9.1 Vulvo-vaginiti

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GINECOLOGIA
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Vulvo-vaginiti
DI NATURA NON INFETTIVA
Epidemiologia. Le vulvo-vaginiti di natura non infettiva
costituiscono un ampio capitolo della patologia flogistica
vulvo-vaginale rappresentando, infatti, almeno il 40% delle comuni affezioni del basso tratto genitale.
Fattori di rischio ed eziopatogenesi. Le cause che
possono determinare questo tipo di infiammazione sono
numerose, spesso misconosciute e di norma quasi mai
identificate con certezza. Spesso laddove viene riferita una
sintomatologia vulvo-vaginale, quasi sempre è ipotizzata
una noxa infettiva, cui segue la prescrizione di terapie, topiche od orali, di regola ad ampio spettro antimicrobico che,
non eliminando il fattore eziopatogenetico, non migliorano il disturbo; anzi, tali trattamenti diventano responsabili
di fenomeni di ipersensibilizzazione che tendono a perpetuare lo stato irritativo nel tempo.
I fattori che incrementano il rischio di sviluppare vulvo-vaginiti di natura non infettiva sono molteplici:
1) i rapporti sessuali, in quanto la formazione di abrasioni
microscopiche, dovute a un’inadeguata lubrificazione,
favorirebbe la penetrazione di agenti esterni, possibile
fonte di sensibilizzazione;
2) le abitudini igieniche: studi condotti su donne sessualmente attive hanno dimostrato come l’uso eccessivo di
detergenti intimi e lavande vaginali aumenti notevolmente il rischio di contrarre vulvo-vaginiti su base irritativa;
3) l’abbigliamento: l’abitudine a indossare indumenti molto attillati, soprattutto se costituiti da un materiale sintetico (nylon o lycra), contribuirebbe ad alterare l’ecosistema vaginale, rendendolo più sensibile a molecole esogene;
4) fattori psicologici: è stato dimostrato che alcune donne
affette da vulvo-vaginiti ricorrenti di natura non infettiva, conducono una vita sessuale insoddisfacente o sottacciono spesso quadri depressivi.
Clinica. Le manifestazioni cliniche sono del tutto aspecifiche e spesso indistinguibili dalle vulvo-vaginiti infettive,
in quanto rappresentate perlopiù da bruciore e prurito, dolore e senso di tensione. All’ispezione si possono osservare
arrossamento ed edema vulvare (vulvite eritematosa) accompagnati da escoriazioni e fissurazioni. Più raramente,
tali forme si possono associare alla comparsa di bolle, vescicole o ulcerazioni (reazione eritematoide), interessando
talora anche la vagina. La leucorrea (secrezione mucosa
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definita spesso dalle donne come “perdita vaginale”) può
essere presente ed è priva di alcun odore.
Una corretta e approfondita valutazione della storia clinica
e delle abitudini della donna rappresenta un approccio imprescindibile quando si sospetta un processo infiammatorio di natura non infettiva. Una volta esclusa la presenza
dei principali agenti infettivi (Candida albicans, Trichomonas
e Gardnerella vaginalis), diviene fondamentale porre una
corretta diagnosi. Patologie sistemiche di natura dermatologica (come psoriasi, lichen, penfigo, lupus, sindrome di
Behçet, sindrome di Padget) possono determinare quadri
vulvo-vaginali di difficile interpretazione per specialisti poco esperti.
La persistenza della sintomatologia accompagnata dalla
presenza di particolari stili e abitudini di vita (uso di assorbenti interni, salvaslip ecc.) devono orientare l’attenzione
sul fatto che possa trattarsi di una forma di ipersensibilità
vaginale ad agenti esterni.
Terapia e prevenzione. La terapia di tutte queste forme
consiste nell’eliminare la causa irritativa, allergizzante,
traumatica. Il primo presidio terapeutico, di importanza
fondamentale, risulta essere l’educazione della paziente.
Essa infatti, una volta messa a conoscenza della sua particolare sensibilità vaginale ad agenti esogeni, va informata
rispetto ai comportamenti e alle abitudini di vita corretti
che possono risolvere la sua sintomatologia. Rimosso l’agente sensibilizzante (quando riconosciuto) è fondamentale nelle donne “ipersensibili” evitare:
1) qualsiasi stimolo irritativo: applicazioni vaginali di
deodoranti spray, profumi, saponi eccessivamente alcalini o ricchi di coloranti, lavande vaginali, creme depilatorie;
2) l’abitudine ad una eccessiva igiene intima: potrebbe alterare le naturali difese immunitarie vaginali e la flora
microbica saprofita;
3) l’utilizzo di assorbenti interni; questi dovranno essere
sostituiti da quelli esterni, preferibilmente non dotati di
“ali protettive” in quanto il materiale adesivo di cui sono costituite è ricco di colla in grado di sciogliersi a contatto con le normali sudorazioni e capace, quindi, di generare prurito e fenomeni di sensibilizzazione.
Inoltre è di importanza fondamentale informare la donna
sulle più basilari nozioni di fisiologia vaginale (le funzioni
della mucosa, il ruolo del pH e delle secrezioni in generale
ecc.); ciò la rende spesso partecipe di un “percorso medico” di difficile gestione.
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Nelle reazioni più gravi, con sintomatologia intensa e dolorosa, è consigliabile praticare impacchi con compresse rivestite da acido borico o soluzioni 1:20 di alluminio acetato. Anche l’applicazione locale di creme a base di corticosteroidi può provocare una rapida regressione dei sintomi,
specie se la forma ha una base allergica. Tali applicazioni
devono essere protratte per 2-3 settimane se la pelle vulvare presenta già fatti di lichenificazione. In alcuni casi, se necessario, è possibile somministrare dei corticosteroidi anche per via orale.
Meno indicate sono le creme antistaminiche e a base di
sodio cromoglicato che dimostrano una certa efficacia nelle reazioni vulvari al trattamento con antibiotici locali come la penicillina, ma hanno l’inconveniente, nelle forme
su base irritativo-traumatica, di dare origine a reazioni allergiche.
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Raramente le perdite sono accompagnate da prurito, bruciore e dolore durante i rapporti sessuali.
Diagnosi. Si basa essenzialmente sui criteri di Amsel et
al., che hanno proposto per la diagnosi clinica di questa patologia la presenza di 3 dei seguenti requisiti:
1) leucorrea bianco-grigiastra omogenea e tendente ad
aderire alle pareti della vagina;
2) pH vaginale superiore a 4,5;
3) sviluppo del fish-odor dopo alcalinizzazione con idrato
di potassio al 10% del secreto vaginale (Fishy-odor-test
o ammino-test);
4) presenza di più del 20% di cellule di sfaldamento coperte da cellule batteriche (clue cells) all’esame microscopico a fresco del secreto vaginale.
Sono inoltre utilizzabili a scopo diagnostico l’esame colturale, la colorazione di Gram, ELISA (PCR).
Vaginosi batterica
Tra le infezioni del basso tratto genitale femminile, un ruolo di primaria importanza è rivestito dalla vaginosi batterica (VB) che costituisce, insieme alla vulvo-vaginite micotica (VVC), la causa più frequente di vaginiti nelle donne in
età fertile.
Eziopatogenesi. Il termine stesso “vaginosi” indica come non si tratti di una vera e propria infezione, bensì di
un sovvertimento dell’ecosistema vaginale, caratterizzato
da una riduzione della normale flora latto-bacillare produttrice di perossido di idrogeno, ad azione battericida nei
confronti dei batteri anaerobi. Come conseguenza si verifica un incremento di una flora patogena, composta da
Gardnerella vaginalis, anaerobi e micoplasmi (prevalentemente Mycoplasma hominis), con produzione di amine
aromatiche che si liberano dal loro metabolismo, quali la
putrescina e la cadaverina. In particolare, la Gardnerella vaginalis che possiede “adesina” di natura proteica, aderisce
all’epitelio vaginale e determina la lisi desquamativa delle
cellule intermedie e l’adesione dell’essudato alle pareti vaginali.
Clinica. La VB si manifesta con la presenza di secrezioni
abbondanti, dense e maleodoranti, aderenti alle pareti vaginali; possono essere omogenee, grigio-verdastre, abbastanza fluide e talora schiumose. La caratteristica che le
rende uniche è, soprattutto, il cattivo odore a cui si accompagnano, un odore acre, simile a quello del pesce avariato,
che deriva dai prodotti del metabolismo di questi microrganismi. Tale sgradevole odore si accentua specialmente
dopo un rapporto sessuale non protetto e, tipicamente,
non recede dopo ripetute toilettes igieniche; oltre alle perdite è possibile riscontrare un rialzo del pH vaginale (> 4,5).
Sequele. Dai primi anni ’80 è stato dimostrato un ruolo eziopatogenetico della VB in alcune patologie ostetriche,quali l’aborto nel primo trimestre,la rottura prematura delle membrane, la corionamionite, il parto pretermine, la nascita di neonato di basso peso e l’endometrite puerperale.Attualmente si ritiene che una politica efficace di controllo dellaVB potrebbe ridurre significativamente l’incidenza di parti pretermine, con
notevole risparmio in termini di costi sociali ed economici.
Le ipotesi sulla patogenesi del parto pretermine da causa
batterica sono diverse: alcuni batteri, quali le prevotelle e i
peptostreptococchi, presenti in gran numero in caso di VB,
producono ingenti quantitativi di un enzima, la fosfolipasi
A2, che, come è noto, è in grado di liberare acido arachidonico dalle cellule amnio-coriali e di innescare la cascata
prostaglandinica; d’altra parte l’attivazione della sintesi di
prostaglandine è favorita anche dall’aumentato rilascio di
interleuchina-1, conseguente alla presenza in vagina di
un’elevata concentrazione di endotossine batteriche. Alterazioni nella concentrazione vaginale di altre citochine (IL6), chemochine (IL-8) e antagonisti di recettori formano
anche parte del quadro di equilibrio pro-/anti-infiammatorio. Recenti studi sulla valutazione della risposta mucosale
all’infezione hanno permesso di evidenziare una certa variabilità nell’entità della risposta anticorpale contro l‘emolisina prodotta dalla Gardnerella vaginalis. È dimostrabile,
infatti, l’esistenza di alcune forme di VB nelle quali una
compromissione immunologica locale (diminuzione delle
IgA, degradazione delle catene delle IgM, aumento delle
sialidasi ecc.) potrebbe essere responsabile della gravità
delle conseguenze dell’infezione in gravidanza.
Inoltre, in particolar modo, l’aumento del pH vaginale in corso di VB e i suoi effetti sulla risposta immune innata, appaiono di fondamentale importanza. La letteratura di questi ulti-
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patologico del pH, non è ancora stabilito se questo possa essere sufficiente per permettere la colonizzazione vaginale da
parte di anaerobi, o invece ne sia una conseguenza. L’innalzamento del pH avrebbe infatti un effetto diretto sulle funzioni delle cellule mucosali, e in particolare dei fagociti, con
inibizione della chemiotassi, della fagocitosi e dell’attività
battericida e aumento della produzione di alcune citochine.
Terapia. La terapia, volta all’eradicazione dell’infezione e
al ripristino della flora batterica vaginale normale, si basa
sull’uso di un antibiotico, il metronidazolo o, in alternativa,
la clindamicina, assunti per via topica sotto forma di ovuli
o candelette vaginali, o per via orale.
Date le evidenze cliniche e sperimentali e considerata altresì
la relativa semplicità e il basso costo della diagnosi, in molti
Paesi viene raccomandato lo screening di tutte le gravide e il
trattamento antibiotico delle positive. Purtroppo non disponiamo ancora di trial clinici sufficientemente ampi per poter
avere sicure conferme. Inoltre, non tutti gli Autori concordano sulla reale necessità di istituire un programma di screening randomizzato. A tal proposito, il CDC raccomanda lo
screening e l’eventuale trattamento nelle pazienti ad alto rischio di parto pretermine (in particolare nelle donne che presentano pregressi episodi di parto pretermine e/o aborto tardivo all’anamnesi), mentre per le pazienti a basso rischio, al
momento, non sussiste l’indicazione allo screening.
Trattandosi di un’alterazione dell’ecosistema vaginale più
che di un’infezione, non vi sono norme igieniche né comportamentali da consigliare alla donna per prevenire tale
quadro clinico, alla base del quale si riconosce la presenza
di una riduzione quantitativa dei potenziali fattori di difesa
vaginali (lactobacilli). Elementi quali lo stress, le terapie antibiotiche ad ampio spettro e un’indole tendenzialmente
depressiva possono influire sulle difese immunitarie e
quindi predisporre alla vaginosi.
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esterno. Secondo i dati forniti dall’OMS, ogni anno vengono registrati 400 milioni di nuovi casi di MST nella fascia di
età compresa tra i 15 e i 45 anni (esclusi i casi legati all’HIV), distribuiti per lo più in Sudafrica e nel Sud-Est
asiatico. Rispetto al secolo scorso, quando le più frequenti
erano le classiche “malattie veneree”, cioè sifilide e gonorrea, oggi le più diffuse in Italia sono quelle da Chlamydia,
micoplasmi, herpes e HPV, ma il quadro potrebbe modificarsi, sia per il cambiamento delle abitudini sessuali (promiscuità sessuale, tossico-dipendenza), sia per l’importazione di altri agenti patogeni dalle regioni tropicali. Per di
più, i pazienti affetti da MST presentano soluzioni di continuo e iperemia (maggiore vascolarizzazione) a livello delle mucose genitali: in questo modo non sono solo più
esposti all’infezione da HIV, ma anche, se HIV +, sono fonti di contagio del/dei partner creando, a livello della popolazione, una “sinergia epidemiologica”.
L’emergenza, quindi, di nuovi patogeni e di nuove malattie, la necessità di ridurre al minimo il periodo di contagio
e di migliorare la compliance dei pazienti alla terapia, inducono lo specialista a scegliere le metodiche più valide
nella diagnosi e le terapie più efficaci per la rapida eradicazione dell’infezione.
L’obiettivo principale della prevenzione delle MST è quello
di ridurre il rischio di contagio, adottando misure comportamentali sessuali ben codificate: astinenza sessuale, piuttosto che un rapporto a rischio; riduzione della promiscuità
sessuale; uso costante del condom.
In caso di MST in atto o sospetta, va consigliata l’astensione sempre e comunque dai rapporti sessuali; mentre in caso di comportamenti a rischio, vanno prescritti regolari
controlli clinici e di laboratorio.
La classificazione delle malattie sessualmente trasmesse è
riassunta nella Tabella 9.1.
Malattie sessualmente trasmesse
a eziologia batterica
DI NATURA INFETTIVA E MALATTIE
SESSUALMENTE TRASMESSE (MST)
SIFILIDE
La sifilide è una malattia cronica che si manifesta con una
tipica sintomatologia cutaneo-mucosa e con interessamento degli organi interni.
Epidemiologia. Le malattie sessualmente trasmesse rappresentano un gruppo di patologie infettive emergenti,
non solo nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli industrializzati, compresa l’Italia. Sono causate da diversi
agenti patogeni, di cui se ne conoscono almeno una ventina, tra cui virus, miceti, batteri, micoplasmi ecc. che hanno
in comune la modalità di contagio (quasi esclusivamente
sessuale) e il fatto di essere poco resistenti all’ambiente
Epidemiologia. Rara nei Paesi occidentali, colpisce più
frequentemente la seconda-terza decade; il contagio avviene per lo più attraverso i rapporti sessuali (sifilide venerea), ma è possibile anche la trasmissione verticaletransplacentare (sifilide congenita o prenatale). Eccezionalmente viene descritto un contagio alla nascita, durante il passaggio attraverso il canale da parto, o da contatti
interpersonali.
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Tabella 9.1
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CLASSIFICAZIONE DELLE MALATTIE SESSUALMENTE TRASMESSE (MST)
Malattie sessualmente trasmesse
Agente eziologico
Sifilide
Gonorrea
Ulcera venerea
Donovanosi
Infezioni da micoplasmi genitali
Linfogranuloma venereo
Infezione da Chlamydia trachomatis
Treponema pallidum
Neisseria gonorrhoeae
Haemophilus ducreyi
Calymmatobacterium granulomatis
Mycoplasma hominis
Mycoplasma fermentans
Mycoplasma genitalium
Ureaplasma urealyticum
Chlamydia trachomatis L1-L2-L3
Chlamydia trachomatis D e K
Micotiche
Candidosi genitale
Candida albicans, krusei, glabrata e tropicalis
Protozoarie
Trichomoniasi genitale
Trichomonas vaginalis
Virali
Herpes simplex ano-genitale
Papillomatosi-condilomatosi
Mollusco contagioso
Infezioni da HIV
HSV tipo 1 e 2
HPV
Virus del mollusco contagioso
HIV tipo 1 e 2
Parassitarie
Scabbia
Pediculosi del pube
Sarcoptes scabiei hominis
Phtirius pubis
Batteriche
Eziopatogenesi. È causata dal Treponema pallidum, subspecie pallidum, una spirocheta microaerofila patogena solo per l’uomo, dotata di breve vita al di fuori dell’organismo
infetto, essendo molto sensibile all’essiccamento, ai raggi
UV ed ai blandi antisettici.
Clinica. Nel 50% decorre in modo asintomatico (sifilide
latente); negli altri casi la clinica dipende dalla modalità di
contagio.
1) Sifilide venerea: al periodo di incubazione di 7-40 giorni
(media 3 settimane) dal contagio, fa seguito il periodo primario, caratterizzato dalla comparsa del sifiloma o sifilosclerosi e di adenopatia satellite. Il sifiloma è un nodulo
unico, duro, rotondeggiante, del diametro di circa 1 cm, localizzato nella sede di inoculazione della spirocheta; può
andare incontro a erosione, spontanea o secondaria a fatti traumatici, con fuoriuscita di liquido limpido; la risoluzione è spontanea nel giro di 4-6 settimane. Il sifiloma può
mancare ed essere sostituito da una flogosi diffusa della
vulva (vulvite sifilitica di Follmann). Il periodo primario dura circa 2 mesi e lascia il posto al periodo secondario, che
può protrarsi fino a 2-3 anni, pleiomorfo, in quanto, a fianco della tipica eruzione sifilodermica, caratterizzata da roseole e papule, molto contagiose (sifilomi secondari), possono comparire lesioni mucose o papulose, alterazioni cutanee pigmentarie (collare di Venere), alopecia diffusa o
areolare, manifestazioni a carico degli organi interni (epatite, paralisi dei nervi cranici, meningite ecc.), poliadenopatia generalizzata con o senza febbre. L’esantema evolve
nel corso di 2-10 settimane verso la risoluzione clinica, ma
i segni sierologici (anticorpi specifici anti-Tp) di infezione
(fase latente siero-positiva) nel 60-70% dei casi persistono
per tutta la vita. Nel 30% dei casi non trattati, dopo alcuni
anni (5-15, in media 3-4 anni) compaiono le lesioni terziarie (sifilodermi nodulari terziari e forme sifilitiche), lesioni cutanee e/o mucose localizzate e persistenti in forma
di noduli e gomme, con frequente coinvolgimento degli
organi interni (sifilide cardio-vascolare, neurosifilide, tabe
dorsale ecc.). Esiste inoltre una forma acefala, in cui, per effetto di antibiotici assunti per altri motivi, possono mancare il sifiloma e l’adenopatia satellite, e la forma maligna (tipica dei soggetti immuno-compromessi o defedati) che si
manifesta con sifilodermi ulcerosi.
2) Sifilide congenita: manca il periodo primario, perché il
contagio avviene attraverso il sangue del cordone ombelicale. Esistono tre forme:
a) sifilide congenita latente: è la più frequente;
b) sifilide congenita precoce: compare entro i primi 2 anni di
vita e si caratterizza per le lesioni cutanee (sifilodermi
pemfigoidi o papulosi), mucose, ossee (osteocondrite),
epato- e splenomegalia, interessamento del SNC;
c) sifilide congenita tardiva: si manifesta dopo i 2 anni di
vita con cheratite interstiziale (cecità) e lesioni dell’orecchio interno (sordità). Da ricordare le stigmate della sifilide congenita: naso a sella, cicatrici radiate periorifiziali, tibia a sciabola, denti di Hutchinson (incisivi mediani superiori con obliquità verso il basso e
orletto a semiluna).
Diagnosi. Oltre che obiettiva, viene posta attraverso l’isolamento del treponema nelle lesioni e/o la ricerca sierologica di anticorpi antilipoidei o antireaginici (per valutare l’atti-
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Tabella 9.2
SCHEMA TERAPEUTICO DELLA PENICILLINA NELLA SIFILIDE
Sifilide primaria o secondaria o sieropositiva
latente recente (< 1 anno)
• Benzatin penicillina G 2.400.000 UI i.m. unica somministrazione
• Se allergia: doxiciclina 100 mg per os 2/die per 2 settimane
oppure: tetraciclina 500 mg per os 4/die per 2 settimane
oppure: eritromicina 500 mg per os 4/die per 2 settimane
Controllo clinico e sierologico a 3 e 6 mesi
Sifilide latente sieropositiva tardiva (> 1 anno)
• Benzatin penicillina G 2.400.000 UI i.m. unica somministrazione
una volta alla settimana per 3 settimane
• Se allergia: doxiciclina 100 mg per os 2/die per 4 settimane
oppure: tetraciclina 500 mg per os 4/die per 4 settimane
oppure: eritromicina 500 mg per os 4/die per 2 settimane
Controllo clinico e sierologico a 6 e a 12 mesi
Neurosifilide
• Penicillina acquosa cristallina 12-24.000.000 UI/die e.v. per 1014 giorni
• Se allergia: procedure di desensibilizzazione e poi terapia con penicillina
Controllo del liquor ogni 6
mesi per i primi 2 anni
Sifilide congenita
neonatale
• Penicillina acquosa cristallina 100.000-150.000 UI/kg/die per 1014 giorni. Il trattamento va effettuato sempre in caso di dubbi, in
mancanza del test IgM; se la madre è stata trattata con sola eritromicina; ha anticorpi anti-Tp senza anamnesi di sifilide; è stata
trattata solo all’ultimo mese di gravidanza; il trattamento, pur
adeguato, è stato seguito da un follow-up troppo breve; o se il
neonato presenta segni clinici e/o radiologici di sifilide, o un titolo
sierico di anticorpi antilipoidei 4 volte superiori a quelli della madre o positività liquorale
Controllo clinico e sierologico ogni 3 mesi; controllo
del liquor a 6 mesi
Sifilide congenita
postnatale
• Penicillina acquosa cristallina 200.000-300.000 UI/kg/die per 1014 giorni
• Se allergia: procedure di desensibilizzazione e poi terapia con penicillina
Sifilide in corso di HIV
• Benzatin penicillina G 2.400.000 UI i.m. unica somministrazione,
una volta alla settimana per 3 settimane
• Se presenti segni di neurosifilide: penicillina acquosa cristallina
12-24.000.000 UI/die e.v. per 10-14 giorni
vità della malattia: reazione di VDRL di microflocculazione
alla cardiolipina) ed antitreponema (TPHA, ELISA IgG-IgM,
FTA-ABS). Secondo i diversi quadri riscontrabili, gli accertamenti diagnostici raccomandati dall’Istituto Superiore di Sanità sono di seguito elencati.
1) Sifilide acquisita recente:
a) ricerca e isolamento microscopico del treponema al
paraboloide su essudato di lesione;
b) ricerca anticorpi antitreponema nel sangue (TPHA,
ELISA IgG ed IgM anti-Tp);
c) ricerca di anticorpi antilipoidei nel sangue e loro titolazione con VDRL o RPR.
2) Sifilide acquisita tardiva:
a) ricerca di anticorpi antitreponemici nel sangue
(TPHA, ELISA IgG e IgM anti-Tp);
b) ricerca di anticorpi antilipoidei nel sangue e loro titolazione con VDRL o RPR;
c) accertamenti come per neurosifilide se sintomi neurologici e/o oftalmici, altri segni di sifilide attiva (gomme, aortite) e/o titoli di RPR o VDRL > 1:32.
3) Neurosifilide:
a) ricerca di anticorpi antilipoidei nel liquor e loro titolazione con VDRL o RPR;
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b) determinazione dei livelli dell’albumina del liquor;
c) citometria liquorale.
4) Sifilide congenita neonatale:
a) ricerca di anticorpi antitreponemici di classe IgM nel
sangue con 19S IgM FTA-ABS e/o 19S IgM TPHA e/o
ELISA IgM a cattura;
b) ricerca di anticorpi antipoidei nel sangue e loro titolazione con VDRL o RPR;
c) accertamenti come per neurosifilide.
5) Sifilide congenita postnatale:
a) ricerca di anticorpi antitreponemici nel sangue con
TPHA e/o ELISA IgG ed IgM anti-Tp;
b) ricerca di anticorpi antilipoidei nel sangue e loro titolazione con VDRL o RPR;
c) accertamenti come per neurosifilide.
La determinazione dell’antigene treponemico con PCR
(polymerase chain reaction) o la ricerca di anticorpi specifici
con la metodica Western blot non costituiscono indagini di
routine. Si consiglia di sottoporre i pazienti con sospetta sifilide ad accertamenti per HIV.
Terapia. È fondamentalmente basata sull’uso della penicillina, secondo gli schemi della Tabella 9.2.
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GONORREA
È la più comune delle MST, responsabile di uretrite anteriore acuta o subacuta nel maschio, endocervicite nella
donna, anorettite nell’omosessuale maschio o nella donna
e faringite in entrambi i sessi.
Epidemiologia. È più frequente nei Paesi poveri, in cui le
condizioni igieniche e socio-economiche sono scadenti;
colpisce prevalentemente il sesso maschile, con contagio
sessuale (eccezionale è il contagio indiretto).
Eziopatogenesi. L’agente etiologico è la Neisseria gonorrhoeae, o gonococco, un diplococco Gram-negativo, microaerofilo, sensibile ai blandi antisettici e dotato di tropismo per gli epiteli cilindrici semplici: l’adesione delle cellule batteriche alle superfici mucose, decisivo per lo sviluppo
della malattia, avviene infatti solo a livello degli epiteli cilindrici.
Clinica. Anche se spesso asintomatica, l’infezione si può
manifestare con segni di flogosi nel punto di penetrazione
del germe, cui possono far seguito complicanze locali, generali e a distanza.
Tipica dell’infezione gonococcica nel maschio è l’uretrite
acuta, inizialmente solo della porzione anteriore dell’uretra, con essudazione catarrale e poi purulenta (scolo dal
meato uretrale di pus giallo-verdastro), che spesso si complica, a distanza di 3-4 settimane, con uretrite posteriore
(restringimenti uretrali e disturbi minzionali), prostatite
(disuria, erezioni notturne dolorose, dolore alla defecazione), epididimite, cowperite.
Nella donna l’infezione gonococcica può determinare bartolinite, endometrite, annessite, fino alla malattia infiammatoria pelvica (PID) e conseguente sterilità.
Se contratta in gravidanza, è frequente la congiuntivite gonococcica del neonato acquisita durante il passaggio nel
canale del parto (ophtalmia neonatorum).
Nella bambina, vittima di abuso sessuale o a seguito di
contagio ambientale, l’infezione si può manifestare con un
quadro di vulvo-vaginite purulenta.
Complicanze sistemiche, comuni ai due sessi, sono legate
alla disseminazione ematogena (a partenza dalla prostata
o dagli annessi) dell’infezione (infezione gonococcica disseminata) che a sua volta può dare origine a endocardite,
meningite, artrite purulenta, alterazioni cutanee (petecchie,
papule ecc.).
L’infezione può avere andamento cronico, con periodiche
riaccensioni, a seguito di abusi alimentari o sessuali, decadimento delle condizioni generali o altre infezioni.
Possibili sequele sono da considerarsi la stenosi uretrale nel
maschio, la gravidanza extrauterina nella donna e l’infertilità o l’ipofertilità in entrambi i sessi.
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Diagnosi. La diagnosi si basa sull’isolamento del germe
attraverso:
1) ricerca microscopica diretta del secreto (da prelievo uretrale nel maschio) previa colorazione Gram: il gonococco è visibile all’interno dei polimorfonucleati;
2) ricerca colturale su terreni all’agar sangue (Thayer-Martin) e successiva identificazione con metodo Gram;
3) prova dell’ossidasi e fermentazione degli zuccheri;
4) ricerca di DNA ed RNA batterico con sistemi di ibridizzazione molecolare e amplificazione genica sui secreti.
Queste indagini dovrebbero essere completate con la ricerca di produzione della -lattamasi (test alla cefalosporina cromogena) e l’antibiogramma, allo scopo di accertare eventuali resistenze plasmidiche o cromosomiche
(E-TEST).
Terapia. La terapia si basa essenzialmente sull’uso della
spectinomicina, soprattutto per le localizzazioni uretrali e
cervicali, alla dose di 2 g in un’unica somministrazione per
via parenterale. Viene impiegato anche il ceftriaxone, 250
mg in dose unica per via parenterale.Terapie alternative sono: ofloxacina per os, 400 mg in unica somministrazione;
azitromicina per os 1 g in unica somministrazione; cefixime per os 400 mg in unica somministrazione (controindicato in gravidanza, durante l’allattamento e nei pazienti di
età inferiore ai 18 anni).
ULCERA VENEREA O CANCROIDE
Malattia sessualmente trasmessa che si manifesta con lesioni ulcerative della zona ano-genitale e linfadenite satellite a tendenza suppurativa (bubbone venereo).
Epidemiologia. Frequente nei Paesi in via di sviluppo, è
endemica nei Paesi tropicali. Il contagio è esclusivamente
sessuale, il sesso maggiormente colpito è quello maschile.
Eziopatogenesi. L’agente eziologico è l’Haemophilus ducreyi, bacillo Gram-negativo lungo 1-2 micron, a forma di
bastoncello o navetta di tessitore, che si dispone nelle secrezioni in catenelle giustapposte o in ammassi intra-extraleucocitari.
Clinica. Dopo un periodo di incubazione di 3-10 giorni,
nel punto di penetrazione compare una lesione papulopustolosa, vivamente dolente alla pressione, che rapidamente si ulcera. Per fenomeni di autoinoculazione è frequente il riscontro di lesioni secondarie più piccole. Nel
50% dei casi si associa una linfadenite regionale suppurativa, abitualmente monolaterale con febbre.
Nel 75% dei casi si assiste a una risoluzione spontanea del
quadro infettivo; nei rimanenti casi può recidivare o cronicizzare.
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Diagnosi. La diagnosi di ulcera venerea si basa sull’isolamento dell’Haemophilus dalle lesioni genitali mediante:
1) osservazione microscopica diretta, previa colorazione
Gram o Giemsa;
2) coltura in terreni al sangue e siero fetale bovino e Isovitalex e successiva identificazione mediante colorazione
Gram e/o sonde DNA.
È raccomandata la ricerca di anticorpi anti-HIV, HSV e Treponema pallidum, data la frequente coesistenza di queste
infezioni.
Terapia. Azitromicina 1 g per os in dose unica, oppure
ceftriaxone 250 mg i.m. in dose unica, oppure eritromicina
500 mg per os per 4/die per 7 giorni.
In alternativa si possono utilizzare: amoxicillina 500 mg più
acido clavulanico 125 mg per os per 3/die per 7 giorni o ciprofloxacina 500 mg per os per 2/die per 3 giorni.
DONOVANOSI O GRANULOMA INGUINALE
La donovanosi è una malattia autoinoculabile della cute e
delle mucose anali e genitali, che provoca ulcerazioni torpide e non dolorose in sede inguinale, con tumefazione dei
tessuti molli, senza interessamento dei linfonodi.
Epidemiologia. Comune nei Paesi tropicali e subtropicali, colpisce con uguale frequenza entrambi i sessi.
Eziopatogenesi. È causata dal Calymmatobacterium granulomatis, batterio Gram-negativo che si riproduce all’interno di cellule istiocitarie e cellule polimorfonucleate.
Clinica. Dopo un breve periodo di incubazione (2-8 giorni) compaiono, nella sede di contatto, lesioni granulomatose arrossate con cercine rilevato, ulcerate, poco profonde,
non dolorose, del diametro di qualche centimetro. La lesione superficiale è spesso sede di sovrainfezioni e le ulcere non trattate durano per anni, chiudendosi al centro, ma
allargandosi alla periferia.
Diagnosi. La diagnosi si basa sull’obiettività clinica e sull’isolamento del germe mediante colorazione di Wright e
Giemsa con la visualizzazione dei tipici corpi inclusi di Donovan.
Terapia. Doxiciclina 100 mg per os 2 volte/die per almeno
3 settimane e pomate di clortetraciclina.
MICOPLASMI
I micoplasmi sono i più piccoli organismi dotati di vita autonoma, responsabili di infezioni simil-gonococciche sessualmente trasmesse che si manifestano con segni di uretrite nel maschio ed endocervicite nella femmina.
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Epidemiologia. I micoplasmi sono distribuiti ubiquitariamente. Le infezioni da micoplasmi sono malattie tipiche
dell’età riproduttiva: il neonato si può infettare nel passaggio lungo il canale da parto; fino alla pubertà la frequenza
di isolamento del germe resta bassa, ma successivamente
aumenta parallelamente con l’età e più rapidamente nel
sesso femminile. Esiste una forte correlazione tra frequenza di isolamento, attività sessuale e numero di partner: fattori comportamentali (giovane età, inizio precoce dell’attività sessuale, partner multipli nei precedenti 30 giorni) implicano una modalità di trasmissione per via sessuale, ma
l’infezione sembra anche associarsi a fattori che alterano
l’ecoambiente vaginale: infatti, commensali delle basse vie
genitali possono assumere un ruolo patogeno quando la
loro concentrazione supera i 103/ml CFU.
Eziopatogenesi. I micoplasmi appartengono alla classe
di Mollicutes, così definiti per la mancanza di una vera parete cellulare (possiedono solo la membrana plasmatica,
composta da uno strato lipoproteico) e sono i più piccoli
procarioti in grado di moltiplicarsi autonomamente: di dimensioni molto ridotte (0,3-0,8 micron) e privi di nucleo, si
riproducono per divisione binaria. Nel tratto genitale sono
state individuate quattro specie di micoplasmi: Ureaplasma
urealyticum, Mycoplasma hominis, Mycoplasma fermentans,
Mycoplasma genitalium. La maggior parte dei micoplasmi
aderisce al rivestimento mucoso, come parassiti di superficie e tale adesione è il prerequisito per la colonizzazione e
l’infezione, ma è descritta anche una localizzazione intracellulare, che li proteggerebbe dall’aggressione del sistema
immunitario e degli antibiotici, rendendoli difficili da eradicare. Il meccanismo del danno nelle infezioni da micoplasmi sarebbe legato maggiormente alla risposta immunitaria (produzione di anticorpi sistemici e locali, stimolazione della risposta cellulo-mediata, fagocitosi, soppressione
o stimolazione di cloni di linfociti B o T, produzione di citochine, attivazione della cascata del complemento ecc.) e infiammatoria, più che a effetti tossici diretti.
Clinica. L’Ureaplasma è responsabile di uretrite, talvolta
asintomatica, prostatite ed epididimite nel maschio, mentre nella donna l’infezione può determinare vaginite, con
leucorrea scarsa o assente, cervicite muco-purulenta, bartolinite, uretrite e, raramente, annessite. È stato isolato nelle secrezioni spermatiche e cervicali di coppie con sterilità
ad eziologia sconosciuta ed in gravidanza è responsabile di
aborto tardivo, ritardo di crescita fetale, infezioni neonatali. Il Mycoplasma hominis è causa di vaginosi batterica, salpingiti, PID, aborti settici, febbre puerperale.
Diagnosi. La diagnosi di infezione da micoplasmi è basata sull’isolamento dei patogeni dai liquidi biologici genita-
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li mediante esame colturale con terreni specifici. I micoplasmi, avendo grande affinità per le cellule delle mucose urogenitali, vanno ricercati attraverso il grattamento della mucosa uretrale, lo strofinamento con tampone della mucosa
vaginale, nel primo mitto urinario o nello sperma. È utile
sempre determinare la carica batterica e l’antibiogramma.
Terapia. Doxiciclina 100 mg per os 2/die per 7 giorni, oppure eritromicina 500 mg per os 4/die per 7 giorni.
CHLAMYDIA
Le Chlamydie sono batteri molto piccoli a parassitismo intracellulare obbligato, che alla colorazione Giemsa appaiono come corpuscoli intracitoplasmatici di color rosso porpora. Come i virus non si riproducono nei terreni artificiali, ma solo su
monostrati cellulari, ma diversamente dai virus contengono
entrambi gli acidi nucleici, hanno una parete cellulare propria
e si moltiplicano per divisione binaria nel corso di un complesso ciclo biologico. Questo comprende corpi elementari, a
forma rotondeggiante, diametro di 0,35 micron, adatti alla vita extracellulare e corpi reticolari, derivati dai precedenti, di
diametro di 1 micron, con DNA distribuito diffusamente ed
in grado di riprodursi, presenti solo in sede intracellulare.
La Chlamydia penetra per fagocitosi all’interno della cellula
ospite come corpo elementare; la fusione fagosoma-lisosoma
viene inibita da un costituente della parete batterica e lo sviluppo successivo avviene all’interno del vacuolo così formatosi; alcune ore dopo la penetrazione, il corpo elementare si
trasforma in corpo reticolare: dopo 36-72 ore dall’infezione,
la cellula ospita una popolazione di corpi elementari e reticolari (inclusioni citoplasmatiche), la cui evoluzione porterà alla rottura della cellula parassitata con liberazione di corpi elementari in grado di infettare nuove cellule.
Al genere Chlamydia appartengono tre specie: la Chlamydia psittaci, agente della psittacosi, la Chlamydia pneumoniae, responsabile di polmoniti e la Chlamydia trachomatis
responsabile di tracoma endemico (sierotipi A, B, Ba e C),
del linfogranuloma venereo (sierotipi L1, L2, L3) e della
congiuntivite da corpi inclusi e malattie sessualmente trasmesse (sierotipi da D a K).
LINFOGRANULOMA VENEREO
O LINFOGRANULOMA INGUINALE
Il linfogranuloma venereo (o linfogranuloma inguinale o
malattia di Nicolas Favre), è una malattia sessualmente trasmessa caratterizzata da una lesione ulcerativa spesso fugace
ed un’adenopatia cronica soggetta a fistolizzazioni multiple.
Epidemiologia. È frequente nelle regioni tropicali e subtropicali, eccezionale in Italia ed in Europa, dove si osserva
in immigrati o turisti che hanno soggiornato in aree endemiche. Il contagio, nel 50-80% dei casi, può passare inos-
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servato perché nel punto di penetrazione possono comparire solo delle piccole soluzioni di continuo delle mucose
genitali con una linfoadenopatia satellite.
Eziopatogenesi. È causata dai sierotipi L1, L2, L3 di
Chlamydia trachomatis, che mostrano un particolare tropismo per il sistema reticoloendoteliale e linfonodale.
Clinica. Dopo un periodo di incubazione, variabile da pochi giorni a un mese (in media una settimana), compare nel
punto di penetrazione del germe una lesione, generalmente unica e fugace (ulcera adenogena) che può assumere un
aspetto erpetiforme, nodulare simil-sifiloma, o ulcerativo.
Più raro è l’esordio con un’uretrite acuta mucopurulenta o,
negli omosessuali, con una proctite subacuta. A questa prima fase fa seguito l’adenopatia satellite (generalmente in
sede inguinale, se la penetrazione è a livello genitale, ovvero a livello delle catene iliache e paraortiche, se la penetrazione è a livello della mucosa ano-rettale): i linfonodi sono
dapprima duro-elastici, mobili e non dolenti, ma ben presto, per fenomeni di periadenite diventano confluenti e fistolizzano alla cute producendo materiale purulento filante
simil-caseoso. La propagazione sottocutanea per via linfatica con estensione perineale e le cicatrici deformanti, accompagnate a fistole, possono essere responsabili di elefantiasi linfogranulomatosa del pene e dello scroto e, nella
donna, di “estiomene”, cioè edema duro di tutta la zona
ano-genitale, che, quando è associato ad ulcerazioni può
determinare fistole multiple vagino-rettali, vagino-vescicali,
vagino-uretrali. L’infezione da Chlamydia può penetrare anche, per erosione, nel torrente ematico e dare localizzazioni
secondarie a carico del SNC e dell’apparato scheletrico.
Diagnosi. La diagnosi di linfogranuloma venereo si basa
sull’isolamento e il riconoscimento della Chlamydia dalle
lesioni sospette. Il riconoscimento può avvenire attraverso
l’osservazione microscopica diretta e dopo colorazione
Giemsa o con anticorpi monoclonali fluoresceinati anti-C.
trachomatis, o con esame colturale su monostrato cellulare,
successiva identificazione degli isolati con anticorpi monoclonali fluoresceinati anti-C. trachomatis ed eventuale tipizzazione mediante test di microimmunofluorescenza o preferibilmente ELISA con anticorpi subspecie-specifici.
Terapia. Doxiciclina 100 mg per os 2/die per 3 settimane,
oppure eritromicina 500 mg per os 4/die per 3 settimane
oppure trimetoprim più sulfametoxazolo 800 mg per os
2/die per 3 settimane.
INFEZIONE DA CHLAMYDIA TRACHOMATIS
L’infezione da Chlamydia trachomatis è una malattia sessualmente trasmessa o acquisita durante il passaggio attra-
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verso il canale da parto, responsabile del 40% di uretriti
non gonococciche o postgonococciche.
Epidemiologia. Molto diffusa, senza predilezione né di
razza, né di sesso, colpisce prevalentemente l’età adulta,
dopo l’inizio dell’attività sessuale ed è responsabile della
malattia a trasmissione sessuale con maggiore prevalenza nei Paesi industrializzati e forse in tutto il mondo. La
trasmissione è pressoché esclusivamente per via sessuale
o perinatale; l’età riflette i comportamenti sessuali (la prevalenza diminuisce rapidamente nelle donne dopo i 25
anni, sia per le modificazioni nel comportamento sia per
l’acquisizione di immunità). L’infezione sembra essere più
frequente nelle popolazioni a basso livello socio-economico e scolastico; è rara tra gli omosessuali (maschi e
femmine).
Eziopatogenesi. È causata dai sierotipi D e K, piccoli batteri a parassitismo intracellulare obbligato, non evidenziabili con la metodica Gram.
Clinica. La sintomatologia, rara, compare dopo un periodo di incubazione da 1 a 3 settimane (media 15 giorni) ed è caratterizzata, nel maschio, da segni di uretrite subacuta che si manifesta con scarsa secrezione mucoide o
mucopurulenta e disuria; talvolta questa infezione può
estendersi alla prostata ed all’epididimo, dando luogo ad
un’epididimite o ad una prostatite secondaria. Nella donna, la colonizzazione uretrale e/o endocervicale è spesso
asintomatica o paucisintomatica (leucorrea scarsa, disuria,
fastidio o bruciore vulvo-vaginale); più gravi sono invece,
rispetto all’uomo, le complicazioni che consistono in bartolinite e, più frequentemente, nella malattia infiammatoria pelvica (PID), dovuta all’estensione del processo infettivo alle salpingi, per via canalicolare ascendente, con
possibile esito in sterilità ed eccezionalmente in periepatite.
In entrambi i sessi si possono osservare localizzazioni anali (anorettite) o faringee con scarsa sintomatologia infiammatoria, o una congiuntivite da corpi inclusi secondaria a
fenomeni di autoinoculazione.
Nel neonato da madre portatrice non trattata, durante il
passaggio attraverso il canale da parto, è possibile il verificarsi di un’oftalmia (entro il primo mese di vita) con congiuntivite da corpi inclusi e, tra il primo ed il terzo mese, di
polmoniti bilaterali apiretiche con tosse e segni di insufficienza respiratoria.
Diagnosi. La diagnosi di infezione da Chlamydia si basa
sull’isolamento del germe dalle cellule endouretrali (nel
maschio) ed endocervicali (nella donna). L’identificazione
206
viene eseguita con tecniche di immunofluorescenza diretta ed immunoenzimatiche:
1) ricerca microscopica diretta dopo colorazione con anticorpi monoclonali, fluoresceinati anti-CT;
2) ricerca immunoenzimatica dell’antigene con anticorpi mono o policlonali anti-CT,coniugati con enzima (ELISA);
3) coltura cellulare su monostrati cellulari HeLa o Mc Coy
e successiva identificazione ELISA;
4) PCR per ricerca del DNA di CT.
Sarebbe sempre opportuno proporre la sierologia per la sifilide e l’HIV.
Terapia. La terapia è basata sulla somministrazione di antibiotici in grado di raggiungere l’agente patogeno oltrepassando la membrana cellulare.
1) Nei quadri acuti e subacuti: doxiciclina 100 mg per os
2/die per 7 giorni, oppure azitromicina 1 g per os, unica
somministrazione, oppure ofloxacina 300 mg per os
2/die per 7 giorni (controindicata al di sotto dei 18 anni
di età);
2) in gravidanza: eritromicina 500 mg per os 4/die per 7
giorni o amoxicillina 500 mg per os 3/die, o azitromicina
1 g per os, unica somministrazione;
3) nel neonato: eritromicina 50 mg/kg/die per os, suddivisa in 4 dosi, per 10-15 giorni;
4) in caso di PID: cefotixime i.m. 2 g probenecid 1 g per os,
unica somministrazione, doxiciclina 100 mg per os 2/die
per 14 giorni; oppure (paziente ospedalizzata) cefotixime 2 g e.v. 4/die doxiciclina 100 mg per os 2/die.
Malattie sessualmente trasmesse
a eziologia micotica: candidosi genitale
Causata da lieviti del genere Candida, la candidosi genitale
nell’uomo è quasi sempre trasmessa attraverso i rapporti
sessuali, mentre nella donna abitualmente è legata a situazioni di alterazioni dell’ecosistema vaginale.
Epidemiologia. La candidosi genitale o vulvo-vaginite
micotica (VVC) nella donna è una malattia tipica dell’età
riproduttiva a diffusione praticamente ubiquitaria, piuttosto debilitante, sul piano sia fisico sia psichico. Si calcola
che circa il 75% delle donne manifesti almeno una volta
nella vita un episodio di VVC; il 40-50% va incontro ad un
secondo episodio, mentre in un 5% dei casi si sviluppa una
forma di VVC recidivante.
Eziopatogenesi. I lieviti responsabili della candidosi genitale appartengono al genere Candida,normale saprofita di vagina, intestino e cavo orale, che, in particolari condizioni, acqui-
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sisce potere patogeno. Le specie più frequentemente in causa
sono la C.albicans (80%),la kruzei,la glabrata e la tropicalis.
Clinica. L’infezione da Candida si può presentare in forma asintomatica, acuta o recidivante. La sintomatologia è
quasi costantemente caratterizzata da intenso prurito vaginale e/o vulvare, leucorrea lattiginosa, sierosa o siero-purulenta, talora densa, con un tipico aspetto “a ricotta”, associata ad eritema vulvo-vaginale. Altri sintomi spesso presenti sono irritazione più o meno diffusa, bruciore vulvovaginale, dolore durante i rapporti sessuali, uretrite con
bruciore urinario, particolarmente frequente durante la
minzione a causa delle escoriazioni da grattamento. I sintomi, in genere, si accentuano una settimana prima dell’inizio della mestruazione e tendono poi ad esaurirsi con
l’arrivo del flusso mestruale.
Nel 20% circa dei partner di donne affette è possibile osservare una balanopostite (prurito, eritema, macerazione e
microvescicolazione di glande e prepuzio) che insorge a
breve distanza dal rapporto sessuale. Raramente compaiono segni di uretrite.
L’infezione da Candida, se contratta durante la gestazione,
non comporta ripercussioni sul feto.
Diagnosi. Per la diagnosi ci si avvale dell’esame clinico,
cui si associa la valutazione del pH (tendenzialmente normale, quindi < 4,5) e la ricerca microscopica a fresco del lievito nelle secrezioni. Se la ricerca è negativa, si procede alla semina su terreni specifici per la coltura (Sabouraud),
previa esecuzione di un tampone vaginale allo scopo di
identificare anche quelle forme di Candida non-albicans,
oggi sempre più frequenti, che si possono manifestare clinicamente in modo atipico.
Terapia. La terapia è basata sull’uso di antimicotici ed è
solo sistemica nell’uretrite, topica e/o sistemica nella vulvovaginite e nella balanopostite.
Le terapie topiche consistono nella somministrazione del
farmaco sotto forma di candelette, crema o ovuli, applicabili la sera prima di coricarsi in modo tale da prolungare al
massimo il tempo di contatto tra il farmaco e la mucosa vaginale, per ottimizzarne l’assorbimento. Attualmente i farmaci più usati sono gli azoli, che presentano un ampio spettro di azione contro i miceti ed un’elevata attività antimicotica. La somministrazione locale rende possibile il loro utilizzo anche durante la gravidanza, perché, unitamente all’ottima azione funghicida ed agli scarsi e poco frequenti effetti collaterali (irritazione, senso di bruciore, reazioni allergiche), il rapido metabolismo epatico riduce i livelli ematici
di farmaco a tal punto da non determinare un pericolo teratogeno per il feto. Anche la terapia orale, riservata alle forme complicate e recidivanti, si basa sulla somministrazione
9
degli stessi (fluconazolo, itraconazolo ecc.). La terapia della
candidosi vulvo-vaginale si pone come obiettivo la remissione di segni e sintomi di vaginite in 2-3 giorni e la guarigione micologica in 7 giorni, prevenendo le recidive.
La durata del trattamento è variabile (gravità dei sintomi,
esperienza del medico, abitudini della donna, scelta farmacologica, ecc.), da 1 solo giorno a 3-7 giorni.Alla via di somministrazione locale deve sempre essere abbinata quella
orale; è d’obbligo il trattamento contemporaneo del partner
(sia per via topica, se sintomatico, sia per via generale).
I farmaci orali più comunemente usati sono il fluconazolo
150 mg: 1 cp unica somministrazione (eventualmente ripetuta dopo 3 giorni), l’itraconazolo 200 mg: 1 cp × 2 giorni; o
il ketoconazolo 400 mg: 1 cp × due/die per 5 giorni (poco
usato). Il fluconazolo può essere impiegato anche nella prevenzione delle recidive secondo vari schemi terapeutici: 150
mg alla settimana, per os, per 6 mesi, o una volta al mese
per 4-12 mesi.
La terapia locale si avvale di creme, ovuli, lavande a base di
clotrimazolo, miconazolo, fluconazolo, tioconazolo, terconazolo, ecc. secondo schemi di trattamento di durata variabile a seconda del farmaco impiegato. Per l’eradicazione
dell’infezione è necessario che vi sia anche l’eliminazione,
dove possibile, o quantomeno il controllo, di tutti i fattori
predisponenti, fra i quali il diabete mellito, l’immunodepressione o immunocompromissione, la terapia corticosteroidea o antibiotica a largo spettro, l’assunzione di contraccettivi orali, la presenza di una concomitante malattia a trasmissione sessuale.
Abitualmente è consigliato il trattamento del partner anche se asintomatico, specie nel caso in cui la donna sia soggetta a una forma di candidosi recidivante.
Prevenzione. Esiste una serie di norme igieniche e di
profilassi delle reinfezioni che la donna affetta da plurimi
episodi è tenuta a seguire, quali:
1) cambiare frequentemente la biancheria intima; utilizzare elevate temperature e disinfettanti specifici per il lavaggio della biancheria; limitare l’uso di indumenti aderenti e di tessuti sintetici;
2) evitare lavaggi troppo frequenti con abuso di saponi a
pH acido; praticare correttamente il nettoyage (lavaggio
antero-posteriore); asciugare con estrema cura la cute e
le mucose dopo la toilette;
3) limitare l’assunzione di carboidrati e zuccheri; inserire lo
yogurt o i fermenti lattici nell’alimentazione quotidiana;
aumentare l’assunzione di fibre alimentari;
4) è consigliabile astenersi dai rapporti sessuali, oppure
utilizzare il profilattico, fino ad accertata guarigione;
5) seguire scrupolosamente le modalità terapeutiche indicate dal ginecologo.
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GINECOLOGIA
Malattie sessualmente trasmesse
ad eziologia protozoaria
TRICOMONIASI GENITALE
L’infezione da Trichomonas vaginalis è una malattia sessualmente trasmessa responsabile di vulvo-vaginite nella donna
e di balano-postite nell’uomo. Può aumentare il rischio di
trasmissione dell’HIV e, nelle gravide, predisporre alla rottura prematura delle membrane e al travaglio pretermine.
Epidemiologia. La tricomoniasi è un’infezione sessualmente trasmessa causata da un protozoo,il Trichomonas vaginalis. È frequente nelle donne di età compresa tra i 20 e i 40
anni, più rara in età prepubere o postmenopausale. È considerata una delle più comuni malattie a trasmissione sessuale,
anche se esiste la possibilità di contagio indiretto (asciugamani,accessori da bagno ecc.).Si ritiene che il maschio funga
da vettore meccanico del parassita e che la reinfezione sia
possibile solo dopo la colonizzazione delle vie genitali maschili, mentre nella donna la reinfezione endogena da parte
dei microrganismi che albergano nelle ghiandole di Skene e
nell’uretra è legata all’uso della sola terapia topica.
Sono molte, infatti, le evidenze che supportano l’importanza dell’acquisizione della tricomoniasi per contatto sessuale: l’85% delle partner di maschi infetti risulta positivo ed il
70% dei partner di donne infette è positivo nelle 48 ore
successive all’ultimo rapporto.
Eziopatogenesi. Il Trichomonas vaginalis è un protozoo
patogeno per l’uomo, un organismo unicellulare, anaerobio facoltativo, lungo circa 30 micron, dotato di nucleo
ovale, di una membrana ondulante che circonda tutta la
sua lunghezza e di tre o cinque flagelli, che fuoriescono
da una delle due zone apicali. Il protozoo è dotato di veloci movimenti a scatti, è sensibile all’essiccamento ed al
calore.
Di fondamentale importanza nella proliferazione del microrganismo è la presenza del glucosio derivante dal glicogeno cellulare, tipicamente presente nell’epitelio vaginale maturo. Il pH ottimale di crescita è intorno a 5,5, per
cui tutte le situazioni che lo elevano ne favoriscono lo sviluppo. Il Trichomonas è un patogeno epiteliale-distruttivo
sia in quanto aderisce tenacemente, danneggiandoli, agli
epiteli, sia in quanto capace di elaborare tossine necrotizzanti.
Clinica. La tricomoniasi si può presentare in forme diverse e con sintomatologia varia: il 50-75% delle donne con
tricomoniasi lamenta perdite vaginali (leucorrea), descritte
come maleodoranti dal 10% di esse; di colore giallo-verdastre e schiumose o grigie, liquide o cremose. Il prurito vulvo-vaginale è descritto nel 25-50% dei casi ed è spesso se-
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vero. Possono essere altresì riferite dispareunia, bruciori o
spotting postcoitale, un’aumentata frequenza della minzione e bruciore urinario. Le algie pelviche non sono particolarmente comuni, essendo riportate solo nel 5-12% dei
casi. Data però la frequente associazione della tricomoniasi ad altri agenti a trasmissione sessuale, bisognerebbe
sempre sospettare una concomitante salpingite (infezione
delle tube uterine) o una cervicite, magari sostenute da patogeni quali il gonococco o la Chlamydia trachomatis. Nella
maggior parte dei casi, i sintomi si esacerbano durante o
immediatamente dopo il periodo mestruale. Obiettivamente il segno vulvare principale è l’eritema, di minore entità rispetto a quello della Candida; sono presenti escoriazioni e lesioni da trattamento. Colposcopicamente è tipica
la “cervicite a fragola”, dovuta alla presenza di focolai disseminati di citolisi dell’epitelio pavimentoso ed all’edema
ed iperemia dello stroma. Se la flogosi è intensa, sulla portio si ha il quadro della colpite maculare: in questo caso al
test di Shiller assume un aspetto caratteristico definito “a
pelle di leopardo”. Un quadro particolarmente raro è quello della cervico-vaginite enfisematosa, caratterizzato dalla
presenza di bolle nell’epitelio cervicale, secondarie alla produzione di gas da parte di alcuni batteri. Nella forma cronica, la donna lamenta vulvo-vaginiti ricorrenti o fastidio
vaginale, anche in assenza di Trichomonas.
Nel maschio, il Trichomonas vaginalis è una delle cause di
uretrite non gonococcica (UNG) con una prevalenza che va
dal 5 al 15-20%. Perdite dall’uretra sono descritte nel 5060% dei maschi sintomatici e sono in 1/3 dei casi francamente purulente, in un altro terzo mucopurulente e nel rimanente terzo di aspetto mucoide.
Diagnosi. Sintomi e segni di infezione non bastano, da
soli, ad una sicura diagnosi di tricomoniasi; quest’ultima si
basa sull’isolamento del Trichomonas mediante l’esame microscopico a fresco o l’esame colturale su terreni specifici
(Kupfemberg). È facile identificarlo anche con il Pap-test
dove è possibile evidenziare i segni indiretti della flogosi,
con evidenti aloni perinucleari a carico delle cellule squamose e dove i protozoi appaiono di colore grigio-rosa pallido o lievemente azzurri (i filamenti si colorano raramente); attualmente sono in corso studi per l’evidenziazione
tramite PCR.
Terapia. Il solo farmaco efficace contro il Trichomonas è il
metronidazolo (2 g per os in un’unica dose o 400-500 mg
× 2/die, per os per 5-7 gg) o i derivati 5-nitroimidazolici (tinidazolo: 2 g per os in unica dose; ornidazolo ecc.), attivi
non solo sul protozoo, ma anche su tutti i microrganismi
anaerobi, sia di natura protozoaria (Entamoeba histolytica,
Giardia lamblia) sia di natura batterica (Bacteroides, Clostridium, Gardnerella vaginalis). La terapia, che in questo caso
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Infezioni dell’apparato genitale femminile
deve assolutamente essere estesa anche al partner, è unicamente orale, data l’elevata percentuale di fallimento terapeutico delle terapie locali (creme o candelette vaginali),
che quindi devono essere riservate sempre e solo ai casi nei
quali esista una controindicazione al trattamento sistemico
con tali farmaci.
Essendo un’infezione a trasmissione sessuale l’unico metodo preventivo è l’utilizzo, durante rapporti sessuali occasionali, di metodi contraccettivi barriera, quali il preservativo, che infatti è in grado non solo di prevenire tale patologia, ma soprattutto di scongiurare la trasmissione di agenti infettivi potenzialmente mortali quali l’HIV.
Malattie sessualmente trasmesse
a eziologia virale
HERPES SIMPLEX ANO-GENITALE (HSV)
L’herpes genitale è una malattia sessualmente trasmessa,
di origine virale causata da HSV 2 e HSV1, virus caratterizzati da spiccato neurotropismo, che si manifesta abitualmente con lesioni inizialmente vescicolari e poi erosive di
breve durata. L’HSV, nella specie umana, è responsabile
dell’infezione genitale, di quella oro-faringea, di infezioni
neonatali e dell’encefalite erpetica.
Epidemiologia. La prevalenza dell’infezione non è nota,
ma considerando che dal 2 al 10% dei soggetti adulti presenta manifestazioni cliniche, e che dal 10 al 50% della popolazione sessualmente attiva ed asintomatica presenta
anticorpi contro l’herpes simplex virus tipo 2, è presumibile che l’herpes simplex ano-genitale sia tra le più frequenti malattie a trasmissione sessuale. Il contagio è venereo e
si verifica in circa il 90% dei soggetti che hanno avuto un
rapporto con un partner sintomatico ed in meno dell’1% se
il partner, infetto, è asintomatico. L’età media delle pazienti affette da prima infezione erpetica è di circa 20-24 anni.
La maggior parte delle infezioni sarebbe acquisita da soggetti che non ricordano episodi di malattia erpetica, data la
frequenza delle forme silenti, con eliminazione periodica
del virus. Il contagio indiretto è raro, mentre molto più importante è il rischio di trasmissione verticale, che può verificarsi in utero, per via transplacentare, per via canalicolare
ascendente, in caso di lesioni cervicali o al momento del
parto. Le infezioni per via transplacentare ed ascendente
possono causare aborto spontaneo o parto pretermine. Il
contagio perinatale si osserva nel 50% in caso di infezione
primaria materna al momento del parto, è invece inferiore
al 5% in caso di herpes postprimario ed inferiore all’1% in
caso di eliminazione asintomatica del virus: si manifesta
con una grave forma di poliviscerite, encefalite erpetica, corioretinite o lesioni erpetiche cutanee o mucose.
9
Eziopatogenesi. L’herpes simplex virus (HSV) è un virus
a DNA, di dimensioni variabili da 150 a 200 nm: la doppia
elica di DNA è contenuta in una struttura icosaedrica, risultante dall’assemblaggio di capsomeri, a loro volta circondati da una envelope di natura glico-lipoproteica, derivante dalla membrana nucleare delle cellule infettate e ricoperte da antigeni di superficie. Alla famiglia di HSV appartengono: l’HSV 1 (infezione erpetica oro-faringea);
l’HSV 2 (infezione ano-genitale); il virus varicella zoster; il
virus di Epstein-Barr; il citomegalovirus; l’HSV umano di
tipo 6 (HHV6); l’HSV umano di tipo 7 (HHV7), l’HSV
umano di tipo 8 (HHV8). L’HSV1 e l’HSV2 hanno in comune molti antigeni di superficie e il 40% delle sequenze
di basi di DNA.
L’herpes simplex ano-genitale è provocato dall’herpes virus
di tipo 2, anche se in una parte dei casi l’infezione contratta con rapporti oro-genitali è sostenuta dall’herpes simplex
di tipo 1.
Il virus, penetrato attraverso una soluzione di continuo dell’epitelio cutaneo o mucoso nei tessuti di un ospite mai infettato in precedenza, prolifera nei cheratinociti (malattia
primaria) ed in seguito risale per via assonale retrograda
lungo i nervi sensitivi fino ai neuroni dei gangli secondari
delle radici spinali corrispondenti alla zona cutanea o mucosa lesionata. Qui il virus persiste per tutta la vita in fase
latente e può occasionalmente ridiscendere lungo la stessa
via (assonale) alla cute o alle mucose della stessa sede dell’infezione primaria, determinando una malattia postprimaria o ricorrente, molto meno accentuata di quella primaria. La migrazione periferica del virus si verifica più frequentemente nei soggetti che hanno avuto una fase primaria sintomatica e spesso entro il primo anno dall’infezione. Condizione predisponente per la riacutizzazione
della malattia è il calo delle difese immunitarie (febbre,
stress emotivi, esposizione al sole, mestruazioni, deficit immunologici, scarsa alimentazione, uso di farmaci come corticosteroidi oppure antiblastici). La ricorrenza può variare
da una al mese, a quattro all’anno o una ogni 5-10 anni.
L’infezione primaria è normalmente più grave di quella ricorrente; è stata dimostrata inoltre un’oncogenicità cervicale dell’HSV 1 e 2.
Clinica. Nel corso della prima infezione, dopo un periodo prodromico di 1-2 giorni caratterizzato da una sintomatologia locale parestesica più o meno accentuata, a livello
dei genitali compaiono numerose vescicole sia isolate sia
riunite a grappolo, del diametro di pochi millimetri, che
tendono progressivamente alla conglutinazione ed all’erosione; spesso può coesistere sovrainfezione da parte di germi opportunisti ed edema delle mucose (Figura 9.1). In
questi casi il dolore prevale sulla dispareunia e la disuria. È
presente linfoadenopatia satellite. Nella donna le zone in-
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Linfoadenopatia regionale, comune
in caso di herpes genitale
Cospicuo edema e formazione di vescicole
in casi di herpes primario
Lesione ulcerativa dei genitali
Lesioni da autoinoculazione
Herpes genitale
Figura 9.1 Infezioni da herpes simplex. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published by Elsevier Inc. All rights
reserved.)
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teressate sono le piccole e le grandi labbra, la cute perianale, il monte di Venere, l’uretra ed il clitoride; nel maschio,
analogamente, si possono avere le stesse manifestazioni a
carico del glande, del prepuzio, dell’asta del pene, fino allo
scroto ed all’ano.
Possono esistere infezioni subcliniche, con periodiche dismissioni di particelle virali da aree genitali apparentemente sane (asymptomatic shedding): tale fenomeno è caratteristico della cervice uterina, da cui è possibile isolare il virus
anche in assenza di lesioni visibili.
Diagnosi. La diagnosi si basa sul riscontro delle vescicole e/o erosioni ed è selettivamente clinica. Indagini citologiche e di biologia molecolare sono utili nelle forme dubbie o estesamente ulcerative. In questi casi, utilizzando un
prelievo effettuato sulla lesione (scraping mucoso, cutaneo
o della cervice) è possibile con:
1) l’impiego di anticorpi monoclonali;
2) la coltura per HSV1 e 2 su monostrati cellulari;
3) l’esame citodiagnostico di Tzank (evidenziazione della
degenerazione balloniforme indotta dal virus nei cheratinociti infetti);
4) la ricerca del DNA virale in sezioni istologiche con tecniche di ibridizzazione in situ o PCR.
Terapia. Nessun farmaco è in grado di eradicare l’infezione erpetica, ma il trattamento risulta utile per abbreviare il
decorso delle forme primarie e ridurre le complicanze, per
prevenire le recidive e diminuire le possibilità di trasmissione.
La terapia dell’herpes è basata essenzialmente sull’uso dell’aciclovir per os o endovena a seconda della gravità dell’episodio erpetico:
1) herpes primario o iniziale genitale: acyclovir 200 mg per
os 5/die per 7 giorni; oppure acyclovir 400 mg per os
5/die per 7-10 giorni; oppure acyclovir 800 mg per os
2/die per 7 giorni o fino a risoluzione clinica;
2) herpes primario o iniziale ano-rettale: acyclovir 400-800
mg per os 5/die per 7-10 giorni o fino a risoluzione clinica;
3) herpes recidivante: acyclovir 400 mg per os 2/die per
lunghi periodi (fino a 1 anno);
4) infezione disseminata: acyclovir 5-10 mg/kg e.v. ogni 8
ore per 7 giorni o fino a risoluzione clinica;
5) prevenzione dell’herpes neonatale: TC a membrane integre o entro 4 ore dalla loro rottura.
PAPILLOMAVIRUS (HPV)
Diversi tipi dell’HPV hanno tropismo mucoso e possono
causare a livello ano-genitale lesioni papulose e/o vegetanti che si moltiplicano per autoinoculazione.
9
Epidemiologia. L’infezione è molto frequente, dal momento che indagini di biologia molecolare hanno permesso di evidenziare il virus nel 15-40% delle persone adulte;
peraltro solo nell’1% di esse, in età compresa tra i 20 ed i
30 anni, indipendentemente dal sesso, si osservano manifestazioni cliniche. Il contagio è di solito venereo, dovuto a
rapporti con persone infette nel 50% dei casi, mentre non
è nota la contagiosità delle forme subcliniche o mute. Non
è raro un contagio indiretto, tramite i servizi igienici o altri
oggetti usati in comune; l’infezione può essere trasmessa
anche dalla madre al feto durante la gravidanza o al momento del parto (juvenile onset recurrent respiratory papillomatosis: papillomatosi recidivante del bambino; frequenza
1/400 nati da madre infetta).
Eziopatogenesi. Lo Human Papilloma Virus (HPV) appartiene ad una famiglia di virus a DNA di cui fino ad oggi
si conoscono almeno 100 sottotipi, 30 dei quali presentano
uno spiccato tropismo per l’area ano-genitale. Si tratta di
virus a singola elica, privi di involucro glicoproteico, notevolmente resistenti all’essiccamento, in grado di infettare
gli epiteli di superficie integrandosi nel materiale genetico
dell’ospite e di riprodursi sia come coppie di DNA circolare
sia come virioni maturi. I sottotipi 6, 11, 42, 43, 44, 54, 55 sono generalmente associati ai condilomi acuminati o a lesioni intraepiteliali di basso grado; a rischio intermedio sono i
sottotipi 30, 34, 39, 40, 56, 57, 61, 62, 72, 83, 84 che sono talvolta associati alla CIN; mentre ad alto rischio sono i sottotipi 4, 16, 18, 31, 33, 35, 45, 51, 52, 58, 59 riscontrabili in un’elevata percentuale di CIN ed in molte patologie maligne,
quali la malattia di Bowen o il sarcoma bowenoide della
vulva. La differenza strutturale e funzionale dei vari sottotipi virali risiede nel genoma virale e precisamente nei siti di
trascrizione denominati ORFs (Open Reading Frames) che
codificano diverse proteine trasformanti, capaci di disturbare il fisiologico controllo del ciclo cellulare.
Clinica. Nei casi sintomatici, dopo un periodo di incubazione da 3 settimane a 8 mesi (media 3 mesi) a livello anogenitale, la malattia esordisce con la comparsa di piccole
papule di forma rotonda ed appena rilevate sul piano circostante, di colorito grigiastro sulla cute e roseo a livello
delle mucose (condilomi piatti). Nel maschio la condilomatosi genitale interessa il pene (glande solco balanoprepuziale, asta) e la zona perianale, fino all’inguine; nella
donna la vulva (frequenti a livello della forchetta, della zona periclitoridea, della faccia interna delle piccole labbra) e
la zona perianale, oltre alla cervice ed alla vagina. Si possono distinguere tre forme di condilomatosi genitale:
1) la condilomatosi florida o acuminata, visibile ad occhio
nudo come escrescenze singole o multiple ad aspetto
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vegetante, di dimensioni variabili da alcuni millimetri fino a masse a cavolfiore di alcuni centimetri;
2) la condilomatosi subclinica o piatta, diagnosticabile colposcopicamente con l’acido acetico al 3% o al 5% come aree
aceto bianche a bordi netti e superfici micropapillari;
3) la condilomatosi latente, distinguibile solo attraverso l’ibridizzazione molecolare.
La condilomatosi subclinica non va confusa con la papillomatosi vulvare o l’hirsutismus penis, condizioni parafisiologiche caratterizzate da micropapille uniformi e regolari distribuite sulla faccia interna delle piccole labbra o a corona
intorno al glande. Le lesioni hanno comportamento molto
variabile, potendo regredire spontaneamente, stabilizzarsi
o moltiplicarsi per autoinoculazione. In alcuni soggetti,
particolarmente immunocompromessi, l’andamento può
essere particolarmente aggressivo.
Diagnosi. La diagnosi è basata sul riscontro di lesioni vegetanti a livello della mucosa o della cute dei genitali e loro
eventuale conferma istologica. Nei casi dubbi è possibile
condurre indagini di biologia molecolare come ricerca del
DNA HPV con metodiche di ibridizzazione o con PCR.
Terapia. Pur non esistendo alcun trattamento in grado di
eradicare completamente l’infezione, la terapia risulta utile
per controllare la sintomatologia, ottenere prolungati periodi di assenza di malattia e ridurre il contagio. Si basa essenzialmente sull’escissione delle lesioni attraverso metodiche di terapia fisica: crioterapia con azoto liquido, DTClaserterapia, o terapie topiche, come podofillina al 20% in
tintura composta di benzoino per 1-4 ore una volta alla settimana, interferone e retinoidi (tretinoina, isotretinoina,
acitretin ed etretinato), acido tricloroacetico o BCA 80-90%
una volta alla settimana, o imiquimod crema al 5%, 3 volte alla settimana (immunomodulante topico).
Non esistono indicazioni uniformi rispetto alla modalità
del parto in gravide affette da condilomatosi florida: il taglio cesareo può essere indicato, ma è obbligatorio nel caso in cui la condilomatosi genitale sia così estesa da creare
una distocia meccanica.
MOLLUSCO CONTAGIOSO
Il mollusco contagioso è una virosi cutanea che si manifesta con uno o più elementi papulo-nodulari con caratteristica ombelicatura centrale.
Epidemiologia. Ha una frequenza che varia da Paese a
Paese; l’infezione avviene per contatto diretto o per autoinoculazione. Sono spesso colpiti i bambini ed i soggetti che
vivono in comunità, dato che il contagio, oltre che sessuale, è interumano.
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Eziopatogenesi. La malattia è causata dal virus del mollusco contagioso (MCV) appartenente alla famiglia dei
Poxvirus, che comprende anche quello del vaiolo. È un virus a DNA, di 200-300 nm, che non si riproduce in coltura
ed è specifico della specie umana. Il virus induce proliferazione epiteliale e si replica nel citoplasma dei cheratinociti
fino a riempirli completamente. La disseminazione avviene per autoinoculazione: frequenti le recidive in condizioni di immunocompromissione dell’ospite.
Clinica. Il mollusco contagioso si presenta all’inizio come
una piccola papula emisferica di 2-3 mm di diametro, dura, indolore, di colorito roseo o biancastro, a superficie liscia
e tesa; successivamente aumenta di diametro fino a raggiungere le dimensioni di un pisello, si deprime al centro
per la comparsa di un’ombelicatura da cui fuoriesce liquido biancastro costituito da un insieme di cellule ripiene di
virus. Per fenomeni di autoinoculazione la lesione si moltiplica rapidamente (fino a 10-20 o centinaia) estendendosi
dai genitali esterni fino alle cosce ed al tronco. La malattia
può regredire spontaneamente dopo 6 o 9 mesi o può assumere un andamento cronico con comparsa di nuove lesioni, specie nei soggetti immunocompromessi.
Diagnosi. La diagnosi è clinica. Possono rivelarsi utili, in
alcuni casi, l’esame istologico e quello ultrastrutturale.
Terapia. La terapia è escissionale (curettage o ablazione
chirurgica con sutura); eventualmente può essere impiegato l’azoto liquido o la laser-terapia.
INFEZIONE DA
ACQUISITA
HIV E SINDROME DA IMMUNODEFICIENZA
L’infezione da HIV è una malattia a trasmissione sessuale
caratterizzata da una fase iniziale, raramente sintomatica,
da un periodo più o meno lungo di latenza clinica e da manifestazioni tardive con compromissione neurologica, immunitaria, complicanze infettive opportunistiche e neoplastiche che configurano il quadro della sindrome dell’immunodeficienza acquisita (AIDS).
Epidemiologia. L’epidemia da HIV è originata dall’Africa equatoriale, zona in cui il virus era endemico fin dagli
anni ’50; da qui alla fine degli anni ’70 si è diffusa nei Caraibi, in alcune aree metropolitane degli Stati Uniti ed in alcuni Paesi europei, e negli anni ’80 ha preso piede dapprima in Canada, nell’America del Sud ed in Europa Occidentale, poi in Australia, Europa Orientale ed Estremo
Oriente. Nei Paesi in via di sviluppo, ed in particolare nell’Africa subsahariana, questa epidemia ha assunto proporzioni tali da avere implicazioni di tipo demografico, economico e politico considerevoli.
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L’HIV si trasmette attraverso tre vie:
1) parenterale: trasfusioni di sangue o emoderivati infetti
(rischio: 90%), inoculazione di piccole quantità di sangue contaminato mediante scambio di siringhe tra tossico-dipendenti (rischio: 10%) o contatto accidentale
con aghi o strumenti infetti (rischio: 0,3%);
2) sessuale: il virus contenuto nelle secrezioni spermatiche
o vaginali può contagiare cellule suscettibili della mucosa vaginale o rettale oppure raggiungere, attraverso soluzioni di continuo delle mucose, direttamente le abituali cellule bersaglio; a questo va aggiunto il potente
ruolo di potenziamento del rischio di contagio svolto
dalle MST. Le donne appaiono molto più suscettibili dei
maschi all’infezione, per la maggior superficie di esposizione della mucosa vaginale, rispetto a quella uretrale;
3) verticale: una donna siero-positiva può trasmettere l’infezione al figlio durante la gravidanza, al momento del
parto o durante l’allattamento.
All’inizio degli anni ’80 l’infezione riconosceva due pattern
di trasmissione: quella legata alle abitudini sessuali (omosessuali) o alle trasfusioni di sangue infetto, nei Paesi industrializzati, e quella da contatto eterosessuale o da trasmissione materno-fetale (gravidanza, parto, allattamento) nei
Paesi poveri. Attualmente, nei Paesi industrializzati, bloccata la trasmissione tramite il sangue ed i suoi derivati con gli
opportuni controlli sierologici e ridottasi grandemente la
trasmissione nei tossico-dipendenti e negli omosessuali
maschi, l’HIV si diffonde principalmente attraverso i rapporti etero-sessuali.
Il rischio di infezione varia in relazione a fattori biologici,quali l’alta viremia nelle fasi avanzate della malattia, la presenza
di forti concentrazioni virali a livello spermatico e la coesistenza di altre MST, ed è correlato a fattori demografici (età,
titolo di studio ecc.) e comportamentali (numero di partner,
tipo di rapporto, utilizzo del condom ecc.). In particolare, relativamente alle MST, è stato dimostrato che la presenza di
malattie ulcerative genitali si associa ad un rischio maggiore
(2-5 volte) di trasmissione dell’HIV,per la presenza di erosioni delle barriere protettive della mucosa genitale,così come le
infezioni da Chlamydia trachomatis e Neisseria gonorrhoeae
aumentano l’infettività dell’HIV, potenziando la carica virale
a livello delle secrezioni genitali. Le MST infatti aumentano
non solo la produzione locale di citochine,che a loro volta regolano la replicazione e quindi la disseminazione virale, ma
possono causare anche infezioni sistemiche (ad es. sifilide)
che possono aumentare la carica virale plasmatica e quindi la
progressione della malattia.Da questo consegue che il trattamento di queste infezioni genitali riduce l’infettività dell’HIV.
Eziopatogenesi. L’HIV appartiene alla famiglia Retroviridae, sottofamiglia Lentivirus, virus a RNA, di forma roton-
9
deggiante, con diametro di 100-120 nm, core centrale ed
involucro glicoproteico (envelope) costituito da una proteina (p 17) rivestita da uno strato lipidico che incorpora una
glicoproteina (gp 41). La gp 41 è strutturalmente legata ad
una proteina gp 120 che riconosce ed aderisce alla superficie del recettore dei linfociti CD4+, presente anche nei macrofagi e nei linfociti B. Il materiale genetico è contenuto in
una proteina del core, denominata p 24. Strettamente correlati al genoma ad RNA sono tre enzimi virali:
1) la trascrittasi inversa, che trascrive il DNA dall’RNA dopo che il virus è penetrato nel citoplasma di una cellula
permissiva umana;
2) l’integrasi, che permette l’inserimento del materiale genetico virale all’interno del DNA della cellula infettata;
3) la proteasi che codifica per le proteine dell’involucro.
Una volta penetrato nell’organismo, il virus si fissa ai recettori CD4 e, per endocitosi, viene inglobato nel citoplasma
cellulare; il core virale viene trasportato all’interno e la molecola di RNA viene esposta all’azione della trascrittasi inversa, che determina la sintesi di DNA virale: quest’ultimo,
attraversando la membrana nucleare, può essere integrato
nel genoma cellulare (provirus) o venire trascritto in una
molecola di mRNA che codifica per le specifiche componenti virali.
La produzione di nuove particelle virali generalmente avviene in modo sporadico, ma diviene esplosiva quando la
cellula infetta viene stimolata immunologicamente o non,
perché vengono attivate contemporaneamente sequenze
nucleotidiche comuni al virus ed alle cellule. Si producono
allora virioni maturi che si legano alla molecola CD4, vengono assemblati nel citoplasma cellulare e fuoriescono dalla cellula infetta per gemmazione. In questa fase il linfocita
può essere distrutto, sia perché la sua membrana cellulare
risulta danneggiata dal virus, sia perché l’espressione, sulla
sua superficie, degli antigeni virali viene riconosciuta dal sistema immunitario come estranea all’organismo, con conseguente intervento dei linfociti T citotossici e delle cellule
natural killer. Per questo motivo i linfociti T vanno incontro
a progressiva riduzione, determinando una deficienza immunitaria sempre più marcata, mentre i monociti-macrofagi, che contengono minori recettori CD4 non vengono
distrutti, costituendo così una riserva permanente del virus.
I monociti-macrofagi, inoltre, veicolano il virus a livello del
SNC, vi formano sincizi e liberano citochine ad attività demielinizzante e neurotossica.
Clinica. Nei giorni successivi al contatto con l’HIV si verifica, nei tessuti linfatici, un’intensa replicazione virale, a cui
segue la fase di viremia: il 50-70% dei soggetti, a distanza di
3-6 settimane dal contagio, presenta una sintomatologia simil-mononucleosica (infezione acuta da HIV), caratterizzata
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Tabella 9.3
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INFEZIONI OPPORTUNISTICHE E NEOPLASIE AIDS-CORRELATE SECONDO CENTERS OF DISEASE
CONTROL AND PREVENTION DI ATLANTA 1993 (PATOLOGIE INCLUSE NELLA DEFINIZIONE DI CASO DI AIDS)
Candidosi bronchiale, tracheale, polmonare, esofagea
Carcinoma invasivo della cervice dell’utero
Coccidiomicosi disseminata o extrapolmonare
Criptococcosi extrapolmonare
Criptosporidiosi intestinale cronica (più di 1 mese)
CMV, eccetto localizzazione epatica, splenica e linfonodale
Encefalopatia HIV-correlata
Herpes simplex: ulcere croniche (più di 1 mese), bronchite, polmonite o esofagite
Istoplasmosi disseminata o polmonare
Isosporiasi intestinale cronica (più di 1 mese)
Sarcoma di Kaposi
Linfoma di Burkitt
Linfoma immunoblastico
Linfoma primitivo del cervello
Mycobacterium avium complex o M. kansassi, disseminati o extrapolmonari
Mycobacterium tubercolosis a localizzazione polmonare o extrapolmonare
Polmonite da Pneumocistis carinii
Polmoniti batteriche ricorrenti (più di 2 all’anno)
Leucoencefalite multifocale progressiva
Setticemia ricorrente da salmonella
Toxoplasmosi cerebrale
Wasting sindrome da HIV
da febbre, dolori osteo-articolari, astenia intensa, faringite,
linfoadenopatia generalizzata, della durata variabile da 1-2
settimane a 1-2 mesi.Talvolta sono presenti sintomi gastrointestinali (nausea, vomito, diarrea) o neurologici (cefalea,
meningite asettica, neuropatia periferica o radicoliti, sindrome di Guillain-Barré, neurite brachiale, disturbi cognitivi
con psicosi ed encefalite acuta); più spesso compaiono ulcerazioni del cavo orale, dell’esofago e dei genitali e un fine
esantema maculo-papulare (prevalentemente alla faccia e
al tronco, raramente coinvolgente le estremità compresi il
palmo delle mani e la pianta dei piedi) ad evoluzione spontanea nel giro di 1-2 giorni. Durante la fase acuta della malattia si verifica la comparsa di anticorpi specifici di classe
IgG (siero-conversione).
Da 6 a 12 mesi dopo l’infezione acuta si stabilisce un equilibrio immunovirologico (set point), definito dalla carica virale plasmatica di HIV, che ha un valore predittivo del tempo di evoluzione verso l’AIDS.
All’infezione acuta segue lo stadio della latenza clinica, ma
non virologica, della durata di anni (in media 10) che corrisponde alla fase asintomatica, e si accompagna ad un progressivo peggioramento delle condizioni immunitarie, a
causa dell’intensa replicazione virale plasmatica e linfonodale. L’infezione virale porta ad un progressivo esaurimento della risposta immunitaria per la distruzione dei linfociti
T CD4+ e la sostituzione dei centri germinativi linfonodali
con tessuto fibroso (linfoadenopatia sistemica o LAS).
Col tempo, possono comparire sindromi legate al progressivo deterioramento del sistema immunitario (candidosi
orali, dermatite seborroica, herpes zoster multimetamerico,
214
leucoplachia orale, mollusco contagioso) fino alla comparsa di infezioni opportunistiche o neoplasie caratteristiche.
Il tempo necessario per l’evoluzione in AIDS conclamato,
in assenza di terapia, varia da 3-4 a 8-12 anni ed è minore
nei bambini rispetto agli adulti. Dal 1993 è stata adottata la
nuova classificazione dell’AIDS proposta dai CDC nel
1991, secondo cui la definizione di malattia viene estesa a
tutti i pazienti HIV positivi con conta assoluta dei linfociti T
CD4+ inferiore a 200/mmc o in valore percentuale inferiore al 14%, e che presentino almeno una delle patologie
elencate nella Tabella 9.3.
Diagnosi. Il sospetto anamnestico e/o clinico dell’infezione da HIV deve essere sempre confermato mediante l’identificazione di anticorpi contro il virus (ELISA e/o Western Blot), o dell’acido nucleico di HIV (PCR, RT-PCR, bDNA, NASBA) o attraverso la coltura diretta del virus (ottenuto dalle cellule mononucleate di individui infetti).
1) Il test HIV viene eseguito con tecnica immunoenzimatica ELISA ed ha una sensibilità ed una specificità superiore al 95%: gli anticorpi (IgG rivolti verso specifici antigeni virali) compaiono mediamente 8-12 settimane dopo il contagio, con estremi che vanno da 2 settimane a 6
mesi; a questo proposito va tenuto presente che il periodo cosiddetto di “finestra immunologica” in cui il soggetto, pur essendo infetto, è negativo al test per HIV, non
può superare i 6 mesi. La sieropositività rappresenta l’espressione della presenza del virus nell’organismo. False
positività sono frequenti nei soggetti politrasfusi o nelle
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multipare (reazioni crociate verso anticorpi diretti verso
antigeni di istocompatibilità di classe seconda) e nei pazienti con malattie autoimmuni (presenza di autoanticorpi antinucleo o antimitocondri). Viene effettuato, come test di conferma, il Western Blot (WB), dotato di specificità e sensibilità del 99% verso tutti gli antigeni virali;
2) L’identificazione del materiale genetico del virus con tecnica polimerasica a catena (PCR) consente di rilevare la
presenza del DNA provirale nel citoplasma cellulare o dell’RNA virale nel plasma. La PCR qualitativa viene impiegata nei neonati di madri siero-positive o nei soggetti a rischio durante il periodo di “finestra immunologica”. Possono essere impiegate anche altre tecniche di biologia molecolare (RT-PCR, NASBA, b-DNA) per titolare, sulla base
della quantità di acido nucleico presente nel plasma, la carica virale e, quindi, monitorare i risultati della terapia;
3) L’isolamento virale, da coltura di cellule mononucleate di
sangue periferico di individui infetti, viene utilizzato per
studiare le caratteristiche biologiche degli isolati virali.
Terapia. La terapia dell’HIV, oggetto di continui studi ed
aggiornamenti, esula dalla nostra trattatazione, per cui si
rimanda a testi specialistici. In questa sede necessita sottolineare quanto segue:
1) nessun trattamento risulta attualmente in grado di eradicare l’infezione da HIV, anche se i farmaci antiretrovirali sono efficaci nel rallentare in modo significativo l’evoluzione della malattia;
2) i livelli di RNA plasmatico sono il più importante elemento prognostico ed i livelli di CD4 rappresentano il
danno immunitario HIV indotto;
3) la progressione della malattia differisce tra i diversi individui, quindi i trattamenti devono essere individualizzati in base all’entità del rischio (RNA e CD4);
4) l’uso di una terapia efficace sopprime la replicazione virale, riduce la selezione di mutanti resistenti ed impedisce la progressione della malattia;
5) la maniera più efficace per ottenere la massima soppressione è quella di iniziare contemporaneamente i farmaci efficaci, a dosaggio ottimale e rispettando gli intervalli opportuni di somministrazione;
6) le donne devono praticare la terapia anche in gravidanza.
Gli obiettivi della terapia sono di seguito elencati.
1) obiettivo clinico: prolungamento della vita e miglioramento della sua qualità;
2) obiettivo virologico: riduzione della carica virale (preferibilmente < 50 copie/ml), per il maggior tempo possibile,
allo scopo di bloccare la progressione della malattia e
prevenire/ridurre la selezione di ceppi virali resistenti;
3) obiettivo immunologico: promuovere la ricostituzione immunologica sia quantitativa (conta dei CD4 tendente ai
9
valori normali), sia qualitativa (adeguata risposta immunitaria nei confronti dei patogeni);
4) obiettivo terapeutico: razionalizzare l’esposizione ai farmaci, conservando opzioni terapeutiche alternative, con
scarsi effetti collaterali e buona compliance da parte del
paziente;
5) obiettivo epidemiologico: ridurre la trasmissione dell’HIV.
Attualmente sono tre i gruppi di farmaci utilizzati contro il
virus:
1) inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa (Nucleoside
Reverse Transcriptase Inhibitor, NRTI), farmaci in grado di
bloccare la replicazione virale interrompendo la formazione della nuova catena di DNA virale. I principali sono a base di zidovudina o azitodimina (AZT), didanosina (DDI), zalcitabina (ddC), lamivudina (3TC), d4T ed
abacavir (ABC);
2) inibitori della trascrittasi inversa non nucleosidici (Non
Nucleoside Reverse Transcriptase Inhibitor, NNRTI), agiscono legandosi direttamente al sito attivo dell’enzima,
bloccandone l’azione ed impedendo che si formi il DNA
provirale. I principali sono nevirapina (NVP), delavirdina (DLV), efavirenz (EFV);
3) inibitori delle proteasi (IP), farmaci in grado di bloccare
la proteasi virale, enzima che permette la maturazione
delle nuove particelle virali rendendole a loro volta infettanti. I principali sono saquinavir (SQV), indinavir
(IDV), ritonavir (RTV) e nelfinavir (NFV).
È in fase di sperimentazione un quarto gruppo, gli inibitori della fusione, che agiscono nella fase durante la quale il
virus si lega alla cellula che poi andrà a infettare.
Gli schemi terapeutici propongono una terapia di combinazione variabile, che consiste di:
1) due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa e di un
inibitore della proteasi;
2) due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa ed un
inibitore della trascrittasi inversa non nucleosidico;
3) due inibitori della trascrittasi inversa e due inibitori della proteasi;
4) tre inibitori della trascrittasi inversa (se bassa viremia);
e che prende il nome di HAART (Highly Active Antiretroviral Therapy), allo scopo di aumentarne la potenza farmacologica e ridurre i fenomeni di resistenza.
Malattie sessualmente trasmesse
a eziologia parassitaria
SCABBIA
È una malattia parassitaria, caratterizzata da vivo prurito,
specie alla sera, trasmessa per via sessuale, per contatto in-
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GINECOLOGIA
terumano o attraverso letti infetti, caratterizzata da lesioni
specifiche elementari, cunicoli e con lesioni da grattamento.
Epidemiologia. La malattia è presente in tutto il mondo,
ma molto meno frequente nei Paesi ad elevato tenore di vita. La trasmissione può avvenire per via sessuale o per contatto interumano, ma più spesso per contagio indiretto, attraverso i letti, in quanto l’acaro adulto sopravvive nell’ambiente per 1-2 giorni, mentre la ninfa fino a 5 giorni.
Eziopatogenesi. La scabbia è causata da un artropode, il
Sarcoptes scabiei hominis, parassita solo dell’uomo. La femmina ha forma ovalare ed è dotata di quattro paia di arti;
quando è gravida scava all’interno dello strato corneo fino
allo strato malpighiano un tragitto sinuoso lungo 0,5-1,5
cm, detto cunicolo, alla cui estremità distale (eminenza
acarica o vescicola perlacea) depone da 10 a 50 uova. Le
uova si schiudono dopo 3-4 giorni lasciando fuoriuscire le
larve che successivamente (15-18 giorni) si trasformano in
ninfe e poi in acari adulti.
Clinica. La patologia è caratterizzata da lesioni papulari
escoriate e cunicoli (lesioni lineari o serpiginose di colorito grigiastro) localizzati sui genitali (pene, scroto), sull’areola mammaria, sui fianchi, sulle regioni glutee e sottoglutee, sugli spazi interdigitali delle mani, sulle superfici
flessorie dei polsi e dei gomiti, sul cavo ascellare ecc. Il
prurito è diffuso e si accentua durante le ore notturne. Se
non trattata, la malattia ha decorso cronico e può complicarsi con infezioni batteriche, ma generalmente il numero
degli acari rimane limitato e diminuisce col tempo per i
meccanismi di difesa dell’ospite immunocompetente. In
soggetti immunocompromessi o mentalmente ritardati, la
malattia può evolvere in una dermatosi generalizzata ipercheratosica e squamo-crostosa con interessamento prevalente delle mani e dei piedi e distrofie ungueali (scabbia
crostosa o norvegese): in questi casi, nonostante la presenza di migliaia di parassiti, il prurito è spesso assente
(Figura 9.2).
Diagnosi. La diagnosi è basata sul riscontro del parassita
o delle lesioni cunicolari cutanee. Può essere effettuata, in
aggiunta, un’indagine microscopica su materiale corneo
prelevato con curette a livello del cunicolo e dopo chiarificazione con KOH al 10%.
PEDICULOSI DEL PUBE
È una malattia parassitaria caratterizzata da prurito, generalmente ai genitali ed al pube (ma anche a livello ascellare), e dal riscontro delle uova e dell’insetto adulto nelle aree
colpite.
Epidemiologia. La malattia è molto frequente e diffusa
in tutto il mondo. Si trasmette per contatto interpersonale
o durante i rapporti sessuali; è possibile e comune un contagio indiretto attraverso i servizi igienici.
Eziopatogenesi. È causata dal Phthirus pubis, o piattola,
insetto ematofago ovalare, di colorito grigio cenere, dotato
di un corpo più tozzo rispetto al pidocchio del capo, delle
dimensioni di 2-3 mm, e tre paia di arti, terminanti ad uncino, con cui il parassita si fissa alla base del pelo, dove depone le uova, che si schiudono dopo circa una settimana. Il
prurito è causato dalla puntura del pidocchio, mentre le rare manifestazioni esantematiche sono legate al passaggio
in circolo di sostanze tossiche.
Clinica. La malattia si manifesta con prurito, inizialmente
al pube, e secrezioni siero-ematiche sugli indumenti. Sono
sempre evidenti lesioni da trattamento,come sono frequenti le sovrainfezioni batteriche.Sulla parte bassa dell’addome,
sui fianchi ed, a volte, sulla radice delle cosce, possono comparire delle macchie lenticolari a limiti indistinti, di colorito
blu ardesico (macule cerulee) legate a sostanze emolitiche
inoculate dalla puntura dell’insetto. Obiettivamente sono
visibili i parassiti grigiastri, facilmente asportabili, mentre le
uova restano saldamente ancorate alla radice dei peli.
Diagnosi. La diagnosi è clinica: riscontro del parassita e
delle uova sulle zone pilifere.
Terapia. La terapia è basata sull’impiego di polveri o
emulsioni insetticide contenenti piretrina, piperonil-butossido o propoxur, mantenute in situ per 12 ore ed eliminate
successivamente con accurato lavaggio. Andranno ovviamente disinfestati la biancheria personale ed i letti, così come verrà raccomandata la disinfestazione a tutti i conviventi o a tutti coloro che abbiano avuto contatti intimi con
la persona infetta (Figura 9.2).
BARTOLINITE
Terapia. La terapia è topica con pomate insetticide contenenti zolfo o benzoato di benzile, applicate su tutta la
superficie corporea. Andranno ovviamente disinfestati la
biancheria personale ed i letti, così come verrà consigliata
la disinfestazione a tutti i conviventi o a tutti coloro che abbiano avuto contatti intimi con la persona infetta.
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Epidemiologia. Con tale termine si designa l’infiammazione delle ghiandole di Bartolini, o ghiandole vestibolari
maggiori. Tale fenomeno, più tipico dell’età fertile, si può
verificare nel contesto di una cisti ghiandolare o in assenza
di lesioni preesistenti a tale livello.
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Infezioni dell’apparato genitale femminile
Sexually Transmitted Disease:
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Parasite s
Segni clinici
Intenso prurito in area
pubica (spesso notturno)
è segno di infezione da
parassiti. Le escoriazioni
sono comuni
Macchie bluastre cutanee
spesso presenti con
infestazione pubica da
Phthirus pubis
Infezione secondaria con
lesioni eczematoidi
da escoriazioni o morsi
Esame dell’area pubica
e peli pubici possono
rivelare uova e parassiti
Phthirus pubis
Uova di Phthirus pubis
nei peli pubici
Sarcoptes scabiei
Management
Insetticida
Incrementare igiene generale e trattamento
dei membri familiari e di tutti partner sessuali
con shampoos insetticidi e creme
Pulizia generale domestica
con particolare attenzione alla disinfezione
e al lavaggio di indumenti intimi e lenzuola
Figura 9.2 Malattie sessualmente trasmesse a eziologia parassitaria. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published by Elsevier Inc. All rights reserved.)
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GINECOLOGIA
Bartholin ’s Cyst
7:00
5:00
Le ghiandole di Bartolini
(dagli orifizi posizionati a ore 5 e ore 7)
dovrebbero essere ispezionati
perché sorgenti di lesioni
Cisti di Bartolini a ore 5
Zona di incisione
mucosale per
il drenaggio della
cisti del Bartolini
with
Parete mucosa
Cisti aperta
Ghiandola aperta
Marsupializzazione
della cisti
Figura 9.3 Infiammazione delle ghiandole di Bartolini: bartolinite. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published by Elsevier Inc. All rights reserved.)
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Infezioni dell’apparato genitale femminile
Eziopatogenesi. I patogeni più frequentemente responsabili sono i piogeni (streptococchi ed anaerobi); in secondo luogo il gonococco, la Chlamydia trachomatis ed il Mycoplasma. All’interno della ghiandola coinvolta si sviluppa
una raccolta di pus che può fuoriuscire dal dotto escretore, oppure, se ostruito, verso la faccia interna delle grandi
labbra.
Clinica. I sintomi principali sono dolore, tensione e gonfiore dell’area colpita, che si presenta coperta da cute edematosa ed arrossata. La paziente spesso lamenta difficoltà alla deambulazione e nell’assumere la posizione seduta. È possibile riscontrare un rialzo della temperatura corporea. Tendenzialmente la tumefazione, entro pochi giorni, assume la forma di un ascesso che, se non drenato
chirurgicamente, si apre spontaneamente all’esterno (Figura 9.3).
Terapia. L’intervento terapeutico consiste nella somministrazione di antibiotici a largo spettro, nel tentativo di far regredire l’infezione; se ciò non dovesse riuscire, si consiglia
l’utilizzo di impacchi caldo-umidi per favorire il drenaggio
spontaneo del pus; in alternativa, è indicata l’incisione della formazione ascessuale in anestesia generale, associata al
drenaggio. L’eventuale asportazione della ghiandola va effettuata quando non siano più presenti segni di flogosi (vedi Capitolo 35).
ENDOMETRITE
Epidemiologia ed eziopatogenesi. Si definisce endometrite un processo infettivo a carico della mucosa o della
decidua endometriale che si può estendere fino ad interessare il miometrio e i parametri. Nella gran parte dei casi tale infezione è sostenuta da diversi ceppi batterici, che derivano dalla normale flora microbica saprofita dell’ambiente
vaginale: Ureaplasma urealyticum, Peptostreptococcus, Gardnerella vaginalis, Bacteroides e streptococchi di gruppo B (Figura 9.4).
La contaminazione della cavità endometriale da parte di
microrganismi patogeni è un evento frequente soprattutto dopo un parto spontaneo. Circa il 70-80% delle puerpere presenta colture endometriali positive per la crescita
di almeno un ceppo batterico ed in particolare questa positività aumenta con il passare del tempo; infatti mentre
solo 1 su 10 colture endometriali risulta positiva nelle prime 2 ore dal parto, tutte lo diventano a distanza di 24 ore
e lo restano per circa 5 giorni. Tuttavia, di tutte le donne
con colture endometriali positive (dopo parto spontaneo
avvenuto senza traumatismi ostetrici), solo l’1-2% sviluppa un’endometrite.
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La contaminazione della cavità endometriale da parte di
patogeni avverrebbe anche durante la fase mestruale ed in
seguito a rapporti sessuali in determinate fasi del ciclo. Tale fenomeno transitorio appare tuttavia di scarsa rilevanza
grazie all’azione di specifici meccanismi di difesa uterini
ossido-riduttivi e propulsivi.
Un’altra causa di contaminazione microbica endometriale
sarebbe data dall’inserzione di un dispositivo intra-uterino
(IUD): subito dopo l’inserzione dello IUD, infatti, è possibile isolare in cavità numerosi batteri, tuttavia, dopo circa
24-72 ore, la cavità tornerebbe di nuovo sterile, in quanto
la mucosa endometriale, nella maggior parte dei casi, grazie al suo potenziale ossido-riduttivo è in grado di contrastare l’azione dei patogeni.
Clinica. I sintomi principali con cui si manifesta l’endometrite sono: dolorabilità spontanea e provocata ai quadranti addominali inferiori, rialzo febbrile (< 38,5 °C, entro
36 ore dal parto), tachicardia, profonda astenia e perdite
ematiche purulente. Nel caso di contaminazione da parte
di streptococchi -emolitici di gruppo A e di infezione da
Neisseria gonorrhoeae la sintomatologia dell’endometrite
acuta sarà caratterizzata da febbre superiore a 39 °C, algie
addomino-pelviche, perdite profuse e maleodoranti,
profondo peggioramento della cenestesi, fino ad un vero e
proprio quadro di shock settico.
La diffusione per contiguità e, probabilmente, per via linfatica dell’endometrite può generare un quadro di metrite: in
rari casi si possono formare all’interno dello spessore miometriale delle cavità ascessuali, il cui contenuto necrotico
può essere eliminato attraverso la cavità uterina. Generalmente l’insorgenza della metrite si verifica nel corso della
seconda settimana del puerperio, confermando così l’ipotesi eziopatogenetica che la vedrebbe come una malattia
secondaria all’endometrite, con un quadro clinico affine a
quest’ultima per la sintomatologia, ma gravato da una
maggiore severità.
Diagnosi. La diagnosi si basa essenzialmente sul reperto
obiettivo, sulla clinica e sull’alterazione di determinati parametri ematochimici: leucocitosi neutrofila, emocolture
positive e colture di materiale endometriale.
Altri presidi diagnostici (ecografia transvaginale, TAC pelvica) vengono solitamente riservati alle pazienti che non rispondono alla terapia antibiotica entro le prime 48-72 ore
e/o nel caso in cui si voglia escludere un coinvolgimento
dei parametri, una tromboflebite settica, una trombosi delle vene ovariche.
Terapia. Il trattamento dell’endometrite si basa sull’utilizzo di antibiotici a largo spettro o in combinazione.
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GINECOLOGIA
Vie di diffusione
dell’infezione
gonococcica
e non gonococcica
Gonorrea
Infezione non gonococcica
(generalmente puerperale,
postabortiva o traumatica)
Parametrite
con ascessi
(diffusione
retrograda)
Parametrite
Figura 9.4 Endometrite. (Da R.P. Smith, Netter’s Obstetrics, Gynecology and Women’s Health. Published by Elsevier Inc. All rights reserved.)
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