Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta

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Elena Ferrante Storia di chi fugge e di chi resta
Elena Ferrante
Storia di chi fugge e di chi resta
Roma, Edizioni e/o, 2013
Pagine 382
ISBN 978 88 6632 411 9
Elena Ferrante © 2013 Edizione e/o
Assaggio di lettura: pagg. 15-20
Foreign rights:
Agenzia Letteraria Clementina Liuzzi
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TEMPO DI MEZZO
1.
Ho visto Lila per l’ultima volta cinque anni fa, nell’inverno del 2005.
Stavamo passeggiando di buon mattino lungo lo stradone e, come ormai
da anni, non riuscivamo a sentirci a nostro agio. Parlavo solo io, mi
ricordo: lei canterellava, salutava gente che nemmeno rispondeva, le rare
volte che mi interrompeva pronunciava solo frasi esclamative, senza un
nesso evidente con ciò che dicevo. Erano successe negli anni troppe cose
brutte, alcune orribili, e per ritrovare la via della confidenza avremmo
dovuto dirci pensieri segreti, ma io non avevo la forza di trovare le parole e
lei, che forse la forza ce l’aveva, non ne aveva voglia, non ne vedeva l’utilità.
Le volevo comunque molto bene e quando venivo a Napoli cercavo
sempre di incontrarla, anche se, devo dire, ne avevo un po’ paura. Era
cambiata molto. Su entrambe la vecchiaia aveva avuto la meglio, ormai, ma
mentre io combattevo contro la tendenza a prendere peso, lei era stabilmente pelle e ossa. Aveva capelli corti che tagliava da sola, bianchissimi
non per scelta ma per trascuratezza. Il viso, molto segnato, rimandava
sempre più a quello di suo padre. Rideva per il nervoso, quasi uno stridio,
e parlava a voce troppo alta. Gesticolava di continuo, dando al gesto una
tale feroce determinazione che pareva voler tagliare in due le palazzine,
la strada, i passanti, me.
Ci trovavamo all’altezza della scuola elementare quando un uomo
giovane che non conoscevo ci superò affannato e le gridò che in un’aiuola
accanto alla chiesa era stato trovato un cadavere di donna. Ci affrettammo
verso i giardinetti, Lila mi trascinò nel capannello di curiosi aprendosi
un varco in malo modo. La donna giaceva su un fianco, era straordinariamente grassa, indossava un impermeabile fuori moda di colore
verde scuro. Lila la riconobbe subito, io no: era la nostra amica d’infanzia
Gigliola Spagnuolo, l’ex moglie di Michele Solara.
Non la vedevo da qualche decennio. Il viso bello si era guastato, le caviglie
erano diventate enormi. I capelli, una volta bruni, adesso erano rosso
fuoco, lunghi come li portava da ragazza ma radi, e sparsi sul terriccio
smosso. Soltanto un piede calzava una scarpa col tacco basso, molto
usurata; l’altro era stretto in una calza di lana grigia, bucata sull’alluce, e la
scarpa si trovava un metro più in là, come se le si fosse sfilata scalciando
contro un dolore o uno spavento. Scoppiai a piangere, Lila mi guardò con
fastidio.
Sedute su una panchina poco distante, aspettammo in silen- zio che
Gigliola fosse portata via. Cosa le era successo, com’era morta, per ora non
si sapeva. Ci ritirammo a casa di Lila, il vec- chio, piccolo appartamento
dei genitori nel quale ora viveva col figlio Rino. Parlammo della nostra
amica, lei me ne disse male, la vita che aveva fatto, le pretese, le perfidie. Ma
adesso ero io che non riuscivo ad ascoltare, pensavo a quel viso di profilo
sul terriccio, a com’erano radi i capelli lunghi, alle chiazze bianchicce del
cranio. Quante persone che erano state bambine insieme a noi non erano
più vive, sparite dalla faccia della terra per malattia, perché la nervatura
non aveva retto alla carta vetrata dei tormenti, perché era stato versato
il loro sangue. Per un po’ restammo in cucina svogliatamente, senza che
nessuna delle due si decidesse a sparecchiare, poi uscimmo di nuovo.
Il sole della bella giornata invernale dava alle cose un aspetto sereno. Il
rione vecchio, a differenza di noi, era rimasto identico. Resistevano le case
basse e grigie, il cortile dei nostri giochi, lo stradone, le bocche scure del
tunnel e la violenza. Invece era cambiato il paesaggio intorno. La distesa
verdognola degli stagni non c’era più, la vecchia fabbrica di conserve si
era dissolta. Al loro posto, c’erano i bagliori dei grattacieli di vetro, segni
una volta di un futuro raggiante cui non aveva creduto mai nessuno. I
cambiamenti li avevo registrati tutti, negli anni, a volte con curiosità, più
spesso distrattamente.
Da ragazzina mi ero immaginata che, oltre il rione, Napoli offrisse
meraviglie. Il grattacielo della stazione centrale, per esempio, mi aveva
colpita molto, decenni prima, per il suo ergersi piano dietro piano,
uno scheletro di edificio che allora ci pareva altissimo, a lato dell’ardita
stazione ferroviaria. Come mi sorprendevo, quando passavo per piazza
Garibaldi: guarda quant’è alto, dicevo a Lila, a Carmen, a Pasquale, ad
Ada, ad Antonio, a tutti i compagni di allora con i quali mi spingevo
verso il mare, ai margini dei quartieri ricchi. Lassù, pensavo, ci abitano gli
angeli e sicuramente si godono tutta la città. Arrampicarmi, salire fino in
cima, quanto mi sarebbe piaciuto. Era il nostro grattacielo, anche se stava
fuori dal rione, una cosa che vedevamo crescere di giorno in giorno. Ma i
lavori si erano fermati. Quando tornavo a casa da Pisa, il gratta- cielo della
stazione, più che il simbolo di una comunità che si stava rinnovando, mi
pareva un ulteriore nido dell’inefficienza.
In quel periodo mi convinsi che non c’era grande differenza tra il rione
e Napoli, il malessere scivolava dall’uno all’altra senza soluzione di continuità. A ogni ritorno trovavo una città sempre più di pastafrolla, che non
reggeva i cambi di stagione, il caldo, il freddo, soprattutto i temporali. Ecco
che la stazione di piazza Garibaldi s’era allagata, ecco che era venuta giù
la Galleria di fronte al Museo, ecco che c’era stata una frana, la luce elettrica non tornava più. Avevo nella memoria strade buie piene di pericoli,
traffico sempre più sregolato, il lastrico sconnesso, larghe pozzanghere.
Le fogne sovraccariche schizzavano, sbavavano. Lave d’acqua e liquami
e immondizia e batteri si rovesciavano nel mare dalle colline cariche di
costruzioni nuovissime e fragili, o erodevano il mondo di sotto. La gente
moriva d’incuria, di corruzione, di sopraffazione, e tuttavia, a ogni tornata
eletto- rale, dava il suo consenso entusiastico ai politici che le rendevano la vita insopportabile. Appena scendevo dal treno, mi muovevo con
cautela nei luoghi dove ero cresciuta, badando a parlare sempre in dialetto
come per segnalare sono dei vostri, non mi fate male.

Quando mi laureai, quando scrissi di getto un racconto che in modo del
tutto inatteso, nel giro di pochi mesi, diventò un libro, le cose del mondo
da cui venivo mi sembrarono ulteriormente peggiorate. Mentre a Pisa, a
Milano, mi sentivo bene, a tratti persino felice, nella mia città temevo a
ogni ritorno che un imprevisto mi avrebbe impedito di sfuggirle, che le
cose che mi ero conquistata mi sarebbero state tolte. Non avrei potuto raggiungere più Pietro che dovevo sposare presto; mi sarebbe stato precluso
lo spazio lindo della casa editrice; non avrei potuto più godere delle finezze
di Adele, la mia futura suocera, una madre come non era mai stata la mia.
Già in passato la città mi era sembrata affollata, tutta una ressa da piazza
Garibaldi a Forcella, alla Duchesca, al Lavinaio, al Rettifilo. Alla fine degli
anni Sessanta mi sembrò che la folla fosse cresciuta e che l’insofferenza,
l’ag- gressività, stessero dilagando in modo incontrollato. Una matti- na
mi ero spinta fino a via Mezzocannone, lì dove qualche anno prima avevo
lavorato come commessa in una libreria. C’ero andata per curiosità, per
rivedere il posto dove avevo faticato, soprattutto per dare uno sguardo
all’università, nella quale non ero mai entrata. Volevo confrontarla con
quella di Pisa, con la Normale, speravo persino di imbattermi nei figli
della professoressa Galiani – Armando, Nadia – e vantarmi di ciò che
ero stata capace di fare. Ma la strada, gli spazi universitari, mi avevano
messo angoscia, erano gremiti di studenti napoletani e della pro- vincia
e di tutto il Sud, giovani ben vestiti, chiassosi, sicuri di sé, e ragazzi dai
modi grezzi e insieme subalterni. Si accalcavano agli ingressi, dentro le
aule, davanti alle segreterie dove c’erano lun- ghe file spesso rissose. Tre
o quattro s’erano picchiati senza preavviso a pochi passi da me, come se
gli fosse bastato vedersi per arrivare a un’esplosione di insulti e botte, una
furia di maschi che urlava la sua smania di sangue in un dialetto che io
stessa facevo fatica a capire. Me n’ero andata in fretta, come se qualcosa di
minaccioso mi avesse sfiorata in un luogo che immaginavo sicuro, abitato
solo da buone ragioni.
Ogni anno, insomma, mi pareva peggio. In quel periodo di piogge, la
città si era ancora una volta crepata, un intero palazzo si era piegato su
un fianco come una persona che si appoggia al bracciolo tarlato di una
vecchia poltrona e il bracciolo cede. Morti, feriti. E grida, mazzate, bombe
carta. Pareva che la città covasse nelle viscere una furia che non riusciva a
venir fuori e perciò la erodeva, o erompeva in pustole di superficie, gonfie
di vele- no contro tutti, bambini, adulti, vecchi, gente di altre città, americani della Nato, turisti d’ogni nazionalità, gli stessi napoletani. Come si
poteva resistere in quel posto di disordine e pericolo, in periferia, al centro,
sulle colline, sotto il Vesuvio? Che brutta impressione mi aveva fatto San
Giovanni a Teduccio, il viaggio per arrivarci. Che brutta impressione
mi aveva fatto la fabbrica dove lavorava Lila, e Lila stessa, Lila col figlio
piccolo, Lila che, in un edificio miserabile, viveva con Enzo anche se non
ci dormiva insieme. Aveva detto che lui voleva studiare il funzionamento
dei calcolatori elettronici e che lei cercava di aiutarlo. Mi era rimasta
impressa la sua voce che cercava di cancellare San Giovanni, i salumi,
l’odore della fabbrica, la sua condizione, citandomi con finta competenza
sigle tipo: Centro di cibernetica della Statale di Milano, Centro sovietico
per l’applicazione dei calcolatori alle scienze sociali. Voleva farmi credere
che sarebbe nato presto un centro di quel genere anche a Napoli. Avevo
pensato: a Milano forse sì, sicuramente in Unione sovietica, ma qui no, qui
sono follie della tua testa incontrollabile dentro le quali stai trascinando
anche il povero, devotissimo Enzo. Andarsene, invece. Filar via definitivamente, lontano dalla vita che avevamo sperimentato fin dalla nascita.
Insediarsi in territori ben organizzati dove davvero tutto era possibile.
Me l’ero battuta infatti. Ma solo per scoprire, nei decenni a venire, che mi
ero sbagliata, che si trattava di una catena con anelli sempre più grandi:
il rione rimandava alla città, la città all’Italia, l’Italia all’Europa, l’Europa
a tutto il pianeta. E oggi la vedo così: non è il rione a essere malato, non è
Napoli, è il globo terrestre, è l’universo, o gli universi. E l’abilità consiste
nel nascondere e nascondersi lo stato vero delle cose.
Ne parlai con Lila quel pomeriggio, nell’inverno del 2005, con enfasi e
come per fare ammenda. Volevo riconoscerle che aveva capito tutto fin da
ragazzina, senza mai muoversi da Napoli. Ma mi vergognai quasi subito,
sentii nelle mie parole il pessimismo stizzoso di chi invecchia, il tono che,
lo sapevo, lei detestava. Infatti mi mostrò i denti invecchiati in un sorriso
che era una smorfia nervosa, disse:
«Fai la saputa, spari sentenze? Che intenzioni hai? Vuoi scrivere di noi?
Vuoi scrivere di me?».
«No».
«Di’ la verità».
«Sarebbe troppo complicato».
«Ci hai pensato, però, ci stai pensando».
«Un po’ sì».
«Mi devi lasciar stare, Lenù. Ci devi lasciar stare tutti. Noi
dobbiamo sparire, non ci meritiamo niente, né Gigliola né io, nessuno».
«Questo non è vero».
Fece un’espressione brutta di scontento e mi scrutò con le pupille che si
vedevano appena, le labbra socchiuse.
«Va bene» disse, «scrivi, se proprio vuoi, scrivi di Gigliola, di chi ti pare.
Ma di me no, non ti azzardare, prometti».
«Non scriverò di nessuno, nemmeno di te».
«Guarda che ti tengo d’occhio».
«Sì?».
«Ti vengo a frugare nel computer, ti leggo i file, te li cancello».
«Ma va’».«Credi che non sono capace?».
«Lo so che sei capace. Ma mi so proteggere». Rise al suo vecchio modo
cattivo.
«Da me no».
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