Gli Accordi di partenariato economico

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Gli Accordi di partenariato economico
Organizzatori della campagna:
EuropAfrica –Terre Contadine: per un agricoltura solidale e sostenibile nel Nord
come nel Sud del mondo una campagna che nasce dalla collaborazione tra organizzazioni di coltivatori dell Africa occidentale e dell Europa, associazioni, organizzazioni non governative e del commercio equo e solidale. In Italia la campagna una attivit del Gruppo di
appoggio al movimento contadino dell’Africa occidentale.
Per avere maggiori informazioni e per
partecipare alle attività della Campagna
vi invitiamo a visitare il sito:
www.europafrica.info
Potete contattare l’Associazione che
coordina il programma:
Terra Nuova
Via di Vigna Fabbri, 39 - 00179
Roma - Tel: +30-06-7839089
www.terranuova.org
o ancora scrivere e-mail:
[email protected]
Gli altri organizzatori della campagna:
in Italia
●
Centro Internazionale Crocevia (CIC)
http://www.croceviaterra.it
in Belgio
●
Collectif Stratégies Alimentaires (CSA)
http://www.csa-be.org
in Africa
●
Réseau des organisations paysannes
et de producteurs de l’Afrique de
l’Ouest (ROPPA)
http://www.roppa.info
I Partner della Campagna membri del
Gruppo italiano di sostegno al movimento contadino in Africa occidentale:
● Associazione Rurale Italiana (Ari)
● Associazione Universitaria per
la Cooperazione allo Sviluppo (Aucs)
http://www.aucsviterbo.org
● Coldiretti - http://www.coldiretti.it
● Comunità di impegno servizio volontario
(Cisv) http://www.cisvto.org
● Cooperazione per lo sviluppo
dei paesi emergenti (Cospe)
http://www.cospe.it
● Coordinamento di Iniziative Popolari
di Solidarietà Internazionale (Cipsi)
http://www.cipsi.it/nuovo/cipsi
Per una agricoltura solidale e sostenibile
nel Nord come nel Sud del mondo
Con la collaborazione di:
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Associazione Italiana Agricoltura
Biologica: www.aiab.it
Campagna per la Riforma della Banca
Mondiale: wwwcrbm.org
Fair: www.faircoop.it
Tradewatch: www.tradewatch.it
Università degli Studi Roma Tre
Master in Human Development
and Food Security
Il Progetto è co-finanziato dalla
COMMISSIONE EUROPEA
REGIONE
LAZIO
Gli Accordi
di partenariato
economico:
occasione
di sviluppo
o rovina
dei piccoli
coltivatori?
Gli Accordi di partenariato economico:
occasione di sviluppo
o rovina dei piccoli coltivatori?
unque: pomodori, cipolle, olio, zucchero, patate, carne e magari
un po’ di frutta. Ma anche fragole, ananas, mango, qualche banana. E poi? Un po’ di fagiolini, un paio di limoni, latte e cereali per
la colazione… Spingendo il carrello fra gli scaffali del supermercato
capita spesso di domandarsi «Ho preso tutto?». Raramente però ci si
chiede: «E a chi l’ho preso?».
Se vivete in una città europea è molto probabile che i pomodori freschi vengano dalla Giordania, dall’Algeria, dal Burkina Faso, dalla periferia di Dakar o dalle piane fertili del Marocco e non, come fino a poco
tempo fa, dalla Spagna o dalla stessa Italia. Anche le olive, del resto, sono
migrate più a Sud mentre i paesi del Nord Europa si garantiscono un
approvvigionamento costante di fragole grazie alle grandi serre che le
industrie dell’agrobusiness hanno delocalizzato in Marocco dove sono
stati coltivati anche i fagiolini che avete pesato con cura, sempre che
non siano arrivati dritti dritti dal Kenya o dall’Egitto. La carne viene quasi
certamente dal Nord Europa, ma è molto probabile che, prima di trasformarsi in fettina, la mucca si sia nutrita di mangimi a base di manioca africana. Le patate, pianta facile e adatta a ogni terreno, potrebbero
crescere anche nel giardino sotto casa ma è molto più probabile che il
grossista sia andato a prenderle più lontano, dove il lavoro costa meno
e la terra quasi niente, come lungo le rive del Nilo. E la frutta? Difficile
che l’ananas e il mango arrivino ancora dall’Africa come qualche tempo
fa. Insieme alle banane, potrebbero avere attraversato l’oceano
Atlantico dopo essersi imbarcati in qualche porto dell’America Latina
dove le immense piantagioni fondate all’inizio del Novecento dalle grandi compagnie statunitensi garantiscono bassi salari e dosi generose di
pesticidi. Tanto né il governo del Costa Rica né quello del Nicaragua
hanno molta speranza di costringere le aziende in questione a risarcire
migliaia di braccianti intossicati dai veleni chimici.
Quanto ai cereali per la colazione, da inondare con del latte probabilmente danese, non è tanto importante dove sono stati coltivati: è nella loro trasformazione in fiocchi che si annida la maggior parte del profitto riservato
al marchio. Stiamo parlando della cosiddetta industria della trasformazione
alimentare che viene considerata una delle tappe importanti per “risalire la
D
uno
filiera” ovvero per emanciparsi dalla mera produzione di materie prime alimentari il cui prezzo precipita di anno in anno. Ma alla fine, a chi importa?
Da questo lato del mondo siamo abbastanza ricchi per poterci permettere di pagare un surplus per il trasporto e per le simpatiche confezioni con
cui viene impacchettato il nostro cibo. Il guaio è che si troveranno a spingere lo stesso tipo di carrello, con dentro lo stesso tipo di merci, anche gli
abitanti di una delle tante megalopoli africane, continente ben più dipendente del nostro dal lavoro nei campi e nel quale, una volta lasciata la zappa,
è assai difficile trovare un’altra occupazione.
Molto probabilmente la casalinga di Dakar troverà anche lei la sua brava
confezione di latte europeo che, malgrado i chilometri percorsi, costa
meno del latte prodotto dai piccoli allevatori del Senegal, il suo stesso
paese. Anche un grande magazzino di Bamako, in Mali, proporrà quasi
certamente lo stesso tipo di merci, magari originarie del Nord Africa
ma trasformate in fiocchi d’avena o in biscotti nella vecchia Europa.
Unica differenza saranno le copie cinesi dei prodotti europei – ad
esempio la conserva di pomodoro - che avranno sbaragliato la concorrenza locale e internazionale una volta che le barriere tariffarie saranno
state completamente abbattute. Naturalmente anche il consumatore
che spinge il carrello in un drugstore di Casablanca potrà usufruire del
calo dei prezzi garantito dall’accesso al supermercato globale, ma tornando a casa troverà ad attenderlo due o tre bollette particolarmente
salate - l’acqua magari, o la luce - e non gli verrà certo in mente di collegare gli aumenti con quelle belle fragole apparentemente polpose che
si è portato a casa a costo davvero contenuto. Eppure è proprio aprendo ulteriormente al mercato che il suo paese ha ceduto la gestione di
questi importanti settori a una delle potenti multinazionali europee.
Per tutti gli altri, per quelli che si sono tenuti aggrappati alla terra ereditata dai genitori o che invece, per partecipare al grande gioco del mercato globale, hanno accettato di coltivare quel che il mercato globale
richiede – caffè, cacao, cotone o quant’altro – non è previsto alcun
ruolo. Non importa se costituiscono ancora la maggioranza dell’umanità e una consistente minoranza in molti paesi sviluppati: sono fuori dalla
storia. Meglio quindi che si sbrighino a fare i bagagli per trasferirsi in città
dove possono ancora trovare un posto a sedere accanto alla porta del
supermercato: un compatriota più fortunato – per ora – gli allungherà
di certo qualche spicciolo. O possono sempre cercare di attraversare il
mare su di una carretta per andare a cercare lavoro negli stessi campi
di pomodori, in Spagna o in Puglia.
due
Come è successo?
n principio furono le colonie, ovvero un mondo strutturato e
gestito per rispondere alle esigenze delle grandi potenze europee: la conformazione produttiva e territoriale dei paesi del Sud
del mondo venne stabilita allora, dando la priorità alle grandi monoculture di materie prime alimentari destinate all’esportazione – cacao, zucchero, caffè… - a svantaggio delle produzioni agricole dedicate al consumo interno. Quando, negli anni ’60 del Novecento, sempre più paesi
del Sud cominciarono a ottenere l’indipendenza, l’esigenza di mantenere l’architettura delle monoculture funzionale al Nord del mondo, insieme a quella di conservare la propria immagine di “buoni padroni”, confluirono nella Convenzione di Yaoundè (1964) e, in seguito, nelle quattro Convenzioni di Lomé (dal 1975 al 2000), che stanziavano delle
somme significative per gli aiuti allo sviluppo e stabilivano una corsia
preferenziale per le merci provenienti dalle ex-colonie senza chiedere
una reciproca apertura da parte loro.
Nel frattempo però, il clima cambiava. Dal riconoscimento del diritto
dei paesi in via di sviluppo a proteggere le proprie giovani nazioni come
avevano fatto (e continuano a fare) i paesi sviluppati, si passò a un
approccio di classico stampo liberista: l’apertura dei mercati avrebbe
prodotto di per sé quello sviluppo cui anelavano i paesi più poveri. Fu
l’epoca dei grandi piani di aggiustamento strutturale che imposero ai
paesi del Sud del mondo l’abbandono dei meccanismi di sostegno e di
protezione, sia doganali che sociali, a favore delle privatizzazioni di settori sempre più ampi dell’economia nazionale che, quasi ovunque, era
ancora prevalentemente statale. Furono anche i tempi della cosiddetta
“rivoluzione verde” che coltivava l’idea di un’agricoltura sempre più
industrializzata e tecnologica per sfamare il mondo.
Nel corso degli anni Ottanta, fino all’inizio degli anni Novanta, sempre
più paesi in via di sviluppo vennero invitati a imboccare decisamente
questa direzione, pena l’esclusione dall’interessamento delle agenzie di
credito internazionali come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale.
Nell’immediato le conseguenze di questa politica furono tutt’altro che
esaltanti. Anzi, per riprendere una dichiarazione del Commissario allo
sviluppo della Commissione europea Louis Michel1: «Nella prima fase
delle liberalizzazioni – come si è visto nei paesi dell’Est europeo – ci
sono spesso catastrofi sociali». Gli esempi sono molteplici: in Costa
d’Avorio, dopo la riduzione del 40 per cento delle tariffe decisa nel 1986,
I
tre
il settore tessile, chimico, dell’abbigliamento e dell’assemblamento automobilistico collassarono producendo un’emorragia di posti di lavoro; in
Senegal, dopo l’applicazione di un programma di liberalizzazioni che aveva
ridotto le tariffe doganali dal 165 al 90 per cento, un terzo dei posti di lavoro andarono perduti fra il 1985 e il 1990; nel Ghana 50 mila posti di lavoro nel settore manifatturiero sparirono fra il 1987 e il 1993 dopo la liberalizzazione delle importazioni di beni di consumo; in Kenya i settori del
tessile, dello zucchero, del cemento, dell’imbottigliamento, del vetro e del
pellame dovettero lottare duramente per reggere la competizione delle
importazioni da quando, nel 1993, venne lanciato un radicale piano di liberalizzazioni degli scambi in linea con un programma di aggiustamento
strutturale targato Fondo Monetario/Banca Mondiale. Fra il 1993 e il 1997
la crescita industriale nel paese è scesa del 2,6 per cento2, tra il 1991 ed il
2000 il paese ha moltiplicato per 2 le sue esportazioni agricole e moltiplicato per 4 le sue importazioni alimentari3.
Nel frattempo, però, le riforme continuavano a ritmo incalzante. Il vecchio accordo sulle tariffe (Gatt) venne trasformato in
un’Organizzazione mondiale del commercio (Omc o Wto) deputata a
stilare – e far rispettare – delle regole uniformi per il mercato mondiale al quale ogni paese avrebbe dovuto accedere ricavandosi il proprio
spazio per le merci e le capacità nelle quali eccelle, il cosiddetto “vantaggio comparativo”. Come condizione per poter godere degli effetti
benefici del mercato globale i singoli paesi erano chiamati ad eliminare
ogni ostacolo al “libero scambio delle merci”, principalmente gli strumenti tradizionali con i quali gli Stati gestiscono da sempre le proprie
economie, dalle tariffe doganali alla scelta di sostenere alcuni settori
produttivi fino al controllo dei prezzi dei generi di prima necessità. Ma
nella cornice del Wto ogni preferenza, anche quelle “compensative” che
facevano parte della cornice di Lomè, viene etichettata come concorrenza sleale in nome di un livellamento del terreno di gioco idealmente auspicabile ma che in realtà ha finito per favorire soltanto gli attori
più forti: i paesi esportatori sviluppati (come Usa, Ue, Giappone,
Australia e Nuova Zelanda) o emergenti (come Brasile, Thailandia,
Vietnam) a livello globale; le grandi industrie multinazionali della distribuzione, della trasformazione e dell’agrobusiness all’interno dei singoli
paesi. In sostanza è come se, in nome del fair play sportivo, venissero
buttati sullo stesso ring i pesi massimi con i pesi piuma, con risultati facilmente prevedibili.
In questo nuovo quadro anche i meccanismi preferenziali e la non recipro-
quattro
cità sancite dalle convenzioni di Lomè dovevano essere abbandonati. Si
passò quindi, nel 2000, all’Accordo di Cotounu visto come un progressivo
smantellamento del quadro di Lomè ma nel quale veniva comunque mantenuto, almeno nelle intenzioni, un approccio finalizzato allo sviluppo e alla
riduzione della povertà: le nuove liberalizzazioni sarebbero state decise sulla
base di un prudente calendario, lasciando ampi margini di decisionalità ai singoli paesi, e la transizione sarebbe stata sostenuta con finanziamenti specifici
per aiutare i paesi a sviluppare le capacità tecniche essenziali per aprire ai
mercati, il cosiddetto Aid for Trade.
Dal 2002 l’Unione Europea ha cominciato a negoziare con le sue ex-colonie dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (77 paesi4 meglio noti come gruppo ACP) alcuni Accordi di partenariato economico (APE o EPA da
Economic Partnership Agreements) presentati come tappe dell’Accordo
di Cotonou, con l’obiettivo dichiarato di stabilire «nuovi aggiustamenti
negli scambi, compatibili con le regole del Wto, che rimuovano progressivamente le barriere agli scambi tra Unione Europea e Paesi ACP», e che
dovrebbero aiutare a costruire «iniziative di integrazione regionale tra i
Paesi ACP» e promuovere «lo sviluppo sostenibile contribuendo in quegli
stessi Paesi allo sradicamento della povertà».
Le trattative, cominciate con gli studi pilota già nel 2003, dovrebbero
concludersi entro la fine del 2007.
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Non si tratta di veri e propri accordi bilaterali –
ovvero fra singoli paesi - ma di trattative fra l’Unione
europea e sei organizzazioni regionali più o meno
avviate sulla strada dell’integrazione: l’Africa occidentale (CEDEAO/ECOWAS), l’Africa centrale
(CEMAC), l’Africa meridionale (SADC), l’Africa
orientale e australe (COMESA), i Caraibi (CARICOM) e il Pacifico (PICTA).
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ma di trattati nizzazioni regionali
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cinque
APE/EPA = WTO3
al 1995, data di nascita del Wto, molte delle aspettative generate dalla
globalizzazione dei mercati sono andate deluse. Paesi già impoveriti da
decenni di aggiustamenti strutturali sono stati costretti a smantellare
interi comparti produttivi a tappe forzate, innescando quasi ovunque conflitti sociali molto estesi. L’operato dei negoziatori Wto così come la prassi poco
trasparente degli organi deputati a risolvere i contenziosi, sono stati messi
sotto i riflettori dell’opinione pubblica dagli attivisti, e i governi di molti paesi
hanno cominciato a mettere il piede sul freno. Con il fallimento della conferenza ministeriale di Seattle (1999) e di quella di Cancun (2003) l’avanzata
delle liberalizzazioni ha registrato una battuta d’arresto in molti settori, soprattutto in quello agricolo già penalizzato dalla sovrapproduzione e dal conseguente crollo del prezzo di alcune commodities. Nel corso dell’ultima ministeriale di Hong Kong (2005) molti dei paesi che avevano manifestato il proprio scontento durante il summit messicano sono stati riportati a più miti
consigli e il ciclo di liberalizzazioni è stato rimesso in moto con l’obiettivo di
chiudere il ciclo di negoziati che era stato aperto a Doha (durante una ministeriale che si era tenuta nell’autunno del 2001, in piena sindrome post 11
settembre), entro la fine del 2006. Nel frattempo, mentre le grandi potenze
del Nord del mondo continuavano a trattare accordi bilaterali con i singoli
paesi o regioni, l’Unione Europea spingeva una versione degli APE/EPA che
idealmente doveva porsi nella cornice attenta allo sviluppo dell’Accordo di
Cotonou ma che, in realtà, sembrava sempre più basata su un’interpretazione molto rigida delle regole Wto. Negli APE/EPA, infatti, oltre a prevedere l’eliminazione di tutte le barriere commerciali sul 90 per cento degli scambi tra
Europa e Paesi ACP, vengono anche rilanciati i negoziati su argomenti molto
scottanti - investimenti, concorrenza, facilitazioni commerciali e commesse
governative - negoziati che erano stati respinti durante la ministeriale di
Cancun dai paesi ACP. Di fatto i nuovi Accordi di partenariato continuano a
procedere su di una base di reciprocità fra diseguali che porterà inevitabilmente a liquidare definitivamente il sistema delle preferenze che ha governato i rapporti con le ex-colonie fino a questo momento, aprendo al libero
mercato praticamente ogni settore economico, dall’agricoltura alle forniture
idriche, dai prodotti industriali alla sanità. Ma davvero la liberalizzazione globale può rimettere in moto lo sviluppo nei paesi più poveri del pianeta?
Paradossalmente, malgrado lo stato avanzato dei negoziati – e la gran mole
di lavori prodotti – non sono state effettuate ricerche articolate in grado di
dimostrare, dati alla mano, che la fine del sistema delle preferenze e l’abbatti-
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sei
mento delle barriere doganali fino all’apertura totale dei mercati siano davvero in grado di innescare un circolo virtuoso di sviluppo nei paesi più poveri
del pianeta. In realtà, almeno fino a questo momento, i paesi più poveri del
mondo hanno enormi difficoltà a gestire un export consistente, e non certo
per colpa delle tariffe doganali. Il 60 per cento delle esportazioni
dei Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico si concentra solo su 9
prodotti e le liberalizzazioni degli ultimi anni hanno ridotto – e non aumentato - la partecipazione dei paesi ACP al
commercio mondiale: dal 3,4% del 1976 all’1,1% del 1999.
Gli accordi di Cotonou consentirebbero, al termine del
processo di negoziazione bilaterale, un azzeramento delle
tariffe sulle merci in entrata.Il fatto è che già oggi il 97% dei
prodotti che entrano nel mercato europeo da quei paesi
sono esenti da tasse e da quote d’importazione in quanto,
per la maggior parte, sono prodotti agricoli che evitano il
95% delle misure di tassazione. Solo alcuni prodotti - come
le banane, la carne di vitello e lo zucchero - vengono ancora contingentati. Tuttavia i Paesi ACP non hanno mai potuto sfruttare a
pieno queste possibilità. In parte perché le esportazioni dai paesi del Sud del
mondo pagano lo scotto di una strutturale carenza di infrastrutture – dai
porti alle strade, dalle ferrovie ai collegamenti navali – in parte perché soffrono dell’incapacità tecnica di soddisfare tutte le caratteristiche richieste alle
merci per entrare nel mercato europeo – quegli standard sanitari che a volte
vengono accusati di essere utilizzati come barriere non tariffarie all’import.
Naturalmente le produzioni europee non hanno di questi problemi e hanno
avuto buon gioco nell’invadere i mercati dei paesi ACP, in molti casi danneggiando non poco i produttori locali. E’ invece ben noto che, in paesi poveri e
privi di altre fonti di valuta pregiata, l’eliminazione delle tasse sulle importazioni riduce drasticamente le entrate governative causando il taglio delle spese
pubbliche per la salute, l’acqua, l’agricoltura e l’istruzione secondo una tendenza che, con gli APE/EPA, non può che aumentare. Del resto anche
sull’altro fronte le cose non vanno molto bene. Se, inizialmente, sembrava che le liberalizzazioni penalizzassero soltanto i paesi più poveri, a un
esame più approfondito
risulta che anche nel
Vecchio continente
sono molti i comparti
che verrebbero danneg-
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giati dall’entrata in vigore dei nuovi accordi, con il rischio di creare un grave
squilibrio fra i paesi del Nord Europa, dove hanno sede le grandi imprese dell’agrobusiness, e quelli del Mediterraneo, dove l’agricoltura familiare è prevalente e la produzione è direttamente minacciata dai prodotti provenienti da
zone del mondo in cui esistono differenti condizioni sociali, ecologiche, economiche. In effetti, dove è stata intrapresa la strada della liberalizzazione del
mercato agricolo per premiare un’agricoltura votata all’export, i piccoli coltivatori sono stati penalizzati, e questo è avvenuto non soltanto nella povera
India rurale, dove la liberalizzazione ha provocato l’indebitamento di grandi
masse di popolazione – e dove, dal 1997 25 mila contadini si sono suicidati
per protesta o per disperazione - ma anche in paesi sviluppati e apparentemente attrezzati per reggere alla concorrenza dei prodotti a basso costo provenienti dal mercato globale. In Canada, ad esempio, paese che ha abbracciato con entusiasmo la liberalizzazione negli ultimi 17 anni, dall’accordo con gli
Stati Uniti firmato nel 1989 (Custa) all’accordo Canada-Messico-Usa firmato
nel 1994 (Nafta) fino alla piena adesione dell’accordo sull’agricoltura targato
Wto, gli agricoltori non se la passano poi tanto bene. Indubbiamente fra il
1988 e il 2002 le esportazioni sono triplicate passando da 10,9 miliardi di dollari a 28,2 miliardi5 e il reddito nel settore agricolo come tale è aumentato,
anche se di poco – passando dai 3,9 ai 4,1 miliardi di dollari del 2002 a cui
bisogna però sottrarre un 24 % di inflazione – ma nel frattempo l’indebitamento degli agricoltori raddoppiava, con gli interessi che sono arrivati a
eguagliare il reddito netto6. Così, mentre alcune grandi corporation transnazionali dell’agrobusiness come la Archer Daniels Midland, ConAgra e
Cargill acquisivano la proprietà di terreni agricoli sempre più estesi, il
numero degli agricoltori si riduceva del 16 % passando da quasi 300 mila
nell’88 a 246 mila nel 2002 senza che avvenisse il miracolo promesso dai
politici, ovvero l’assorbimento degli esuberi nell’industria della trasformazione alimentare che, al contrario, ha ridotto i posti disponibili di circa
5.000 unità7. La stima fornita dal National Farmer Union, la principale associazione canadese di piccoli agricoltori, è ancora più eloquente: a fronte di
un incremento costante dei profitti derivanti dall’export alimentare che
dovrebbe dimostrare il successo del modello, i redditi degli agricoltori
sono rimasti costanti dagli anni Settanta, e sono ultimamente in leggero
calo, cosa che spinge i sindacalisti della Nfu a dichiarare: «il libero mercato
aiuta Cargill e Monsanto, non certo gli agricoltori». Se in un paese sviluppato, con un’agricoltura generosamente sovvenzionata dal governo federale, l’apertura dei mercati riesce a produrre simili conseguenze, cosa
potrebbe succedere altrove?
otto
Impatto sulle agricolture europee
he l’agricoltura europea sia caratterizzata dalla piccola dimensione delle aziende l’avevano riconosciuto i capi di Stato e di
Governo riuniti nel vertice di Lussemburgo già nel 1997. Una
realtà fatta di piccoli appezzamenti a conduzione e forza lavoro familiare, con una forte diffusione della pluriattività aziendale ed extra-aziendale. La dimensione aziendale media è aumentata tra il 1967 ed il 1997
del 7% in Italia, contro il 216% della Germania, il 136% della Francia, il
71% della media della Ue, dal che si evince che la ridotta dimensione
fisica ed economica è una caratteristica dei sistemi agrari mediterranei.
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In Italia circa l’80% delle aziende ha una superficie agricola minore di 5 ettari e ricopre meno del 20% del
totale delle terre coltivate. Le aziende che dispongono
di oltre 20 ettari, pur essendo solo meno del 5%, controllano quasi il 60% della superficie agricola.
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Nel dettaglio risulta che il 55% delle aziende ha una Sau (superficie agricola utilizzabile) inferiore ai due ettari, mentre il 3,3% delle aziende ha
una Sau maggiore di 50 ettari e gestisce il 47% della Sau. In Italia sono
quindi le piccole aziende la vera realtà del mondo agricolo con una
superficie totale media aziendale passata, tra il 1982 ed il 2000, da 7,25
ettari a 7, 56 ettari, con una Sau media variata tra 4, 95 ettari e i 5,17
ettari del 2000. Solo la superficie media del riso è raddoppiata passando da 20 a 40 ettari, mentre gli stessi cereali sono passati da 3,59 ettari a 5,24 ettari.
Anche la dimensione
media
delle vigne non
arriva all’ettaro
mentre quella
delle vigne Doc arriva ai
2,15 ettari.
La prevalenza dell’agricoltura familiare è molto
comune anche negli altri paesi affacciati
sul Mediterraneo. In Grecia, ad esempio, ci sono 773.800 aziende agricole stimate, con una media di 4.5 ettari per appezzamento, mentre soltanto lo 0,1% delle aziende copre un’area superiore a 100 ettari. Il 20%
dell’intera forza lavoro è impiegata in agricoltura mentre, fino a venti anni
l’agricoltura europea
È caratterizzata
dalla piccola dimensione
delle aziende, come i capi di
Stato hanno riconosciuto
già nel 1997
nove
identificati 14 gruppi di prodotti considerati “a rischio”:
pomodori, cipolle, olio d’oliva, nocciole, arance, mandarini, limoni, uva da tavola, melone, fragole, fiori, patate, riso
e vino. I prodotti prevalentemente a rischio di concorrenza per le pra-
tiche di liberalizzazione (frutta, verdura e olive) rappresentano più del 45%
del valore aggiunto agricolo di 8 regioni italiane, 8 regioni spagnole, 8 regioni greche, 5 regioni olandesi, 4 regioni belghe, una regione portoghese e
una regione francese. Di queste 35 regioni, ben 26 sono situa-
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“
fa, il lavoro agricolo ne assorbiva il 30%. Misurata in unità lavorative annue
siamo passati da 956.000 unità nel 1980 a 644.000 nel 1996, con un 60%
dei proprietari oltre i 55 anni. Anche il contributo dell’agricoltura al Pil
greco è sceso notevolmente passando dal 16.9% nel 1973 al 14.4% nel
1985 fino ad arrivare al 6% nel 1998.
Che alcune produzioni agricole saranno penalizzate da un’ulteriore ventata di liberalizzazioni non è un segreto per nessuno. Sono già stati
te nella fascia mediterranea, motivo per cui i paesi su cui
l’impatto degli accordi economici sarà più consistente
sono la Spagna, l’Italia e la Grecia, che dovranno reggere
la concorrenza della sponda Sud del Mediterraneo.
In termini di concorrenza con i prodotti della sponda Nord, i prodotti
dell’orticoltura provenienti dal Maghreb sono notevolmente avvantaggiati sia per le migliori condizioni agroecologiche e climatiche che per il
“dumping sociale” – in termini di costo del lavoro, di diritti e di norme
ambientali relative all’impiego massiccio di input chimici – cosa che spinge molte aziende del Nord Europa a delocalizzare alcune produzioni nei paesi nordafricani. Ma si
tratta di una concorrenza che rischia di essere particolarmente devastante per i produttori
italiani anche tenendo
conto del fatto che lo stesso settore ha registrato, nel
2005, una diminuzione dei
prezzi medi superiore al 10%. In Italia
sono poche le aziende agricole capaci di esportare, che dispongono
cioè di una forte capitalizzazione e offrono impieghi agricoli ad alto
contenuto tecnologico, e che potrebbero avvantaggiarsi da un ulteriore abbattimento delle barriere tariffarie nei paesi del Sud del mondo –
cosa che, fra l’altro, rende difficilmente assorbibili i lavoratori provenien-
Di queste
35 regioni, ben 26
sono situate nella
fascia mediterranea
dieci
ti dal settore familiare. Attualmente, «le esportazioni dai paesi europei
verso quelli mediterranei si aggirano intorno ai 6,3 miliardi di dollari
ovvero il 2,3% del totale delle esportazioni»8. I paesi europei esportano verso il resto del mondo circa 9,5 miliardi di dollari di prodotti agricoli ovvero l’8% di tutte le esportazioni, di cui 4,3 miliardi di dollari
verso altri paesi dell’Unione che, nel 2001 «assorbiva il 45,7% delle
esportazioni agricole dei paesi membri. Reciprocamente queste esportazioni non rappresentano che il 2% delle importazioni dei paesi
dell’Unione (e il 5,8% delle importazioni extracomunitarie dell’Europa).
Gli scambi euro-mediterranei sono concentrati su pochi prodotti come
frutta, verdura e legumi freschi ovvero il tipo di produzioni preferite dall’agricoltura familiare, e considerando soltanto i paesi della sponda
Sud – come l’Italia - «la concentrazione è nettamente più elevata con
5 prodotti che rappresentano il 90 per cento delle esportazioni.
Naturalmente l’Europa importa dai paesi affacciati sul Mediterraneo
soprattutto nei periodi di contro-stagione mentre durante la buona
stagione attinge soprattutto dalle produzioni dei paesi membri:
attualmente «l’80 % dei pomodori di cui l’Unione europea ha bisogno sono assicurati dalla Spagna e dai Paesi Bassi. Per le patate i bisogni dell’Europa sono coperti al 90 % dalle proprie produzioni mentre per le olive il 55 % dei consumi dell’Unione europea sono assicurati dalla propria produzione».
Ecco quindi che, inevitabilmente, un aumento degli scambi di prodotti
agricoli fra le due sponde del Mediterraneo è destinato a penalizzare la
piccola agricoltura familiare della sponda sud dell’Europa che, lo ricordiamo, è predominante proprio in queste zone. Si profila insomma il rischio
di una liquidazione accelerata – o se vogliamo di una sorta di pensionamento anticipato - di un intero comparto produttivo che è già in crisi
ma che ancora esiste in numeri consistenti se è vero che più di 6 milioni e settecentomila italiani operano nelle aziende a conduzione familiare. Consapevole del rischio l’Unione europea suggerisce: «Le regioni
mediterranee dell’Unione dovranno modernizzare le strutture della propria agricoltura o ci sarà una più grande competizione in caso di liberalizzazione degli scambi agricoli (…) una competizione che avrà luogo
soprattutto sui prodotti a basso costo e di bassa varietà (…) per i paesi
europei la strategia da seguire dovrà fondarsi sul miglioramento della
qualità, la diversificazione, l’adattamento alla domanda di mercati specifici, lo sviluppo di prodotti rispettosi dell’ambiente e la ricerca di complementarietà con i produttori del Sud del Mediterraneo».
undici
Impatto sul Nord-Africa
impatto degli accordi di libero scambio sui paesi del sud
Europa è un sacrificio necessario a colmare il divario economico che ci separa dal Nord-Africa, almeno secondo gli
esperti di Bruxelles: «L’aumento delle esportazioni e il miglioramento
dell’efficacia del settore agricolo locale, che dovrà fronteggiare la riduzione delle protezioni tariffarie, aiuterà i paesi della sponda Sud del
Mediterraneo a svilupparsi (…) Un circolo virtuoso sarà generato dall’aumento dei redditi agricoli provocando un miglioramento dell’intera
economia e l’aumento dell’occupazione”. Ma sarà davvero così? Non ne
sembrano tanto sicuri nemmeno gli esperti dell’Unione che, pur dicendosi certi che «l’apertura dei mercati permetterà una riduzione “naturale” dei prezzi delle derrate alimentari e migliorerà la qualità della vita
dei più poveri che dedicano al consumo alimentare una parte consistente del proprio reddito» ammettono che ci saranno «degli effetti
sull’impiego agricolo di senso contrario che riguardano un 40 % della
popolazione complessiva per la quale il lavoro agricolo è essenzialmente una gestione familiare e, nei paesi della zona, il 90 per cento delle
imprese agricole sono di meno di 5 ettari. Per questi coltivatori le condizioni di vita sono particolarmente difficili come apparirà dalle statistiche sulla povertà». Anche in Nord Africa, dunque, saranno favorite dall’apertura dei mercati soltanto le grandi aziende, magari a capitale straniero, le uniche ad avere i soldi e le competenze necessarie per avvantaggiarsi di una filiera lunga e veloce.
Che le liberalizzazioni penalizzino le piccole aziende, del resto, non è una
novità. L’entrata nel Wto e la partecipazione al processo di Barcellona
hanno già generato una riduzione importante delle superfici coltivate a
cereali, soprattutto quelle irrigate e più produttive. «Le piccole imprese
tradizionali del settore protetto (molto numerose nel Mediterraneo: in
Marocco tre aziende su quattro hanno meno di un ettaro ma non coprono che il 24% della superficie agricola utilizzata), sotto-equipaggiate, poco
organizzate, sotto-finanziate che si poggiano integralmente o quasi sulla
manodopera familiare o informale (il 93% del salario agricolo in Marocco
proviene dalla mano d’opera familiare), hanno livelli di produttività molto
poco elevati e saranno i primi a soffrire di qualunque forma di liberalizzazione. I produttori di cereali di sussistenza saranno in prima linea e forniranno la mano d’opera agricola che dovrà essere addestrata e riassorbita
in nuove attività, nel mondo rurale o nel mondo urbano».
L’
dodici
Anche in Nord Africa, quindi, solo le grandi aziende a
forte capitalizzazione saranno in grado di esportare,
aziende che stanno concentrando sempre di più la
disponibilità di Sau: in Tunisia, il 2% delle aziende di
taglia superiore ai 20 ettari controllano più del 60%
della Sau. In Marocco, il numero di aziende è diminuito del 22% negli ultimi venti anni ma quello delle
aziende più grandi è aumentato più dell’8%9. Perfino la
Banca Mondiale ammetteva, nel 2002, che l’agricoltura contadina,
l’agricoltura di auto-consumo e di approvvigionamento del commercio di prossimità saranno toccate duramente dalla rottura del tessuto sociale e delle attività economiche degli spazi rurali, dove sono
ancora essenziali per completare sia il reddito familiare che il ciclo
produttivo. La mancanza di fonti alternative di reddito e l’impossibilità di assorbire i piccoli agricoltori nelle nuove grandi aziende agricole è destinata a provocare un forte spostamento di popolazione dalle
zone rurali verso quelle urbane e, successivamente, verso l’emigrazione all’estero. Controllare l’esodo rurale e la povertà sono necessità irrinunciabili nei paesi del lato Sud del Mediterraneo dove l’agricoltura condiziona a fondo l’equilibro dell’intera società.
Alle conseguenze economiche e sociali delle liberalizzazioni vanno
sommate anche quelle ambientali, particolarmente pesanti in una
regione come quella anteroasiatica, la zona più antica di introduzione
dell’agricoltura dove, si calcola, hanno avuto origine primaria o secondaria circa 80 specie di interesse alimentare - frumento, orzo, segale,
alcune varietà di avena, lenticchie, cece, pisello, lino, erba medica, alcuni
trifogli, vite, melograno, fico, mandorlo, olivo, susino, visciola, alcuni meli
e peri, ciliegio, cotogno, palma da dattero. Una biodiversità che un
modello di agricoltura basato sull’esportazione, ad alto impiego di chimica e di varietà omogenee altamente produttive, non può
che ridurre ulteriormente.
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Impatto sui paesi ACP
on tutti i paesi interessati dagli Accordi di partenariato economico sono nelle condizioni dei paesi del Maghreb ma, quasi ovunque, l’impatto di un’ulteriore liberalizzazione del settore agricolo
potrebbe avere conseguenze molto pesanti. L’agricoltura contadina e
familiare, prevalente nella maggior parte dei paesi africani, non ha assolutamente i mezzi per competere con le produzioni europee, che si
avvantaggiano delle sovvenzioni ma anche delle economie di scala. I
prodotti europei stanno già vincendo sui mercati locali figuriamoci sul
mercato internazionale dove i prodotti dell’impresa a conduzione familiare di un Senegal o di un Mali non hanno alcuna speranza di arrivare.
Di fatto, malgrado gli APE/EPA siano presentati come il logico sviluppo
degli accordi di Lomé, «La reciprocità che l’Ue vuole intro-
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durre con il pretesto del rispetto delle regole del Wto,
è un’ottica che rompe fortemente con il passato. In
realtà l’applicazione della reciprocità avrà senza alcun
dubbio come effetto che gli APE/EPA consentiranno di
aumentare le esportazioni dell’Unione europea verso i
mercati dei paesi ACP, mentre l’aumento delle esportazioni degli ACP verso l’Ue sembra compromessa»10.
Nei fatti «le importazioni dall’Europa dei paesi dell’Africa occidentale
sono costituite essenzialmente di prodotti direttamente in concorrenza con le produzioni locali. Una concorrenza che si esercita sui mercati nazionali (importazioni di carne di volatili, patate, latte) e perturba il
flusso regionale fondato sulla complementarietà fra sottoregioni produttrici (cipolle, carni bovine, mais, ecc) Queste importazioni si mettono dunque direttamente in competizione con i prodotti agricoli nazionali e minano il processo d’integrazione»11, processo che in
teoria gli APE/EPA dovrebbero invece promuovere.
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quattordici
agricola comune (l’Ecowap siglata dai capi di Stato del blocco CEDEAO
il 19 gennaio 2005) molto innovativa, soprattutto «nel mettere al primo
posto il principio della sovranità alimentare della regione, nel programmare la riduzione della dipendenza alimentare dall’estero e il sostegno
ai prodotti locali»12, gli APE/EPA sono decisamente una marcia indietro.
Ma i nuovi accordi commerciali non si limitano ad andare in rotta di collisione con il tentativo, in corso in molti paesi ACP, di risalire la filiera alimentare per trasformarsi da meri produttori di commodities dai prezzi più che volatili a trasformatori di prodotti di qualità meno dipendenti dalla grande distribuzione globale per il proprio sostentamento. Gli
APE/EPA aprono alla liberalizzazione “reciproca” di molteplici settori
delicatissimi, dagli investimenti ai servizi, dall’acqua alla sanità sia direttamente, come impegno che fa parte degli accordi, che indirettamente, in
quanto le riduzioni tariffarie previste svuoteranno rapidamente le casse
statali costringendo di fatto i governi ad attirare gli investitori privati in
questi delicati settori. Anche ammesso che un agricoltore del Mali riesca a venire assunto dalla grande impresa multinazionale che ha assorbito il suo appezzamento in una piantagione più vasta e tecnologicamente avanzata – cosa di per sé abbastanza improbabile – sul suo reddito peseranno le nuove spese per beni che prima erano pubblici come
l’acqua, l’istruzione, la sanità.
La stessa situazione si registra in quasi tutti i paesi ACP – fra i quali ben
39 sono Least Developed Country (LDC) ovvero i paesi più poveri che
non sono assolutamente in grado di approfittare della “reciprocità” nell’export con i paesi europei – con i dovuti distinguo. Se in Africa sotto
attacco è il settore agro-alimentare nei paesi caraibici e del Pacifico l’Ue
accelera soprattutto sulle liberalizzazioni che riguardano il settore turistico e la pesca – un regalo per le grandi multinazionali della pesca
europee a detrimento dei pescatori artigianali, che sono la maggioranza – mentre al contempo insiste sulla questione controversa degli investimenti, non tanto per l’importanza dei singoli paesi per la finanza internazionale, quanto per utilizzarli come apripista. Una volta passato il principio del libero flusso di capitali non c’è summit che tenga: gli altri paesi
ACP che in sede di Wto hanno rifiutato di negoziare su simili questioni – i cosidetti Singapore issues respinti a Cancun – verranno messi
davanti al fatto compiuto.
quindici
Organizzazioni regionali
africane interessate dagli APE/EPA
sedici
Lo stato dei negoziati
negoziati fra i paesi ACP e la Commissione europea sono
cominciati nel 2002, anche se la firma degli accordi di
Cotonou risale al 2000. La seconda fase è cominciata nel settembre del 2002 mentre la terza, durante la quale l’Ue dovrà negoziare gli accordi di par tenariato economico con i gruppi regionali o
con i singoli paesi, andrà avanti fino al 31 dicembre del 2007.
Malgrado la par tita APE/EPA si giochi tutta all’interno di una politica interessata allo sviluppo, almeno secondo le intenzioni dichiarate, la
Commissione che negozia a nome dei 25 paesi europei su mandato del
Consiglio d’Europa ha affidato la conduzione delle trattative a Peter
Mandelson, Commissario al commercio, e non a Louis Michel che guida
la Direzione Sviluppo, il che denota una precisa scelta di priorità. Dal
canto loro i paesi ACP negoziano con i propri ambasciatori e attraverso i deboli segretariati delle organizzazioni regionali che, ovviamente,
hanno una minore padronanza della materia rispetto ai tecnici europei
che si occupano specificamente di queste questioni. Nel negoziato ha
inoltre un enorme peso la dipendenza finanziaria dall’Ue di molti paesi
ACP che pone in una posizione molto difficile qualunque interlocutore,
come facilmente intuibile.
Siamo comunque alla stretta finale visto che nell’ottobre 2005,
durante la riunione ministeriale, è stato fissato il calendario delle
prossime tappe dei negoziati: la redazione dei testi e delle disposizioni legali per gli APE dovrà essere completata entro quest’anno,
proseguendo la discussione dei soggetti interessati all’accesso ai
mercati, compreso l’esame degli effetti degli APE sui settori produttivi locali. E’ in questa fase che verranno trattati i meccanismi di flessibilità che dovrebbero rendere meno indigeste le nuove liberalizzazioni, dal mantenimento di un trattamento speciale differenziato
per i più poveri fra i paesi ACP – che l’hanno però già garantito nell’ambito di un accordo speciale, l’Everything but Arms, un accordo
comunque contestato perché anticipava di fatto le successive politiche di liberalizzazione - alla trattativa sulle deadline, ovvero le
date entro le quali gli accordi entreranno in vigore. E’ ovvio che
simili meccanismi di correzione lasciano il tempo che trovano se
trent’anni di status preferenziale in una condizione di sudditanza
non hanno innescato lo sviluppo che ci si aspettava né, tanto meno,
risolto il problema della fame nel mondo, il che, ovviamente, non
I
diciasette
può diventare una scusa per imporre la liberalizzazione reciproca.
Resta il fatto che, almeno a parole, lo sviluppo deve restare al centro del processo degli APE almeno secondo gli stessi negoziatori
che, il 2 febbraio 2006, hanno risposto alle domande poste nell’ambito di una sessione del Development Committee del Parlamento
europeo. Eppure, come emerge dalla registrazione della stessa sessione, nella fretta di procedere con i negoziati molte delle cautele
iniziali sono andate perdute. In primo luogo è stato disatteso l’ar ticolo 37.6 dell’Accordo di Cotonou che stabiliva l’obbligo di fornire, entro il 2004, un’alternativa a ogni paese che non si sentisse in
grado di firmare gli APE, alternativa che dovrebbe garantire lo stesso grado di accesso ai mercati europei di cui ha goduto finora.
Interrogato sulla questione dal governo britannico nel corso di una
sessione del Development Select Committee, il Commissario al
commercio Mandelson ha dichiarato che l’unica alternativa agli
APE/EPA è l’aper tura totale dei mercati senza alcuna componente
dedicata allo sviluppo. Peccato che i fondi stanziati proprio per aiutare i paesi ACP a prepararsi all’avvento degli APE/EPA – fino a
questo momento l’unica differenza sostanziale fra un’aper tura tout
cour t e l’approccio sviluppista - oltre ad avere tempi alquanto lunghi di erogazione vanno spesso a rosicchiare gli aiuti allo sviluppo
precedentemente assegnati. Come dire: devi firmare i nuovi accordi se vuoi vedere i soldi che ti ho promesso. Resta inoltre grave
che, a tutt’oggi, l’Unione europea non abbia fornito alcuna alternativa ar ticolata ai paesi interessati dai nuovi accordi commerciali,
contravvenendo ai suoi stessi impegni legali.
Il primo tentativo coerente di mettere a disposizione uno studio
ar ticolato sulle possibili alternative agli APE/EPA si deve alla società civile, ed è stato messo in circolazione nel febbraio scorso, a
ridosso quindi dell’accelerazione dei negoziati. Si tratta di uno studio13 commissionato all’European Centre for Development Policy
Management da Oxfam e Both Ends, con l’intento di fornire appunto delle alternative realizzabili a quei paesi che non ritengono di
potersi permettere il tipo di liberalizzazione “spinta” dell’attuale
versione. Resta da vedere se delle versioni ammorbidite degli
APE/EPA – che riducano ad esempio la reciprocità fra Ue e paesi
ACP o che mantengano intatto il sistema generalizzato di preferenze previsto dalle Convenzioni di Lomé – riusciranno a contenere gli
impatti negativi precedentemente descritti. Il vero problema è che
diciotto
la maggior par te degli studi d’impatto, sia quelli commissionati dalla
Commissione europea che quelli condotti da molti paesi ACP, non
sono stati resi pubblici, probabilmente perché non davano i risultati
sperati. Viceversa gli studi resi pubblici si concentravano essenzialmente sul commercio – e magari sulle dirette conseguenze della
riduzione delle entrate fiscali dovuta al taglio delle tariffe doganali –
ma non sui settori produttivi, tralasciando completamente di fornire dati sull’effetto degli APE/EPA sull’impiego, la competitività e la
crescita economica, ovvero gli effetti “dinamici” in termini di sviluppo della liberalizzazione dei commerci. Solo due rapporti, Uneca
(2005)14 e Cape (2003)15 forniscono alcune indicazioni sui benefici
che i consumatori dei paesi ACP potrebbero trarre dall’abbassamento iniziale dei prezzi indotto dall’apertura dei mercati, ma il guadagno è molto ridotto e non compenserebbe la perdita di welfare
dovuta al taglio dei dazi. Inoltre Uneca sottolinea che ciò che i
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cittadini degli ACP guadagnano come consumatori
perdono in quanto produttori, perché difficilmente
l’agricoltura locale potrà competere con i prodotti
provenienti dall’Ue o da altri paesi. Infine, considerando che le importazioni Ue dai paesi ACP arrivano soltanto a un misero 2 %, la reciproca rimozione
delle tariffe doganali cambierebbe ben poco nelle
disastrate economie dei paesi poveri.
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Con queste premesse è facile capire perché gli APE/EPA registrino
quasi ovunque l’opposizione delle organizzazioni di categoria così
come della società civile che è stata a malapena consultata ma non
ha potuto partecipare attivamente – e nemmeno monitorare
– l’andamento delle trattative. Mentre i
governi dei paesi
ACP, per bocca del
Segretariato comune, affermano di
essere in ritardo, la
macchina degli APE/EPA continua
la sua marcia implacabile lasciando
ben poche opportunità per partecipare al negoziato, rilanciare il tema dello sviluppo e fornire una valutazione obiettiva e indipendente dei possibili impatti. Ai rappresen-
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rappresentanti delle organizzazioni contadine
dell’Africa occidentale e centrale chiedono, anzi,
esigono «una moratoria di almeno una generazione per la firma di qualunque accordo di partenariato economico fra la Ue e i paesi ACP il cui
obiettivo principale sia la creazione di una zona di
libero scambio».
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tanti dei piccoli agricoltori africani ed europei che si sono riuniti in
una coalizione transnazionale non resta quindi che chiedere una
vera e propria moratoria sugli APE/EPA in attesa che si manifesti un
processo di effettivo coinvolgimento degli attori coinvolti. E’ quanto
fa ad esempio Roppa (Réseau des Organisations Paysannes et de
Producteurs Agricoles de l’Afrique de l’Ouest – la Rete delle organizzazioni contadine e dei produttori agricoli dell’Africa occidentale) che chiede esplicitamente di fermare «gli accordi che minacciano di asfissiare le economie rurali e i contadini africani» insieme alla
Coordination Nationale des Organisations Paysannes del Mali e ai
cittadini che fanno parte dell’Association Citoyenne de Défense des
Intérêts Collectifs del Cameroun. Insieme contestano la mancanza
di trasparenza «nei negoziati attualmente in corso» e lanciano l’allarme sulle «conseguenze per le nostre professioni e le nostre
economie rurali, noi che rappresentiamo il 65% della popolazione
complessiva e produciamo almeno un terzo della ricchezza nazionale nella maggior par te degli Stati africani». Ed è proprio per evitare «gli effetti politicamente perversi, economicamente pericolosi e socialmente disastrosi» dei nuovi accordi commerciali che i
In discussione non è quindi il commercio in sé ma il tempo necessario
ai paesi ACP per riorganizzare la produzione al fine di
renderla adeguata al modello agricolo
attualmente dominante, ammesso che
questi soggetti – dai produttori ai consumatori passando
per le organizzazioni non
governative che si occupano
di sviluppo – non abbiano in
mente qualcosa di radicalmente diverso.
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L’alternativa
ome si è visto i “nuovi” accordi di partenariato economico di
nuovo hanno ben poco. Bisogna sottolineare però che l’evidente disinteresse per la sorte dei piccoli agricoltori non è
motivato dalla personale cattiveria dei negoziatori ma dal modello
economico e agricolo attualmente vigente che privilegia gli interessi della grande azienda a scapito della piccola, degli addetti all’import-export a scapito dei produttori, della grande distribuzione a
scapito dei consumatori. In quest’ottica, più attenta alle fluttuazioni
dei capitali e alle occasioni speculative generate dalle variazioni di
prezzo delle commodities alimentari piuttosto che alla produzione
effettiva, il cibo è semplicemente merce e il campo è una fabbrica
più o meno efficiente. Chi non si adegua perché non può – come i
contadini africani o le piccole imprese del Sud dell’Europa – o perché non vuole – come gli agricoltori biologici – è semplicemente
fuori dal gioco. Potrà ricevere un pensionamento anticipato sotto
forma di sussidi, se ha la fortuna di essere nato nel Nord del mondo,
oppure andrà a ingrossare la massa di profughi ambientali ed economici accampati intorno alle megalopoli in attesa di trasformarsi in
migranti clandestini, se ha avuto la sfortuna di nascere qualche chilometro più a Sud.
Per quanto brutale potrebbe essere perfino un ragionamento valido, se il modello di agricoltura che viene propugnato in questo quadro non fosse, più che moderno, tragicamente anacronistico per
gestire i problemi causati, in buona parte, proprio dall’applicazione
indiscriminata di quel modello. Stiamo parlando dell’impoverimento
delle basi stesse della produzione agricola (acqua, fertilità, etc) provocato da decenni di agricoltura intensiva, che si manifesta quasi
ovunque in un crollo verticale della produttività cui si aggiungono gli
effetti del riscaldamento planetario, primo fra tutti la desertificazione di ampie zone prima fer tili. In secondo luogo bisogna riflettere
sulla vera crisi che si nasconde dietro l’angolo e che finalmente sta
raggiungendo la percezione dei decisori politici, senza peraltro provocare alcun ripensamento: l’avvicinarsi dell’esaurimento dei combustibili fossili – petrolio e gas naturale - dai quali l’agricoltura industriale dipende totalmente. Se a tutto ciò si aggiungono le crisi sociali innescate proprio dall’adesione indiscriminata al modello liberista
nella maggior parte dei paesi, ecco che proseguire su questa strada
C
ventuno
appare, oltre che ingiusto, decisamente insensato.
Ma come potrebbe essere un’agricoltura differente? Attualmente il
modello agricolo dominante è caratterizzato da un alto impiego di capitali sotto forma di diversi input ed è fondato sulla possibilità di accedere al petrolio a basso costo necessario, fra l’altro, per rendere efficace il
“vantaggio comparativo” dei singoli paesi visto che un aumento sostanzioso del costo dei trasporti vanificherebbe il concetto stesso di “vantaggio comparativo” che è alla base della globalizzazione liberista. A che
serve riuscire a produrre delle cipolle quasi a costo zero – o delle
magliette o dei telefoni cellulari – se trasportare il mio prodotto da un
capo all’altro del mondo mi costa dieci volte tanto? Per quanto possa
apparire “moderna” rispetto alla sua controparte familiare, l’agricoltura
attualmente privilegiata dall’ortodossia economica – e dagli APE/EPA - è
un’agricoltura legata a fattori contingenti e non molto solidi, basata sulla
capitalizzazione crescente e sulla concentrazione crescente della proprietà fondiaria, dei processi e dei prodotti nelle mani di pochi grandi
attori e sul costo decrescente della materie prime agricole. E’ un modello che prevede una riduzione degli addetti, del lavoro e del numero delle
aziende agricole e si fonda sulla riduzione della qualità e della varietà
delle materie prime agricole. E’ un modello in sostanza basato sulla
subalternità dell’agricoltura rispetto agli altri settori economici e che,
ponendo come condizione la rinuncia alla sovranità alimentare, conduce
inevitabilmente verso l’insicurezza alimentare in termini di quantità – nel
Sud del mondo – e di qualità – per i consumatori del Nord.
Per rispondere alle molteplici sfide – non ultima quella energetica -
le agricolture di domani dovranno invece essere
sistemiche, complesse, socialmente sostenibili, a
basso impiego di capitali e alto impiego di manodopera. Dovranno essere ecologicamente durevoli,
rispettose dei cicli naturali e basate su circuiti corti
nel tempo e nello spazio per premiare le produzioni
locali anche attraverso una differente politica della
distribuzione che privilegi i mercati locali e di prossimità. Una volta posta al centro la sovranità alimentare, agli Stati e alle regioni dovrà essere consentito di perseguire delle politiche agricole autonome nel rispetto delle proprie realtà territoriali e
sociali, politiche socialmente condivise che andranno protette e sostenute dai singoli governi ma che
ventidue
Chi ha in mente questo percorso non si propone certo di eliminare gli scambi commerciali globali né considera il mercato un male,
ma chiede che il commercio sia accompagnato, o ancor meglio preceduto e sostenuto, da una forte politica per lo sviluppo dei territori rurali, nel Nord come nel Sud del mondo, una politica che va
promossa e finanziata sia dai governi locali sia attraverso i
fondi europei e internazionali. Perché il
mercato
può
avere un influsso
positivo
sulle
economie
dei
paesi interessati soltanto se è
governato da regole chiare e
uguali per tutti, dove per uguali
non si intende “le stesse” – la “reciprocità” che, dopo la ministeriale di
Hong Kong, consente ai paesi ACP di
non pagare dazi soltanto su merci che
non produce – ma regole che offrano le
stesse possibilità. Se quindi si continua a perseguire una sempre
maggiore apertura dei mercati, è assolutamente necessario prevedere deroghe e tempi più lunghi per permettere ai paesi più fragili
di rafforzarsi e raggiungere il livello strutturale necessario per confrontarsi con l’Ue – o con gli Usa o con il Giappone. Per raggiungere questo scopo occorre promuovere innanzi tutto il commercio
Sud-Sud e di prossimità tra soggetti con pari potenzialità.
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dovranno basarsi sui diritti collettivi sulle risorse:
acqua, terra e agrobiodiversità.
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Lo sviluppo rurale in Europa
o sviluppo rurale è qualcosa di più del semplice sviluppo agricolo
in quanto ingloba uno spazio, quello rurale appunto, dove l’agricoltura è al centro del sistema socio-economico ma sul quale insistono attività differenti, con funzioni e obiettivi diversificati, tutti da integrare
e coordinare in un’ottica di sviluppo coerente, sostenibile e solidale.
L’importanza dello sviluppo rurale e dell’agricoltura è testimoniata anche
dalla stretta interdipendenza che tali temi hanno con i problemi dello sviluppo sostenibile e della povertà nel mondo e del Sud in particolare, oltre
che in relazione alla tutela e promozione del diritto alla sovranità alimentare dei paesi in via di sviluppo e dei loro popoli.
In Europa la politica agricola comune (PAC) nata con il Trattato di Roma
del 1957 mostrava già l’interesse comunitario per quella che sarebbe
diventata la politica delle strutture agrarie e, più tardi, la politica di sviluppo rurale. Il processo di riforma della politica agricola europea prende decisamente il via fra il 1992 e il 1998 e culmina con Agenda 2000
prima e la riforma Fischler, nel giugno 2003. Nel 1992 era già stata
approvata la riforma MacSharry che segna una svolta importante perché inizia a mettere in discussione il tradizionale sistema di sostegno dei
prezzi della vecchia PAC. Una grossa novità è rappresentata dall’introduzione delle cosiddette “misure d’accompagnamento” (misure a carattere agro ambientale), un primo passo per favorire la formazione di un
nuovo modello di sviluppo agricolo più sensibile alle questioni ambientali e ai problemi di sviluppo socio economico delle aree rurali oltre che
meno distorsivo, sul piano degli effetti, sulle politiche agricole internazionali e su quelle dei paesi in via di sviluppo.
Nel luglio 1997 la Commissione europea pubblica il documento
Agenda 2000 – Per un’Unione più forte e più ampia nel quale, per la
prima volta, c’è il tentativo di definire un modello di agricoltura multifunzionale entro il quale coniugare i requisiti di competitività, redditività, qualità, sicurezza alimentare, sviluppo integrato, eco-compatibilità e
tutela del territorio nelle aree rurali. Ma, soprattutto,Agenda 2000 afferma definitivamente lo sviluppo rurale come secondo pilastro della PAC,
anche se non ancora dotato delle risorse sufficienti per una sua piena
efficacia ed efficienza operativa. Il rapporto tra il primo pilastro (la produttività) e il secondo resta di 90 a 10.
Nel 2003 la riforma Fischler introduce alcune novità importanti per lo
sviluppo rurale: vengono inserite tre nuove aree d’intervento attraver-
L
ventiquattro
so tre specifiche misure e vengono introdotte significative modifiche alle
misure già esistenti, come ad esempio quella per il rafforzamento dell’insediamento dei giovani agricoltori. Il 14 luglio 2004 la Commissione
Europea pubblica la proposta di regolamento relativa al sostegno allo
sviluppo rurale tramite il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr) per il periodo 2007-2013 nel tentativo di inaugurare un
approccio più strategico allo sviluppo rurale. L’idea è di valorizzare
l’aspetto territoriale della politica agricola pur non facendo venir meno
del tutto l’ottica settoriale, un orientamento strategico che è stato ufficialmente adottato dal Consiglio su proposta della Commissione. Resta
il fatto che la qualità della spesa dell’Unione Europea sarà fortemente
influenzata dalla decisione che hanno preso i 25 sui livelli di finanziamento del budget dell’Unione per la prossima programmazione 2007-2013.
Nella nuova programmazione tutti i Paesi verseranno l’1,045% del Pil, il
che corrisponde a una significativa riduzione del bilancio: un segnale
negativo anche perché la PAC continua a vedere quasi il 90% delle sue
risorse investite sulle cosiddette politiche di mercato e poco più del
10% per le politiche di Sviluppo rurale.
Lo sviluppo rurale in Africa
n quanto attività centrale del mondo rurale, l’agricoltura è sempre stata considerata come il perno dello sviluppo rurale, e le
politiche agricole africane sono state assimilate alle politiche di
sviluppo rurale. Nel corso del tempo, però, tali politiche hanno conosciuto delle evoluzioni differenti rispetto ai loro obiettivi. Negli anni
Sessanta, in continuità con il periodo coloniale, si cercò di stimolare la
produzione agricola volta all’esportazione per procurare valuta pregiata ai giovani Stati. In seguito le ricorrenti siccità degli anni Settanta, e le
carestie che ne seguirono, costrinsero i paesi africani ad adottare una
politica volta al raggiungimento dell’autosufficienza alimentare, basata su
coltivazioni necessarie ad alimentare le proprie popolazioni.
Purtroppo le politiche liberiste adottate a partire dagli anni Ottanta, e
che si continuano a perseguire ancora oggi, si sono tradotte non soltanto in un ritorno progressivo alla produzione di materie prime per
l’esportazione, ma soprattutto nel progressivo abbandono della produzione per l’alimentazione locale e in un consistente aumento delle
I
venticinque
importazioni di derrate alimentari. Come conseguenza dal 2000 l’Africa
occidentale è diventata importatrice netta di prodotti agricoli e agro-alimentari con un danno enorme per i piccoli produttori delle imprese a
conduzione familiare spinte dalla concorrenza a vendere i propri prodotti sui mercati locali al di sotto del costo di produzione. Per invertire la tendenza, i produttori agricoli dei paesi dell’Africa occidentale riuniti sotto
l’egida del Roppa (Réseau des Organisations Paysannes et de
Producteurs Agricoles de l’Afrique de l’Ouest), hanno presentato agli
Stati e alle organizzazioni di integrazione regionale alcune proposte per
una nuova politica agricola in Africa occidentale. Proposte che sono state
assorbite ed elaborate nel quadro della politica agricola dell’UEMOA
(Union économique et monétaire Ouest africain), della politica agricola
dell’ECOWAS (Economic Community of West African States) meglio
nota come Ecowap (ECOWAS Agricultural Policy) e del Nepad (New
Partnership for African Development).
Per Roppa l’impresa agricola familiare (nel senso più ampio del termine)
deve essere al centro delle disposizioni delle politiche agricole e dello sviluppo rurale perché non è soltanto un’unità di produzione agricola ma
anche un’impresa sociale ed economica nella quale si esercitano la solidarietà familiare, comunitaria e anche cittadina. Solo attraverso il riconoscimento di questa multifunzionalità si può assicurare una gestione sostenibile delle risorse naturali, della salute, dell’istruzione e anche delle attività extra agricole. La visione dell’agricoltura dell’Africa occidentale che
hanno gli stessi agricoltori non soffre di alcuna ambiguità rispetto alla
volontà di adattarsi al contesto attuale: è un’agricoltura moderna e sostenibile, basata sull’impresa familiare e su una ripartizione e gestione equa
delle risorse che assicuri redditi sostenibili e stabili, che permetta al produttore di vivere dignitosamente dei frutti del proprio lavoro e che favorisca davvero l’integrazione regionale. Per dirla con le parole dei produttori, la politica agricola regionale deve «creare un ambiente politico
(sociale ed economico), giuridico, regolamentare, commerciale e finanziario adatto a un’agricoltura dinamica e integrata, capace di assicurare una
sovranità alimentare durevole per l’Africa occidentale, e di assicurare inoltre le diverse funzioni dell’agricoltura: economica, ecologica, sociale e culturale». Secondo Roppa occorre quindi per prima cosa ridurre la dipendenza alimentare e affermare il diritto alla sovranità alimentare, in secondo luogo migliorare il funzionamento dei mercati regionali e locali dei
prodotti agricoli e infine sviluppare l’economia rurale nel rispetto delle
identità locali produttive, economiche e sociali.
ventisei
Un percorso comune
a politica di sviluppo rurale rappresenta un modello che trova nei
rapporti tra agricolture del Sud e del Nord del mondo un punto
d’incontro in termini di obiettivi, metodo e finalità comuni.
All’interno di tale modello di sviluppo si inserisce un settore agricolo che,
per importanza decrescente nel Nord del mondo e crescente nel Sud,
trova la piena esplicazione del suo ruolo sociale, economico e ambientale. Inoltre, se venisse rafforzata in Europa, una vera politica di sviluppo rurale avrebbe certamente un effetto meno distorsivo sullo sviluppo agricolo
e rurale dell’Africa occidentale: incidendo sullo sviluppo dei territori nel
rispetto delle identità sociali, economiche, ambientali locali, e incentivando
un’agricoltura multifunzionale, sostenibile e solidale, si pongono le basi per
politiche agricole che possano valorizzare il diritto alla sovranità alimentare di ciascun paese. Lungi dal rappresentare due realtà inconciliabili e in
competizione fra loro, i piccoli agricoltori del Nord e del Sud del mondo
scoprono di condividere problemi, obiettivi e strategie, e di concordare su
di un metodo che si basa sulla centralità della concertazione con tutti gli
attori coinvolti: istituzionali, economici e sociali.
Nel perseguire gli obiettivi comuni, in primo luogo la promozione e la
difesa di un’agricoltura sostenibile e competitiva al servizio dei produttori agricoli e delle piccole imprese familiari ben radicate nel territorio
rurale e in grado di svolgere a pieno il proprio ruolo sociale, economico e ambientale, ma anche di promuovere la solidarietà reciproca, i piccoli agricoltori europei e africani si trovano a fronteggiare problemi
simili. Per entrambi l’accesso al credito, così come alla terra, è molto difficile. Entrambi si trovano ad affrontare i rischi climatici e le conseguenze di uno sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. Sia nel Nord
come nel Sud del mondo, anche se su scala differente, pesano sui piccoli agricoltori lo spopolamento delle campagne, l’insufficienza delle
infrastrutture, la sottoremunerazione dei prodotti agricoli. Si registra
ovunque un divario crescente tra costi di produzione e prezzi pagati alla
produzione con uno svantaggio crescente per quei prodotti che sono
intensivi in lavoro, cosa che provoca un netto peggioramento delle condizioni di vita della famiglia contadina.
Le analogie tra la politica di sviluppo rurale come la intendono i piccoli coltivatori europei e le politiche agricole e di sviluppo rurale che l’Africa
dell’Ovest sta cercando di costruire nell’ambito della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) attraverso la formulazio-
L
ventisette
ne di una propria politica agricola (Ecowap), sono evidenti. Per quanto criticata dalle organizzazioni contadine locali per non avere dato sufficiente
importanza alla delicata questione dell’accesso alla terra, l’Ecowap mette
finalmente al centro dei suoi interessi la sovranità alimentare, proponendosi di creare l’ambiente politico e giuridico favorevole al suo recupero,
secondo una parola d’ordine fatta propria dal movimento contadino internazionale da almeno un decennio e oggi entrata anche nelle stanze governative. Quanto questo impianto sia inconciliabile con il modello APE/EPA,
sia in termini di obiettivi finali che di metodo, è sotto gli occhi di tutti.
Cronologia APE/EPA:
Fra il 1975 e il 2000 il commercio fra Ue e paesi ACP era governato dalle
convenzioni di Lom che garantivano ai paesi ACP un accesso migliore al mercato europeo rispetto ad altri paesi in via di sviluppo.Tale sistema di preferenze rimarr in vigore fino al 31 dicembre 2007 (sotto una sospensione delle
regole WTO), quando dovranno essere sostituite da un nuovo accordo commerciale oppure ottenere un altra sospensione.
Le preferenze garantite ai paesi ACP sotto queste sospensioni non sono reciproche: i paesi ACP non debbono in cambio estendere simili o altre preferenze
all Ue in quanto ampiamente riconosciuto che, poich permangono grandi differenze fra lo sviluppo economico Ue e quello dei paesi ACP, qualunque accordo
commerciale deve tenere conto di questa differenza per non essere iniquo.
Con la fine delle preferenze di Lom , nel 2000 i paesi europei e gli ACP hanno
siglato un accordo di cooperazione noto come Cotonou Partnership Agreement
all interno del quale vanno negoziati i nuovi accordi commerciali fra Ue e ACP
entro il 1 gennaio 2008. Dopo questo periodo gli APE/EPA entreranno in vigore
con una gradualit ancora da definire nei paesi ACP non LDC, (i quali invece conserveranno il sistema di preferenze non-reciproche previsto dagli accordi
Everything But Arms). I paesi ACP che non vogliono sottoscrivere gli APE/EPA
dovrebbero poter usufruire di un regime commerciale alternativo — come previsto dall Art. 37.6 del Cotonou Agreement — che per non stato ancora definito.
ventotto
Economic Partnership Agreements
Attori europei:
istruzioni per l’uso
Commissione europea. Il Directorate General for Trade negozia
per conto dell’Unione europea con una serie di direttive sottoscritte dagli Stati membri.
Stati membri. Forniscono delle direttive per i negoziati (intese come
mandati per la negoziazione) alla Commissione europea.
Parlamento europeo. I membri del Parlamento dovranno approvare o respingere l’accordo finale su commercio e sviluppo.
Africa, Caraibi e Pacifico (paesi ACP):
Segretariati regionali. Negoziano con la Commissione europea per
conto dei paesi ACP.
Paesi ACP. Forniscono delle direttive per i negoziati (intese come
mandati per la negoziazione) ai rispettivi segretariati regionali.
Attori congiunti:
Assemblea parlamentare congiunta. Parlamentari europei e dei
paesi ACP si riuniscono periodicamente per discutere l’andamento dei negoziati.
Organizzazioni regionali dei paesi ACP:
SADC - Southern African Development Community: Angola,
Botswana, Lesotho, Mozambico, Namibia, Swaziland e Tanzania
CEMAC – Central Africa: Camerun, Repubblica Centrale Africana,
Ciad, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale, Gabon e Sao
Tome/Principe.
ECOWAS - West Africa: Benin, Burkina Faso, Capo Verde, Gambia,
Ghana, Guinea, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Liberia, Mali,
Mauritania, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo
ESA - Eastern and Southern Africa: Burundi, Comore, Repubblica
Democratica del Congo, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi,
Mauritius, Madagascar, Ruanda, Seychelles, Sudan, Uganda,
Zambia e Zimbabwe.
ventinove
Caraibi: Antigua/Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Dominica,
Repubblica Domenicana, Grenada, Guyana, Haiti, Giamaica, St.
Kitts/Nevis, St. Lucia, St. Vincent/Grenadines, Suriname e
Trinidad/Tobago.
Pacifico: Isole Cook, Federazione della Micronesia, Fiji, Kiribati, Isole
Marshall, Nauru, Niue, Palau, Papua Nuova Guinea, Samoa, Isole
Solomon,Tonga,Tuvalu e Vanuatu.
Documenti utili:
●
African Union (5-9 June 2005) Ministerial declaration on EPA negotiations. Buffie, E. (2001) Trade Policy in Developing Countries, CUP,
Cambridge. Carl, P. (11 April 2005) ‘Recent UK statements on EPAs’.
Disponibili in www.epawatch.net
●
Agriculture: for a regulation of world trade. Placing development at the
centre of WTO negotiations on the Agreement on Agriculture.
Recommendations of the French International Solidarity NGOs on
the occasion of the 6th WTO Ministerial Conference, Hong Kong,
China, 13-18 December 2005
●
Alternative (to) EPAs. Possible scenarios for the future ACP trade relations
with the EU, di Bilal Sanoussi e Francesco Rampa, ECDPM Policy
Management Report 11. February 2006.
●
Commission Staff Working Document : The Trade and Development
Aspects of EPA Negotiations, Commission of the European
Communities, Brussels: November 2005. SEC (2005) 1459.
●
Economic Partnership Agreements: Making EPAs deliver for development,
Kate Cook per ActionAid, 23 June 2005
●
For richer or poorer: transforming economic partnership agreements between Europe and Africa, Christian Aid, 2005
●
●
●
●
trenta
Hewitt pushed on Africa trade rethink, ActionAid, 2005
Making EPA's work for the poor. The Economic Partnership Agreement
and Political Alternatives. Expert Meeting in Bonn, October 21st 2005
Risoluzione del Parlamento europeo sull’impatto degli Economic
Partnership Agreements (EPAs) sullo sviluppo, (2005/2162(INI))
Sustainability Impact Assessment (SIA) of the EU-ACP Economic
Partnership Agreements, Price Waterhouse Coopers, “.” Phase Two.
Final Report (revised). 27 July 2005.
●
The EPA's and Sustainable Development: Benchmarks for ProDevelopment Monitoring of the Negotiations. Brussels and Geneva, May
2005 (ICTSD-Asprodev, a cura di)
●
Trade traps: why EU-ACP Economic Partnership Agreements pose a threat to Africa’s development, ActionAid, 2004
●
Who reaps the fruit? Critical Issues in the Fresh Fruit and Vegetable Chain,
Myriam Vander Stichele, Sanne van der Wal & Joris Oldenziel per Somo
(Stichting Onderzoek Multinationale Ondernemingen), dicembre 2005.
●
Winners and Losers. Impact of the Doha Round on Developing Countries.
Sandra Polaski, Carnegie Endowment, 2006.
Sitografia APE/EPA
● ACP civil society forum - www.mwengo.org/acp/
● ACP-EU-trade website - www.acp-eu-trade.org
● ActionAid - www.actionaid.org.uk/
● Campaign Stop EU-ACP Free Trade Agreements - www.stopepa.org
● Centre de documentation du Gresea - www.gresea.be
● Centre Technique de Coopération Agricole et Rurale ACP-UE
www.cta.int/indexfr.htm
● Dakar Declaration- www.dakardeclaration.org.
● ELDIS - www.eldis.org
● Epawatch - www.epawatch.net
● European Centre for Development Policy Management
www.ecdpm.org/
● EU-LDC Network - http://62.58.77.238/
● Food and Agriculture Organization - www.fao.org
● International Centre for Trade and Sustainable Development (ICTSD)
www.ictsd.org/tni/index.htm
● International Fund for Agricultural Development - www.ifad.org
● Network Women in Development Europe
www.eurosur.org/wide/EU/Cotonou/newcotonou.htm
● The Secretariat of the African, Caribbean and Pacific Group of States
www.acpsec.org
● Unione Europea - europa.eu.int/comm/trade/
trentuno
Note bibliografiche
1. Citazione tratta da Fair trade? The European Union’s trade agreements
with African, Caribbean and Pacific Countries, International Development
Committee, 2005
2. The trade escape. WTO rules and alternatives to free trade
Economic Partnership Agreements, ActionAid International, 2006
3. Crocevia su dati FAO
4. I paesi ACP dopo l'adesione di Timor Est nel maggio 2003, sono 79. Tra
questi il Sud Africa ha già concluso un accordo di libero scambio con l'UE
e non rientra nelle negoziazioni degli APE. Cuba appartiene al gruppo ACP
ma non ha preso parte all'ultimo accordo concluso tra l'UE e il gruppo e
quindi non parteciperà alle negoziazioni degli APE che ne derivano. Sono
77 quindi i paesi ACP coinvolti nelle negoziazioni.
5. Agri-food Trade Service, International Markets Bureau; NFU estimate
6. Statistics Canada, Agricultural Economic Statistic, Cat. # 21-603
7. AAFC, A profile of Employment in the Agri-Food Chain, aprile 1999.
Basato sul Statistics Canada’s Labour Force Survey
8. Molte delle informazioni e dei dati statistici in questa sezione ed in quella seguente sono tratte da fonti dell'Unione Europea, le più importanti
delle quali sono: Common Agricultural Policy Regional Impact (CAPRI),
economic modeling system for EU's agriculture. Rapporto di Valutazione
della Commissione Europea sul Processo di Barcellona.
9. cf. A. Ait El Mekki, G. Ghersi, R. Hamimaz, J-L. Rastoin, 2002
10. Collectif Stratégies Alimentaires, Les APE entre l’Afrique de l’Ouest
et l’Union européenne. Quels enjeux pour les exploitations paysannes et familiales ?, 2006. Pubblicazione realizzata nell’ambito della
campagna EuropaAfrica-Terre Contadine
11. Collectif Stratégies Alimentaires, Les APE entre l’Afrique de l’Ouest
et l’Union européenne. Quels enjeux pour les exploitations paysannes et familiales ?, 2006.
12. Collectif Stratégies Alimentaires,Les APE entre l’Afrique de l’Ouest et l’Union européenne. Quels enjeux pour les exploitations paysannes et familiales ?, 2006.
13. Alternative (to) EPAs – Possible scenarios for the future ACP trade relations with the Eu, di Sanoussi Bilal e Francesco Rampa dell’European
Centre for Development Policy Management, curato Oxfam e Both Ends,
febbraio 2006.
14. UNECA. 2005a. Economic and welfare impacts of the EU-Africa economic
partnership agreements. ATPC Work in Progress, No.10. Addis Ababa:The
African Trade Policy Centre (ATPC) of the United Nations Economic
Commission for Africa.
trentadue
15. CAPE. 2003. Impact des Accords de Partenariat Economique (APE) et les
scenarii des ajustements préliminaires: Cas de l’UEMOA. Cotonou, Benin:
Cellule d’Analyse de Politique Economique.
A cura di:
Sabina Morandi
La presente pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell'Unione europea. La responsabilità per il contenuto della presente pubblicazione, che non riflette in alcun modo le opinioni dell'Unione europea spetta unicamente a Terra Nuova - Centro per il volontariato Onlus
Finito di stampare nel Maggio 2006
da:Tipografia di Roberto Farruggio
Roma
A cura di:
Sabina Morandi
La presente pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell'Unione europea. La responsabilità per il contenuto della presente pubblicazione, che non riflette in alcun modo le opinioni dell'Unione europea spetta unicamente a Terra Nuova - Centro per il volontariato Onlus
Finito di stampare nel Maggio 2006
da:Tipografia di Roberto Farruggio
Roma
Organizzatori della campagna:
EuropAfrica –Terre Contadine: per un agricoltura solidale e sostenibile nel Nord
come nel Sud del mondo una campagna che nasce dalla collaborazione tra organizzazioni di coltivatori dell Africa occidentale e dell Europa, associazioni, organizzazioni non governative e del commercio equo e solidale. In Italia la campagna una attivit del Gruppo di
appoggio al movimento contadino dell’Africa occidentale.
Per avere maggiori informazioni e per
partecipare alle attività della Campagna
vi invitiamo a visitare il sito:
www.europafrica.info
Potete contattare l’Associazione che
coordina il programma:
Terra Nuova
Via di Vigna Fabbri, 39 - 00179
Roma - Tel: +30-06-7839089
www.terranuova.org
o ancora scrivere e-mail:
[email protected]
Gli altri organizzatori della campagna:
in Italia
●
Centro Internazionale Crocevia (CIC)
http://www.croceviaterra.it
in Belgio
●
Collectif Stratégies Alimentaires (CSA)
http://www.csa-be.org
in Africa
●
Réseau des organisations paysannes
et de producteurs de l’Afrique de
l’Ouest (ROPPA)
http://www.roppa.info
I Partner della Campagna membri del
Gruppo italiano di sostegno al movimento contadino in Africa occidentale:
● Associazione Rurale Italiana (Ari)
● Associazione Universitaria per
la Cooperazione allo Sviluppo (Aucs)
http://www.aucsviterbo.org
● Coldiretti - http://www.coldiretti.it
● Comunità di impegno servizio volontario
(Cisv) http://www.cisvto.org
● Cooperazione per lo sviluppo
dei paesi emergenti (Cospe)
http://www.cospe.it
● Coordinamento di Iniziative Popolari
di Solidarietà Internazionale (Cipsi)
http://www.cipsi.it/nuovo/cipsi
Per una agricoltura solidale e sostenibile
nel Nord come nel Sud del mondo
Con la collaborazione di:
●
●
●
●
●
Associazione Italiana Agricoltura
Biologica: www.aiab.it
Campagna per la Riforma della Banca
Mondiale: wwwcrbm.org
Fair: www.faircoop.it
Tradewatch: www.tradewatch.it
Università degli Studi Roma Tre
Master in Human Development
and Food Security
Il Progetto è co-finanziato dalla
COMMISSIONE EUROPEA
REGIONE
LAZIO
Gli Accordi
di partenariato
economico:
occasione
di sviluppo
o rovina
dei piccoli
coltivatori?