Da Sud a Nord: lo Stivale acquiescente.

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Da Sud a Nord: lo Stivale acquiescente.
Da Sud a Nord: lo Stivale acquiescente.
9 febbraio 2014
di Francesca Gatti
Complici, collusi e infetti. Pochissimi gli esclusi, rare le eccezioni che vedono protagoniste, nel
proliferare delle mafie nei diversi territori, personaggi provenienti dall’estremità più meridionale e
afosa della Sicilia, alla punta più gelida della capitale piemontese. L’ascesa delle grandi
organizzazioni criminali nella nostra penisola e nel resto del mondo è stata agevolata, quando non
favorita, dall’omertà di alcuni e dalla connivenza di altri, dall’ignoranza manifesta all’astuzia
latente, non ha più importanza di quale regione e con quale accento.
In un clima diffuso di negazionismo, ventitré anni fa, la mafia aveva già fatto enormi passi avanti,
dimostrandosi lungimirante nel comprendere il contesto nel quale avrebbe dovuto operare. Al 1990
risale infatti un’intercettazione ambientale contenente il seguente monito: “Quando voi terrorizzate
il popolo, il popolo lo perderete”. Se il mezzogiorno italiano è stato la culla che ha concesso all’
“infezione” di germogliare, il settentrione non è di certo rimasto a guardare e ne ha abbracciato la
medesima cultura: quella dell’indifferenza e dell’opportunismo, dischiudendo così, attraverso il
consenso sociale, le sue porte alla criminalità organizzata. “Noi calabresi abbiamo infettato il
mondo”, dichiara il magistrato Nicola Gratteri, ma il Nord deve abbandonare la finta purezza dietro
la quale si cela e “smettere di fare la vittima”.
Nicola Gratteri, procuratore aggiunto presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria,
è impegnato su più fronti nella lotta contro l’organizzazione più potente e misteriosa in Italia, “la
grande sconosciuta” ‘ndrangheta, come ebbe a definirla lo storico Enzo Ciconte, qualche anno fa. Il
magistrato, ospite venerdì presso una libreria del centro di Parma, ha presentato il suo recente libro
“Acqua santissima. La Chiesa e la ‘ndrangheta: storia di potere, silenzi e assoluzioni”, frutto della
collaborazione con Antonio Nicaso, storico delle organizzazioni criminali. Nel testo viene
affrontato l’intricato e delicato tema del rapporto tra i due grandissimi poteri, Chiesa e ‘Ndrangheta,
legittimo il primo, illegale il secondo.
“Farsi vedere vicino alla Chiesa è una forma di esternazione di potere”, spiega il procuratore. Non
confondiamo quindi l’accanimento verso la religione come manifestazione di fede, perché i mafiosi
non hanno fede ma devozione, e la loro presenza alle processioni gli permette di acquisire visibilità
e consenso sociale. Da un sondaggio portato avanti nelle carceri dallo stesso Gratteri, è emerso che
il 98% dei residenti all’interno del 41 bis, il regime carcerario duro, sono credenti. Il mafioso, prima
e dopo l’omicidio, prega, costretto ad uccidere da regole che altrimenti lo etichetterebbero come
‘poco credibile’ agli occhi degli altri affiliati e del resto della società. Gli uomini di Chiesa spesso,
ancora oggi, per paura o convenienza fanno finta di non vedere, “mettono la testa dentro la gabbia
toracica”, accettando inviti a casa di capimafia, giustificati dal compito degli ecclesiastici:
redimere.
Il libro non poteva non riscuotere numerose critiche da parte dei vescovi calabresi, ma esso vuole
essere prima di tutto un “atto d’amore” nei confronti della Chiesa, quella fatta di valori sentiti e non
solo manifesti, quella dalla quale sono emerse anche figure che hanno combattuto, in veste del loro
ruolo, la mafia: le prime vittime della ‘ndrangheta furono infatti due preti colpevoli di aver
denunciato e testimoniato. Antesignani del ben più commemorato don Pino Puglisi, entrambi sono
stati abbandonati prima e dimenticati poi, dalla Chiesa, lo stesso organo per il quale portavano
avanti le loro battaglie.
Scalfite nella sua memoria di bambino le immagini dei morti ammazzati a terra, così come gli
atteggiamenti arroganti dei figli di capimafia alle scuole medie – fieri delle loro origini e felici di
poterle sfruttare – Gratteri parla anche della sua storia. “Se fossi nato cinquanta metri più in là”,
rivela, “oggi sarei un capomafia. Ma sono nato in una famiglia fatta di gente onesta, che mi ha
trasmesso dei valori, per questo mi sono salvato”. La Calabria, oltre che luogo di nascita è anche
luogo dove più si concentrano le sue indagini: “Avrei potuto fare il giudice a Sanremo, a Venezia, a
Parma, ma ho scelto la Calabria, terra dove si è magistrati ventiquattro ore al giorno, dove il
prezzo del tuo lavoro è altissimo … ma rifarei tutto”. Gratteri si è occupato in particolar modo delle
rotte internazionali della droga, sequestrando in soli sei mesi quattro tonnellate di cocaina. La
‘ndrangheta è leader indiscussa del narcotraffico, grazie al quale intasca ingenti patrimoni che le
consentono di “comprare tutto ciò che è in vendita da Roma in su”. Il vero problema
dell’organizzazione è come giustificare tale liquidità, che spesso per essere contata viene, nel vero
senso della parola, pesata.
“La mafia finirà quando finirà l’uomo sulla Terra”,ripete con parole poco ottimistiche il magistrato
durante l’incontro, parlando di quello che non va nel nostro Paese.“Il sistema giudiziario non basta
com’è”,così come non funziona il sistema carcerario del 41 bis, che accoglie un numero di criminali
superiore a quello che potrebbe effettivamente ospitarne in totale sicurezza: settecentocinquanta
reclusi invece che cinquecento. Necessitiamo quindi di un cambiamento nel codice di procedura
penale. La pena prevista per un mafioso è ridicola: per questo il procuratore Gratteri parla
dell’importanza di innalzarla da venti a trent’anni, considerando il fatto che i criminali temono di
più l’imputazione per droga e quella per omicidio, dato che per altri reati ‘minori’ le sbarre si
apriranno per loro solo dopo qualche anno. Lo Stato in tutto questo deve farsi sentire forte, presente
e capace di emanare delle regole, garantendo in primis la salute e l’incolumità dei suoi cittadini.
Solo così ci può essere libertà e democrazia.
“Ho deciso di scrivere” asserisce il magistrato, “per informare, per far pensare e per (far)
smitizzare le mafie”. Forte della convinzione che la cultura sia lo strumento più importante per
combattere il fenomeno mafioso, dedica il tempo libero ai ragazzi, proprio come prima di lui
facevano Rocco Chinnici e Paolo Borsellino, sicuro che “valga la pena provare”. Determinante è
una maggiore presa di coscienza da parte della società, conclude il procuratore, ed essenziale è
discernere tra antimafia ‘a parole’ e quella invece fatta di azioni e di gesti concreti, perché “ognuno
di noi va valutato in base a quello che fa”, e la “coerenza” è ciò di cui più gli italiani necessitano.