rifiorendo in Europa e stava spostandosi dai monasteri benedettini e cistercensi nelle campagne verso le scuole delle cattedrali nelle città, i maestri delle università saranno quindi in qualche modo ‘clerici’ e nel XIII secolo verranno spesso dagli ordini mendicanti, domenicani e francescani. Il rifiorire delle città è forse il dato più appariscente dell’Europa dell’epoca, dovuto non solo al risveglio della economia e dei commerci, ma anche al fatto che le città apparivano un luogo più aperto e dinamico, meno soggetto ai condizionamenti della società feudale in disfacimento, “l’aria della città rende liberi” diceva un detto germanico. E la figura di Pietro Abelardo, con il suo tormentato amore per Eloisa, le sue disavventure, i suoi scontri con i maestri legati al mondo dei monasteri e con le gerarchie della Chiesa, il suo insegnamento brillante di una logica erede di quella greca ma nel contempo legata ai tempi nuovi, appare quasi l’emblema della nascita della università parigina. Esistevano due tipi di origini parzialmente diverse. In Italia le università nascono dalle organizzazioni corporative (universitates) dei comuni: tra queste c’erano le corporazioni di studenti, universitas studentorum, che si fanno riconoscere dalle autorità e assumono docenti, cercano sedi, etc. In Francia e Inghilterra ci sono le scuole cattedrali in cui si formano ecclesiastici ma anche col tempo un numero crescente di laici. Progressivamente queste strutture didattiche si autonomizzano e si presentano come universitas. In realtà il peso della Chiesa ci sarà anche nelle università italiane, ma sarà minore. Quanto questo fosse rilevante in Francia e Inghilterra si nota dal fatto che i docenti universitari dovevano sempre essere clerici. Addirittura lo stesso Newton alla fine del XVII secolo avrà bisogno di una dispensa speciale per restare un laico nella università. Qualche anno prima Irnerio aveva portato i libri legales, i codici del diritto romano, da Roma a Bologna, e qui ne aveva iniziato l’insegnamento. Tanto gli studenti quanto i docenti dovevano adeguarsi al clima sociale delle città, basato sulla struttura delle ‘corporazioni’, le cosiddette universitates. Nascevano in Europa nel clima dei nuovi ‘comuni’ urbani, strette tra le gerarchie religiose ed il potere politico, le università, destinate a mutare la storia del pensiero e della civiltà. Avevano una spiccato carattere professionale: le tre facoltà maggiori erano giurisprudenza, medicina e teologia, e poi, propedeutica a queste, la facoltà di arti, nella quale veniva insegnato il Quadrivio matematico ed il Trivio (grammatica, retorica, logica). La matematica insegnata era poca e rudimentale, un po’ di Euclide e di aritmetica. Col tempo crebbe il ruolo della astrologia, destinata anche ad avere un ruolo importante nella medicina. Ma nelle università gli aspetti più interessanti della matematica li ritroveremo nel suo rapporto con la filosofia naturale. Per la storia della matematica ovviamente la più importante sarà la facoltà di arti. Le università medievali avranno il loro periodo di massimo splendore nel periodo della Scolastica (secoli XIII e XIV), poi comincerà un lento declino, meno netto in quelle italiane, ma anche nei secoli XVII e XVIII, in cui la loro crisi sarà più evidente, resteranno un riferimento importante per la scienza europea. Rifiorisce la logica e la filosofia: è la cosiddetta “Scolastica” che riscopre e riporta in auge il pensiero aristotelico. Sono i secoli in cui in Europa riappaiono e vengono tradotti (in latino) i grandi classici filosofici e scientifici greci, provenienti dai paesi arabi e bizantini. Fino al 55 Rinascimento questa fioritura culturale accompagnerà lo sviluppo di una nuova economia in cui avranno un ruolo cruciale nuove figure artigiane e commerciali le quali avanzeranno una domanda di cultura matematica e scientifica crescente: si pensi alle esigenze computazionali del commercio o a quelle ingegneristiche delle officine e delle fabbriche delle cattedrali: Leonardo Fibonacci (prima metà del XIII secolo) e Leonardo da Vinci (seconda metà del XV, inizio del XVI secolo) sono solo figure emblematiche di queste spinte nella transizione dal Medioevo al Rinascimento. L’attenzione all’analisi dei testi linguistici è uno dei caratteri essenziali della cultura medievale, in quanto base della sapienza e del sapere dell’epoca non era la natura ma un libro, anzi ‘il libro’, la Bibbia. E la disputa teologica sino dai primi concili della antichità si era svolta con l’analisi logica dei testi. Il sapere degli antichi riguardava un mondo ‘visto e descritto’, per i medievali il sapere è soprattutto ‘scritto e interpretato’. La logica aristotelica era pervenuta, ma solo in parte, ai dotti del Medioevo soprattutto attraverso gli scritti di Boezio e di un tardo commentatore di Aristotele, Porfirio. Era stata sufficiente però per dare un aspetto caratteristico alle questioni teologiche dell’epoca. Si può a questo proposito ricordare la celebre ‘prova ontologica’ della esistenza di Dio, dovuta a S.Anselmo. In essa ci si pone nei panni di un non credente, il quale, proprio in quanto non credente in Dio deve avere nella mente l’idea di Dio, della quale aspetto essenziale è la perfezione divina. Ma l’idea stessa di perfezione deve contenere l’idea di esistenza, in quanto una cosa esistente è più ‘perfetta’ di una non esistente, così che anche il non credente deve in definitiva riconoscere la necessaria esistenza di Dio. I punti dubbi di questa prova costituiranno per secoli argomento di discussione sul concetto stesso di ‘esistenza’. Ma anche questo esempio mostra la differenza tra la logica medievale e quella aristotelica. In quest’ultima il fondamento era il sillogismo costruito ad imitazione della relazione causale tra i fatti, nel medioevo il fondamento sarà l’analisi dell’uso dei termini nel linguaggio, il quale assume un carattere più tecnico e convenzionale, altro effetto della natura multilinguista della cultura dell’epoca. Ed è anche più autonomo dalla realtà, che non deve semplicemente rispecchiare. Altro aspetto della logica scolastica che si rivelerà fertile per l’algebra futura è l’attenzione ad una ars inveniendi più che ad una ars demonstrandi. E’ questa una distinzione che ricorda quella antica tra analisi e sintesi, ma che viene posta in termini di argomentazione logica più che matematica: il sillogismo è la classica procedura per ‘dimostrare’ il suo termine inferiore da quello superiore utilizzando il medio, ma se scopo della scienza è ‘trovare’ la dimostrazione, allora, dati i due estremi, occorre ‘trovare il medio’. E inoltre la logica medievale stava abbandonando l’idea che l’unica forma argomentativa fosse il sillogismo, così che l’‘arte del trovare’ assumeva sempre più il carattere di un ‘metodo scientifico’ generale. La filosofia che si insegnava nelle università medievali è nota col nome di Scolastica, ed appare purtroppo molto ostica alla cultura moderna, ma in essa appaiono mutamenti cruciali sui temi del linguaggio e del carattere linguistico della scienza, la matematica in primo luogo. La scienza per i Greci riguardava, attraverso gli ‘universali’, direttamente le ‘cose’ ed era in questo una ‘immagine’ fedele del mondo, col linguaggio tramite quasi naturale e non tematizzato. E’ il francescano William Ockham ad abbandonare quest’idea e ad intuire come invece la scienza sia strutturata in proposizioni con cui il mondo vada descritto. Sembra una tipica questione ‘scolastica’, ma di qua deriverà anche l’idea che la scienza non sia semplicemente l’insieme di tutte le verità necessarie, ma un ‘metodo’, un processo in cui essa si costituisce come ‘discorso’ intorno al mondo. Nella scienza antica una delle categorie con cui trattare le cose era la quantità, un sistema di concetti, attributi immanenti nel mondo e presenti nel linguaggio naturale come aggettivi delle cose: numeri e figure. Ma Ockham si accorge invece come essi non siano necessari per descrivere il mondo, a tal fine bastando le cose stesse, le sostanze, e le loro caratteristiche, le qualità. Era una svolta traumatica poiché la matematica era stata nell’antichità il cuore della idea stessa di ‘scienza’, ora ne veniva estromessa. 56 L’idea che la scienza sia un insieme di proposizioni, e quindi un linguaggio, con cui parlare del mondo è un tema nuovo, che investe i successori di Ockham. Tra questi Giovanni Buridano, che si pone il problema di trovare un linguaggio che sia non l’‘immagine’ del mondo, ma qualcosa di autonomo con cui si possa costruire una ‘scienza’, che parta dall’esperienza e dalle conoscenze individuali per giungere tramite l’induzione alle conoscenze universali, una scienza che non si contrapponga più alle tecniche in quanto le sue verità non sono più necessarie e certe. In questa analisi il linguaggio naturale viene letto in termini ‘algebrici’, come nella concezione dell’individuo come determinatum (Socrates, una costante) o vagum (hic homo, un’incognita o un segno, analogo alla cosa degli algebristi, singolo numero incognito), la cui ‘vaghezza’ si dissipa tramite l’aggiunta delle condizioni del problema, sino alla sua individuazione come incognita o alla sua caratterizzazione universale nel luogo geometrico. Il ‘risultato’ dell’equazione è l’individuo caratterizzato ex circumlocutione come in Sophronisci filius. Buridano insiste che il ‘segno’ può avere un significato anche se non rappresenta una cosa esistente (come nei problemi che non ammettono soluzione), e ci si chiede se l’equazione abbia un’unica soluzione come ci si chiede se primus rex Franciae christianus individui univocamente. L’individuum vagum ricorda anche (come in aliquis homo) la x come ‘termine generale’, la cui ‘vaghezza’ si dissipa tramite l’aggiunta delle condizioni del problema, sino alla sua individuazione come incognita o alla sua caratterizzazione universale nel luogo geometrico. Aristotele aveva interpretato il caso del bambino che chiama tutti gli uomini ‘padre’ come conseguenza della mancanza in lui degli universali, Buridano lo interpreta come l’esistenza iniziale di un individuo ‘vago’ da cui derivano tanto gli individuali che gli universali. Tipica della scrittura medievale era poi l’abitudine massiccia di abbreviare le parole con contrazioni, troncamenti, simboli sovrascritti o convenzionali. Una prassi, pressocchè assente nel mondo islamico, che nasceva dal carattere meccanico della copiatura dei manoscritti insieme col carattere tecnico e artificioso del latino medievale, una prassi che sarà all’origine del simbolismo che caratterizzerà l’algebra europea: non solo le lettere ma autentici nuovi simboli quali +, -, =, e poi simboli per le potenze, per le radici, etc. La traduzione in forma algebrica nella scienza sarà un processo che durerà secoli, sarà ancora assente in Galileo e trionferà solo con la scienza newtoniana. Nel 1343 Johannes de Muris parlando di statica scrive "puoi provare questo tramite lettere dell'alfabeto, ma per me i numeri sono più chiari". E, come accade spesso nella storia della matematica, i simboli diventano cose, delle quali parla un linguaggio. Si assiste così lentamente alla trasformazione dell’algebra araba, attraverso la linguistica e la scrittura medievale, nel lento emergere di un nuovo linguaggio ‘algebrico’ dotato di una sua autonoma sintassi. Questo accadrà molto tardi, nel XVII secolo, ma sarà il medioevo a predisporre l’universo linguistico da cui poteva emergere questo ‘intruso’: le radici dell’algebra simbolica si trovano nella scolastica medievale. In tale linguaggio i segni appaiono nell’algebra e negli algoritmi: due termini arabi, apparsi con la matematica islamica dove appare per la prima volta la vocazione sintattica della matematica. I segni a questo punto non sono più l’antico aliquid stat pro aliquo, ma qualcosa di inedito, e si caratterizzano attraverso tre prerogative: 1. con l’algebra il segno si svuota di significato e di senso: della x non conosciamo immediatamente né il valore né la natura, è l’incognita, poi diventerà il segno generico, e infine la variabile. Il segno sta per l’indefinito, per ciò che non si conosce neanche qualitativamente, sta per il nulla, è uno spazio ‘vuoto’. 2. le cifre indo-arabe sono una rivoluzione non perché posizionali (già la notazione sessagesimale e lo stesso abaco erano posizionali), né per la presenza dello zero, ma perché quei segni diventano gli ingredienti essenziali degli algoritmi (le operazioni in colonna), diversamente da quanto accadeva con l’abaco: gli algoritmi diventano loro i portatori unici di quel senso che i segni da soli avevano ormai perduto. 57 3. ‘processo meccanico’ e ‘regola generale’ coincidono, il segno è anfibio, nel contempo ideale e materiale, astratto e manipolabile secondo regole, una novità che appare nel Medioevo con gli orologi meccanici e la quantificazione delle qualità, ed è quindi una tecnica, ma relativa alle attività intelligenti dell’uomo. Ma questo non basta ancora per creare un linguaggio: non casualmente, a fare dell’algebra un linguaggio, il primo linguaggio formale della storia, costruito come linguaggio autonomo e non come frammento di un linguaggio naturale, saranno dei dotti francesi di cultura retorica, giuridica e filosofica, e solo amateurs della matematica, quali Viete, Descartes, Fermat. E sarà Leibniz, un metafisico tedesco formatosi come matematico a Parigi, a stabilire una volta per tutte che l’Uomo conosce il mondo solo attraverso i segni. Dio no, perché il mondo l’ha creato, ma gli uomini non hanno altra via di accesso alla scienza, che in quell’epoca era la meccanica, la scienza geometrica del moto e delle sue cause. La sua ars combinatoria apre la strada a tutti i linguaggi formali che nasceranno dopo l’algebra, dal calcolo differenziale alla logica matematica, dalla teoria degli insiemi ai linguaggi di programmazione LA MATEMATICA TRA MEDIOEVO E RINASCIMENTO Se da un lato la matematica greca antica, i cui testi cominciano ad essere tradotti in latino, trova qualche spazio nelle università medievali, dall’altro lato si conquista uno spazio autonomo la matematica pratica, erede della tradizione millenaria e mai interrotta che dai babilonesi e gli egizi si era conservata per tutta la antichità, sia trovando un’espressione più elegante in Erone, sia restando vitale nell’opera di agrimensori ed architetti. XII XIII XIV XV XVI ABELARDO OCKHAM GROSSETESTE CALCULATORES BURIDANUS UNIVERSITÀ S.ANSELMO ORESME NICOLA CUSANO JORDANUS FIBONACCI MATEMATICI RAMO COPERNICO CARDANO REGIOMONTANUS BOMBELLI DEL FERRO MAESTRI D’ABBACO FERRARI PACIOLI TARTAGLIA Nel Medioevo vediamo riapparire la geometria teorica intorno all’anno 1000 e svilupparsi nei secoli successivi. La geometria pratica si oppone a quella teorica già in Ugo di San Vittore nel 1130 e il suo uso si estende anche verso la meccanica. Si caratterizza per l’attenzione verso i problemi applicativi, gli strumenti e le misure, di fronte ad una geometria teorica basata su dimostrazioni. La base teorica è molto limitata, basata sulle proporzioni e la similitudine dei triangoli, senza riferimenti teorici, le stesse proprietà geometriche euclidee sono da un lato molto semplici, dall’altro menzionate senza prove. Spesso le proprietà geometriche, come quella sulla somma degli angoli di un triangolo, sono provate per via sperimentale. E la geometria si fonde con l’aritmetica nell’uso di numeri e frazioni per le misure e per le unità di misura, ed anche nell’uso dell’abaco, la mensa Pythagorica. Come conseguenza andava attenuandosi la antica opposizione greca tra numero e grandezza. Lo stile euclideo penetrerà solo lentamente dalla prima metà del XIV secolo nella geometria pratica e l’uso dei rapporti numerici per grandezze geometriche apparirà con la trigonometria nel XV secolo. Il rapporto tra la ‘monade’ e l’’uno’ era al centro della aritmetica euclidea: la prima definizione del VII libro degli Elementi recita: “La monade è ciò per la quale ciascuna delle cose che esistono è detta una”. Ma questa connessione complessa tra due termini distinti, monade e 58 unità, nel medioevo scomparirà per la unificazione linguistica dei due termini, come nella traduzione di Campano: Unitas est qua unaqueque res una dicitur. Altrettanto notevole è che questo approccio riduce effettivamente i rapporti a numeri, le “frazioni”, fractiones, e nel contempo le tratta come quantità continue, nel senso che ogni rapporto appare infinitamente divisibile, nel senso che quanti si vogliono medi proporzionali si possono trovare in ogni rapporto. E’ il primo postulato, petitio o suppositio, “Tra due quantità continue diverse ogni numero di medie può essere assegnato all’infinito” e quindi “ogni proporzione è possibile tra quantità continue”. In Bradwardine il rapporto sembra una qualità (“la proporzione è similitudine di rapporti”, ma nel contempo sembra apparire l’idea ‘generale’ di frazione come rapporto fra due ‘termini’ e l’idea che due relazioni siano ‘similari’ o ‘uguali’ se possiedono la stessa denominatio tra ‘termini’. Anche in un autore senza pretese teoriche quale Wigandus Durnheimer (fine del XIV secolo) si trova l’idea della riduzione delle frazioni a forma minima. Il carattere numerico di questa idea di frazione appare nell’uso di una terminologia aritmetica (multiplicatio in Campanus, dividere in Oresme, ma subtrahere in Durnheimer) per le operazioni tra rapporti, anche se la incertezza sulla operazione in questione rivela come il carattere numerico della frazione sia ancora un ‘work in progress’ e che il rapporto non sia ancora inteso come numero. La rappresentazione della proporzione come denominatio tramite numeri appare già in Grosseteste, limitatamente ai rapporti commensurabili, ed Oresme considera i rapporti una quantità continua in quanto infinitamente divisibile, e la terminologia frazionale è sempre possibile per rapporti razionali, ma non è verosimile che questo accada per i rapporti irrazionali. Osserviamo tuttavia come ancora nel XVII secolo Isaac Barrow si opponesse alla tesi che faceva dei rapporti una specie di quantità. Nelle università era filtrato quasi nulla della nuova matematica degli arabi, oltre i rudimenti sugli algoritmi numerici, anche se la riflessione sulla scienza e sul linguaggio aveva posto il problema della collocazione stessa della matematica all’interno del sapere. Invece fuori delle università la nuova matematica investiva il tumultuoso sviluppo della società e della economia tardo-medievale. I commercianti, gli artigiani, gli architetti, i pittori, si rivolgevano alla matematica degli arabi per le esigenze delle loro professioni. Resisteva la tradizione degli “abacisti”, che ignorano gli algoritmi numerici, ed operano con i classici algoritmi sull’abaco, usando le frazioni romane duodecimali. Ma ad essi si contrappongono sempre più i cosiddetti “algoristi”: quegli scrittori che mostrano chiaramente la loro dipendenza immediata dai matematici arabi attraverso l’apparire della mal compresa parola ‘algoritmo’, attraverso l’uso di valori posizionali delle cifre con inclusione dello zero, attraverso il non uso dell’abaco, attraverso procedure di calcolo numerico, inclusa la radice quadrata. La loro disciplina verrà insegnata fino al Rinascimento non tanto (in latino) nelle università quanto invece nelle “scuole d’abbaco” dai “maestri d’abbaco” (anche se non usano più l’abaco, ma ‘abaco’ era il termine generico per indicare la tradizione pratica) e presto i testi relativi, i “libri d’abbaco”, saranno in lingua volgare, e si rivolgerà non alla formazione delle professioni ‘dotte’ quanto a mercanti, artisti, architetti, etc. Centro di questo insegnamento sarà l’Italia ed in particolare Firenze, ma si diffonderà rapidamente in tutta Europa. Soprattutto in Italia, ma anche in Germania, la nascita dei ‘comuni’ aveva segnato lo sviluppo di tali professioni e la crescente domanda di conoscenze matematiche si era tradotta nella nascita delle ‘scuole d’abbaco’, talora organizzate dai Comuni o dalle Corporazioni, talora iniziative private. Appaiono verso la seconda metà del XIII secolo nell’Italia centro-settentrionale, a Firenze soprattutto, e fioriscono sino all’inizio del XVI secolo. Le ‘scuole d’abbaco’ (nelle quali non vi era traccia di veri abaci) sono l’istruzione superiore di un diffuso processo di formazione: Giovanni Villani ci informa che a Firenze intorno al 1330 c’erano da otto a diecimila giovani che frequentavano le scuole elementari pubbliche e circa 1000-1200 che, dopo gli undici anni, 59 imparavano “l’abbaco e algorismo” per due o tre anni, e che era normale per un artigiano saper leggere e far di conto. L’insegnamento da parte dei ‘maestri d’abbaco’ era in volgare e all’inizio puramente orale. Successivamente appariranno i ‘trattati d’abbaco’, nei quali compare un programma tutto interno alla tradizione pratica, molto più semplice per intenderci del Liber Abaci. Ma questi trattati diventeranno col tempo più completi e rigorosi e in essi si cimenteranno anche artisti come Piero della Francesca. Una tendenza che culminerà con l’opera di Luca Pacioli, il cui sodalizio con Leonardo da Vinci, ‘omo sanza lettere’ ma attento lettore di matematica, è paradigmatico del rapporto inedito che si stringe tra questi matematici pratici e molti grandi artisti del Rinascimento, con interessi artistici, meccanici e matematici. Quasi emblematica di questa connessione è la nascita della prospettiva, che nasce nella forma di regole pratiche per dare il senso della profondità nei quadri, ma che presto diviene una precisa tecnica matematica da cui si svilupperà la geometria proiettiva. Nel Rinascimento la tradizione pratica è ancora dominante, ma diventa strettamente algoritmica e la conoscenza degli algoritmi assume quel carattere mnemonico che tutto sommato caratterizza ancor’oggi l’insegnamento della matematica elementare. Nell’antichità la memorizzazione delle procedure si appoggiava probabilmente soprattutto su esempi numerici e figure geometriche, ora esse vengono memorizzate più astrattamente e verbalmente, più in là assumeranno anche l’aspetto di formule. Gli algoritmi non vanno compresi e neanche dimostrati, vanno bensì memorizzati: tabelline pitagoriche, regola del tre, prova del nove, estrazione della radice quadrata, etc. E’ difficile alla fine del Medioevo ritrovare qualche legame tra la matematica delle università e quella delle scuole d’abbaco. Soprattutto in Inghilterra e Francia, laddove, anche a causa della guerra dei cent’anni, le università avevano perso il dinamismo che le aveva caratterizzate nel XIII e XIV secolo. Migliore la situazione in Italia e Germania. Nicola Cusano era un cardinale tedesco, importante perchè appare quasi una cerniera tra medioevo e tempi moderni. Per quanto riguarda la matematica il suo nome va ricordato per come faccia della riflessione sull’infinito il grimaldello per rompere lo schema delle opposizioni aristoteliche. Moto e quiete erano opposti per Aristotele, ma un infinito rallentamento del moto è la quiete, così anche retta e curva erano opposti, ma la retta poteva essere considerata come una circonferenza di raggio infinito. E in lui si trova un’idea che si diffonderà nei secoli successivi, diventando un luogo comune nel Seicento: che sia la matematica e non la logica la base della argomentazione scientifica. In realtà per i Greci la matematica era soprattutto la scienza dell’essere, mentre era la logica a fornire la base della scienza del divenire e delle relazioni causali, la ‘fisica’. Nel cinquecento gli aristotelici sottolineano i limiti della dimostrazione matematica (estranea alla causalità fisica, non univoca, non sillogistica, etc.) al punto da escludere la matematica dalle scienze. I platonisti e i meccanici, Leonardo da Vinci per primo, trovavano invece nella matematica la ‘logica’ delle loro ‘macchine’ e lo strumento base per tutte le scienze. Inizierà un lungo dibattito su quale fosse tra le due la dimostrazione ‘più potente’, di fatto iniziava per la logica un lungo periodo di ristagno, interrotto prima dell’ottocento solo dalla figura di Leibniz. Occorre anche ricordare l’invenzione della stampa intorno alla metà del XV secolo. Con essa il libro, anche il libro di matematica, usciva dall’angusto mercato dei copisti universitari per diventare un bene relativamente di massa: nel giro di pochi decenni le stamperie si moltiplicarono in Italia, in Germania, in Olanda, e i libri comparvero in tutte le case della borghesia benestante. L’attenzione degli Umanisti per le lingue antiche aveva lasciato in eredità anche una maggiore attenzione al rigore delle traduzioni, così che il cinquecento vedrà un fiorire di nuove traduzioni dei classici della matematica greca. Tra i più attivi matematici in questa attività di diffusione del libro matematico c’era anche Johann Müller, detto Regiomontanus, famoso anche 60 per i suoi studi di astronomia e trigonometria. Con lui inizia una tradizione di studi astronomici nella Mitteleuropa che porterà ai nomi di Copernico, Tycho Brahe e Kepler. Il Rinascimento sarà anche caratterizzato dall’esplicito interrogarsi sul linguaggio. Ormai la civiltà era diventata largamente multilinguistica: i vernacoli erano diventati lingue nazionali, si traduceva tra di esse o dall’arabo o dal greco o dal latino o dall’ebraico. I linguaggi apparivano tutti convenzionali, ma, quasi per contrappeso, nasceva l’esigenza del linguaggio universale, in cui le cose avessero il loro vero nome. Poteva essere il linguaggio originario, quello di Adamo, simile all’ebraico, o un linguaggio iconico, come il cinese proposto da Leibniz. Quindi un linguaggio da riscoprire o anche da creare. Era una indagine impensabile nella Grecia antica, in cui il greco era l’unico linguaggio che non fosse un balbettio, o nell’Islam, laddove l’arabo era l’unica lingua ‘vera’ e immutabile, quella in cui era scritto il Corano. L’INFINITO E IL TRANSFINITO In generale sull'infinito ed il continuo restarono dominanti le tesi aristoteliche almeno per tutto il periodo della Scolastica, anche se non erano assenti accenti platonisti e pitagorici che riprendevano la teoria di un continuo realmente fatto di punti indivisibili. Anche la finitezza dell'universo veniva messa in discussione: con Nicola Cusano l’universo diventava ‘interminato’, e con Giordano Bruno l’universo diventava infinito e illimitato, e lo spazio vuoto e uniforme. Ma l'infinito attuale acquista lentamente una crescente audience, e comincia ad apparire la tesi che la retta sia di fatto composta dai suoi punti. Soprattutto ragioni teologiche deponevano a favore dell’esistenza dell’infinito attuale: potendo Dio fare tutto nei limiti del principio di non-contraddizione, l’infinito attuale sarebbe impossibile solo se contraddittorio; ma tale contraddizione non appariva evidente. Anche l'idea, di natura teologica, di un tempo esistente ab aeterno riproponeva il problema dell'infinito attuale. E progressivamente questa novità teologica filtrava anche nella filosofia naturale e nella matematica della scolastica nell’università di Oxford, a cominciare da Robert Grosseteste. Matematico era l’esempio della creazione di un oggetto infinito in un tempo finito: Dio potrebbe creare una quantità in mezz’ora, la stessa quantità nel successivo quarto d’ora, la stessa ancora nel successivo ottavo di ora, etc. e così dopo un’ora aver creato una quantità attualmente infinita. All'interno di questa 'emergenza' occorre sottolineare l'apparire di una distinzione che si rivelerà cruciale per la matematica moderna: quella tra infinito attuale, inteso come "tutto massimo" e quindi in fondo inanalizzabile e inconfrontabile, e quello transfinito, "che eccede ogni finito al di là di ogni determinata proporzione" (infinitum est quod excedit quodcumque finitum ultra omnem proportionem determinatam), che esplicitamente rivela la traduzione matematica del problema e si pone come negazione del ‘finito’, e all'interno della quale si possono realizzare confronti tra infiniti. FIG.13 Tale lettura matematica dell’infinito si traduceva in un problema nuovo e di grande portata per il futuro della matematica: il ‘confronto’ tra infiniti, un tema di grande importanza nel XIX secolo. Gli infiniti sono tutti ‘uguali’? O esistono infiniti ‘più grandi’ di altri infiniti? E su questo 61 la Scolastica si dividerà. Gregorio da Rimini (XIV secolo) osserva che sorgevano paradossi connessi all’idea (assurda nel finito) che una collezione potesse essere contenuta propriamente in un’altra e nello stesso tempo essere messa in corrispondenza biunivoca con essa. Qui entravano in conflitto due principi fondamentali della matematica: uno di origine geometrica, ‘il tutto è maggiore della parte’ (V assioma degli Elementi), l’altro di origine aritmetica, due moltitudini che si possono mettere in una corrispondenza 1-1 sono uguali. Esistevano diversi paradossi in cui questi due principi entravano in conflitto. Paradossi sia geometrici (fig.13: in un triangolo coi lati disuguali le parallele alla base istituiscono una corrispondenza 1-1 tra i punti dei due lati pur essendo il minore riducibile ad una parte del maggiore, in due cerchi concentrici i raggi istituiscono una corrispondenza 1-1 tra i punti delle circonferenze), che aritmetici (i numeri interi e i numeri quadrati si possono mettere in corrispondenza 1-1 pur essendo i secondi una parte propria dei primi). La fine del Medioevo apre così una nuova fase di riflessione sull’infinito. L’impianto restava ancora aristotelico con il conseguente rifiuto dell’infinito attuale. L’infinito restava una 'potenza' che può divenire 'atto' in un processo mai simultaneamente, non infinitum in facto, ma infinitum in fieri. Il punto non veniva considerato grandezza, come del resto lo zero esisteva in forma solo simbolica e l’uno non era considerato un numero in senso stretto. Secondo la tradizione antica, accettata quasi universalmente fino al XIV secolo, i punti, le linee, le superfici esistevano solo come 'terminali', così che non erano "grandezze" e non si poteva considerare il continuo composto di punti. Così si rigettava l’idea che una curva fosse fatta di infiniti punti: aristotelicamente il continuo non era composto di indivisibilia, ma di semper divisibilia. Esempio tipico dei paradossi del continuo è la cosiddetta rota Aristotelis, nota già ad Erone. In tale esperienza 'mentale' si consideravano due punti (allineati col centro comune) su cerchi concentrici che rotolano solidalmente e quindi descrivono segmenti uguali (fig.15 bis). Analoga antinomia, resa celebre da Galileo, si otteneva nel discreto tra i naturali e i pari (o i quadrati perfetti). La ratio Achilles, di ascendenza zenoniana, consisteva invece nell’osservare come se il tempo fosse composto di istanti e lo spazio di punti, allora tutte le velocità sarebbero uguali poiché in ogni istante verrebbe occupato uno e un solo punto. La soluzione antica richiedeva il rifiuto dell’infinito attuale e della idea che il continuo potesse essere considerato come composto di punti, ma la liceità, anzi la necessità, dell'infinito attuale diventa inevitabile per un rapporto tra fede e ragione. Di questo capovolgimento è esempio l'analogia tra poligono/circolo e conoscenza umana/assoluta: laddove il pensiero greco si era ritratto, persino in Archimede, davanti al limite infinito, il pensiero cristiano ne fa la sua ragion d'essere e vede nella riflessione sull'infinito la traccia della natura divina dell'anima. In Nicola Cusano l’idea della contraddittorietà dell’infinito non è una ragione per rigettarlo: possiamo infatti dargli un nome, ma descriverlo non può essere fatto se non a spese di antinomie. "L'infinità non sopporta in sé alterità perché nulla è al di fuori di essa.", senza maggiore, minore o uguale, senza parti; un termine che sia termine senza termine è però nell'indeterminato e nel confuso, nell'ignoranza ed oscurità dell'intelletto: la dotta ignoranza. Alla omogeneità tra retta e curva o tra unità e molteplicità non portava quindi solo il pragmatismo della cultura medievale ma anche la ormai piena liceità ‘teologica’ dell’idea di infinito attuale, la quale porterà Descartes ad affermare qualche secolo più tardi “vedo manifestamente che si trova più realtà nella sostanza infinita che nella sostanza finita, e quindi che ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso.” [Meditationes de prima philosophia, III]. CONTINUO E DISCRETO La rottura del sistema culturale medievale apparirà come superamento dell'aristotelismo. Non è casuale allora che gli stimoli per la nascita della scienza moderna appaiano nel rifiorire del platonismo nel XV secolo, come reazione all’aristotelismo scolastico. 62 La fine della Scolastica è il tracollo di quel lessico teoretico, la cui creazione era stata la grande opera aristotelica. Tutti i concetti della nuova scienza saranno 'sghembi' rispetto alle categorie e alle opposizioni dell'aristotelismo: categorie, sostanza/accidente, forma/materia, atto/potenza, individuale/universale, genere/specie, e tesi al superamento della opposizione rigida tra le coppie pitagoriche: moto/stasi, retta/curva, limitato/illimitato, uno/molti. Il passaggio dalla potenza all'atto nell'ambito delle sostanze è necessariamente istantaneo, mentre tipicamente il mutamento, pure interno alla relazione tra atto e potenza in quanto aristotelicamente motus est actus entis in potentia secundum quod in potentia, si compie invece nel tempo. La prima caratterizzazione presuppone una descrizione in linguaggio naturale sostanzialistica e dominata dalla opposizione polare essere/non essere, la seconda richiede un linguaggio nuovo in cui il moto sia costruito analogicamente allo spazio, e questo è il punto di partenza di quella intensio et remissio formarum che vedremo decisiva per la nascita della scienza moderna. La frattura con l’interpretazione sostanzialistica della quantità appare già in William Ockham. La scienza aristotelica aveva al suo centro l’idea di sostanza e dei suoi attributi, in primo luogo qualità e quantità. Ockham sottopone tutti gli enti della filosofia scolastica ad uno scrupoloso esame per verificarne la indispensabilità: l’esito negativo ne comporta la eliminazione, e nota che la quantità in fondo è superflua: il mondo può essere descritto analiticamente in termini delle sostanze e delle loro qualità, la quantità può essere espulsa dalla descrizione della percezione comune. La dotta ignoranza del Cusano è la base della coincidenza degli opposti. Non si tratta di un residuo eracliteo, ma dell'onda lunga di una riflessione teologica che da Tertulliano e lo pseudoDionigi coglie quanto stretto sia il paradigma aristotelico per inserirci l’idea di infinito emersa nella civiltà cristiana durante il Medioevo. Così difronte a Dio tutte le opposizioni rigide aristoteliche si dissolvono: "perché Dio è al di sopra della coincidenza dei contradditori, essendo, secondo Dionigi, opposizione degli opposti". Quanto questo sia rilevante per la storia della matematica si comprende quando si osserva che tra le opposizioni aristoteliche c’era quella tra moto e quiete: "moto e quiete e la loro opposizione … sono posteriori a questa infinità". Il moto si pone come allontanamento da uno stato, e muoversi è passare da quiete in quiete, il movimento non è che una quiete ordinata o stati di quiete posti in serie. Esplicitamente il Cusano tenta di introdurre il "più e il meno" nello schema delle opposizioni aristoteliche basate sulle "essenze". In Aristotele l’opposizione essere/divenire si rifletteva nella inapplicabilità della matematica (scienza dell’essere immutabile) alla fisica (scienza del divenire): solo le scienze relative ad una realtà immutabile potevano essere quantificate (statica, ottica, astronomia, musica). Inoltre la quantità continua sembrava doversi limitare alle grandezze spaziali e temporali. Nella antichità questo era stato quasi un dogma, e ancora in San Tommaso l’applicazione della matematica alla descrizione della realtà naturale si riduceva a discipline concernenti lo spazio, come l’astronomia e l’ottica. Così quando due oggetti si scambiavano calore si doveva avere la perdita di precedenti attributi qualitativi e acquisizione di nuovi. Sempre ad Oxford, nel Merton College, lavorano nella prima metà del XIV secolo un gruppo di filosofi (Thomas Bradwardine, William Heytesbury, Richard Swineshead), noti come Calculatores, ai quali si deve il tentativo di estendere il ‘campo d’azione’ della quantità a quelle che la filosofia antica e medievale considerava qualità (non solo velocità, illuminazione, calore, etc., ma anche grazia, carità, etc.) e che il Medioevo definiva ‘intensive’ poiché potevano aumentare o diminuire di intensità, quasi fossero grandezze: si parlava di intensio et remissio qualitatum seu formarum. In termini moderni la “estensione” era sostanzialmente l’integrale (lo spazio totale, la quantità di calore, il peso) mentre l’”intensione” era il valore puntuale (la velocità, la temperatura, la densità), che ‘avendo una latitudine’ era considerata sempre come continua. 63 L’esempio preferito era la velocità, e ai Calculatores va ascritto quello che è noto come ‘teorema mertoniano’, in termini attuali quello secondo cui lo spazio percorso in un moto uniformemente accelerato è uguale a quello percorso nello stesso tempo in un moto uniforme a velocità media tra quella iniziale e finale. A Parigi poco dopo Nicola Oresme tradurrà questo teorema in una rappresentazione e giustificazione geometrica (fig.15bis, sin.). VELOCITÀ TEMPO FIG.15 BIS Bisogna però non confonderla con una rappresentazione ‘cartesiana’, in quanto non è una ‘rappresentazione’ pur essendo una imaginatio. Infatti per Oresme un calore ‘triangolare’ ‘punge’ di più di uno ‘rettangolare’! La figura è fuori della realtà comune ma ha effetti reali. Inoltre l’ambiguità tra indivisibili eterogenei o omogenei fa si che l’area venga vista sia come ‘spazio percorso’ che come ‘velocità totale’ (in quanto una somma di ‘velocità’ istantanee deve essere una ‘velocità’). L’aumento era inteso in termini di gradi discreti, anche se magari infiniti. Questo è uno degli aspetti più caratteristici dello sviluppo della ‘quantificazione’ medievale. Nei campi più diversi (il tempo degli orologi meccanici; la rappresentazione della musica tramite i neumi, gli antenati delle nostre note su uno spartito; la temperatura in termini di gradi; la velocità delle navi in termini di nodi) il Medioevo quantificava discretizzando le qualità intensive anche se le presentava come intervalli, latitudines, cioè come grandezze continue. Tuttavia la ‘stranezza’ si attenua se si ricorda che tutti i modi per esprimere una quantità, che fossero numeri o semplici parole, erano discreti, in quanto i ‘numeri reali’ ancora non esistevano, e quanto nebulosa fosse la distinzione tra discreto e continuo nella tradizione pratica, allora ancora intuitivamente dominante, sebbene questo si sovrapponesse ad una struttura teorica aristotelica che quella distinzione invece riteneva netta. Per questo motivo la ‘misurazione’ era solo formale, era una quantificazione discreta, ma intuita geometricamente e senza misura empirica. Nel sistema aristotelico il divenire delle "qualità" era descritto tramite le coppie di 'opposti' del tipo caldo/freddo, pesante/leggero, umido/secco, mentre gli stessi fenomeni nella scienza moderna diventeranno graduazioni continue di una singola grandezza, quale calore, peso, umidità. Questo significava esprimere il mutamento in forma di dipendenza funzionale. Questo fu fatto in parte in forma linguistica, ma più significativa fu l’utilizzazione di diagrammi, analoghi a quelli della futura geometria analitica, soprattutto da parte di Nicola Oresme (XIV secolo). L’estensione dell’oggetto era rappresentata orizzontalmente, l'intensione della qualità/forma verticalmente, e quindi l’area sotto la curva dava l’"estensione della forma", la "quantità di velocità" ovvero lo spazio secondo Oresme. Non era acora geometria analitica soprattutto perché la rappresentazione, detta da Oresme ymaginationes, all’inizio era solo geometrica. Interessante osservare che nella concezione di Oresme “sulla continuità dell’intensione: ogni cosa misurabile, eccetto i numeri, è concepita come quantità continua”. E quindi, quando la grandezza non sia numero e si rappresenti come un tutto divisibile, essa finisca col doversi rappresentare geometricamente e col dover essere considerata continua. 64 L’ALGEBRA IN ITALIA NEL CINQUECENTO In Italia appaiono le novità più rilevanti in campo matematico, in algebra soprattutto. L’algebra in Europa aveva progressivamente guadagnato un ricco bagaglio di simboli e si era sviluppata l’abilità nella manipolazione di espressioni algebriche. Andava crescendo la consapevolezza che i risultati dell’algebra geometrica potevano essere ottenuti tramite la manipolazione di espressioni, ed in questo gli algebristi italiani del Cinquecento stavano raggiungendo una indiscutibile abilità. Ciononostante l’algebra era ancora essenzialmente una disciplina della tradizione pratica, rivolta quindi esclusivamente alla risoluzione di problemi. In particolare i problemi che portavano ad equazioni di grado superiore al secondo solo raramente erano risolubili in quanto non esistevano procedure generali per la loro risoluzione. L’ambiente matematico appariva poco strutturato: qualche collegamento con le università, posizioni all’interno delle corti, legate anche al ruolo che i matematici svolgevano come meccanici e ingegneri nei problemi bellici o idraulici o architettonici. C’era una grande attenzione verso gli scritti di Archimede, e si diffondeva l’idea di una meccanica come scientia media intermedia tra geometria e fisica, ma nel contempo anche autonoma. Molto richiesta la matematica per l’astrologia, che si diffondeva in tutti gli strati della popolazione, Curia e Corti incluse. Esisteva una diffusa e aspra concorrenzialità tra i matematici che si traduceva in autentici ‘cartelli di sfida’ in cui un matematico sfidava altri matematici a risolvere problemi, e la storia della scoperta della risoluzione delle equazioni di III grado mostra il clima acceso che circondava tali sfide, in quanto molti problemi delle sfide riguardavano tali equazioni. La gloria dell'algebra rinascimentale italiana è in gran parte legata alla risoluzione delle equazioni di III e IV grado. Senza addentrarsi nelle complesse questioni di priorità, la risoluzione della equazione cubica è da ascrivere a Scipione del Ferro e Nicolò Tartaglia e quella della equazione di quarto grado a Ludovico Ferrari, entrambe diffuse poi dalla Ars Magna (1545) di Gerolamo Cardano e dall'Algebra di Rafael Bombelli (scritta nel 1550 e pubblicata in parte nel 1572). Alcuni aspetti rimangono sostanzialmente immutati da al-Khwarizmi fino agli algebristi italiani del XVI secolo, da Tartaglia e Cardano a Bombelli, precursori di Viete e Descartes, è in primo luogo la doppia 'versione', algebrica e geometrica: la prima quasi una ricetta mnemonica in termini di esempi numerici o in termini di "cose" e "censi" come espressione delle potenze dell'incognita, la seconda un oggetto geometrico la cui costruzione permette la soluzione dell'equazione in maniera rigorosa: l’aspetto geometrico doveva in ogni caso dare il ‘senso’ generale della soluzione. In secondo luogo il rifiuto di coefficienti negativi o nulli richiede la presentazione di innumerevoli casi, così, ad esempio, nell'Algebra di Bombelli appaiono 5 casi per la risoluzione dell'equazione di II grado, 16 per l'equazione di III grado e ben 42 per l'equazione di IV. La risoluzione delle equazioni di III e IV grado, il punto più alto dell'algebra rinascimentale ed anche l'ultimo exploit della antica "tradizione" aritmetica, si sviluppa secondo le tecniche classiche di tale tradizione. Consideriamo la risoluzione della equazione cubica (fig. 16): viene ridotta ad esempio alla forma x3 + p x = q , e, come nell'approccio di al-Khwarizmi per le equazioni di II grado, si considera il cubo di lato x=AB, si 'completa' il solido nella forma di un cubo di lato u=AC, in modo che i tre parallelepipedi di lati x, u, e v=u-x=BC diano un volume px. La somma di tale volume e del cubo di lato AB vale quindi q e risulta uguale, con semplici ragionamenti di natura geometrica, alla differenza tra i volumi del cubo di lato AC e del cubo di lato BC. Da questi dati è possibile calcolare u e v e quindi x. La risoluzione della equazione di IV grado procede sulla stessa linea, con la novità che una delle 'lunghezze' considerate vale x2 , con una rottura implicita così del 65 principio di omogeneità. F E D A B L C K G H Fig. 16 E’ molto difficile capire se questa soluzione fu trovata tramite un ragionamento geometrico o algebrico, se cioè il ‘completamento del cubo’ fu realizzato sulla figura o tramite la formula del cubo del binomio (come nella nostra traduzione algebrica). L’equivalenza dei due linguaggi all’epoca non era ancora esplicita, ma intuitivamente era già diffusa anche tra non matematici come Pietro Ramo. Ma d’altra parte la scoperta della soluzione per l’equazione di IV grado (impensabile in un approccio puramente geometrico) da parte di Ludovico Ferrari, un allievo di Cardano, testimonia della raffinatezza delle tecniche di manipolazione simbolica. Infatti nella procedura di risoluzione occorre porre ad un certo punto un intervallo uguale al quadrato di un altro intervallo, ignorando il principio di omogeneità dimensionale: qualcosa di lecito nell’antica tradizione aritmogeometrica, ma teoricamente inaccettabile. Tuttavia alla metà del XVI secolo stava ormai maturando una matematica del tutto nuova che in un certo senso saldava le due antiche tradizioni, teorica e pratica. E’ qualcosa che si intravede già nell’opera dell’ultimo grande algebrista italiano del XVI secolo: Rafael Bombelli, nel quale linguaggio algebrico e geometrico si interscambiano con la massima naturalezza. Parlando di aritmetica e geometria egli scrive: “Queste due scientie hanno intra di loro tanta convenientia che l’una è la prova dell’altra e l’altra la demostration dell’una” [Algebra, 476], e dimostra le risolventi delle equazioni secondo una pluralità di approcci, geometrici ed aritmetici. Nell' Algebra di Rafael Bombelli, scritta intorno al 1550 e pubblicata in parte nel 1572, appaiano alcune novità che preannunciano il XVII secolo: compaiono segmenti di lunghezza negativa, i numeri irrazionali sono ormai numeri, anche se è "impossibile poterli nominare", e compare l'uso nei 'numeri immaginari' (la nostra i è chiamata il "men di meno"). Al polo opposto alcune costruzioni geometriche non danno come risultati metodi numerici, ma direttamente costruiscono enti geometrici. L'uso della incognita e delle sue potenze compare per la prima volta nelle risoluzione approssimata di radici quarte: si potrebbe dire che appare un po' come sostituto quando fallisce sia l'intuizione aritmetica che quella geometrica. 66 Le risolventi sono dimostrate secondo una pluralità di approcci, geometrici ed aritmetici. Si consideri ad esempio l'equazione di primo grado a x = b. Viene risolta in tre modi. Nel primo (fig. 17 (a)) "in superficie composto di numero", b è una superficie, x e a sono lunghezze (viene preservato il principio di omogeneità), f è l'unità di misura ed a è un numero esplicitamente dato (nell'esempio, 3). I due rettangoli devono avere la stessa area, ragion per cui x si trova numericamente dividendo b per il numero dato a. L'altra soluzione (fig 17 (b)) "in superficie senza numero": b è una superficie data, la cui base viene prolungata di a. Si completa il rettangolo superiore e si traccia la semiretta diagonale fino ad incrociare il prolungamento dell'altezza del rettangolo b. Completando la figura si ottiene x, in quanto i due rettangoli opposti alla diagonale hanno, in base ad un noto teorema degli Elementi di Euclide, la stessa area b. La terza soluzione f f b x b x b x a f a a (a) (b) (c) fig.17 "in linea" (fig. 17 (c)) tramite il segmento unitario abbandona il principio di omogeneità e b ed a diventano lunghezze esplicitamente date. Per un semplice teorema x si ottiene dividendo b per a. Risolventi analoghe si ripetono continuamente nel testo: appaiono dimostrazioni in cui il principio di omogeneità vale e si ritrovano le classiche tecniche dell'algebra geometrica e appaiono invece dimostrazioni in cui il principio viene ignorato e la risoluzione appare puramente data dalla costruzione geometrica, spesso tramite 'artifici meccanici' del tipo "squadri materiali" che si muovono solidalmente, nelle soluzioni "in superficie piana". Nonostante questa molteplicità di tecniche vi è consapevolezza che la grandezza geometrica ed il numero appaiono pressocchè indistinguibili: "tanto è a dire una quantità, quanto una cosa di numero". MATEMATICA E FISICA La tesi dell'onnipotenza divina nei limiti del "principio di non-contraddizione" portava tra l’altro ad una accresciuta 'libertà' dell'immaginazione che si tradurrà in quella pratica, cruciale della fisica moderna, a partire da Galileo e Stevin fino alla meccanica relativistica e quantistica, basata sui Gedanken-experimente, che altro non sono che autentiche esperienze realizzate in un mondo autonomo di modelli geometrici e meccanici, con gli "occhi della mente", nei soli limiti del principio di non-contraddizione e in obbedienza 'condizionale' delle leggi naturali da testare. E’ qualcosa di più che l’uso della dimostrazione per assurdo (come nella dimostrazione di Archita della infinitezza dell’universo): c’è la presenza di un sistema di assiomi ‘intuitivi’ di natura fisica da cui dedurre principi fisici espliciti. Un esempio particolarmente brillante di questa attività sperimentale nel "mondo mentale" è quella dovuta a Stevin (vedi fig.15). 67 Qui si suppone una catena poggiata su un solido a sezione triangolare scalena (parte sinistra della figura). L'impossibilità 'evidente' di un moto perpetuo della catena intorno al solido implica che essa starà in equilibrio. Se eliminiamo la parte della catena pendente, per ragioni di simmetria la parte restante resterà ancora in equilibrio (parte destra della figura). Questo vuol dire che per i due lati della catena restante, la cui massa è proporzionale alla lunghezza e quindi inversamente Fig.15 proporzionale al seno dell'angolo alla base, la parte del peso effettiva sarà proporzionale al seno dell'angolo alla base. Otteniamo così il "teorema sulla accelerazione lungo un piano inclinato" per via puramente 'deduttiva'. Se confrontiamo lo schema di questa argomentazione coi risultati di Archimede, ad esempio il suo metodo o il teorema sull'equilibrio dei pesi, in parte noti o comunque abbastanza omogenei alla geometria di Eudosso e Euclide, e consideriamo il ruolo che vi svolgono ragioni di simmetria e intuizioni 'fisiche', possiamo convincerci della continuità della evoluzione dei GedankenExperimenten e del mondo mentale nel suo versante matematico e modellistico, dalla geometria pitagorica fino alla meccanica classica. Ma dobbiamo notare che lo spirito modellistico con cui la scienza moderna realizza gli esperimenti mentali sconta due aspetti assenti nella tradizione greca: da un lato la "artificialità" dell'esperimento scientifico versus la "naturalità" dell'esperienza aristotelica, dall'altro la struttura quasi fisica di un mondo mentale che nella filosofia e matematica greca era stato solo sede di idee e di sillogismi. Il rapporto tra matematica e realtà naturale assume aspetti nuovi ma conserva anche tratti antichi. Oresme tratta con disinvoltura l’infinito e la probabilità. E’ consapevole che esistono infiniti rapporti irrazionali inesprimibili in forma esponenziale. E, tornando alla originale vocazione dinamica di questa teoria, Oresme nota modernamente che la probabilità che siano commensurabili è molto bassa e intuendo come gli irrazionali fossero più ‘numerosi’ e ‘densi’ rispetto ai razionali: "un eccesso impercettibile…distrugge un'uguaglianza e trasforma un rapporto da razionale in irrazionale". Di conseguenza anche le lunghezze dei periodi astronomici devono essere probabilmente incommensurabili, e questo motiva il rigetto delle teorie astrologiche e dell’idea del “grande anno”, pur essendo convinto dell’influenza delle cose celesti sulle attività umane. Oresme sembra considerare indifferentemente rapporti tra numeri o grandezze, quantità razionali e irrazionali, superando la antica contrapposizione tra di esse anche se sembra sempre preservare la distinzione euclidea. La stessa accettazione formale di Euclide, anche quando nella sostanza ci si distacca, si ritrova nella asserzione secca che “l’unità è parte di ogni numero”, ascritta all’inizio del VII libro degli Elementi. La associazione di numeri alle grandezze geometriche passa per l’introduzione degli aspetti metrici nella geometria teorica: Bradwardine nella sua Geometria speculativa parla di ‘uguale in area’ a proposito delle figure geometriche. 68 Più in generale, aritmetica e geometria costruiscono sequenze infinite di enti, per cui le loro conclusiones sono infinite, implausibili per un intelletto creato e finito, necessariuamente rimandano ad un intelletto increato e di potenza infinita. Grosseteste e Henry of Harclay avanzano anche la tesi della esistenza degli indivisibili e che quindi tempi e lunghezze fossero misurate dal loro numero di istanti e punti, tesi contrastata da Bradwardine. A questo punto, all’alba della nuova scienza, si può fare un confronto tra la matematica europea e quella araba, per rispondere a quello che è il più grande interrogativo della storia della scienza: perché in Europa? Perché la scienza moderna nasce qui e non in Cina o nell’Islam? Limitandoci al solo confronto con la scienza islamica, e considerando i soli aspetti scientifici, si deve osservare come la matematica islamica appaia a prima vista aver fatto passi avanti nella direzione della scienza moderna anche più decisivi di quella europea: nella matematica islamica risulta più chiara ed esplicita la confluenza di continuo e discreto e la riduzione del rapporto a numero, nonché più avanzato lo sviluppo delle tecniche algebriche sintattiche (anche se senza un nuovo simbolismo). Anche nelle scienze ‘medie’, dall’astronomia all’ottica, i progressi appaiono più significativi, e più sviluppate appaiono anche le tecniche alchimistiche e la strumentazione astronomica. La matematica europea, dopo l’improvvisa fioritura legata ai nomi di Fibonacci e Jordanus Nemorario, appare invece dominata dalla frattura tra una matematica universitaria antiquata e inutile, ed una matematica ‘d’abbaco’ terribilmente rozza. Certo ci sono fenomeni positivi nell’uso della matematica su temi fisici da un lato, e su questioni tecniche e professionali dall’altro. Ma niente di rilevante: ancora all’inizio del cinquecento l’unico settore scientifico ben caratterizzato della matematica europea era l’astrologia. Eppure nella matematica del tardo Medioevo si preparano i caratteri di una svolta epocale. In De Commensurabilitate Nicola Oresme, l’ultimo dei grandi scolastici del XIV secolo, descrive il dibattito tra Aritmetica e Geometria, guidato da Apollo, che discutono sulla commensurabilità dei moti celesti. Aritmetica difende la commensurabilità sia per il piacere che procura in musica che per l’utilità che rivela nella costruzione delle tavole astronomiche, Geometria osserva invece, con la simpatia di Oresme, che l’incommensurabilità garantirebbe una grande varietà di effetti, anche nella musica celeste. Aritmetica difende la conoscenza esatta, Geometria sostiene invece il doversi accontentare di approssimazioni. Apollo introduce anche il tema della impossibilità di una conoscenza esatta tramite i sensi. L’opposizione tra continuo e discreto è comunque confermata: magnitudo…species opposita numero, ma si sottolinea, come già Aristotele accennava, che la grandezza può tradursi nella natura numerica: magnitudo…fit in natura numeri, quando sia rationalis et numerata, e in tal caso scientia de numero descendit in scientiam de magnitudine. E ci si pone il problema, rilevante perchè funzionale a questioni astrologiche, se i tempi di percorrenza delle orbite planetarie siano commensurabili o no, osservando (molto modernamente) che la probabilità che siano commensurabili è molto bassa, intuendo come gli irrazionali siano molto più ‘numerosi’ dei razionali. La ‘modernità’ di Oresme appare anche nella capacità di usare argomenti matematici per problemi fisici, ma la questione appare a noi anche abbastanza arcaica, per il confronto tra una proposizione matematica ed una empirica in cui si ignora che la prima può parlare di uguaglianza in senso stretto, la seconda solo di uguaglianza a meno di errori nelle osservazioni inevitabili e imprevedibili. Ecco, qui si intravede l’evoluzione verso la matematica e la scienza nella Rivoluzione Scientifica. ‘Dove’ era infatti la matematica nell’antichità e nel medioevo? Era immanente, sulla superficie del mondo, era un frammento del linguaggio naturale che trattava di alcuni attributi delle cose, numeri interi e figure, immediatamente percepibili: per Platone era un mondo di idee che apparivano nelle cose, per Aristotele veniva ‘astratta’ dalla realtà, in primo luogo eliminando 69 la materia ed il moto. Aveva poi un ruolo cruciale nelle catene causali e quindi era la base della scienza, e, se non era solo un insieme di tecniche, riguardava solo la verità necessaria e l’essere immutabile. I filosofi naturali del Medioevo avevano cominciato a vederla anche nel movimento: sarà Nicola Cusano a vedere una ‘curva’ nel moto di un punto su una ruota che rotola, e sarà Tycho Brahe a vedere nei cieli non più sfere fisse ma ‘traiettorie’ di corpi in moto. Nicola Oresme arrivava addirittura a geometrizzare qualità fisiche come la velocità, la temperatura, etc., con la imaginatione. Tuttavia esse restavano sempre immanenti anche se non normalmente percepite. Quindi i tempi di rivoluzione planetaria erano ancora, come attributi, grandezze precise, i cui rapporti dovevano essere, per il ‘terzo escluso’, commensurabili o incommensurabili. Del tutto diverso il ‘luogo’ della matematica per la scienza moderna: essa svanirà dalla realtà immanente, si collocherà nelle leggi fisico-matematiche di una realtà nascosta e profonda, nelle innumerevoli relazioni causali che spiegano il divenire di ogni evento nel mondo reale e che per ‘sommarsi’ negli effetti dovranno assumere un carattere numerico. Questa matematica non appare nel mondo della vita quotidiana, richiede un linguaggio autonomo per essere descritta e non tratterà più di numeri interi e figure, quanto invece di simboli algebrici, derivate e integrali, serie e limiti, numeri reali, infiniti e infinitesimi, termini di un mondo che nella vita quotidiana semplicemente non esiste. E la scienza non sarà più un sistema stabile di verità riguardo le sostanze e i loro attributi, ma diventerà un sistema per rispondere a ‘problemi’ relativi alle relazioni tra grandezze osservabili, diventerà un metodo: un’idea che serpeggia nel cinquecento e che poi caratterizzerà Descartes. Tre secoli dopo Hilbert sosterrà che fin quando esisteranno problemi matematici la matematica sarà una scienza viva. Ogni fenomeno reale sarà l’effetto di numerosissime relazioni causali scritte in forma algebrica, e la cui misura è possibile solo in laboratorio: solo in un ambiente artificiale è infatti possibile dipanare la matassa delle innumervoli leggi naturali che regolano la realtà, isolandole. E’ questa la distanza tra la antica esperienza (naturale e qualitativa) ed il moderno esperimento (artificiale e quantitativo). Ed è questa la stessa logica che sovrintende alla idea di macchina, anch’essa il luogo artificiale in cui si cerca di semplificare il sistema delle cause (eliminando gli attriti, misurando esattamente le dimensioni, garantendo l’invarianza delle condizioni e dei materiali, etc.) per ottenere tutti e soli gli effetti voluti. La matematica non è più ‘appiccicata’ alle cose sulla superficie del mondo ma giace nella sua penombra, solo indirettamente e approssimativamente da noi percepibile e utilizzabile, e per questo non avrà più senso chiedersi se il rapporto tra i periodi di rivoluzione dei pianeti sia commensurabile o no. La nuova ‘dislocazione’ della matematica avrà effetti epocali: gli stessi aspetti estetici della musica, che fino al seicento hanno carattere matematico ed oggettivo, entro il settecento saranno ormai del tutto non quantitativi e soggettivi, mentre la matematica sarà solo nelle equazioni differenziali, la ‘forma impercepibile’ delle leggi fisiche delle onde sonore. Ed è questo sottile mutamento a rendere possibile la nascita di una teoria della probabilità, una ‘scienza del caso’ che apparirà quasi all’improvviso verso la metà del Seicento in autori quali Fermat, Pascal, Huygens. Infatti in un mondo di catene causali deterministiche il caso è solo una mancanza soggettiva di conoscenza e dell’ignoranza non può esservi una scienza. Ma in un mondo in cui ogni evento è effetto di innumerevoli causalità naturali i cui effetti si sommano, ed in cui la scienza può solo cercare di isolarne alcune per prevederne il divenire, si può costruire una scienza degli effetti minori trascurati e imprevedibili, degli innumerevoli ‘mondi possibili’ che in ogni istante si aprono davanti al presente. La transizione fra queste due diverse ‘collocazioni’ della matematica domina i primi secoli dell’era moderna, l’alba della Rivoluzione Scientifica. LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA: GALILEO 70 Col XVII secolo si apre una stagione di trionfi per la scienza moderna e per la matematica che ne è il cuore. Il mutamento è tanto profondo che è invalsa l’abitudine di parlare di una autentica “rivoluzione scientifica”, atto di nascita della scienza moderna. La Rivoluzione Scientifica è un processo complesso, ma oggi spesso è descritta nei libri di storia della scienza come il vestito di Arlecchino, il generico effetto di una zuppa di ‘fattori’ diversi, sociali, economici, tecnologici, culturali, filosofici, religiosi, etc. C’è invece un filo rosso che la percorre tutta, e tale filo è proprio il nuovo ‘luogo’ della matematica, descritto nelle pagine precedenti. Ed è la meccanica il centro di questa nuova collocazione, anzi direi l’idea stessa di macchina (e di esperimento) è al centro della riflessione per tutto il seicento. Il pensiero aristotelico era una ‘totalità’ in cui i diversi aspetti si tenevano insieme; ragion per cui nonostante i dubbi e le critiche cui erano stati sottoposti quasi tutti i suoi caposaldi poteva crollare solo ‘tutto insieme’, e questo non accadde fino al seicento, quando Galileo e Descartes smantellarono praticamente tutto l’edificio aristotelico. Alla base di questo mutamento ci sono alcune novità che vanno sottolineate: - il ‘divenire’ (e quindi il moto) viene inserito nell’‘essere’ e cessa di essergli opposto, e così cessa di essere sostanzialmente una contraddizione impermeabile alla conoscenza o un segno di imperfezione. Le dottrine tardo-medievali considerano ancora il moto una sorta di ‘qualità’ delle sostanze ma la "quiete" tende a divenire un valore particolare (nullo) del moto, la "somma tardità" in Galileo, e non il suo opposto, così come lo zero è un numero particolare e non l’assenza del numero, all'interno di una idea di continuità che si estende al di là della semplice grandezza geometrica. La sintassi della opposizione polare basata sulla negazione viene sostituita dalla sintassi della progressiva coincidenza di grandezza e numero, basati su uguale, maggiore, minore. E sarà come numero "variabile" che il 'divenire' aprirà la strada alla nuova scienza fisicamatematica. - la filosofia aristotelica era basata sugli oggetti individuali la cui caratterizzazione doveva dare conto della evoluzione. Era un pensiero di ‘sostanze’ ed ‘accidenti’ tipicamente incapace di trattare i concetti di tipo ‘relazionale’ e ‘funzionale’. Essendo allora il moto connesso a qualche sostanza non poteva essere relativo, né aveva senso parlare di composizione di moti qualitativamente differenti. Questa difficoltà comincia a svanire solo con la fine della Scolastica e crolla con Galileo. Tuttavia, fino alla metà del settecento non compare alcuna frattura tra fisicamatematica e filosofia: Galileo vorrà essere nominato ‘primo filosofo e matematico’, il capolavoro di Newton sarà il Philosophiae Naturalis Principa Mathematica, che il recensore sul Journal des Sçavans, osservando come lo studio newtoniano delle forze fosse matematico e l’attrazione fosse da un ‘punto’ inesistente nella realtà e non da un ‘corpo’ reale, definirà “un’opera di meccanica ma non di fisica”, intesa come filosofia naturale. In realtà, con le eccezioni di fisici ‘puri’ come Galileo e Huygens, saranno praticamente sempre princìpi di natura metafisica e teologica alla base delle leggi fisiche, da Descartes e Kepler a Leibniz e Newton. - la connessione immediata tra realtà e conoscenza, tipica della Antichità, rimane, ma muta lentamente il 'linguaggio di rappresentazione': dal classico ‘lessico teoretico’ di Aristotele si passa ad un linguaggio matematico, dapprima geometrico e poi algebrico, che viene considerato del tutto omogeneo alla realtà naturale e unico strumento per superare le discrepanze tra fenomeni soggetti al mutamento e leggi scientifiche immutabili e necessarie, per costruire una "scienza" a partire dall’esperimento. Di questo spostamento fa parte il rifiuto della 'logica' identificata con il sillogismo scolastico ed in quanto tale da un lato legata ad una 'esperienza comune' opposta al nuovo 'esperimento scientifico', dall'altro di natura puramente verbale: "insegnarvi delle parole, ma non delle verità, che son cose" (Dialogo sui massimi sistemi, 242): A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che insegni a trovare i discorsi e le 71 dimostrazioni concludenti, ciò veramente (Discorsi intorno a due nove scienze, 707) non credo io Il metodo cartesiano e l' ars inveniendi di Leibniz manifestano così l'esigenza non di tecniche di 'prova' quanto invece di strumenti di 'scoperta' delle leggi naturali. - Anche la incompatibilità tra matematica e fisica tipica dell'Aristotelismo tende a svanire. Il personaggio aristotelico inventato da Galileo, Simplicio, tende a contrapporre la tangenza di una retta ad un cerchio in geometria, laddove si realizza in un singolo punto, e nella realtà fisica, dove si verifica in un intervallo. Galileo/Salviati fa notare che è ancora più difficile in realtà trovare due corpi che si tocchino su una intera superficie che su un singolo punto. - Il mondo 'mentale' acquista una crescente autonomia e si configura sempre più come un mondo di 'modelli meccanici'. Di questa evoluzione è traccia lo sviluppo, notevole in Galileo, degli "esperimenti mentali". Tra questi quello famoso che porta alla conclusione delle indipendenza della accelerazione di gravità dal peso: consideriamo due oggetti che cadono separati e poi collegati con una corda; non è pensabile che questo legame muti sostanzialmente il loro moto pur essendo il nuovo oggetto dotato di un peso somma dei due pesi iniziali. Qui si nota come nel mondo mentale galileano le proprietà dinamiche siano "analitiche", agenti cioè sui singoli elementi indipendentemente, senza che in questa azione entrino fattori dovuti alla "totalità". - La meccanica si caratterizza come disciplina connessa alla geometria più che come parte della fisica. E vengono analizzate solo le proprietà meccaniche quantificabili: grandezza, figura, numero, movimento (qualità primarie per Boyle e Locke), considerando secondarie le altre, non quantificabili, che invece nella fisica aristotelica erano quelle principalmente caratterizzanti le sostanze (colore, essenza, calore, umidità, potenzialità). Essa era una disciplina speciale, non solo una scientia media, intermedia tra matematica e fisica (che restava ancora sostanzialmente qualitativa), come l’astronomia e la musica, ma anche il terreno di una mediazione inedita tra scienza e tecnica. Vi è assoluta continuità tra meccanica e geometria, scriverà Newton: “il metodo è derivato immediatamente dalla natura stessa” [de methodis], fluenti e flussioni “avevano luogo nella realtà della natura fisica”. Quella geometrica non è una ‘rappresentazione’, ma una immagine immediata e fedele di una realtà non percepibile se non per via sperimentale e non esprimibile che geometricamente. Per Newton non è più la meccanica una scienza mista subordinata alla geometria, ma è la geometria una forma di meccanica, in quanto la prima si attua tramite le operazioni meccaniche di tracciare linee e costruire figure e la seconda in più ha il tracciamento di forze e moti. - i ‘segni’ estendono la loro influenza oltre il commercio e la scrittura, cominciando ad investire anche la produzione. Gli artigiani e gli ingegneri impegnati nelle grandi opere idrauliche, fortezze, cattedrali usano principi di statica soprattutto rinverdendo la tradizione archimedea. Progressivamente l’‘esperienza comune’ diventa l’‘esperimento’, progettato tramite segni e con risultati quantitativi, ‘misure’ e quindi ‘segni’, e, prima di essere realizzato in ‘laboratorio’, sarà realizzato nelle ‘officine’ (i due ambienti sono inizialmente quasi indistinguibili, ad esempio per gli alchimisti). Così anche distinzioni aristoteliche, chiarissime all'interno della ‘esperienza’, quale la opposizione tra moto naturale e violento, perdono di senso nell'ottica dell'’esperimento’. Ma ancora fino al XVI secolo la tradizione sperimentale e quella matematica restano abbastanza indipendenti: un grande sperimentatore come William Gilbert e il teorico dello sperimentalismo Francis Bacon ignorano la matematica: già Ockham aveva capito che la quantità era estranea alla descrizione empirica della realtà comune. E’ col XVII secolo che i due filoni tendono a fondersi. In Stevin il legame è esplicito: le osservazioni sperimentali (in astronomia, alchimia, medicina) devono essere fatte da molte persone in molti luoghi diversi, e i risultati devono essere confrontabili. A questo fine serve una lingua comune: il greco, meglio ancora il fiammingo, ma 72 l’ordine migliore di presentazione, quello che diventerà canonico, si ha con la matematica, linguaggio comune delle osservazioni e delle leggi. Archimede aveva usato la statica per sviluppare la geometria, e aveva anche, con Apollonio ed altri, cercato di usare il moto per dare soluzioni ai problemi irresolubili con riga e compasso (spirale). Tuttavia le sue idee geometriche e statiche erano state applicate da lui anche per scopi pratici. In Grecia la matematica studiava enti immutabili, e la meccanica era solo un punto di partenza o un ausilio da abbandonare per giungere a vera conoscenza. In Galileo l’’essere’ è invece oggetto della meccanica e la matematica ne è lo strumento conoscitivo principe, assieme all’esperimento. Tuttavia in Galileo compaiono pochissimi numeri, mentre vi sono molte figure illustrate con proposizioni di stampo geometrico: in questo Galileo è un ‘rinascimentale’, al di quà della riduzione sintattica e del nuovo ruolo dei segni che verrà realizzato dall’algebra moderna: La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara ad intendere la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche... (Il Saggiatore) L’universo è un libro matematico, e quello che c’è scritto in caratteri geometrici è la ‘filosofia naturale’: Galileo non dice l’universo è ‘descritto matematicamente’ nel libro (della scienza) o le leggi naturali dell’universo ‘sono scritte matematicamente’ in un libro. Tra la matematica, la fisica e il mondo c’è lo stesso rapporto che c’è tra i caratteri, il testo e il libro. La matematica di Galileo è quindi ancora sostanzialmente immanente, ma gli enti matematici non sono più gli attributi reali ed immediati delle cose, sono invece la descrizione geometrica della realtà sottostante ignota, di cui la realtà immediata comincia ad essere ormai solo la manifestazione superficiale: il ‘peso’ è il fenomeno di una ‘gravità’ sulla cui natura Galileo non si pronuncia, ma della quale descrive la struttura matematica. Le differenze tra matematica e realtà non sono più dovute alla presenza della materia che perturba le pure forme geometriche, ma al fatto che diversi aspetti geometrici descrivono diverse causalità, e la realtà percepita ne è la somma. I pianeti allora, con tutte le loro irregolarità mostrate dal telescopio, sono corpi geometrici a tutti gli effetti, quanto la più perfetta delle sfere. Per Galileo la matematica era la ‘geometria’, poichè fino all’ottocento la matematica era centrata sulla geometria e l’aritmetica svolgeva un ruolo marginale, mentre quella formulazione di funzioni per via simbolica che noi chiamiamo solitamente ‘algebra’ prima di Descartes era sostanzialmente assente e dopo Descartes trovava il suo senso solo nella geometria analitica. Il linguaggio è quasi sempre il volgare. Particolarmente significativo è il superamento della dicotomia essere/non-essere, non solo nella idea di quiete/moto (ad esempio rifiutando l’obiezione avanzata al cannocchiale secondo la quale avrebbe trasformato oggetti invisibili in visibili, trasformando il non essere in essere). La velocità inoltre non è ancora esplicitamente un rapporto tra spazio e tempo, si possono solo fare rapporti tra grandezze omogenee, secondo la tradizione euclidea. Tuttavia questa rappresentazione, quando applicabile, è assolutamente certa, "così assoluta certezza, quanto se n'abbia l'istessa natura": di queste conoscenze Dio ne conosce di più, le conosce per semplice intuito e non "con discorsi e con passaggi", ma non per questo le sue sono più certe. La continuità del moto è forse il problema matematico più evidente in Galileo. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo ne osserva i caratteri matematici: nel moto di un grave lanciato verso l’alto è evidente che ad un certo punto esso si ferma e poi 73 comincia a cadere. Per quanto tempo si ferma? Per un solo istante? E nell’istante successivo alla quiete con che velocità si muove? Simplicio trova difficoltà ad accettare che un oggetto che cade “passi per tutti i gradi di velocità inferiori a qualsivoglia grado di velocità”, “senza restar pure un momento stazionario”. Come è possibile concepire un passaggio continuo dalla quiete al movimento, dal nulla al qualcosa, dal non essere all’essere, passando per infiniti gradi di velocità: si intravede l’idea di velocità nell’istante e quindi si sentono i paradossi di Zenone, tanto l’Achille quanto la freccia. Il grave passa invece per tutti i gradi di velocità: Salviati spiega che il passaggio avviene “senza dimorare in veruno”, dando così realtà fisica all'istante e la quiete, “somma tardità” viene così immersa nel moto. Questo è un passaggio cruciale: moto e quiete cessano di essere opposti, e la quiete diviene un particolare moto. Questo si ritroverà confermato in Descartes; in Leibniz l’omogeneità di moto e quiete caratterizzerà la possibile mutua trasformazione ‘continua’. a a n s n s fig.18 E’ questa l’idea cruciale, più che la legge del moto per cui lo spazio percorso dal grave cresce col quadrato del tempo. Occorre ricordare che Galileo non conosce il ‘numero reale’ ed alle spalle ha una tradizione in cui la velocità cresceva di un gradus alla volta. Lo zero non esiste, al suo posto c’è il non gradus, ma non è solo un problema di termini, semplicemente non c’è un numero zero che separi i positivi dai negativi, come un punto su una retta la divide in due semirette. Caratteristico di questa difficoltà è un diagramma (a sinistra in fig.18) in cui Galileo illustra il problema con un intervallo ns che si muove nella direzione della freccia sino ad annullarsi nel vertice a, che si presenta come una sorta di limite, passando con continuità per tutti i valori intermedi. La fig.18-destra in Galileo non esiste, non può esistere: in essa a sarebbe lo 0 che divide positivi e negativi. Quello che Galileo concepisce è una sorta di processo di rallentamento al limite dalle grandezze finite (di grado in grado?) fino al non gradus: la nuova idea di ‘numero’ basata sul numero reale richiederà tempo per affermarsi del tutto. Riguardo all’infinito Galileo conserva la tesi tradizionale secondo la quale: “...dell’infinito una parte non è maggiore dell’altra”, ma parla ormai esplicitamente di un infinito attuale. Anche sui concetti geometrici che saranno cruciali per la nascita del calcolo infinitesimale (come la tangente), Galileo non ha nessun timore nel parlare dell'infinito e dei limiti, anche se in senso ovviamente ancora solo intuitivo. 74 Nei Discorsi intorno a due nuove scienze egli analizza l’esperimento mentale della ‘rota Aristotelis’, sostituendo un esagono al posto della ruota e scoprendo così che se rotola la figura maggiore, la minore deve fare delle specie di salti. Se i lati sono mille essa è “interrottamente composta di mille particelle uguali a i suoi mille lati con l’interposizione di mille spazi vacui”, quando il poligono diventa un cerchio, quello maggiore ha infiniti lati e quello minore ha i lati e i vacui infiniti, in tutti i casi ‘non quanti’, cioè inestesi. Vengono rifiutati gli ‘strascicamenti’ perchè essi sarebbero infiniti e quindi realizzerebbero una linea infinita. Occorre immaginare al limite "i lati non son quanti, ma bene infiniti, così gli interposti vacui non son quanti, ma infiniti", e la linea va immaginata "risoluta in parti non quante, cioè nei suoi infiniti indivisibili,… distratta in immenso senza l'interposizione di spazi vacui quanti, ma sì bene d'infiniti indivisibili vacui", la ‘condensazione e rarefazzione’ si traduce in “infiniti indivisibili ritiramenti” nella linea disegnata dalla figura maggiore. E questa di Galileo è l’unica caratterizzazione ‘geometrica’ non intuitiva Fig.19 del concetto di continuità che si trova nella storia della matematica: nell’antichità il concetto era fisico e qualitativo, nell’era moderna esso diventerà un concetto aritmetico (fig.19): l'idea di continuità non riesce ancora a trovare una espressione credibile nella fisica rinascimentale. Allo stesso modo si confrontano due linee: entrambe hanno infiniti punti pur essendo di diversa lunghezza. Difficoltà ottenute “dandogli quelli attributi che noi diamo alle cose finite e terminate”. Poi c’è l’esempio degli insiemi degli interi e dei quadrati degli interi, che si possono porre in corrispondenza biunivoca pur essendo il secondo sottoinsieme proprio del primo: “gli attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo negl’infiniti”. “Le parti quante nel continuo terminato... non esser nè finite nè infinite”. Poi fa un altro esempio: quello del cerchio che cresce e si trasforma in una retta da un lato, in un punto dall’altro. Di fronte a quello che Leibniz chiamerà il "labirinto del continuo" appare ragionevole la antica sfiducia aristotelica sulla applicabilità della matematica alle cose fisiche, come commentava Simplicio obiettando che “son cose matematiche, astratte e separate dalla materia sensibile...applicate alle materie fisiche e naturali non camminerebbero secondo coteste regole”. Simplicio riprendeva argomenti protagorei per distinguere il cerchio matematico da quello reale, ma Galileo rispondeva che la sfera o il piano reali erano sì irregolari ma forme geometriche non meno ‘precise’ del cerchio o del piano matematici: era a caccia di leggi matematiche reali come sostanza del reale, anzi per lui proprio del non matematico era l’essere soggettivo, e avvalorava la tesi di enti composti di infiniti elementi indivisibili, anche se era acutamente consapevole dei rischi che si correvano nel concludere con la realizzazione di processi attualmente infiniti: appare in lui una duplicità tra l'aspetto dinamico, il processo potenzialmente infinito di suddivisione, e l'aspetto statico, l'infinito attuale, il limite del processo. 75 C’è l’esempio particolarmente fascinoso della ‘scodella’ e ‘cono’ in cui “la circonferenza di un cerchio immenso possa chiamarsi uguale a un sol punto”, in quanto allo stesso tempo bordo A O N N C L B P F E Fig. 20 della scodella e vertice del cono. (Discorsi intorno a due nuove scienze, 598); in fig.20: il semicerchio AFB ruotando intorno all'asse FC descrive una semisfera, il triangolo CDE descrive un cono, il rettangolo ABED un cilindro. Si vede, per ogni punto P sull'asse, con semplici calcoli che l'area del settore circolare formato nella rotazione da ON è uguale all'area del cerchio di raggio PL. Questa relazione vale per ogni P, e in particolare per C, laddove il settore circolare diviene una circonferenza e il cerchio diventa un punto Lo stesso principio di inerzia nasce dalla completa liceità, anzi dalla fertilità scientifica, dell'idea di "infinito". Galileo vi arriva infatti immaginando un piano inclinato la cui inclinazione, diventando infinita, lo rende piano orizzontale, e soltanto su tale piano 'ideale' il principio si manifesta. Ed è solo a questo limite all'infinito che il moto, conservandosi, finalmente passa dal regno del divenire e della contraddizione nel regno dell'essere e della scienza. L'infinito è il luogo in cui si rompono le opposizioni aristoteliche, così che un cerchio di raggio crescente, all''infinito' diventa una retta. Tuttavia, anche qui, nelle possibilità di una trattazione matematica, l'infinito resta limitato alla sua manifestazione potenziale e soprattutto 'cinematica', carattere questo che conserverà fino all'Ottocento, ma già ora l'infinito attuale è 'dicibile', anche se ad esso non si possono applicare concetti e proprietà delle quantità finite. Per trattare il continuo al di fuori dei vincoli aristotelici Galileo, alla questione della composizione del continuo, cui gli Aristotelici rispondevano classicamente esservi parti finite in atto, infinite in potenza, risponde: non esser né finite né infinite… tra le finite e le infinite ci sia un terzo medio termine, che è rispondere ad ogni segnato numero (Discorsi intorno a due nove scienze, 607) LA “RIVOLUZIONE SCIENTIFICA”: L’ALGEBRA Nel Seicento muta anche il sistema delle istituzioni scientifiche: tramonta il sistema delle scuole d’abbaco e le università diventano sempre più ininfluenti (Galileo e Newton saranno inizialmente universitari, ma lasceranno le università per altri incarichi). Il dibattito culturale si trasferisce nelle Accademie che fioriscono ovunque nel seicento, le quali sono poi la punta dell’iceberg di una intensa corrispondenza interpersonale tra i principali uomini di scienza. 76 Rispetto alla tradizione medievale vi è una svolta radicale soprattutto sui fondamenti della matematica, anche se i successi pratici metteranno un po’ in ombra tali aspetti fondamentali, mentre la nuova fisica si fonda rielaborando temi di filosofia naturale. Un primo dato importante che si riscontra da Descartes a Newton è l’idea diffusa che la conoscenza degli enti matematici proceda direttamente dalla osservazione del reale, quasi naturalmente, tramite un corretto metodo scientifico. Per Galileo il linguaggio matematico è quello del libro della natura, per Descartes basta affidarsi alle idee “chiare e distinte”, per Newton le nozioni del calcolo appaiono quasi immediate dalla osservazione scientifica. In Descartes le idee matematiche appaiono praticamente innate e organicamente legate alla immediata percezione del cogito, in Leibniz sono derivare immediatamente dai principi logici in quanto sostanzialmente analitiche, tautologie, e quindi ancora una volta immediate. Strano, poiché tali enti non sono più attributi della conoscenza comune, numeri e figure, ma enti strani, non percepibili nella realtà quotidiana: segni algebrici, serie infinite, numeri reali, derivate e integrali, equazioni e funzioni. Così tanto il problema ontologico quanto quello epistemologico si riducono al solo problema metodologico. E' noto che la geometria analitica di Descartes segna un nuovo rapporto tra algebra e geometria, tra una nuova notazione e la tecnica delle coordinate geometriche, sviluppatesi nei secoli precedenti con saltuarie mutue connessioni, ma che solo in Descartes troveranno la struttura di un linguaggio, destinato a segnare la storia della scienza moderna. Sarebbe tuttavia impreciso dire semplicemente che la geometria analitica segna l'applicazione dell'algebra alla geometria, poiché proprio della ‘trasfigurazione’ dell’algebra stiamo parlando. Sappiamo che algebra e geometria teoretica provenivano dalle due anime diverse della matematica greca: l'algebra discendeva dalla matematica pratica di origine babilonese, preservata e sviluppata dagli algebristi arabi ed italiani nel Medio Evo nella teoria della risoluzione delle equazioni, sempre con un doppio approccio, da un lato puramente sintattico dall'altro tramite le tecniche dell'antica aritmogeometria. La geometria era rifiorita invece con le nuove edizioni di Euclide, Archimede, Apollonio, Pappo. I suoi temi più dibattuti erano centrati sui 'loci' e sul calcolo di aree e volumi, ed anche la Geometrie cartesiana parte da un problema relativo ad un 'locus', studiato da Pappo. In questa nuova sintesi l'"incognita", numero ignoto nella tradizione algebrica, diventava la “grandezza generica” costitutiva del ‘locus’ e poi la "variabile", punto che 'genera' la linea. La "proprietà" legata allo studio dei 'luoghi' geometrici doveva diventare la "equazione" algebrica. Il "punto" della curva doveva diventare la coppia di "coordinate", numeri reali. Questa novità appare in Francia all’inizio del Seicento, e Viete, Fermat, Descartes hanno radici culturali del tutto diverse dagli algebristi italiani. Questi avevano una formazione matematica e meccanica, spesso molto pratica, e talora erano collegati a facoltà come medicina. I francesi invece hanno una formazione giuridico-retorica e filosofica, e sono amateurs della matematica. Il bagaglio tecnico da cui partono italiani e francesi non è molto diverso, ma c’è tra di essi una grande differenza: la notazione algebrica degli italiani si trasforma nei francesi in un linguaggio algebrico. Per la prima volta nella storia la matematica si dota di un suo autonomo linguaggio simbolico (la costruzione geometrica era stata solo una presentazione iconica ed il lessico euclideo era interno al linguaggio naturale). Vediamo come cambia l’espressione di una equazione dalla metà del cinquecento alla Geometrie di Descartes (1637). Erano già comuni i simboli per le operazioni aritmetiche, in aggiunta Bombelli scriveva un’equazione come “agguagliasi 13+27 a 62 ” Viete invece scrive “aggiungere Z a A piano/B, la somma sarà (A piano) + (Z in B)” 77 B Descartes infine scriverà “ z2 a z + b b”. Bombelli ha una notazione in cui può esprimere i polinomi ( è la incognita) e poi una parola (‘agguagliasi… a…’) per esprimere l’equazione. Viete estende la notazione per esprimere attributi dei termini (‘piano’ esprime che la grandezza A è bidimensionale) ed ha lettere tanto per le costanti che per le incognite, ma sarà Descartes a fare della equazione una ‘proposizione’ in un nuovo linguaggio totalmente simbolico ( è il segno di uguaglianza). Cambia anche il ruolo della x, la cosa degli algebristi rinascimentali. Per questi essa era ancora semplicemente la grandezza incognita, tra gli algebristi francesi essa diventerà anche la grandezza generica, con cui rappresentare curve e luoghi geometrici, e i suoi quadrati e cubi diventeranno ‘potenze’. Più tardi, quando la meccanica imporrà il trattamento geometrico del divenire, diventerà anche la grandezza variabile per esprimere le grandezze fisiche. Sempre più evidente l’isomorfismo tra l’algebra geometrica e quella simbolica. In Viete domina l’equivalenza tra diversi linguaggi: quello geometrico, quello algebrico, quello meccanico, quello delle proporzioni, senza una gerarchia. Poi apparirà sempre più netta la centralità di quello simbolico, la quale appare anche nello sviluppo del concetto di ‘numero’: il ‘numero reale’ già apparso nella generalizzazione degli algoritmi numerici e nella notazione decimale di Stevin. Ora il simbolo algebrico, sin da Diofanto considerato un simbolo aritmetico, appare rappresentare una ‘grandezza’ ed il ‘numero reale’ appare come la sua istanziazione metrica. Ma alcune equazioni mostrano soluzioni formali che non paiono ‘grandezze’. In primo luogo soluzioni negative, e poi soprattutto, con l’autonomizzarsi delle tecniche di manipolazione algebrica, appare anche l’idea di ‘numero immaginario’. Questa estensione si lega all’intuizione, che verrà dimostrata successivamente da Gauss, che una equazione di n-esimo grado ammetta n radici, anche se non tutte distinte. Ma esistevano invece equazioni di secondo grado senza soluzioni o di terzo con una sola soluzione, e già Rafael Bombelli si era accorto che esistevano equazioni di III grado la cui unica soluzione appariva immaginaria, ove soluzione ‘immaginaria’ era la soluzione formale che conteneva la √(-1), il numero immaginario che verrà poi indicato con i, per formare numeri complessi, ottenuti come somma formale di un numero reale e di uno immaginario: a+ib. E soprattutto di poterla mostrare equivalente ad una reale manipolando algebricamente la soluzione che dall’algoritmo appariva complessa. Infatti l’quazione x3 = bx + c ammetteva come soluzione: x= 3 {c/2 + [(c/2)2 – (b/3)3]} + 3 {c/2 - [(c/2)2 – (b/3)3]} la quale per (c/2)2 < (b/3)3 dà una somma di radici di numeri complessi. E tuttavia dalla manipolazione algebrica si otteneva una soluzione reale, e questo in un certo senso mostrava una certa ‘omogeneità’ dei numeri complessi con quelli reali. All'inizio della sua Geometria Descartes introduce l' "unità di misura" e la procedura con cui definire un segmento la cui 'misura' è il prodotto della 'misura' di due segmenti, segnando così la fine della "legge di omogeneità" e l'inizio della natura relazionale dell'idea di 'misura' che quindi assume il carattere di un numero 'adimensionale' di unità di misura 'dimensionali'. Questo viene realizzato con la costruzione già introdotta da Bombelli che sostanzialmente inverte la costruzione dei razionali in Euclide (vedi fig.17(c)). In Aristotele il concetto di "misura" era tout court il numero di unità di misura la cui natura sostanziale implicava la natura sostanziale della misura, ora la misura acquista invece un senso ‘relazionale’. Il crollo dell'impianto 'sostanzialistico' apre anche la strada alla analisi dell'aspetto relazionale di concetti essenziali, quali l'"uguaglianza" o la "causa/effetto" che erano rimasti difficilmente trattabili nella logica aristotelica. E la legge di omogeneità scompare così a livello simbolico ma non semantico, se è vero che per trarre la radice cubica di una espressione come a2 b2 -b, "si deve considerare la prima quantità divisa per l'unità e la seconda moltiplicata due volte per l'unità." 78 L’algebra ed il numero reale segnano la fine della opposizione tra tradizione pratica e teorica, e anche di quella tra geometria/continuo e aritmetica/discreto. Appare una disciplina ‘algebrica’, talora chianata mathesis (o arithmetica) universalis, che tratta delle ‘grandezze’ in generale, indifferentemente aritmetiche o geometriche. Quegli ‘algebristi’ francesi in realtà preferivano definirsi ‘analisti’, poiché si richiamavano alla ‘analisi’ (in contrapposizione alla ‘sintesi’) di cui si è parlato a proposito della matematica greca. Addirittura c’era tra di essi l’impressione di stare riscoprendo tecniche ‘analitiche’, nascoste dai loro antichi autori. Ma in realtà l’antica coppia analisi/sintesi si sovrappone nel seicento da un lato alla distinzione di origine aristotelica tra ‘composizione’ (procedere dall’universale al particolare, secondo l’ordine naturale) e ‘risoluzione’ (procedere dal particolare all’universale, secondo l’ordine della conoscenza), dall’altro alla alternativa tra algebra simbolica e geometrica. L’approccio geometrico appariva quasi sempre sintetico (anche se il tentativo di una analisi geometrica appare in Newton), e quello algebrico sempre analitico. Così che la procedura sintetica non era semplicemente l’inverso di quella analitica, ma talora era la semplice ricostruzione geometrica della soluzione simbolica o una procedura del tutto diversa. In generale più che l’antica opposizione analisi/sintesi trionfa l’idea di Viete di una generale intertraducibilità tra i diversi linguaggi matematici, ed è in realtà quella tra metodi algoritmici simbolici e metodi geometrici l’alternativa principale che appare nella nascita della nuova scienza nel XVII e XVIII secolo. Sia Viete che Descartes fanno riferimento a Pappo, ma il primo per le sue idee metodologiche sulla 'sintesi' e la 'analisi', su 'teoremi' e 'problemi', il secondo per uno specifico, classico problema di ricerca di un "luogo" geometrico. Rappresentando i punti tramite coordinate il nuovo linguaggio assume una autonomia inedita così che è la stessa geometria ad assumere per la prima volta una forma simbolica. La Geometrie di Descartes è quanto di più diverso si possa immaginare dalla geometria di Euclide: niente assiomi e postulati, niente definizioni, niente teoremi. Inizia semplicemente con la descrizione dell’isomorfismo tra operazioni aritmetiche e operazioni geometriche, tra cui il prodotto, poiché occorreva fare si che il prodotto di due intervalli fosse un intervallo e non un rettangolo, e la soluzione di Descartes è proprio quella intuita da Bombelli (fig.13 destra (c)). Bastano questi caratteri (niente struttura assiomatico-deduttiva, niente principio di omogeneità) a confermarci come l’algebra simbolica derivasse dalla tradizione pratica. Ma per Descartes il metodo, e quindi l’algebra, ha un ruolo centrale, e così, diversamente da Viete, questa volta c’è una gerarchia: è la geometria che sempre più deve essere ‘tradotta’ in linguaggio algebrico. Anche quando esplicitamente richiesto, nelle Seconde Obbiezioni, di dare struttura euclidea alle sue Meditationes, la realizzazione di Descartes è solo apparentemente tale: sono esplicitamente elencate in maniera ordinate le stesse "riflessioni" e "considerazioni" presenti nella versione originale, come se la differenza tra il suo metodo e quello euclideo fosse solo quella tra quelle che gli antichi greci chiamavano "analisi" e "sintesi", mentre invece in gioco vi è la sostituzione della semplice deduzione con un metodo. Qui appare la diffidenza, comune a gran parte del pensiero scientifico post-scolastico, verso il processo 'sintetico' della tradizione aristotelica ed euclidea. La svolta è epocale: la scienza non è più un riflesso del mondo, sintetica in quanto dimostrativa, dimostrativa in quanto il sillogismo è l’immagine della relazione di causa/effetto. La scienza è un processo attivo di interrogazione e soluzione di questioni, analitica in quanto sono le questioni a guidare l’indagine. Fermat e Descartes riescono ad associare equazioni a curve, distinguendo le curve geometriche da quelle meccaniche sulla base della esistenza di una singola equazione algebrica tra intervalli che la descrive (così ad esempio la spirale non è geometrica poiché non posso rappresentarla senza coordinare un moto rettilineo con uno circolare). E Descartes classificherà le curve dapprima sulla base di criteri geometrico-meccanici, quali la semplicità della macchina per tracciare la curva, ma alla fine si baserà soprattutto sul grado dell’equazione. 79 Nella geometria nel Seicento francese non c’è solo la ‘analisi’ di Descares e Fermat, un altro capitolo importante è la ‘geometria proiettiva’ di Desargues e Pascal. Essa appare legata ad una doppia origine: la teoria delle sezioni coniche sviluppata nell’antichità e la prospettiva apparsa nell’arte e nell’ingegneria rinascimentale. In entrambi i casi la collocazione del ‘centro di proiezione’ rispetto al ‘piano di proiezione’ modifica la figura ottenuta dalla proiezione (un cerchio diventa un’ellisse, rette parallele diventano convergenti). Ed appare l’esigenza di considerare ciò che nella descrizione del mondo esterno rimane invariante al variare del ‘soggetto che conosce’ e che misura le grandezze, una esigenza che caratterizzerà la geometria moderna nel suo rapporto con le scienze fisiche fino alla teoria della Relatività. E’ in fondo l’antica esigenza che la ‘scienza’ sia intersoggettiva, la stessa per tutti gli esseri razionali. Fig.21 A Desargues si deve un teorema della geometria proiettiva che ha sempre attirato l’attenzione dei matematici: “Se due triangoli sono in prospettiva da un punto, allora i tre punti di intersezione dei lati corrispondenti sono allineati, e viceversa” (fig.21). Il teorema è ovvio nello spazio, nel quale può essere dimostrato facilmente dagli assiomi di incidenza. Nel piano invece stranamente la dimostrazione è più complessa, richiede l’assioma di congruenza tra i triangoli, a meno che non venga ottenuta come semplice proiezione del teorema dallo spazio sul piano. IL RAZIONALISMO E IL NUMERO REALE Caratteristica dell'epoca è la tematizzazione della funzione della mente nella conoscenza, ma diversamente dalle tendenze materialiste, sensiste ed atomiste, quali si riscontrano con Hobbes e Gassendi, in Descartes la mente, sotto le insegne del "pensiero", acquista una autonomia inedita, cessando di avere quel ruolo 'derivato' dai sensi che aveva avuto nella Scolastica: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. A cui Leibniz aggiungerà nisi intellectus ipse. Per Descartes sono in primo luogo l' "io" e le idee di Dio e anima che non sono nei sensi, sono idee innate che derivano direttamente dal 'dubbio' cartesiano. Caratteristico del pensiero cartesiano è poi il dualismo tra estensione e mente. La divisione in parti era tipica dei corpi, assurda per l’anima. Il cogito ergo sum è la via di ingresso alla scoperta del "soggetto" e dell'anima come irriducibili alla pura estensione. E’ la ‘ghiandola pineale’ il luogo ‘ufficiale’ in cui per Descartes si incontravano lo spirituale e il materiale. Tuttavia nella sua matematica questo ruolo di collegamento viene svolto dal segno algebrico: oggetto ‘ideale’ in quanto infinitamente riproducibile in istanze identiche e perfettamente distinguibile, oggetto ‘reale’ nell’essere del tutto manipolabile e reperibile. E’ l’inizio di un processo che culminerà tra XIX e XX secolo nella aritmetizzazione della analisi, nella logica matematica e nella computer science. La continuità contrassegna invece l'essere, nella descrizione spaziale come linguaggio geometrico e rifiuto del vuoto, nella descrizione temporale come differenza rispetto al 'sogno'. Ed è il ruolo cardine dell'estensione intesa come sostanza del reale che garantisce la riducibilità matematica della natura e così la ricostruzione della armonia tra verità ed essere. La geometria cartesiana è il registro sul quale si creerà il concetto di modello geometricomeccanico del reale e che avrà nel settecento una forma sintattica in quelle leggi algebriche della 80 natura che si svilupperanno insieme alla analisi matematica. La grande idea del paradigma di Descartes consisteva proprio nell’identificare l’algebra, oggetto generale della sua ‘mathesis universalis’ a base simbolica, con la sostanza del mondo basata sulla ‘estensione’, e quindi legare algebra e geometria e, nel contempo, geometria e realtà, proponendo un nuovo ‘programma’ complessivo della conoscenza matematica della natura, il primo dopo quello di Pitagora, anche se Descartes non riuscirà ancora a dare forma algebrica alla sua descrizione matematica della realtà. Il meccanicismo richiedeva una riorganizzazione del mondo delle "qualità" che nell'aristotelismo era il centro della fisica e si opponeva al mondo delle "quantità". Erano qualità infatti anche il caldo, il peso e il movimento, quest'ultimo poteva essere solo 'quantità accidentale' in quanto spazio nel quale si è svolto il moto in un certo tempo. La "quantità" tende a comprendere tutti i "sensibili comuni" (poiché non legati ad un singolo organo di senso) della filosofia aristotelica: moto, quiete, numero, figura che verranno ricostruiti, per analogia con l'estensione, come numeri reali e diventeranno gli "attributi primari e oggettivi” della fisica rinascimentale, relegando fuori della fisica gli altri "secondari e soggettivi” come il colore, l'odore, il sapore, etc. Alcuni di questi, come il colore o la temperatura, verranno progressivamente introdotti tra le grandezze quantitative durante lo sviluppo della fisica moderna. La costruzione del "numero reale" è connessa alla nascita della geometria analitica, un'idea che rimase del tutto estranea alla matematica greca ed 'emerse' lentamente nel cuore della matematica e della cultura, o addirittura dell'uomo, medievale. Scriveva Coolidge che L'opinione corrente tra i matematici è che la geometria analitica spuntò con tutte le armi dalla testa di Descartes come Atena da quella di Zeus. 'Proles sine matre creata' è l'espressione pittoresca di Chasles per dire la stessa cosa (History of geometrical methods, 117) Forse l'opinione corrente sarebbe quella della scoperta di qualcosa platonicamente 'esistente in sé', implicita già nella matematica più antica, e semplicemente 'scoperta' con lo sviluppo della scienza europea e del ruolo giocato in essa dalla matematica. Eppure la geometria analitica ha nel suo DNA il segno di una origine non semplicemente 'tecnica': occorre infatti anche ricordarsi che la Geometrie di Descartes appare nel 1637 come 'essai', quasi appendice di quell'opera filosofica ma anche antropologica cruciale per la storia del pensiero europeo moderno che è il Discourse de la methode. Il ‘numero reale’ emerge lentamente in maniera intuitiva come parte intera e sequenza infinita di decimali, che sembra apparire tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo in Stevin e in Descartes, e del quale l'idea di 'approssimazione' numerica di quantità inesprimibili in maniera finita era parte integrante, ma senza trovare una vera sistemazione fino al XIX secolo, ma sempre più ‘presente’ nella pratica del calcolo e dell’algebra. Occorre a questo punto cercare di delineare la nuova forma che il "numero reale" conferisce alla conoscenza scientifica moderna in una evoluzione iniziata nel Rinascimento e completatasi il secolo scorso. Di tale idea qualche segno era già apparso nella matematica greca. Che fosse una grandezza approssimabile con numeri e frazioni (fra 3 1/7 e 3 10/71) è esplicito in Archimede (Misura del Cerchio, 3), anche se non vi è la consapevolezza, che pur si aveva per i rapporti tra grandezze incommensurabili, di una sua 'irrazionalità', meno che mai di una sua 'trascendenza'. Ma la difficoltà a trattare l'”infinito attuale”, che, così come il “punto”, finiva col divenire una 'breccia' aperta all'ingresso della confusione tra essere e non essere nella pura "dottrina dell'essere", rendeva impensabile lo studio matematico del "continuo". Rispetto alla aritmetica greca, soprattutto nella sua ultima forma diofantea, appare il superamento del numero come eidos: non è più un ente astratto, intermedio tra forma ideale e 81 realtà o comunque derivato da quest'ultima nella sua descrizione linguistica comune, ma diventa da un lato un linguaggio di rappresentazione della realtà fisica nella forma della misura, dall'altro, nella sua forma algebrica e simbolica, diventa un "ente" autonomo, ingrediente essenziale dell’algoritmo, manipolabile attraverso regole sintattiche. Quindi l’astrazione non genera la ‘species’ ma il simbolo, la ‘variabile’. E l’estensione in Descartes, per la sua natura simbolica è oggetto dell’algebra, per la sua natura reale è la sostanza del reale e questo ne garantisce la natura 'rappresentativa' e, per così dire, 'condensata' nella funzione di base del processo di misura. E, più che semplici numeri determinati di unità, Stevin tratta illimitate possibilità di combinare cifre per definire regole di calcolo. Così le quantità divengono simboliche, numeri e grandezze coincidono. Il segno non serve solo a memorizzare, ma viene trattato come un numero, oggetto di manipolazione sintattica negli algoritmi di calcolo. Tende a svanire la frattura fra le diverse forme di "grandezza" tipiche della matematica greca (numeri, rapporti, grandezze geometriche anche incommensurabili). Ancora in Stevin (1548-1620) si distinguono numeri aritmetici e geometrici (con dimensione), la stessa distinzione in Viete porta alla legge di omogeneità, la quale scompare solo in Descartes con l’idea della geometria analitica, in cui l’esistenza di una ‘unità’ predeterminata rende tutte le ‘grandezze’ omogenee nel loro carattere simbolico, come visto precedentemente. Anche qui si vede una nuova "contaminazione" tra l'unità numerica ed il continuo geometrico, impensabile nella matematica greca dove i due universi apparivano rigidamente separati tanto che anche gli aspetti 'metrici' degli Elementi avevano sempre un carattere 'non numerico'. Sarà questa infatti l’idea base di “numero reale” da Stevin a Newton fino a Cauchy: il rapporto tra due grandezze omogenee. Il ‘continuo aritmetico’ appare in quegli stessi anni con l’idea del numero reale, un’idea che era stata impensabile fino a pochi decenni prima e che rapidamente ora diventava ovvia, tanto ovvia che nessuno si doveva preoccupare di definirla precisamente prima dell’ottocento. Gran merito per questo si deve a Simon Stevin, tipica figura di quest’epoca di transizione tra cinquecento e seicento. Ingegnere e matematico, come tanti personaggi importanti per la storia della matematica di questi anni, in cui la matematica pratica si sovrappone con le questioni teoricamente più nuove. Altri personaggi simili (Bürgi, Napier) in quegli stessi anni avevano tabulato le funzioni trigonometriche e introdotto (e tabulato) i logaritmi per facilitarne le operazioni. Questa pratica aveva reso familiari gli uomini dell’epoca con numeri indefinitamente ‘lunghi’ in quanto quelle tavole, diventando sempre più precise, utilizzavano un numero crescente di cifre significative. Erano in genere approssimazioni e l’uso pratico di rapporti irrazionali aveva reso coscienti che esistevano ‘grandezze’ la cui misura numerica esatta non si poteva esprimere finitamente, ma la cui approssimazione numerica si poteva dare con qualsiasi precisione desiderata. A questo punto Stevin introduce la notazione decimale potenzialmente illimitata, praticamente la stessa che usiamo oggi. Stevin usava come pratica computazionale le frazioni decimali e realizzava l’esistenza di frazioni, come 1/3, la cui scrittura richiede infinite cifre, con un uso notazionale che scontava la sostanziale accettabilità dell'infinito potenziale, e John Napier introdusse la moderna notazione decimale con il punto separatore. La rappresentazione del numero reale è basata sul sistema decimale e posizionale, praticamente superiore a quello greco e a quelli degli altri popoli della antichità. Appaiono così numeri approssimati e potenzialmente infiniti: dopo che la trigonometria era stata sviluppata da Johannes Mueller Regiomontanus (XV secolo), i logaritmi sono scoperti da John Napier (1614), il regolo calcolatore inventato da William Oughtred (1622). Nella prima metà del XVII secolo la nostra notazione decimale e le relative tecniche computazionali potevano dirsi ormai completate. Occorre qui anche ricordare che nella matematica greca le frazioni, quando non fossero grandezze numeriche sessagesimali, erano per così dire 'schizoidi' tra una caratterizzazione geometrica come "rapporto" di natura non numerica ed una caratterizzazione numerica la cui base 82 computazionale era ancora quella della tradizione pratica, in cui i calcoli con le frazioni richiedevano uso di procedure e notazioni varie e prive di basi scientifiche. Ma quello che più colpisce è che questa innovazione nella notazione si affianca alla intuizione del continuo numerico e alla completa scomparsa della opposizione tra continuo e discreto. E’ asserita la "comunanza e similarità…quasi identità" tra grandezza e numero, e di conseguenza i numeri sono strutture continue e non discrete, e quindi non solo le frazioni ma anche gli irrazionali sono numeri. Ad una grandezza continua corrisponde il numero continuo che gli è assegnato… il numero è per la grandezza come l'umidità per l'acqua: penetra come questa in ogni parte dell'acqua; e come ad una acqua continua corrisponde una continua umidità, così ad un numero continuo corrisponde una grandezza continua (L'arithmetique) La sottrazione di un numero coincide con l’addizione di un numero negativo, ed in generale è la possibilità di estendere le "operazioni" sui numeri a permettere l'estensione del concetto di numero. Già Leonardo Fibonacci (inizio XIII secolo) aveva introdotto le frazioni infinite. La rappresentazione dei numeri irrazionali tramite somma di infiniti razionali diventa quasi paradigmatica in Leibniz, che ad essa paragona la conoscenza dei concetti, alcuni dei quali richiedono una analisi infinita e che quindi solo Dio può realizzare compiutamente. L’unità diventa un numero in quanto “la parte è dello stesso materiale” del tutto. Non l’unità, ma lo zero è “il vero e naturale principio”, esso, e non l’unità, è l’analogo del punto geometrico, principio della linea ma non linea (Stevin). L’unità per gli antichi era ‘principio del numero’, indivisibile, per i moderni è grandezza continua, e per gli antichi solo gli interi erano numeri, mentre ora il numero è soprattutto un rapporto, quindi adimensionale, e l’aritmetica è in primo luogo una teoria dei rapporti (Wallis). In Descartes la radice "reale" appare opposta alla grandezza "immaginaria", con una connotazione quindi di 'realismo geometrico' in cui la corrispondenza tra grandezza geometrica e segno numerico non è ancora completa, ma già esplicita nella esigenza della 'linea unitaria' per legare il più possibile enti geometrici e numeri. Il numero reale segna un nuovo rapporto tra continuo e discreto, tra misura e numerazione, e si fondono così quelle due tradizioni, "teoretica" e "pratica", che avevamo riconosciuto lungo tutta la tradizione antica, e questo accade sullo sfondo di una nuova funzione 'intellettuale' della matematica nello sviluppo della società moderna, come patrimonio di ingegneri, artigiani e commercianti. Effetto del superamento della distinzione tra misurare e contare, tra geometria ed aritmetica, è che, con Descartes (1596-1650), la mathesis universalis esclusivamente simbolica coincide con la sostanza del mondo che è “estensione”. Oggetto dell’algebra è una teoria astratta delle proporzioni, algebra e geometria coincidono, ed anche le operazioni aritmetiche corrispondono ad operazioni geometriche. La tradizione cartesiana porta così la geometria a coincidere con la realtà, e la sovrapposizione di geometria e moto (e quindi tempo) a definire la meccanica. Il centro della dottrina è nel concetto di grandezza geometrica e fisica, come risposta al problema ontologico e nella sua traduzione come numero reale e segno algebrico, come base della conoscenza teoretica. In Wallis (1616-1703) appare l’idea che gli oggetti aritmetici abbiano una natura più astratta ed ‘alta’ di quelli geometrici, e che quindi comincia a balenare l'idea che la geometria possa essere subordinata alla aritmetica: il carattere adimensionale dei numeri ne diventerà segno di 'purezza' concettuale coincidente con la loro natura simbolica. D'altro canto tutte le grandezze fisiche sono considerate continue, come conseguenza della fondamentale metafora estensionale, spaziale e 83 meccanica, mentre la loro valutazione è in base a processi di misura, caratterizzati quindi in forma simbolica ed approssimata. Si amplia anche il trattamento formale delle proprietà aritmetiche, ed in Pascal (1623-1662) appare il principio di induzione aritmetica. Il XVII secolo segna una svolta nella struttura del “paradigma sintattico”. Il Rinascimento aveva reso un luogo comune l’idea che il mondo fosse un grande libro i cui segni erano percepibili dall’uomo: prima che i caratteri matematici di Galileo potevano essere i segni alchimistici o magici. Nel XVII secolo l’attenzione si sposta sul linguaggio e sul suo uso per rappresentare la natura, e si aprono subito due diverse ipotesi: da un lato l’idea di un linguaggio puramente ‘convenzionale’ creato allo scopo di rappresentare la realtà, dall’altro l’idea della esistenza di un linguaggio fondamentale, originario, naturalmente strutturato per rappresentare la realtà. La prima tesi si può leggere soprattutto in Hobbes, la seconda caratterizza soprattutto Leibniz. Il "paradigma sintattico" di Descartes si caratterizza anche per il ruolo diverso giocato in esso dal mondo mentale. Un mondo apparso pallidamente in Parmenide e cresciuto nella filosofia greca classica senza mai intaccare l'idea di una scienza basata su una "ontologia in III persona" nella quale non si tematizzava il ruolo della mente e del soggetto. Il "dubbio" ed il "cogito" cartesiano pongono invece il mondo mentale ed il soggetto della conoscenza alla radice della stessa possibilità di una 'scienza'. Dal dubbio è in primo luogo il "soggetto pensante" che emerge come un’isola di terra ferma in un oceano di incertezze, e da esso procede la ricostruzione del triangolo semiotico. In un certo senso il cogito cartesiano recita <se sono ingannato allora esisto: di questo non posso essere ingannato>. Tutta la scienza moderna nasce sotto l'insegna del rifiuto della logica, considerata sterile di fronte al nuovo metodo scientifico basato sull'esperimento e la rappresentazione matematica delle leggi di natura. La certezza di quelle proprietà geometriche (ad esempio del triangolo) che era garantita in passato dalla 'logica', divengono effetto di una "conoscenza chiara e distinta", le cui metafore sono tutte legate alla 'visione' e alla 'luce'. Potremmo dire che il "mondo delle idee" si è reso ormai tanto immediato da potersi caratterizzare come percepibile con gli "occhi della mente". Questo grande sviluppo del 'mondo mentale' sarà alla base di tutto il disinteresse che la scienza moderna porterà verso la logica e di quelle tecniche quali il modello meccanicistico e il Gedanken-Experiment che la caratterizzeranno nei secoli successivi. E daranno alla "geometria" quel surplus di verità e realtà che ne faranno il fondamento della descrizione scientifica anche nella forma della analisi infinitesimale. L'aspetto "metodologico" del cartesianismo rimanda all'abbandono della descrizione della conoscenza come fatto statico a vantaggio di una descrizione del 'processo', guidato da "regole", da un "metodo", che ne garantisce la 'verità'. La I regola recita: "il fine degli studi deve essere di guidare la mente a giudizi sicuri e veri". Questo a sua volta sposta l'attenzione dal 'teorema' al 'problema', dalla 'sintesi' alla 'analisi', dalla 'completezza dell'esposizione' al 'piacere della scoperta', e così l'abbandono della logica classica e dello stile euclideo appare come la punta di un iceberg, alla cui base vi è il passaggio da una "verità" intesa come qualcosa di dato ad una "verità" vista come risultato di un progresso governato da un metodo. Nello schema aristotelico realtà e conoscenza erano facilmente connesse attraverso l'esperienza comune dalla quale l'astrazione ricavava quel mondo di 'forme', nel contempo base della realtà e della scienza, sulle quali si poteva costruire la scienza teoretica per via logica. Questo schema svanisce sotto la critica galileana, e tocca a Descartes ricostruire una connessione armonica tra realtà e conoscenza. L'esperienza comune, l'astrazione e la logica non servono più. Serve un metodo, regole per indirizzare l'indagine a partire dalla esperienza progettata, l'esperimento, e dalla chiarezza ed evidenza delle idee coinvolte, la cui natura intellettuale è nello stesso tempo una natura simbolica. L'idea di esperimento comincia ad assumere la sua 84 connotazione moderna, di "laboratorio", come conseguenza dell'impianto analitico, che richiede sia l'isolamento artificiale del fenomeno, sia la sua riduzione ad elementi gerarchicamente ultimi, sia la sua esplorazione 'combinatoria': Se desideriamo comprendere perfettamente una questione, essa deve essere separata da ogni concetto superfluo, deve essere semplificata il più possibile, e deve essere divisa mediante l'enumerazione in parti che siano le più piccole possibili (Regola XIII). La stessa 'deduzione' ne fa parte, ma non può essere 'insegnata' perché, come l'intuito, deve essere considerata una capacità 'primitiva', ed ogni ulteriore strumento dialettico si rivelerebbe un ostacolo "perché al puro lume della ragione non può essere aggiunto niente che in qualche modo non lo oscuri" (Regola IV) LA PREISTORIA DEL CALCOLO Sempre nella prima metà del XVII secolo riappaiono due antichi problemi geometrici relativi a figure non rettilinee, diffusi soprattutto nel corpus archimedeo: la costruzione della tangente e la quadratura. Sono i problemi che saranno alla base della nascita del calcolo delle derivate e degli integrali. Perché questo accada nella matematica dovrà entrare in gioco il concetto di ‘infinito’, un altro concetto estraneo al mondo comune ma che sarà decisivo per la costruzione del mondo della fisica-matematica. Entrambi i problemi erano centrati sulla idea di continuo e sui relativi processi al limite, in qualche modo legati all'infinito attuale. Non casualmente tali problemi erano rigettati dal 'realismo' dei Sofisti: Protagora non accettava linee dei "geometri", diverse da quelle sensibili, e quindi anche che il circolo potesse toccare la tangente in un punto solo (Metaphysica 997b), mentre Antifonte pensava che aumentando il numero di lati di un poligono iscritto bel cerchio, prima o poi tale poligono sarebbe diventato coincidente con la circonferenza (Physica 185a). Il problema della tangente era presso i Greci un problema esclusivamente geometrico, che doveva divenire problema di calcolo solo con la trattazione matematica della cinematica. Il problema delle aree e dei centri di massa fu invece sin dall'inizio un problema in qualche modo metrico, trattato in genere col metodo di esaustione Tuttavia esistono tracce di un approccio ‘finitista’ ai problemi differenziali in Fermat e Descartes. L’idea di fondo è molto semplice: in problemi ‘estremali’ come la tangente o la ricerca del massimo o minimo accade che più ‘soluzioni’ si identifichino. Ad esempio Descartes si pone il problema della costruzione algebrica della ‘normale’ ad una curva in un punto P (chiaramente equivalente alla costruzione della tangente). Considerando l’intersezione tra la curva ed un cerchio passante per P è chiaro che se il centro del cerchio è sulla normale per P alla curva, allora P è una soluzione multipla (fig.22, destra). Fermat invece si pone il problema del massimo di una funzione, per esempio bz2 – z3 (usiamo anacronisticamente il termine ‘funzione’, che era un’idea non ancora emersa, la formula era solo una ‘cosa’ attaccata ad una curva per sintetizzarne aspetti di natura aritmetica). Fermat considera l’equazione bz2 – z3 = c (vedi fig.22 sinistra), siano x e y le radici: Fermat osserva che per c troppo grande non ci sono soluzioni e che per c abbastanza piccolo ce ne sono due, ma che per un valore di c massimo della funzione le radici della equazione coincidono e quindi x = y. Quindi bx2 – by2 = x3 – y3. Da qui, dividendo per x – y, consegue bx + by = x2 + xy + y2 , e uguagliando le radici 2/3 b = x, valore del massimo. Da notare che, sebbene sia facile tradurre queste procedure in termini di calcolo infinitesimale, esse siano in realtà procedure finite senza bisogno di introdurre limiti o infinitesimi. 85 c“ F(z)=b z2 – z3 3 4 b /27 p p c’ z 2b/3 b fig.22 Gli infinitesimi/indivisibili appaiono invece da subito nell’altra questione: quella delle quadrature. L’idea è quella di calcolare un’area come una somma infinita di elementi o omogenei (una superficie somma di rettangolini) o eterogenei (una superficie somma di segmenti). La seconda soluzione appare ad esempio nell’opera di Cavalieri, la prima nell’opera di Keplero o di Pascal. C’è la vaga impressione che i due approcci possano coincidere, ma la vaga idea di un principio di continuità che porti un numero finito di rettangolini sempre più stretti a diventare infiniti segmenti ancora ha un senso troppo geometrico per fondare l’idea di limite. Il linguaggio degli ‘indivisibili’ appare geometricamente in Cavalieri, Wallis lo tradurrà in termini aritmetici e riterrà giustificato sfumare la distinzione tra infinitesimi e indivisibili finiti, considerando nella somma gli indivisibili di dimensione inferiore come infinitesimi omogenei. Il simbolo ¶ serve tanto a contare il numero n di elementi da sommare, quanto la loro dimensione 1/¶, la cui somma diventa finita quando n ¶. L’idea di limite è in fondo estranea alla dottrina degli indivisibili, la quale apparirà ancora un po’ in Leibniz ma verrà poi sostanzialmente abbandonata. Gli eventuali ‘indivisibili’ che costituivano il continuo potevano essere omogenei (cioè intervalli per intervalli, superfici per superfici, etc.) secondo una tradizione vagamente atomista, o eterogenei (cioè punti per intervalli, intervalli per superfici, etc.) secondo una tradizione vagamente platonico-archimedea, in tal caso magari generabili dal moto di un indivisibile (un punto in moto genera la linea, etc.). La tesi atomista si scontrava con l’incommensurabilità, quella archimedea coi paradossi legati alla esistenza reale dei punti. Celebre ad esempio il paradosso della rota Aristotelis (fig.12, destra), già noto ad Erone: due cerchi solidali e concentrici rotolano finchè la ruota esterna ha percorso un’intera circonferenza. I punti più bassi delle due ruote percorrono entrambi un intervallo uguale alla circonferenza maggiore, ritornando nelle stesse condizioni di partenza, pur essendo le circonferenze di diversa lunghezza. Su questi temi si nota il mutamento che il pensiero di Ockham e Buridano impone alla matematica: svanisce il problema se i punti esistano o meno, poiché la scienza è fatta di proposizioni ed i punti sono solo termini che possono entrare, magari come ipotesi, in determinate proposizioni, e questa loro esistenza ‘ipotetica’, secundum imaginationem, è sicuramente lecita. Anche perchè, diversamente da altri enti solo ‘immaginabili’ (come chimere e grifoni), tale esistenza è utile per la ragione. Fra Descartes e Newton la distanza è notevole. Descartes segna il trionfo della filosofia meccanica, alla cui base appaiono principi di carattere metafisico, ed il mondo descritto è fatto di palle che si urtano, pendoli oscillanti, funi e pulegge, proiettili e gravi che cadono o restano in equilibrio. La sua geometria-meccanica concerne relazioni tra proprietà immanenti degli oggetti materiali (lunghezze, figure, tempi, pesi), come nella filosofia naturale medievale, con l’aggiunta della velocità, proprietà relativa, ma ormai quantificata come qualità intensiva già dai Mertoniani e in Oresme. E l’algebra appare un linguaggio per esprimere problemi geometrici, e in qualche modo espressione di un metodo generale, ma non ancora un linguaggio di rappresentazione della realtà fisica. 86 La meccanica inizialmente era strutturalmente geometrica, nella sua tradizione archimedea come in quella aristotelica, dalle sue radici ingegneristiche cinquecentesche a Galileo e Newton. Anche se è sostanzialmente falsa la tesi di un Galileo insensibile alla misurazione numerica, è indubbio che tanto i suoi schemi argomentativi quanto la sua prassi sperimentale erano prevalentemente geometrici: è infatti l’osservazione astronomica il suo contributo sperimentale più rilevante. Ed anche Newton, nonostante le sue eccezionali capacità algebriche, scrisse i suoi Principia in uno stile quasi esclusivamente geometrico, senza formule. Tra i due anche Descartes, padre del formalismo algebrico, scrive la sua Geometrie per tradurre i problemi geometrici in linguaggio algebrico, ma la sua fisica è tutta in una presentazione puramente geometrica, anche laddove una rappresentazione algebrica sembrava a portata di mano: nel moto dei gravi, nella teoria degli urti, nella legge di rifrazione. Il linguaggio algebrico anche dopo il Seicento conserverà il peccato originale di essere parte della tradizione pratica: uno strumento euristico, utile, ma inadatto a costruire una ‘scienza’. Era solo una ars inveniendi, non una ars demonstrandi. Non casualmente allora l’algebra diventerà, soprattutto in Descartes, parte essenziale del ‘metodo’: agli occhi del filosofo razionalista il metodo è tutto e quindi l’algebra è centrale, ma solo nel metodo e non come linguaggio di rappresentazione della realtà fisica, mentre agli occhi del fisico empirista la scienza è tutto, ha carattere geometrico e quindi l’algebra è solo una tecnica spesso utile, ma fisicamente ‘opaca’. La fisica-matematica newtoniana si libera dello stile meccanico, non solo tratta di enti non immanenti come la forza di gravità, ma la matematica stessa tratta di un mondo non più immanente nelle cose, ma ad esse sottostante, i cui principi sono la matematica stessa e la prassi sperimentale. E la matematica ‘è’ questo mondo di leggi, ne fornisce la natura geometrica, in esso forze e flussioni sono realmente esistenti. Dall’algebra comincia invece ad emergere il calcolo, un linguaggio che abbandona del tutto i termini della matematica antica, figure e numeri, fatti per parlare del mondo immediato dell’esperienza quotidiana, e tratta invece di enti matematici (differenziali, integrali, serie di potenze, etc.) del tutto estranei all’esperienza ed al mondo quotidiano, ma immanenti, direttamente presenti e percepibili nel mondo artificiale in cui facciamo scienza, il laboratorio (per Newton però il calcolo ha ancora solo un ruolo pratico). A tal fine occorre far fronte ai paradossi dell’infinito, a quel labirinto del continuo, che per Leibniz, insieme al paradosso della giustizia divina, era la più grande sfida per il pensiero umano. E non solo di sopravvivere ad essi, ma farne la base per una scienza del tutto nuova, capace di gestire il divenire di un mondo tecnico, in cui l’empiria da naturale, qualitativa e semantica diventerà artificiale, quantitativa e sintattica, da esperienza diventerà esperimento. La nuova meccanica emerge in questo ‘mondo tecnico’, sottostante quello reale, e se ne vedono le tracce nelle figure geometriche che appaiono nei libri di fisica. I mertoniani avevano rappresentato le configurazioni delle qualità intensive in schemi autonomi, senza connessioni col mondo delle grandezze spaziali reali. In Galileo e Huygens invece nelle figure appaiono nel contempo grandezze spaziali e velocità, in Newton appariranno anche le forze. Le tematiche che saranno alla base del futuro calcolo infinitesimale appaiono nel Cinquecento a ridosso della riscoperta dei testi archimedei, come ad esempio l’individuazione del centro di gravità dei solidi ed i problemi di quadratura delle superfici curvilinee (aree delimitate da parabole, iperboli, spirali, etc.). Anche la tecnica è quella archimedea del metodo di esaustione fondato sulla doppia riduzione all’assurdo, una tecnica che a lungo apparirà come il termine di riferimento rigoroso rispetto al quale le tecniche simboliche presentavano solo il vantaggio della facilità d’uso; e ci sarà la diffusa convinzione che i metodi analitici appena scoperti fossero sempre stati alla portata dei matematici greci Qualcuno sottolineerà anche come essi siano una ars inveniendi inconfrontabile col rigore della ars demonstrandi (Wallis) ed altri daranno al simbolico un valore metafisico particolare (Leibniz), ma sarà solo nel Settecento che l’approccio simbolico si 87 affermerà definitivamente e bisognerà aspettare l’Ottocento per riconoscere al simbolico un senso autonomo, indipendente dal presupposto di senso geometrico. Il primo tentativo di liberarsi della tradizione sintetica antica appare probabilmente in Simon Stevin, che cerca di porre il problema in termini logici: supposto che <se due quantità differiscono, esse differiscono per una quantità non nulla>, allora <due quantità che differiscono per meno di ogni quantità non nulla non sono differenti>. C’è qui il nucleo della idea di limite e di infinitesimo. Vale la pena chiedersi perchè questo approccio non fosse stato effettivamente sviluppato dai Greci al posto del complesso metodo di esaustione. FIG.23 I greci, oltre alle difficoltà con l’infinito, non potevano concepire concetti negativi come lo zero (il numero era sempre finito e determinato, un semplice aggettivo), nè mischiare concetti geometrici (grandezza) con concetti aritmetici (differenza). Invece nel Medioevo lo zero era ormai accettato e svaniva la opposizione tra geometria e aritmetica (come nell’assioma aritmeticogeometrico “il tutto è uguale alla somma delle parti”, apparso solo nel Medioevo). Certo in Stevin o in Galileo lo ‘zero’ come numero non appare, sostituito da una sorta di limite delle grandezze verso il ‘nulla’, ma l’idea di una grandezza esistente ma minore di qualsiasi grandezza (noi diremmo di ‘misura nulla’) non era assurda: poteva essere una semplice superficie, come nel ‘paradosso della scodella’ di Galileo. Luca Valerio osserva come la differenza tra cilindri circoscritti e iscritti ad un paraboloide (fig.23) è uguale all’ultimo cilindro circoscritto (risultato già noto in Archimede), e quindi, aumentando il numero di cilindri, essa possa essere resa minore di qualsivoglia volume e di conseguenza il centro di gravità possa essere trovato considerando una sola delle due sequenze di cilindri. Ma il suo approccio è solo geometrico e l’idea di limite non appare. Sullo stesso problema Stevin scoprirà che le approssimazioni attraverso i cilindri pongono il centro di massa ad un terzo dell’altezza più una quantità che si dimezza al raddoppiare del numero di cilindri, e può quindi essere resa minore di qualsiasi quantità, ma tradurrà infine il ragionamento in una argomentazione analoga al metodo di esaustione. Comunque nei problemi di quadratura il Seicento continuerà a distinguere, anche se con difficoltà, tra indivisibili, costanti e senza quantità come i punti, e infinitesimi, costanti minori di ogni quantità o variabili con una grandezza che diventa zero. Un'altra fonte di ispirazione veniva dalle somme di sequenze di numeri. Ad esempio molti matematici, tra cui Wallis, si accorsero che le somme delle potenze degli interi ni=1 ik mostravano una certa regolarità: si sapeva che ni=1 i = n(n+1)/2 n2/2 ni=1 i2 = 3 n(n+1)(2n+1)/6 n /3 (ove denota l’approssimazione sempre migliore al crescere di n), e per valori di k maggiori la somma sembrava approssimare il valore nk+1/k+1. Wallis introduce un principio di interpolazione e analogia col quale estende la formula di Newton,(1-xp)q, a esponenti frazionali, nulli e negativi, e la applica al problema geometrico di calcolare l’area di un quadrante del cerchio unitario. A tal fine arrivò a estendere la formula anche per k fratto. In realtà questi risultati non erano ‘dimostrati’, ma verificati fino a certi valori finiti di n e di k, ed estesi per ‘analogia’. Da essi poi Wallis con una idea intuitiva di ‘interpolazione’ ricavava la formula per il calcolo di 88 μμμμμμμμμμμμ L’interesse per le somme finite si saldava così con l’interesse per le somme infinite, le serie (il cui calcolo delle era pure tutt’altro che rigoroso), usate anche per calcolare le aree al di sotto di certe curve. Molto nota la quadratura della parabola proposta da Mercator. Data la parabola di equazione y = 1/(1+x) l’area tratteggiata (fig.24) veniva approssimata come somma di rettangolini circoscritti, le cui aree erano poi sviluppate come serie geometriche, e, usando le approssimazioni di Wallis su citate, risultava essere uguale a T – T2/2 + T3/3 – T4/4 +…= log(1+T) Y 0 T X FIG.24 Per tale sviluppo in serie compariva una tecnica che sarà portata al massimo sviluppo da Newton: l’uso formale degli algoritmi aritmetici. Ad esempio per sviluppare in serie la funzione 1/(1+x), basta dividere 1 per (1+x) applicando le usuali regole della divisione in colonna per ottenere 1-x+x2–x3+ …. Analogamente lo sviluppo in serie di una formula sotto il radicale si trova sviluppando l’algoritmo in colonna per l’estrazione della radice. Questa tecnica ci fa toccare con mano non solo l’origine pratica del calcolo infinitesimale, ma soprattutto la sua natura algoritmica fondata su una fiducia nel trattamento simbolico corroborata dal suo successo. Non c’è da stupirsi se si troveranno frequentemente filosofi critici dell’approccio simbolico, soprattutto in Inghilterra: Hobbes lo definiva “una scabbia di simboli”, Berkeley definirà gli infinitesimi “fantasmi di quantità defunte”. E vedremo che diffidenze verso tale approccio si troveranno anche in Newton. Del resto nella usuale definizione di derivata, si divideva per un infinitesimo il quale poi nel calcolo veniva posto uguale a zero, il che dal punto di vista aritmetico è un errore. Certo, si intuiva che la procedura aveva una natura algoritmica e non dimostrativa, ma il problema dello ‘status’ del calcolo infinitesimale simbolico resterà di fatto aperto fino all’ottocento. Una terza tendenza appare l’approccio cinematico, nel quale la curva è la traiettoria descritta da un corpo/punto in movimento. In questo approccio la tangente appariva il moto che il corpo avrebbe percorso per ‘inerzia’. La stessa teoria delle curve cartesiana faceva spesso riferimento al tracciamento della curva tramite moti complessi. Anche funzioni come seno e logaritmo erano state definite come sovrapposizione o confronto di due moti (noi diremmo tramite una descrizione parametrica). Diffusa soprattutto tra i matematici anglosassoni, eredi dei "calculatores" mertoniani, attraverso Isaac Barrow e sino alle fluxiones newtoniane. L’importanza della lettura cinematica della derivata non stava solo nelle applicazioni fisiche del calcolo, ma nel fatto che la connessione meccanico-geometrica ne fornirà il vero ‘senso’ per circa due secoli: di fronte alle incertezze e contraddizioni del calcolo si potevano sempre ricondurre derivate e integrali tanto al moto e allo spazio percorso, quanto alla tangente e all’area. LEIBNIZ E NEWTON Queste tendenze porteranno nella seconda metà del secolo a dare al calcolo infinitesimale, nell’opera di Newton e Leibniz, la forma che, almeno dal punto di vista delle tecniche, conserverà 89 fino ad oggi. Nonostante le feroci polemiche sulla priorità che scoppieranno fra i due, i loro approcci saranno equivalenti (almeno per quanto riguarda gli aspetti algoritmici), ma le differenze concettuali saranno non di meno nette (e anche per uno stesso autore nel tempo ci saranno differenze rilevanti) ed eloquenti per illuminare il complesso processo cognitivo che portava all’emergere del calcolo infinitesimale. Il problema di partenza era il trattamento del continuo, come tema sia matematico (area e tangenti delle figure curve), che meccanico (il moto). Le radici del “labirinto del continuo” erano in fondo nel fatto che si poteva parlare di un istante o punto ‘successivo’, ma non dell’istante o del punto ‘immediatamente successivo’. Era il problema degli insuperabili paradossi che si incontravano quando si pensava il continuo come composto di elementi indivisibili di dimensione nulla, punti, segmenti, superfici. Newton e Leibniz abbandonano quella via e affrontano il problema da due punti di partenza distinti, anche se entrambi in definitiva centrati sulla difficoltà di trattare gli infinitesimi, cioè grandezze infinitamente piccole ma non nulle, e orientati nel cercare in una idea intuitiva di ‘limite’ o di ‘continuità’ la soluzione per distinguerli dagli ‘indivisibili’, sostituendo il punto ‘immediatamente successivo’ ad un punto P con un punto P’≠ P che però si può avvicinare quanto si vuole a P, con PP’ intervallo non nullo ma nel contempo minore di ogni intervallo finito. Newton lo fa concependo una curva descritta da un moto locale, e quindi in termini spaziali usando il tempo come variabile indipendente. Considera sempre una grandezza fisica fluente, x, il cui mutamento, più o meno rapido, chiama flussione, indicato con ẋ, ed è un attributo della variabile x. E’ una ‘matematica del moto’ in cui si può riconoscere una tradizione tipicamente inglese, dai Mertoniani ai logaritmi di Napier e alla matematica di Isaac Barrow, il maestro di Newton, che sviluppa una concezione cinematica di processi continui. Newton considera un tempo infinitesimo, denotato in genere con o, così che un aumento infinitesimo (momento) di x risulta oẋ: Il 'momento' della linea è inteso come "un segmento infinitamente breve", ma non nullo. Le difficoltà vengono aggirate dall’idea cinematica, sostenendo il carattere 'potenziale' e non 'attuale' dell’infinito processo al limite. Da notare che tale tecnica viene applicata uniformemente a tutta la equazione, differenziando cioè tutti i termini contenenti ‘fluenti’ (ad esempio x e y) per ottenere una equazione contenente ‘fluenti e flussioni’. Per trovare la tangente occorrerà risolverla ottenendo il rapporto ẏ/ẋ. Da un punto di vista algoritmico il calcolo si basa sulla flussione della potenza xn, data da n n-1 x . Questo risultato viene ottenuto da z = xn scrivendo z + ż·o = (x +ẋ·o)n, sviluppando il secondo membro, sottraendo z = xn, dividendo per o, trascurando tutti i termini contenenti o, e ottenendo ż= n xn−1ẋ. Per funzioni più complesse strumento chiave è la teoria delle serie, tramite la quale tali funzioni vengono ridotte a somme di potenze, che per Newton sono anche uno strumento di calcolo approssimato. All’interno di questa tecnica si inserisce anche la celebre estensione dello sviluppo della potenza del binomio a potenze qualsiasi: se la potenza è un intero positivo lo sviluppo dà un polinomio, altrimenti si ottiene una serie di potenze. Questa tecnica appare sicuramente più fondata della semplice interpolazione e analogia di Wallis, anche se in definitiva basata su una presupposta omogeneità algoritmica tra finito ed infinito. Newton osserva come si possa generalizzare la formula della potenza del binomio a potenze non intere (razionali positivi) ottenendo una serie: (a+x)r = a r + r x a r-1 + …… + r (r-1) (r-2) +….. + (r-k+1)/ k! x k a r-k + …………. Scoprendo che ad esempio questo sviluppo per a=1 ed r=-1 dava un risultato coincidente con la serie geometrica: (1+x) -1 = 1 – x + x 2 - x 3 + ……. 90 Che si può anche ottenere applicando formalmente l’algoritmo della divisione in colonna. Tuttavia Newton col tempo si distaccherà, almeno dal punto di vista teorico e nella sua fisica, dall’approccio algebrico-simbolico (il punto di svolta si può collocare negli anni settanta, ma all’inizio del Settecento Newton sembra riconsiderare questa scelta) a vantaggio di un approccio geometrico e fondato sui rapporti, secondo la antica tradizione teorica, così che gli infinitesimi saranno per lui solo una notazione conveniente da sostituire nei calcoli rigorosi con il "metodo dei primi e ultimi rapporti" (limite di rapporti incrementali). In termini geometrici l'idea rigorosa è che quando due punti sulla curva tendono a coincidere anche l'arco, la tangente e la secante sulla curva tendono a coincidere. Newton insisterà che non si tratta di studiare un rapporto tra infinitesimi, ma di studiare un rapporto tra quantità finite che, in quanto rapporto ben definito, ‘tende’ ad un limite ben definito, e considererà il suo calcolo coincidente con quello degli antichi liberato dei ‘fastidi’ della dimostrazione per assurdo del metodo di esaustione. Per difendersi dalle critiche sulla inesistenza del rapporto tra quantità evanescenti Newton farà il paragone con un corpo che in moto all’improvviso si arresta, considerando la sua ‘ultima’ velocità al momento dello stop: anche essa prima dello stop non è l’ultima e allo stop non c’è più. Ragionamento ‘strano’ perché per chiarire l’idea del rapporto tra quantità evenescenti non c’era bisogno di immaginare un arresto improvviso, una qualsiasi altra velocità istantanea (come limite del rapporto tra differenze di spazio e tempo) sarebbe andata altrettanto bene. La fig.25 a sinistra mostra il ragionamento che porta Newton al teorema fondamentale del calcolo, al fatto cioè che derivazione e integrazione sono due operazioni inverse l’una dell’altra, e mostra anche come il linguaggio delle proporzioni resti alla base del ragionamento geometrico. Newton pone AC = 1, z e x sono le aree rispettivamente al di sotto della curva e al di sotto dell’asse (e quindi x è anche l’ascissa). Di conseguenza le flussioni di z e x sono rispettivamente DB e BE=1. DB sarà quindi anche il rapporto tra le flussioni di z e di x, quello che potremmo chiamare la derivata di z. Ma z è l’integrale della curva, la quale curva quindi coincide con la derivata del suo integrale. Per Newton la cinematica era il fondamento del calcolo, il suo metodo “derivava direttamente dalla natura”, e questo era il motivo per la preferenza per l’approccio geometrico e la diffidenza verso quello simbolico, il calcolo era qualcosa di ‘evidente’ per enti geometrici, poco credibile per semplici simboli. Le entità geometriche ‘esistevano’, mentre il trattamento simbolico introduceva numeri immaginari e infinitesimi. Quando tradotta in linguaggio naturale, la geometria funzionava, l’algebra invece ‘provocava nausea’, era ridondante, aveva un ruolo solo euristico e un carattere meccanico privo di chiarezza referenziale, le dimostrazioni geometriche avevano invece un chiaro contenuto, e tutto un complesso processo aritmetico corrispondeva al semplice tracciamento di una linea. Quindi il metodo sintetico delle flussioni, basato sul moto continuo e sui ‘primi ed ultimi rapporti’, e non su infinitesimi, era preferibile a quello analitico. D F P T P’ M A A’ Z A B 1 C X X E FIG.25 S N L’approccio di Leibniz si basava invece sulle somme e differenze finite, generalizzate per diventare infinitesime, “…mi accorsi che le differenze corrispondevano alle tangenti e le somme 91 alle quadrature….” [Lettera a Wallis, 28-5-1697], ed il linguaggio della teoria delle proporzioni, centrale in tutta la storia della matematica fino ai suoi tempi (Newton incluso), gli sembra inutile, riducibile ai più fondamentali segni di divisione e uguaglianza. L’idea del triangolo caratteristico era già apparsa in Pascal ed è la base della connessione tra la teoria degli infinitesimi e lo studio delle tangenti. Leibniz dirà di essere rimasto stupito di come Pascal non ne avesse colto le potenzialità, ma occorre ricordare come esse richiedessero da un lato una fusione tra geometria e aritmetica (la determinazione della tangente, fatto tipicamente geometrico e quasi iconico, riconducibile a differenze, concetto aritmetico, tra ascisse e ordinate) all’epoca ancora in statu nascendi, dall’altro un trattamento algoritmico degli infinitesimi. Nella fig.25 destra il triangolo caratteristico è TPM, simile al triangolo PAS (ed anche al triangolo PAN, con PN normale alla curva). Confondendo T e P’, in quando infinitamente vicini A e A’, otteniamo che il rapporto tra gli infinitesimi P’M e PM è uguale al rapporto tra l’ordinata AP e la subtangente SA. Pascal l’aveva usato per studiare i problemi di quadratura, Barrow per quelli relativi alle tangenti. Ed è evidente dalla figura che come la quadratura è la somma dei valori della funzione in rettangolini infinitesimi, così la tangente è individuata dalla differenza tra i valori della funzione in punti la cui distanza è infinitesima. Ma la somma è l’operazione opposta alla differenza, ed è anche chiaro che la differenza tra le due quadrature di f(x) nei punti x+dx e x è proprio la f(x) moltiplicata per dx: ci sono tutti gli elementi per intuire aritmeticamente il ‘teorema fondamentale del calcolo’. Anche per lui gli infinitesimi non esistono realmente: violano il principio di Archimede, sono diversi da 0 ma in fondo indistinguibili da esso, e per il principio di continuità possono essere trattati come quantità ordinarie, come il continuo stesso non erano enti reali bensì finzioni, ma servivano tramire la loro algebra a fare i calcoli. Tuttavia l’infinitamente piccolo non gli appare un artificio, un inganno che ostacola lo sviluppo delle leggi naturali, ma qualcosa che ha un fondamento reale legato al ruolo dell’infinito, che entra nella realtà, non materialmente ma come fondamento intellettuale nel ‘principio di continuità’. Il 'differenziale' è un simbolo autonomo: quantità non nulla ma non in nessun modo 'variabile' o 'tendente' verso qualcosa, "finzioni utili per abbreviare e parlare universalmente". E' un metodo molto più vicino a quello oggi usato e che dovrà affermarsi anche per la efficienza delle tecniche di manipolazione simbolica connesse. A lui si rivolse la critica di considerare i suoi infinitesimi come se fossero addirittura nulli, e la sua risposta a Bernard Nieuwentijdt sottolinea che "non è necessario ricadere in controversie metafisiche, quale la composizione del continuo", che "sarà sufficiente fare uso di questi come uno strumento utile per il calcolo, come per gli algebristi le radici immaginarie". Il differenziale non è quindi un infinitesimo, anche se è incomparabilmente minore delle quantità ordinarie, ma è come un grano di sabbia rispetto al cielo, talora inteso come una variabile, talora come una costante, e comunque sempre omogeneo alla grandezza differenziata. Per lui, dato un numero dx, dy è quel numero tale che dy/dx è la pendenza della tangente: il differenziale appare quindi un numero non nullo, “una linea retta scelta arbitrariamente”, e la tangente “la linea che connette due punti a distanza infinitamente piccola” o “il lato di un poligono con un infinito numero di angoli” [nova methodus]. Il ruolo svolto in Newton dall’idea di ‘limite’ viene svolto in Leibniz dal principio di continuità: “in ogni transizione supposta terminante in qualsiasi termine, si può istituire un ragionamento generale in cui tale termine finale è incluso”. Essa in realtà semplicemente asserisce la natura continua (metafora della grandezza geometrica) delle grandezze fisiche, anche di quelle che venivano analizzate da Aristotele come coppie di opposti, con esempi del tipo "la legge dei corpi in quiete è un caso speciale della legge di ciò che esiste in movimento". Cioè le tradizionali opposizioni movimento/quiete, disuguaglianza/uguaglianza, curva/retta, vanno considerate come un continuo (il primo termine) di cui il secondo è un caso speciale (Nuovi saggi sull'intelletto umano, II,8) 92 Resta la preclusione verso una teoria degli indivisibili, ma l’integrale gli appare non il limite di una somma ma una totalità, come nelle dottrine degli indivisibili di Cavalieri e Wallis. Usa inizialmente scrivereÛx, come una sorta di somma di ‘linee’, ovvero con dx=1, e solo succesivamente Ûx dx, come una somma di rettangoli infinitesimi. Anche lui stabilisce senza prova le regole della differenziazione, usando implicitamente l’idea di infinitesimi, i differenziali di variabili come differenze variabili, e così la d agisce come un operatore, in modo da permettere di definire differenziali di ordine superiore, qualcosa di difficile nell’approccio geometrico newtoniano. Così "esistono differenti gradi di infinito e di infinitamente piccolo" e che "quantità le cui differenza è incomparabilmente piccola sono da considerarsi uguali". La differenziazione per Leibniz non si applica genericamente ad una equazione (come in Newton) bensì ad una funzione (usa proprio questo termine per indicare quantità geometriche, coordinate, tangente, corda, etc., associate ad una curva): una grandezza geometrica legata alle altre tramite una espressione algebrica. Quella di Leibniz è infatti una ‘aritmetica dell’infinito’ ed il suo approccio è esplicitamente simbolico ed algoritmico, nei suoi fondamenti e non solo in pratica: “Tutto il calcolo differenziale appare solo un aspetto di una ‘arte combinatoria’ generale, ‘un alfabeto del pensiero umano’” [Lettera ad Oldenburg, 27-8-1676], connaturata all’arte umana della scoperta, l’ars inveniendi, quasi un metalinguaggio rispetto al linguaggio aritmetico o algebrico. Leibniz fu il testimone più autorevole della crescita del registro simbolico nella nuova matematica. Questa forse la differenza essenziale tra lui e Newton: per questi il simbolismo aveva un ruolo secondario mentre per Leibniz esso assumeva un ruolo centrale. La notazione simbolica è “un mezzo sensibile e palpabile che guida la mente”: si pensi ad esempio alla forma autoesplicativa che assume nella sua notazione la regola di derivazione della funzione composta: dz/dx = dz/dy ÿ dy/dx. Ed il suo linguaggio algebrico si adatterà al trattamento del continuo creando una sintassi in grado di evitare i paradossi noti già ai Greci. Considerare il punto x+dxsignifica in fondo solo prendere il punto ‘successivo’ ad x, così che dxè diverso da zero perché il punto è distinto ma poi si pone uguale a zero perché la distanza tra i due punti deve essere minore di ogni possibile distanza finita, altrimenti vi sarebbero altri punti intermedi, e questo nel continuo aritmetico significa zero: dy è “la differenza delle due y più vicine” [Lettera a Oldenburg, 21-61677]. Gli infinitesimi furono oggetto di aspre critiche (del resto anche Cantor li considerava assurdi). In generale ‘infinitamente piccole quantità’ erano ritenute semplicemente nulle. Leibniz rispondeva che col calcolo infinitesimale si potevano ritenere uguali grandezze che differivano di quantità infinitesime e che esistevano diversi gradi di infinito o di infinitamente piccolo: una palla è un punto rispetto alla terra e la terra un punto rispetto alla sfera delle stelle fisse. Jacques Bernoulli li riteneva quantità variabili, il fratello Jean invece li riteneva realmente esistenti, Leibniz quantità “piccole quanto si ritiene necessario perché siano incomparabili e no ci siano conseguenze negli errori prodotti” e si appellava al suo “principio di continuità” ed al fatto che le figure rettilinee sono un caso particolare di figure curvilinee. Il vescovo Berkeley sottolineò la natura ‘spettrale’ degli infinitesimi, qualcosa di ‘nullo’ e ‘non nullo’ nello stesso tempo, legati alle difficoltà connesse ai concetti di infinito e di continuo. Berkeley attaccò gli infinitesimi di Newton: “ghosts of diparted quantities”, le sue ‘flussioni’: “velocities of evanescent increments…neither finite quantities, nor quantities infinitely small, nor yet nothing”, e la tradizione empirista si fece carico anche della critica del concetto di infinito attuale: si ritrovavano antichi problemi, risalenti alla filosofia greca ma, di fronte ai paradossi legati al concetto di ‘infinitesimo’, l’immagine ‘geometrica’ della tangente e quella ‘fisica’ della velocità istantanea, insieme ai crescenti ed indubbi successi della nuova fisica matematica, sembravano sufficienti a dissolvere tutti i dubbi, e si apriva l’epoca d’oro della analisi applicata alla fisica. Seguirà un’epoca di successi ininterrotti, nella meccanica, nella termodinamica, 93 nell’ottica, nell’elettromagnetismo. La forma differenziale delle leggi della natura si rivelerà perfettamente corrispondente alle verifiche sperimentali e l’intuizione geometrica, poggiata anche sul prestigio millenario degli Elementi di Euclide, sarà sufficiente a tacitare dubbi e antinomie. IL REGNO DEI SEGNI Il solo Leibniz sembrerà tentare una ripresa della logica, ma anche in lui, come in Descartes, prevale il ruolo delle idee "chiare e distinte", termini che in qualche modo nel mondo delle idee tendono a riproporre la antica mimesi 'iconica', anche se Leibniz sottolinea sempre la differenza tra una idea e una immagine (l'esempio del chiliagono, difficilmente immaginabile, ma la cui idea è perfettamente chiara). La ripresa della logica appare più che una "ars demonstrandi" una "ars inveniendi", è l’ars combinatoria, la possibilità cioè di individuare un insieme di idee elementari, rappresentabili tramite numeri, indefinibili e comprensibili per analogia o intuitivamente, con cui costruire idee complesse, ottenibili come prodotto di numeri, rappresentabili simbolicamente e comprensibili per definizione. La characteristica universalis è la capacità del linguaggio simbolico di rappresentare compiutamente l’universo oggetto di una scienza, permettendo una perfetta corrispondenza tra oggetti, idee e segni, e ad essa si deve affiancare un calculus ratiocinator, la capacità algoritmica di effettuare ragionamenti inoppugnabili manipolando segni, traducendo ogni ragionamento in un calcolo. Metodi di questo calcolo sono la scomposizione dei concetti nei loro componenti elementari, i sillogismi ed i principi di identità e di noncontraddizione. La ars combinatoria di Leibniz si delinea sin dall’inizio come la scienza della pratica simbolica il cui essere ‘anfibio’ la rende nel contempo prassi algoritmica e linguaggio della scienza umana. La sua idea giovanile e cartesiana di un ‘alfabeto del pensiero umano’ evolve nell’idea che in realtà l’uomo conosce attraverso i segni, una idea che oltre l’algebra influenzerà tanto l’analisi combinatoria che la logica formale, sino ad apparire una profezia dei futuri linguaggi algoritmici. E di qui l’utopia razionalista in cui Leibniz prevedeva il giorno in cui difronte ad ogni diatriba filosofica ci si potesse sedere e risolverla semplicemente ‘calcolando’. C’è addirittura in Leibniz l’idea che ogni verità (anche quando ci appare ‘empirica’) sia, per un essere capace di deduzioni anche infinite, sempre analitica, riducibile cioè all’inclusione del predicato nel soggetto. In Leibniz i segni assumono per la prima volta un carattere esplicitamente costitutivo della conoscenza umana, e quindi, nella loro struttura complessiva, non hanno un carattere puramente convenzionale, poichè la loro sintassi, intesa in senso generale come la regolamentazione della loro manipolazione, deve riflettere la reale connessione tra le idee. Già nella matematica islamica era apparsa la nuova connessione tra segni ed algoritmi, nei quali i segni non erano più solo usati per registrare i valori numerici, ma diventavano gli ingredienti essenziali dei secondi. Alla base c’era la loro natura ‘anfibia’: da un lato oggetti ‘concreti’, scrivibili, leggibili, manipolabili, spostabili, e quindi trattabili algoritmicamente, dall’altro enti ‘ideali’, gli unici per i quali si poteva parlare di ‘assoluta uguaglianza’ e ‘assoluta differenza’: due 7 sono lo ‘stesso’ numero anche se scritti con grafia diversa, un 4 e un 5 sono numeri del tutto ‘diversi’ anche se talora scritti in modo simile. E non è forse casuale che grandi analisti come Viete e Wallis si impegnassero anche come decrittatori di codici. In questa diffusione del simbolismo algebrico si affacciava quindi un processo che dominerà la matematica moderna e in fondo la stessa civiltà moderna: l’’irresistibile ascesa’ del regno dei segni. Si intuisce che a questo punto sempre più per segno si intende il segno matematico. Così i segni sono la via per cui noi giungiamo alla conoscenza, essendoci preclusa l'intuizione unitaria delle cose, e tali segni, sebbene arbitrari in quanto ciò che non deve essere arbitrario è il loro uso e la loro connessione, per Leibniz dovrebbero essere anche il più possibile "naturali", simili alle 94 cose da rappresentare, secondo lo schema tipico dei geroglifici, con un esplicito riferimento a caratteri cinesi. La analisi puramente logica della definizione, la definizione nominale, ne può garantire la semplice possibilità quando non contenga alcuna contraddizione, ma la esistenza reale richiede una autonoma dimostrazione, di tipo sostanzialmente generativo, e solo a questo punto otteniamo una definizione reale. E questo si riflette nell'altro grande principio, che in Leibniz governa il mondo fisico, il principio di ragion sufficiente, secondo il quale ogni fenomeno deve essere spiegato come effetto di una determinata causa. Esempio paradigmatico di questo principio è la teoria della bilancia di Archimede, in cui una simmetria geometrica della configurazione reale è sufficiente per asserire l'equilibrio statico della configurazione stessa. Ogni essenza prelude alla esistenza, è una possibilità qualora non porti a contraddizioni. In altri termini ciò di cui è possibile farsi una idea non contraddittoria è anche possibile. Quali delle possibili esistenze si realizza dipende dal massimo bene perché Dio fa si che questo sia "il migliore dei mondi possibili". Il razionalismo di Leibniz significa anche un nuovo assetto alla problematica del rapporto tra identità e uguaglianza, basato sul rapporto tra identità e indiscernibilità ("indistinguibilità"). L'"indiscernibilità degli identici" appare indiscutibile, la "identità degli indiscernibili" significa semplicemente ridurre l'individuo alla somma delle sue caratteristiche. In altri termini la "forma" diventa una somma di proprietà e l'"individuo" la somma di tutte le sue proprietà. Consideriamo ad esempio l'"autore dei primi due goal alla finale della Coppa del Mondo" e il "vincitore della coppa di miglior giocatore dell'anno"; entrambi coincidono con Z.Zidane. Nella 'monade' Zidane entrambe le proprietà sono incluse e quindi dire che "il vincitore della coppa di miglior giocatore dell'anno è l'autore dei primi due goal alla finale della Coppa del Mondo" per una conoscenza 'divina' non è un fatto empirico, ma è una semplice identità: "Zidane è Zidane". Le difficoltà nel ridurre tutta la complessità delle "verità di fatto" alle "verità di ragione" è solo nella umana impossibilità di deduzioni e caratterizzazioni infinite. Il trattamento simbolico permetteva anche di trattare matematicamente l’idea di infinito. In Descartes esso appare prerogativa divina: Noi non ci avvolgeremo mai nelle dispute dell’infinito...noi che siamo finiti...non asseriremo che esse siano infinite ma le crederemo solo indefinite...la quantità può essere divisa in parti il cui numero è indefinito (I,26)…riservare a Dio solo il nome d’infinito (I,27) …l’intelletto non si estende che a quei pochi oggetti che si presentano a lui, e la sua conoscenza è sempre limitatissima, mentre la volontà in qualche modo può sembrare infinita, poichè noi non percepiamo nulla che possa che possa essere l’oggetto di qualche altra volontà...ciò che è causa che noi la portiamo ordinariamente oltre quello che conosciamo chiaramente e distintamente...non è meraviglia se ci accade di ingannarci (I,35) (Principi della filosofia) E così in Leibniz l’infinito attuale lungi dall’essere un’idea da rigettare, entra a buon diritto nella prassi conoscitiva, e così anche il continuo: Sono tanto a favore dell’infinito attuale, che… ritengo che la natura lo presenti ovunque per meglio mostrare la perfezione del suo autore. Così credo che ogni parte della materia è, non dico divisibile, ma attualmente divisa. 95 Un primo aspetto di questa funzione dell'infinito appare nelle riduzione dei concetti a concetti elementari, punto chiave dell’idea di riduzione sintattica della conoscenza. La risoluzione di tutte le verità anche empiriche in verità a priori può essere ottenuta tramite la pura analisi dei concetti, il che per l’uomo richiede un regresso infinito, almeno per quanto riguarda le verità 'contingenti', de facto, paragonabile alla rappresentazione di un numero irrazionale mediante una somma di razionali, mentre è per Dio invece realizzata compiutamente, a-priori e finitamente (cosa che per l'uomo accade solo per la conoscenza delle verità 'di ragione', de jure, in quanto riducibili tramite principi di contraddizione e definizioni a proposizioni identiche). Quindi l’uomo può conoscere il mondo con la stessa certezza divina, unica differenza essendo la finitezza dell’uomo di fronte all’infinitezza di Dio, e questo farà dell’infinito l’orizzonte della nuova scienza: i numeri reali, le serie, i limiti saranno i concetti infinitari che caratterizzeranno la matematica nei secoli successivi. Ed anche essi si riveleranno ostici ad una matematica tradizionale, geometrica, richiedendo invece una matematica sintattica e logica per essere affrontati. Ma la combinatoria si connette ad un’altra intuizione leibniziana, quella dell’uso della probabilità per trattare casi in cui non si può dimostrare ma si può solo discutere la evidenza, come ad esempio in ambito giudiziario. Intorno al 1660 appare quasi senza preavviso una lunga serie di studi che oggi possiamo inquadrare come inizi di una “teoria della probabilità”: nel 1654 Pascal risolve due problemi probabilistici, nel 1657 Huygens scrive un libro sulla probabilità, nel 1662 la logica di Port Royal riporta l’argomento probabilistico di Pascal sull’esistenza di Dio (dal punto di vista decisionale, per massimizzare l’utile, è sempre preferibile credere in Dio), in quegli anni Leibniz scrive il suo saggio sulle combinazioni e vengono calcolate le annualità dei vitalizi in maniera corretta, nel 1662 vengono pubblicate le prime statistiche di mortalità. Sin dall’inizio nell’idea di probabilità convivono due aspetti: uno ‘statistico’ concernente processi casuali ed uno ‘epistemologico’ concernente le credenze e le decisioni relative. Quanto fossero intrecciati i due aspetti si può vedere nel fatto che i due riferimenti a Pascal concernono i due diversi aspetti. Di tipo ‘statistico’ erano i problemi di ‘divisione’. Ad esempio: supponiamo che una partita che doveva svolgersi sino a che uno dei contendenti non avesse n vittorie venga interrotta quando uno dei due abbia ottenuto h e l’altro k vittorie: come si deve dividere la posta? Pascal osserva che il primo deve vincerne altre n-h e il secondo n-k. Sicuramente in 2n – h – k +1 partite uno dei due vincerà. Basta allora considerare i coefficienti binomiali (triangolo di Pascal) su 2n –h –k +1 elementi e sommare da un lato quelli fino a n-h dall’altro i restanti. Il rapporto fra i due numeri darà la divisione richiesta. Il metodo non è del tutto esatto poiché non è necessario svolgere tutte le partite: ci si fermerà quando uno dei due avrà raggiunto le n vittorie, ma il procedimento è concettualmente e numericamente corretto. Di tipo ‘epistemologico’ è la decisione sulla fede in Dio. Qui appare la “teoria delle decisioni”: occorre valutare il ‘vantaggio atteso’. Qualunque sia la probabilità (non nulla) della esistenza di Dio il vantaggio conseguente alla sua esistenza e alla fede in Dio è infinitamente superiore a quello conseguente alla sua non esistenza ed alla non fede in Dio, considerando poi irrilevante lo svantaggio dovuto alla non esistenza in Dio ed alla fede e drammatico lo svantaggio conseguente alla esistenza di Dio ed alla mancanza di fede. Sulla via dei segni si dovrà incamminare anche la logica. Sarà Leibniz il primo ad asserire la natura analitica delle verità matematiche, il loro essere deducibili come verità logiche, puramente 96 formali, a prescindere dal loro contenuto: tautologie, vere per la sola forma senza bisogno di riferimenti agli enti matematici. Se si guarda la dimostrazione leibniziana di una somma già si intravede la futura logica matematica, in cui la dimostrazione e calcolo coincidono, con la stessa natura algoritmica e sintattica. E’una logica inconfrontabile con quella medievale, che era una logica dei termini del linguaggio naturale, ed anche con quella antica, che era un’immagine esplicativa della physis. In essa appare inoltre un’idea che avrà un ruolo centrale nella logica moderna: quella della possibile ‘aritmetizzazione’ del pensiero, nella quale le idee complesse sono ottenute da operazioni aritmetiche (moltiplicazioni o addizioni) sui numeri associati alle idee semplici. Il pensiero di Leibniz appare lo sviluppo più coerente dell’idea, già intravista nel Cinquecento, che all’interno dell’argomentazione matematica ci fosse il nucleo di una logica generale della scienza di cui il sillogismo era solo un capitolo, un’idea spesso contrassegnata come mathesis universalis, che svolgeva un ruolo centrale nel metodo di Descartes. ogni a è b nessun a è b qualche b è a a a a b qualche b non è a b a b b Fig.26 Oltre che con la matematica, la logica del seicento si legava anche alle scienze naturali. Ad esempio, nella logica di Port Royal, si trova la distinzione, molto sfumata in Aristotele e apparsa vagamente nel Medioevo, tra intensione ed estensione di un predicato: ad esempio, dell’aggettivo <rosso> l’estensione era l’insieme degli oggetti rossi, l’intensione era invece il concetto di ‘rosso’, cioè un ente essenzialmente mentale. Era una distinzione chiara anche a Leibniz, ma per lui probabilmente irrilevante poiché i due ambiti erano legati nella sua armonia prestabilita. Nel secolo successivo Euler introdurrà quella rappresentazione insiemistica estensionale che ancora oggi domina nelle nostre scuole (fig.26). Più in generale si diffondeva l’idea che quel mondo reale, ma inattingibile alla conoscenza comune, che era diventato l’oggetto della scienza, avesse una struttura simbolica. Era conoscibile solo in laboratorio ma, come osservava Weyl, anche la misura sperimentale è in fondo solo il confronto tra due ‘segni’, uno risultato dalla manipolazione di leggi naturali in forma algebrica e uno letto su uno strumeno di misura. Nel giro di un secolo tutta la fisica sarà scritta in linguaggio algebrico, il linguaggio delle funzioni e delle equazioni differenziali. IL SETTECENTO Il XVII secolo è coronato dalla pubblicazione dei Principia newtoniani, nei quali la nuova fisica viene costruita non con i concetti del calcolo infinitesimale ma col linguaggio della geometria. Tuttavia l’algebra simbolica si era costruita uno spazio crescente, anche se all’inizio era adoperata solo perché i segni aiutavano la memoria, esplicitavano i passaggi, semplificavano gli algoritmi, e quindi essa apparteneva solo al metodo dell’indagine. Ma si diffondeva l’impressione che essa aprisse nuove strade precluse al ragionamento geometrico: non è casuale che le prove fatte col metodo di esaustione tendessero a scomparire. Il simbolismo algebrico era stato utilizzato come un puro strumento, neutro e nel contempo affidabilissimo, ed applicato anche a questioni come il calcolo differenziale-integrale e la teoria delle serie che hanno a che fare direttamente con l’infinito ed il continuo. Lo stile ‘euclideo’ e la 97 logica aristotelica scompaiono assieme alla scolastica: la Geometrie di Descartes non contiene assiomi, postulati e neanche dimostrazioni, Newton ritrova il suo calcolo direttamente nella realtà naturale, e persino un autore attento al rigore logico come Leibniz non si pone alcuna questione logica o fondazionale nel suo uso degli infinitesimi. Questo approccio inizia con il XVII secolo e dura fino alla fine del XVIII. Ad esempio alla metà del XVII secolo John Wallis calcola somma dei cubi degli interi fino ad n mostrando la regolarità del valore di tale somma per n da 1 a 6 e fornisce la formula commentando “questo è evidente dal precedente ragionamento”: sembra di risentire Nicomaco. Analogamente nella seconda metà del settecento fa Leonhard Euler. Ad esempio egli parte dalla formula che esprime un polinomio tramite le sue radici non nulle: P(x) = c (1- x/r1) (1- x/r2) (1- x/r3) …. (1- x/rn) da moltiplicare per x nel caso di una radice nulla. E la ‘applica’ allo sviluppo della funzione seno,con radici 0, +1, -1, +2, -2, etc.: sin x = cx (1-x/1) (1+x/1) (1-x/2) (1-x/2)…… passando al limite per x0 ottiene che c vale . E quindi sin x = x (1- x2/1) (1- x2/4)…. Ma il teorema di Taylor gli permette di scrivere anche sin x = x/1! - x3/3! + x5/5! -….. Uguagliando i coefficienti allora /3! = -1/1 –1/4 – 1/9 -….) ovvero /6 = 1/n . n 2 Dopo aver sommato una trentina di termini della serie si convinse della correttezza della formula. Ma tale disinvoltura non sempre ha successo. Che i tempi stiano cambiando lo si vede nello stesso Euler che si sforza di rispondere alle perplessità sull’uso degli infinitesimi sollevati ad esempio da Berkeley pochi decenni prima: la sua idea è di analizzare il rapporto tra due zero, distinguendo tra un metodo aritmetico ed uno geometrico. Il primo porta a dare a tale rapporto valore unitario, mentre il secondo permette di dargli valori diversi. E’ ancora l’ambito geometrico l’unico che permette di dare un senso al calcolo differenziale. All’inizio del nuovo secolo per difendere le tecniche simboliche, di sicura efficacia ma di dubbio fondamento, D’Alembert esortava che ‘le calcul porte sa preuve avec soi’ e ‘allez de l’avant, la foi viendra ensuite’. Il settecento verrà caratterizzato dall’opera di grandi fisici-matematici, quali i Bernoulli (Jean, Jacques, Daniel), Euler, d’Alembert, Lagrange, che daranno al calcolo infinitesimale la sua forma analitica attuale. A prima vista potrebbe sembrare una fase ‘minore’, ma ci sono due aspetti di 98 questa ‘sistemazione’ che vanno sottolineati: la rottura tra filosofia naturale e scienza fisicamatematica, ed il passaggio, progressivo ma definitivo, del calcolo infinitesimale dalla forma geometrica a quella algebrica. Sarà questo aspetto sintattico lo sfondo della più poderosa tecnica per l’applicazione della analisi alla fisica-matematica: la risoluzione delle equazioni differenziali. Il primo testo sul calcolo sarà quello del marchese de l’Hopital, pubblicato nel 1696, ma dovuto in gran parte a Jean Bernoulli. Qui appaiono le definizioni di ‘quantità variabile’, che cresce e decresce con continuità e la cui parte infinitamente piccola è il ‘differenziale’, e due postulati: “due quantità la cui differenza è una quantità infinitamente piccola possono essere prese o usate indifferentemente”, “una curva può essere considerata come un poligono con un infinito numero di lati, ognuno di lunghezza infinitamente piccola, che determinano la curvatura della curva dagli angoli che fanno tra di loro”. Si esplicita il concetto di funzione come espressione: per Euler la ‘funzione di quantità variabile’ è “una espressione analitica comunque composta di tale quantità variabile e di numeri o quantità costanti”, per Lagrange sarà “un’espressione algebrica comunque composta di variabili e contenente un numero qualsiasi di costanti”, la stessa ‘derivata’ sarà allora una ‘funzione’. Il carattere ‘sostanziale’ delle espressioni algebriche (anche infinite) appare nel fatto che per Euler la serie di potenze diventa la forma più generale per esprimere una funzione, e la ‘continuità’ viene caratterizzata dall’esistenza di un’unica espressione algebrica per la funzione. Classicamente nel XVIII secolo una ‘funzione’ era necessariamente data da una espressione analitica. Per Eulero la distinzione decisiva è quella tra espressioni finite (funzioni algebriche) e serie infinite (funzioni trascendenti). Parallelamente inizia il processo di traduzione della meccanica newtoniana nel formalismo di Leibniz. Quindi i matematici del Settecento accetteranno inizialmente l’esistenza degli infinitesimi più dei 'padri fondatori', Newton e Leibniz: per Jean Bernoulli “nella misura in cui il numero dei termini è infinito, l’infinitesimo esiste ipso facto”. Ma in realtà l’approccio ‘realista’ al calcolo (sia nella sua versione ‘geometrica’ che in quella ‘simbolica’) stava tramontando a vantaggio di un approccio puramente algoritmico, senza riferimento agli infinitesimi, alle figure geometriche o al moto. Così il problema ‘metafisico’ della loro natura riceveva soluzioni che oggi appaiono strane: per Euler il differenziale non è altro che lo zero ed il calcolo solo una procedura per calcolare espressioni del tipo 0/0 che per scopi pratici utilizza i differenziali, e motiva la sua opinione facendo vedere come la loro manipolazione si possa ricondurre a proprietà dello zero. Boyer scrive che di 28 pubblicazioni tra il 1754 e il 1784 da lui analizzate 15 interpretavano il calcolo con i differenziali leibniziani, 6 in termini di limiti, 4 in termini di zero euleriano. E poi c’era Lagrange, il quale definiva le derivate come i coefficenti nello sviluppo in serie di Taylor: f(x+h) = f(x) + h f’(x) + h2/2! f’’(x)+….+ hn/n! f(n)(x) +… In Euler il calcolo infinitesimale ha ancora caratteri spiccatamente geometrici, ma nel 1788 Lagrange pubblica la sua Mécanique Analytique, il più importante libro scientifico dopo i Principia newtoniani, nella quale si vanta di non utilizzare più figure ma solo formule. E lo fa veramente: un libro di 600 pagine senza neanche una figura! E spesso qualche figura sarebbe anche utile per seguire meglio le formule, ma non c’è. Con l’affermarsi della forma algebrica simbolica, la nuova analisi infinitesimale diventava sempre più la base non solo della meccanica ma della fisica tout court (astronomia, acustica, ottica, teoria del calore). Anche la teoria delle equazioni differenziali parziali, legata al concetto di funzione, cresceva intorno a problemi di fisica. Uno dei più celebri fu quello delle corde vibranti, la cui forma è data da una funzione u(x,t) soluzione della equazione differenziale ∂2u/∂t2 = a2 ∂2u/∂x2 99 la cui soluzione nel caso di un’onda stazionaria (le oscillazioni delle corde degli strumenti musicali non si propagano nello spazio) era una somma di sinusoidi, e quindi periodica. Motivo di discussione tra D’Alembert ed Euler in questo studio era la funzione iniziale, se dovesse essere già periodica, come voleva d’Alembert, o no, come voleva Euler sulla base della plausibilità fisica: infatti una corda ferma viene di solito messa in vibrazione tirandola in alto per il suo punto medio e poi lasciandola andare, una forma iniziale quindi non periodica e neanche data da una sola espressione algebrica (una spezzata formata da due segmenti di retta, fig.27 destra). FIG.27 Nella seconda metà del XVIII secolo lo studio delle vibrazioni di una corda diventa il cuore del dibattito tra i grandi matematici dell’epoca: D’Alembert, Euler, D.Bernoulli, Lagrange. Occorreva trovare e poi risolvere le equazioni differenziali che potevano caretterizzare il problema. A questo punto occorreva dare le condizioni iniziali e queste, nel caso di una corda pizzicata, potevano richiedere una funzione che noi oggi diremmo non differenziabile in un punto e data da due spezzate. Euler estende il concetto sino a comprendere anche funzioni discontinue definite ‘a pezzi’ e comincia ad apparire la concezione moderna di ‘funzione’ come legge che definisce, dato il valore delle variabili, il valore della funzione, a prescindere dalla sua espressibilità algebrica. Euler e Lagrange fondano la meccanica su principi, quali il principio di minima azione, il principio dei lavori virtuali, il principio della minima altezza del centro di massa, i principi di conservazione, e caratteristica dell’epoca è la quasi impossibilità di distinguere tra matematica e fisica, come ad esempio nel calcolo delle variazioni. Esso appare con il problema della brachistòcrona, cioè della curva che, dati due punti su di essa a diversa altezza, in presenza della sola gravità e del vincolo di seguire la curva, consente la discesa tra essi in un tempo minimo (non è la retta, che dà invece la curva di minima lunghezza, fig.27 sinistra). Chiaramente questo è un problema di minimo, ma non ‘su una curva’ bensì ‘in una famiglia di curve’, affrontato per la prima volta alla fine del XVII secolo da Jean Bernoulli e poi dal fratello Jacques. Essi studiarono in generale il problema di trovare in una famiglia di curve (funzioni) F quella che minimizzava il valore di una certa funzione (il tempo, nel caso della brachistòcrona) che dipendeva dalla curva variabile in F, una funzione di funzione che assumerà il nome di funzionale. A questo fine Lagrange distinguerà tra la d che esprime la differenziazione lungo la curva e la che esprime la variazione in una famiglia di curve. Tali problemi di minimizzazione apparivano sempre più spesso in una meccanica che si andava caratterizzando con principi di massimo e minimo o di conservazione. Il calcolo delle variazioni è alla radice della moderna analisi funzionale, ma la sua motivazione era fisica, problemi fisici ne segnarono lo sviluppo, e fisico fu l’esito principale della teoria: quella meccanica lagrangiana che diventerà lo standard della fisica a partire dalla fine del XVIII secolo. Non diverso un altro capitolo centrale della matematica settecentesca: il metodo dei moltiplicatori di Lagrange. Fu questo metodo sviluppato per studiare il minimo o massimo di una funzione tra punti vincolati a variare su una linea o una superficie. Detta f la funzione e detti gi=0 i vincoli, il metodo consisteva nel minimizzare la funzione f + l1 g1 + l2 g2+…+ ln gn al variare non 100 solo delle incognite ma anche dei parametri li. Il metodo ha una elegante motivazione matematica (in fondo riconducibile alla intuizione di Descartes e Fermat che un punto di massimo o minimo è anche un punto ‘multiplo’, in cui cioè più soluzioni vengono a coincidere), ma ammetteva anche una parallela motivazione fisica: le linee o superfici di vincolo per il moto di un corpo potevano essere determinate dall’azione di forze (ad esempio di tipo pressione o resistenza che costringevano il corpo a muoversi sulla linea o superficie), ed allora il moto veniva dedotto dai principi di minimo della meccanica applicate senza i vincoli ma in cui fossero presenti anche tali forze, il cui valore era proprio dato dagli li. Quanto nell’opera di Lagrange derivasse dal problema matematico e quanto derivasse dal problema fisico è difficile da dire, in realtà l’impressione è che mai come nel settecento tra meccanica e calcolo simbolico la distinzione fosse impalpabile. Nel 1744 Maupertuis introduceva il principio di minima azione, partendo dal problema della rifrazione di un raggio di luce, ma basato su ragioni teologiche, Euler dava a tale principio un fondamento più fisico, ma dal 1768 al 1772 nelle sue Lettere ad una principessa tedesca sulla filosofia naturale anche lui ancora fondeva fisica, matematica, filosofia e teologia senza soluzione di continuità. Ma quando nel 1779 l’Accademia delle Scienze di Berlino indice un concorso sul tema delle ‘cause’ della forza, tema ragionevole per gli scienziati-filosofi del Seicento, molti filosofi partecipano, ma nessun fisico-matematico, c’è anzi tra questi una certa ironia sul tema. Un altro sviluppo che alla fine del settecento preannuncia la nuova analisi matematica dell’ottocento è l’abbandono progressivo del riferimento geometrico: già Lagrange si vanta di avere introdotto solo “operazioni algebriche” senza “né costruzioni né ragionamenti geometrici o meccanici” per chiarire i concetti, partendo dall’idea che ogni funzione era sempre sviluppabile in serie di potenze. E nella Mécanique Analytique di Lagrange del 1788 gli aspetti filosofici sono ormai del tutto assenti: viene utilizzato il ‘principio di minima azione’, ma esso non ha più alcuna motivazione che non sia puramente fisico-matematica. Oramai la fisica-matematica si separava definitivamente dalla filosofia: il suo fondamento era da un lato nella certezza della dimostrazione geometrica e del calcolo algebrico, dall’altro nella sua capacità di risolvere i problemi fisici. 101