La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -‐ ISSN 2282-‐3808

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 La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 1 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale N.5 – SETTEMBRE 2014 ISSN 2282-­‐3808 Direttore responsabile: Alfonso Marino Vice-­‐direttore: Marco Armiero Redazione: Carlo Verdino Luogo di pubblicazione: Napoli/Italia -­‐ Editore e proprietà: Associazione Transeuropa Piazza Carolina 10, 80132 Napoli (IT) Presidente: Marcello Chessa INDICE Intervista al Senatore Luigi Manconi …………………………….…………….………. pag. 3 Samir Amin. Radiografia del mondo arabo ……..………….….………………..… pag. 13 Gianfranco Bologna. Green economy, la nuova economia tra valore della natura e natura del valore ………………………………………..……………………………..…......... pag. 59 Jelle Versieren. East Wind, West Wind. Gone with the Wind? The Shared Philosophical Legacies of Gramsci and Lenin …………………………………………... pag. 64 Iside Gjergji. Cosa c’entra la crisi alimentare con la “primavera araba”? .… pag. 78 Joan Martinez-­‐Alier. “Growth below zero”: in memory of Sicco Mansholt ….. pag . 90 2 Intervista al Senatore Luigi Manconi, Presidente della Commissione sui diritti umani e le tutele del Senato della Repubblica, Roma, Palazzo Madama, giugno 2014 a cura di Alfonso Marino in collaborazione con Daniele Barbato 1 Diritti Umani ed Economia Alfonso Marino -­‐ Associazione TransEuropa, direttore responsabile di La Sinistra Rivista in collaborazione con Monthly Review (LSR): l’idea dell’intervista nasce a seguito delle visite ricevute da “La Sinistra Rivista” quadrimestrale online in collaborazione con Monthly Review, nei primi tre numeri, sui temi dei Diritti Umani, scritti di Leonard Boff, la rivista ha ricevuto 4800 visite, verificate con google analytics, da qui l’esigenza e il piacere di discuterne con Lei. (LSR) Dalla dichiarazione universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, promossa dalle Nazioni Unite perché avesse applicazione in tutti gli stati membri, cosa è cambiato? “Se dovessi definire il fattore costitutivo e insieme dirimente della fondazione di un sistema di tutela dei diritti fondamentali, quindi ancora con riferimento alla carta del ‘48, indicherei l’universalità, ovvero il fatto che a rappresentare, per un verso la novità, per l’altro verso l’aspetto anche performativo di un’affermazione dei diritti della persona come diritti fondamentali, sia il fatto che essi valgano per qualunque individuo, in qualunque regime politico, in qualunque area geografica ed in qualunque tempo. E valgono diciamo, in una prospettiva storica, da allora in poi. Nel senso che la forza della carta sta nel dire che da questo perimetro non è possibile tornare indietro, in un verso, e nell’altro verso, questo perimetro non consente deroghe. Di alcuna natura. Io direi che questo è il tratto. E ciò che però mi preme sottolineare è che io penso che in quella carta già ci fosse tutto in termini impliciti e dunque tutto ciò che successivamente richiede di essere esplicitato non comporti quasi alcuna tensione se non una intelligente, sensibile opera di interpretazione/applicazione. Noi siamo abituati, grazie al lavoro fatto in Italia da Norberto Bobbio prima da Stefano Rodotà poi, a questo schema di articolazione per famiglie di diritti e quindi ad una sorta di incalzante, perché il tempo corre veloce, aggiornamento che impone anche una sorta di costanti revisioni del linguaggio fino al punto che io oggi non saprei dire se chi lavora scientificamente su tali questioni usi formule come di quinta generazione o già si è arrivati alla sesta generazione. Ora questa classificazione che non ha nulla di risibile o di improprio e nemmeno di contestabile per me è utile a fini didascalici sicuramente, ma non certo nella 1
Daniele Barbato, Laureato in Ingegneria Gestionale attualmente Formatore e Consulente Indipendente nell'ambito della Formazione Professionale alle Imprese. Si occupa anche di politica, cultura e impresa, legati al mondo dell'associazionismo. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 3 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino prospettiva di una mobilitazione di ordine giuridico politico perché per una mobilitazione di ordine giuridico politico tutto è stato già detto.” (LSR) L’attività della commissione da Lei presieduta, quali obbiettivi si propone? “L’attività della mia commissione ha un suo punto di partenza semplicissimo che io enuncio all’atto della elezione e che articolo nella prima riunione della commissione stessa, sostanzialmente da me cosi esposto: la questione dei diritti umani come questione non esotica e come questione non inattuale. Dunque non come questione per terzo, quarto e quinto mondo e, ecco il punto cruciale, per fasi arretrate dello sviluppo dei regimi politici bensì come questione tutta concentrata sul qui e ora, come problema che ha una sua dimensione certamente tragica, in molte circostanze, decisamente fondamentale in altre e diciamo con riferimento al terzo, quarto e quinto mondo, ma che ha una pregnanza assolutamente viva e ineludibile nei regimi di democrazia avanzata.” (LSR) A tal proposito le chiedo quanto sono lontane o vicine le sue affermazioni in relazione ad “accogliamoli tutti” o “quando hanno aperto la cella”? “Ci stavo arrivando. Propongo che questa commissione si interessi dei diritti umani oggi in Italia. Come questione non esotica e non inattuale, non straniera e non anacronistica bensì del qui e ora e dunque certo dei regimi teocratici, dispotici, dittatoriali, autoritari del quarto e del quinto mondo ma anche, in una dimensione diversa, delle democrazie sviluppate e avanzate, dunque in Italia. Questo è fondamentale per tante ragioni, una delle quali che comprenderete molto facilmente è che a prescindere dal lavoro della mia commissione io lavoro affinché i CIE (Centri di Identificazione ed espulsione) non siano definiti lager e che le carceri italiane siano definite carceri fasciste. La questione dei diritti umani, se questione dei regimi democratici avanzati, è questione dei regimi democratici avanzati. Non perché i regimi democratici avanzati siano regimi dittatoriali o regimi fascisti, e nemmeno siano come i regimi dittatoriali o fascisti. Sono regimi democratici dove la questione dei diritti umani non è risolta. Restano dei regimi democratici dove le carenze di tutela dei diritti umani possono essere abnormi. Questa ragione “sofisticata” per me è fondamentale in quanto sono assediato dal dovermi confrontare, e lo faccio volentieri sia chiaro, con centro-­‐socialisti o comunisti o estremisti di sinistra e cosi via… che riescono ad affrontare queste cose solo pensandole come cose fasciste.” (LSR) I due libri, “Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldovrandi al processo per Stefano Cucchi” scritto con Calderone Valentina e “Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l'Italia, gli italiani e gli immigrati” con Brinis Valentina, anche questo del 2013, sono dentro questo solco? “Ma certo. Sicuramente. Totalmente dentro perché “quando hanno aperto la cella” è proprio un’analisi della violazione dei diritti umani all’interno dei molti luoghi del sorvegliare e punire ovvero delle molte istituzioni della privazione della libertà. In particolare in quello che noi definiamo una sorta di circuito allargato in cui queste diverse istituzioni, questi diversi luoghi si articolano avendo tra loro molti nessi, molti intrecci e molte combinazioni. Anche perché poi, tutto ciò avviene all’interno della crisi del Welfare-­‐State che fatalmente impone il ritrarsi dello Stato e 4 delle sue istituzioni, delle sue funzioni da una serie di compiti di protezione sociale che a quel punto vengono svolti nell’unico modo in cui sono capace di svolgerli da istituti della repressione, del controllo e della privazione della libertà. Per cui individui che in altre fasi potevano essere protetti oggi sono reclusi, individui che in altre fasi potevano essere soccorsi oggi vengono espulsi, individui che in altre fasi potevano essere tutelati oggi vengono esclusi. E vengono esclusi, espulsi, reclusi da istituti che hanno una relazione molto stretta tra loro e con questi processi di allargamento delle fasce della povertà e della marginalità e diciamo noi con questo impressionante processo di trasformazione che conosce il carcere che è diventato il luogo dei poveri.” (LSR) A questo proposito, Amartya Sen, uno degli ultimi premi Nobel per l’economia, afferma: “Tutti gli economisti pensano alla crescita. Pochi riflettono in merito all’idea che non c’è crescita senza diritti.” Per me che insegno economia all’università questa affermazione è un faro. Lei, è d’accordo? “Certo. Va da sé, come non c’è pace senza giustizia.” (LSR) Quanto è lontana questa affermazione dalle politiche che ci sono state in Italia e che in parte ci sono ancora, catalizzate su questo concetto di crescita come elemento materiale, monetario, la crisi solo come elemento materiale e monetario e poco sui diritti, sull’accoppiata economia -­‐ diritti? “Sono d’accordo ma in questo caso sono un po’ meno pessimista perché si avverte almeno come carenza, si sente almeno come sofferenza invece questa contraddizione tra sviluppo e mancata tutela. Si avverte. Se pensa, tutta la vicenda dell’Ilva di Taranto è questo. Per molti versi l’ Ilva di Taranto è una contraddizione tra Industria (sviluppo) e tutela dei beni primari come la salute e la vita. Questa contraddizione non viene sanata e la mancata combinazione virtuosa è avvertita da tutti. Cioè l’intera vicenda Ilva, dal momento che è palese che lì non poteva non essere vissuta cosi in quanto la contraddizione era tanto crudele da provocare una strage, anche tutte le discussioni intorno alla delocalizzazione hanno un grumo interno perché se noi pensiamo appunto alle crisi industriali dell’Italia contemporanea vediamo che una parte significativa nascono da dinamiche di delocalizzazione che portano alcune investimenti destinate allo sviluppo in luoghi dove non solo i salari sono compressi ma anche la tutela dei diritti viene tralasciata. In questo senso non credo che il problema sia la mancata consapevolezza o addirittura la trascuratezza, la rimozione di questo nesso sviluppo-­‐diritti. Credo sia il fatto che intanto esiste una cultura dominante che oltretutto ha radici diverse e in apparenza antagoniste che finiscono col combinarsi, cioè una cultura sviluppista di destra, una cultura sviluppista di sinistra che pongono il primato della crescita ad ogni costo al centro dell’idea stessa di sviluppo. Dell’idea stessa prima ancora che dei programmi, degli investimenti e delle strategie. Avere proprio la concezione, del ruolo assegnato alla grande industria, all’industria pesante, alle grandi macchine, grandi stabilimenti e in ogni caso al centro pongono la produzione industriale. Ed in ogni caso, anche davanti alla riduzione della produzione industriale, pongono la produzione di merci e cosi via… Resta quindi, anche attraverso un processo di dimagrimento, sempre quella idea e cioè che al centro di ogni ipotesi di sviluppo debba esserci sostanzialmente una idea di grande industria e delle sue strategie. Se è questo a prevalere, ripeto La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 5 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino per l’incrocio tra un’idea sviluppista di destra e un’idea sviluppista di sinistra, quindi una cultura liberale-­‐conservatrice per un verso, una cultura socialista-­‐economicista dall’altro, il risultato è fatalmente quello di cui stiamo parlando. In più collabora a ciò un’altra questione che è quella che poi in genere viene totalmente trascurata in Italia, anche recentemente io ne ho discusso con un mio interlocutore molto appassionato e molto particolare che è Ascanio Celestini, perché abbiamo avuto una conversazione nel corso della quale lui sosteneva che la sinistra non è più garantista come una volta. A tal proposito io credo che lui abbia torto marcio nel senso che la sinistra una volta era infinitamente meno garantista di quanto, pur pochissimo garantista come oggi, oggi sia. E’ il motivo è semplice, oltre a quella idea grande sviluppista c’è un’altra idea ed è il fatto che fino all’altro ieri, data indicativa, qualunque fosse l’affermazione di principio e la declamazione retorica in proposito, con piccole eccezioni, l’intera sinistra riteneva vi fosse contraddizione acuta tra garanzie collettive e garanzie individuali, tra tutele sociali e tutela della persona.” (LSR) Riprendendo le sue affermazioni, “l’industria anche se dimagrita rimane al centro” introduce ad una delle domande che volevo farle: il governo attuale, ma anche i precedenti, faticano tanto per riflettere di sviluppo spostando l’attenzione dalla ricchezza materiale che continua ad essere il prodotto interno lordo, che ormai è sempre meno centrale come indicatore, ad altri indicatori come il benessere che hanno dentro una visione molto più centrata sui diritti umani che non su una ricchezza soltanto di tipo monetario. E si fa una fatica incredibile, magari il lavoro di una commissione come la sua… “Diritti umani, ma insisto diritti individuali della persona. Per questo le stavo dicendo prima che l’intera sinistra, con una piccola eccezione, ha sempre considerato che vi fosse contraddizione acuta tra garanzie sociali ed individuali, tra tutela collettiva e tutela della persona. E non solo contraddizione acuta ma ha sempre, rispetto a questa contraddizione che riteneva acuta ed insuperabile, scelto il primato delle prime e cioè delle garanzie sociali dando questo dato come immobile ed inamovibile. Questo spiega tutto. 30 anni fa la sinistra era meno garantista di adesso perché 30 anni fa, giustamente, e 100 anni fa, ancora più giustamente, il problema del movimento operaio o della sinistra come vogliamo chiamarlo era emancipare le classi povere dalle proprie catene. Tale problema ovviamente veniva prima della tutela della soggettività individuale.” (LSR) Qualcuno potrebbe obiettare a questo ragionamento, che non sono negoziabili quelli sociali perché altrimenti non cambia mai la relazione tra diritti di proprietà e diritti umani. Che pensa? “Dicevo che da decenni, nella soggettività del cittadino mediamente informato, istituito e mediamente autonomo, la percezione dei propri diritti individuali di persona è avvertita con tanta forza e urgenza quanto quella percezione della importanza dei propri diritti collettivi. Cioè, per capirci, oggi un operaio che vede messo in pericolo il proprio posto di lavoro non è un operaio indifferente alla propria libertà rispetto alle proprie preferenze sessuali. Oggi un operaio, un impiegato, un bancario ritiene che la tutela del proprio diritto individuale alla piena espressione delle proprie opzioni nella sfera sessuale sia tanto importante quanto la tutela del proprio reddito. O comunque, se non tanto importante, tendenzialmente tanto importante e in ogni caso difficilmente disposto a barattare la tutela dell’uno in cambio alla rinuncia dell’altro. Poi si tratta sempre di processi, di dinamiche che si sviluppano, quindi se dovessi usare una formula prudente 6 direi tendenzialmente sempre meno incline a barattare la tutela dell’uno in cambio della rinuncia dell’altro. Ecco. Questa frase cosi prudente la posso tradurre in un’affermazione più netta che dice: oggi un cittadino mediamente colto, mediamente istruito, mediamente informato e mediamente autonomo avverte con urgenza l’esigenza di difendere i propri diritti individuali quanto i propri diritti collettivi. Se questo è vero, cambia un po’ la stessa concezione dei diritti umani. Ma cambia anche quella classifica o gerarchia di cui prima parlavamo. Perché se quella classifica o gerarchia è semplicemente di ordine diacronico allora va bene. Nella storia della civilizzazione si arriva oggi ai diritti di sesta generazione perché lo sviluppo complessivo dei sistemi in cui viviamo pongono oggi questioni che cento anni fa non venivano poste. Ma dopo questa rappresentazione diacronica in termini di interessi individuali, l’affermazione dei diritti di sesta generazione risulta tanto impellente quanto l’affermazione dei diritti di prima generazione. Questa mi sembra una novità importante.” (LSR) Prima Lei affermava: “quello che manteniamo o che dobbiamo provare a mantenere ferma come idea dal 1948 ad oggi è la categoria dell’universalità o dell’universalizzazione.” Provare a coniugare questo con globalità o con globalizzazione cosa significa? Dal mio punto di vista tenere insieme universalità e globalizzazione è stridente, è molto complicato, difficile. Ad esempio, le imprese investono in quei Paesi dove il costo del lavoro è basso in relazione alla produttività e i diritti umani sono, minimi, light. “Le contrappongo questo però. Questi problemi si manifestano in luoghi, nazioni, appunto del quarto, quinto mondo dove oggi non in futuro, oggi, il problema dell’autonomia del genere femminile assume una forza dirompente. E allora? Cioè in Pakistan …” (LSR) Oppure in India? “Non arrivo all’India perché l’India è con maggiore sicurezza una grande democrazia anche se piena di limiti. Ma in Pakistan, dove il deficit democratico è sicuramente maggiore, noi abbiamo le due questioni che sono questioni cosi strettamente intrecciate che io invece, a differenza di ciò che Lei sostiene, non vedo come stridente: universalismo e globalizzazione. La globalizzazione è la base materiale, la dimensione geografica, che è anche economico-­‐sociale, dove l’universalizzazione dei diritti deve fermarsi. Usiamo ad esempio l’India. In India abbiamo la negazione dei diritti sindacali in moltissime realtà industriali dove le aziende sono o locali o multinazionali. Poi abbiamo conflitti di portata gigantesca tra dispotismo maschilista, potere sul corpo femminile e rivolta delle donne contro quel potere. Schiavitù sessuale di bambini, di infanti e di donne e insieme grandi lotte per la sconfitta di quella schiavitù. La miglior rappresentazione della globalizzazione come base materiale della necessità di una lotta universalistica per l’affermazione dei diritti. In India vedi tutto sovrapposto anche se l’India è un unicum forse. Lì si vedono nitidamente tutte le contraddizioni del mondo, tutte. Fa ridere una ripartizione non meramente didascalica delle generazioni dei diritti perché che vuoi fare in India? Vuoi dire in India che il diritto ad internet è meno importante del diritto a sconfiggere la fame? Lì le due cose sono totalmente coincidenti. Ovvio è che la disponibilità della banda larga in India è un fattore decisivo per combattere la fame. E’ così, è palese. Se non c’è la banda larga non c’è il pane. Tanto più in paesi sviluppati come l’India.” La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 7 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino (LSR) Ritorniamo ad uno dei suoi due libri, “Accogliamoli tutti. Una ragionevole proposta per salvare l'Italia, gli italiani e gli immigrati” con Brinis Valentina, anche questo del 2013, la tesi del libro è: accogliamoli tutti. È questa l'unica politica efficace in materia di immigrazione, una tesi forte, in contrasto con il pensiero espresso dai recenti governi sia di centro destra che centro sinistra, perché? “il motivo è a nostro avviso in primo luogo di natura demografica e poi economica oppure economica e poi demografica. La demografia dice per un verso come ciò che accade non può essere ostacolato con strumenti repressivi o con distopie regressive. Ciò che accade è frutto, per usare un linguaggio da Monthly Review, dello scambio ineguale. A livello planetario. Per un verso. Per l’altro verso, dentro questo scambio ineguale di uno scarto demografico tra paesi sviluppati e paesi non sviluppati si determina una pressione non contenibile, proprio non contenibile. Non c’è nulla da fare. Sono distopie le strategie che pensano di fermare i flussi migratori o con le motovedette o con le retoriche dell’ “aiutiamoli a casa loro” o con le frontiere chiuse, sono tutte distopie. Utopie regressive prive di qualunque concretezza destinate al fallimento. Di fronte ad una tendenza che è planetaria e che ha ragioni formidabili e incontenibili sotto il profilo materiale, quello economico-­‐sociale-­‐demografico, io preferisco trovare le strategie adatte a governare questi fenomeni. Questo fenomeno, poi, questi venticinque anni; io mi sono interessato per la prima volta di immigrazione un quarto di secolo fa, in questi 25 anni io ho registrato alcuni elementi: non c’è stato un solo episodio significativo, sia chiaro, di concorrenza per il posto di lavoro tra stranieri e autoctoni. Ci sono stati non significativi se non occasionali e periferici episodi di concorrenza per il posto di lavoro. Primo punto. Secondo punto, la forza di lavoro straniera ha ormai un ruolo preciso nella produzione del PIL, secondo alcune ricerche intorno all’11% del PIL, secondo altre intorno al 13% del PIL, ha costituito un fattore insostituibile dell’economia nazionale, con particolare riferimento alla meccanica, alla siderurgia, all’edilizia…” (LSR) All’agricoltura? “Ci arrivo. Poi ai servizi, in particolare quelli di ristorazione e ancor di più lavoro e cura domestica e a quelli di agricoltura e pesca. In tutto ciò il lavoro straniero ha rappresentato una quota variabile in qualche caso però, sfiorava il 40% come in alcuni segmenti dell’agricoltura o l’80% come in alcuni segmenti del lavoro di cura e addirittura ha avuto una funzione di sviluppo di alcuni settori che rischiavano o l’esaurimento o comunque una sorta di inerziale sopravvivenza in alcuni segmenti di commercio di strada e della stessa agricoltura. Ciò si deve ai fattori noti e in più anche ad un fattore molto negativo e cioè che tutto ciò in Italia è potuto accadere anche perché il sistema produttivo italiano è un sistema produttivo arretrato. Dove quindi una forza lavoro straniera, scarsamente qualificata, era benvenuta laddove se invece, si fosse trattato di un sistema produttivo più avanzato la forza lavoro straniera non qualificata avrebbe avuto difficoltà ad inserirsi. Oggi se fossimo in grado, ma c’è tutta la questione politica da affrontare, la forza lavoro straniera potrebbe essere in grado di qualificarsi ”. (LSR) C’è tutta una questione politica da affrontare? “Si. Si potrebbe intervenire positivamente in un sistema produttivo che si rinnovasse in senso più avanzato di quello che è ora.” 8 (LSR) Qual è il suo pensiero, la sua esperienza in merito? “Quello che io so è questo: in questi decenni l’Italia ha conosciuto centinaia di buone pratiche locali, di politiche amministrative di territorio intelligenti e efficaci, di modelli di integrazione micro comunitaria estremamente interessanti. A livello nazionale però la politica è stata pressoché assente, pressoché assente. Ad esempio noi riteniamo che sarebbe fondamentale un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro in una situazione dove un immigrato che fosse in Italia da 20 anni qualora perdesse il lavoro e non ne trovasse un altro entro 12 mesi, perderebbe il permesso di soggiorno e con lui tutti i suoi familiari. E in teoria, ma la teoria viene confermata dalla ricerca pratica che noi portiamo avanti, finirebbe nei CIE. Questo per evidenziare una degli aspetti più vistosi dell’assenza della politica. Ma soprattutto la politica italiana è stata quella dei flussi che si sono rivelati decisamente inadeguati al punto che i flussi sono stati necessariamente integrati dalle sanatorie che si rendevano obbligatorie perché all’interno della società si sviluppava una presenza straniera irregolare che per un verso non soddisfaceva i bisogni della popolazione italiana per l’altro verso rischiava di precipitare queste persone nella marginalità. Il governo Berlusconi-­‐Maroni fece la più grande delle sanatorie con oltre 200.000 lavoratori domestici sanati provvidenzialmente per tutti ovviamente”. (LSR) Movimenti, diritti e partiti politici. La mia idea è che c’è stata e c’è molta conflittualità e poca sintesi comune. Che pensa? “Gran parte della mia attività di sociologo è stata attorno alla questione dei movimenti che però oggi non vedo come movimenti per i diritti umani. Penso addirittura che la morfologia dei movimenti collettivi abbia difficoltà a porsi sul terreno della lotta per l’affermazione dei diritti umani. Qui entrano in campo altri soggetti che sono di diversa morfologia e natura, questo è fondamentale, sistemi di azione e sono le associazioni, le onlus o quelle organizzazioni di tipo particolarissimo come quella che io presiedo, a -­‐ Buon Diritto -­‐, che in realtà è una lobby e che ha un sistema di azione proprio della lobby non del movimento collettivo al punto che noi non facciamo tessere, non facciamo proselitismo, non cerchiamo adesioni di associati. Però non vedo in Italia questi movimenti, proprio non li vedo, non so chi potrebbero essere; tutti i soggetti sono di altra natura da quelli che frequento abitualmente che sono medici senza frontiere, medici per i diritti umani, Amnesty International, sono tutti altra cosa. Sono o sezioni italiane di organizzazioni internazionali o comunque organizzazioni italiane concentrate su una attività di advocacy, di tutela legale. Ecco, è più questo che non diritti umani in senso generale. Cioè medici senza frontiere, medici per i diritti umani non sono movimenti collettivi, non vi si aderisce dentro ambiti di massa, non ci si muove attraverso le forme di lotta classiche dei movimenti. Sono certamente per i diritti umani (magari ce ne fossero di più) ma lo fanno con metodo di azione diversi. Proprio ieri ho fatto audizione con la sezione italiana di medici senza frontiere che ci ha parlato della Repubblica centroafricana. E’ un lavoro per i diritti umani ma siamo in altri campi, in quello professionale e menomale. Persino soggetti più somiglianti a movimenti, tipo Caritas, hanno una fisionomia molto interessante perché anche loro tendono alla specializzazione, all’articolazione per tematiche. Io conosco a Roma la Caritas che si interessa di immigrati e la Caritas che si interessa di carceri. Però tra loro credo che nemmeno si conoscano. Quelli che lavorano a Rebibbia, che fanno un ottimo La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 9 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino lavoro e hanno il loro leader, il cappellano di Rebibbia, don Sandro Striano magari manco conoscono la signora cinese che è responsabile, o forse lo era, del lavoro tra gli immigrati.” (LSR) Nel libro, “Quando hanno aperto la cella. Storie di corpi offesi. Da Pinelli a Uva, da Aldovrandi al processo per Stefano Cucchi” scritto con Calderone Valentina racconta anche di uno Stato che si ricorda di recludere, sorvegliare e punire, ma spesso dimentica di tutelare e rispettare gli individui che gli sono affidati, perché accade questo? Del testo tra l’altro ci colpisce: storie di corpi offesi. Perché? “La premessa è che vorrei, per il resto dei miei giorni, non parlare di carceri, non ne posso più. La mia attività politica che consiste anche nel formare nuovi militanti ha in questo la sua massima aspirazione perché se alcune persone che lavorano con me sulla questione del carcere me ne liberassero ne sarei felice. Per un motivo molto serio, non c’è scherzo in ciò che dico: il carcere è davvero una macchina claustrofobica pericolosa alla quale è difficile sottrarsi e che produce ossessività. Io mi sono sottratto alle principali patologie degli operatori in quanto non sono un operatore e perché, interessandomi alla materia addirittura più di 25 anni dedicati all’immigrazione, grazie al cielo, mi sono sempre interessato di altro, anche. Al punto che negli ultimi decenni della mia vita io mi sono interessato di privazione della libertà, di immigrazione, di questioni, diciamo cosi, di fine vita, testamento biologico, libertà di cure e antiproibizionismo. Questa pluralità di tematiche mi ha salvato, non agli occhi dei più ma ai miei occhi e soprattutto ha salvato un certo equilibrio perché, tornando al punto di partenza, il carcere è davvero una malattia grave nel senso che assorbe e in più deforma. Però, oggi come non mai, è proprio uno specchio si deformante ma anche perfettamente eloquente della società nazionale. Ma, qui mi permetta un pizzico di presunzione, c’è un passaggio teorico nel senso che quei “corpi offesi” che sta nei sottotitoli della ristampa del libro segnala anche il fatto che questa del corpo è diventata per me la questione essenziale. Io penso che vi sia un habeas corpus che riguarda esattamente tutte le questioni che richiamano i diritti fondamentali e, se vogliamo, le diverse generazioni di quei diritti. Cioè l’habeas corpus che interdice che il potere possa prevaricare su un corpo fisico del custodito e il medesimo principio etico-­‐giuridico che dovrebbe proteggere il corpo del paziente da un’idea autoritaria e invasiva di testamento biologico quale quello che ha rischiato di essere approvato nella precedente legislatura, un testamento biologico cosi dispotico che pure in presenza di una dichiarata, consapevole, sottoscritta e notificata da un notaio volontà opposta, poteva costringere il paziente a subire idratazione e alimentazione artificiale e un habeas corpus che va nell’ un caso e nell’altro. Però questo habeas corpus rimanda al corpus. Io sono sempre più convinto che una lunghissima riflessione classica e cristiana, persino cattolico-­‐illuminista che comprende persino Rosmini e il personalismo, e che poi ha avuto negli ultimi decenni i contributo di Foucault e di altri, non a caso si concentra sull’organismo fisico, il corpo. Lì c’è la fonte e il limite della dignità della persona, lì c’è la sede, la fondazione dei diritti umani, nel corpo. Nessun discorso sui diritti umani può prescindere da un discorso sulla integrità, incolumità del corpo come bene più prezioso, perché proprio in quel corpo c’è la fonte della personalità, della dignità e quindi poi di ciò che produce il diritto ad avere diritti. Ogni lesione del corpo è oltraggio ai diritti fondamentali della persona.” 10 (LSR) Cambiando argomento, diritti dei singoli Stati ed Europa, l’Unione e gli Stati singoli, membri di una Unione difficile, universalità e omologazione: Lei cosa pensa? “Non vedo un’aporia in questo, perché i diritti che possiamo definire europei sono quelli ratificati dalla carte europea dei diritti e quindi sottoscritti dai paesi aderenti, quella carta certamente ha una grande capacità inclusiva, grandissima. Io mi riconosco interamente e sarei felice se quella carta fosse effettivamente costituzione anche materiale delle relazioni interne a ciascun paese europeo e delle relazioni tra i cittadini del continente. Quindi posso piangere lo scarto tuttora esistente forse difficilmente colmabile in tempi stretti tra affermazioni teoriche e pratica concreta. Però non vedo contraddizione perché contrariamente a quello che si dice da parte anti-­‐europea, non sono mica diritti imposti. Sono diritti sottoscritti secondo procedure democratiche che certo, possono essere state imperfette, certo non hanno seguito le tradizionali regole dei sistemi parlamentari, tutto questo è verissimo, dunque possono essere sottoposte a verifiche, possono essere revocate in dubbio, possono essere completate, possono essere persino, se crediamo, verificate attraverso referendum, però nessuno di quei diritti affermati nella carta è un diritto imposto in maniera dispotica da un potere estraneo o ostile o nemico. Quindi, non riesco a vedere il problema.” (LSR) Lei affermava che c’è una distanza da colmare, lo auspica, ci crede. Qual è la distanza e come si può colmare? “Siamo alle solite. Bisogna fare in modo che i diritti appaiano prima ancora che giusti, convenienti. Tutto il nostro “accogliamoli tutti” è una apologia dell’utilità sociale, della teoria dell’utilità sociale. Tutta una critica della solidarietà proprio cosi francamente espressa. Perché noi riteniamo che la solidarietà sia una virtù individuale che quando diventa un imperativo sociale rischia di essere un “non risolto”. Quindi ripeto, anche i diritti europei finché appariranno o come non convenienti o come un lusso superfluo per il godimento dell’elite, certamente quello scarto crescerà. Poi adesso c’è in Italia, in tutti i paesi europei, tutta una noiosissima polemica che io fatico persino ad ascoltare perché ormai la sento da 15 anni. L’Europa decide addirittura la forma delle zucchine, sciocchezze. L’Europa fa questo da 20 anni, ma lo fa per motivi ben precisi, motivi che sicuramente non sono superflui, motivi che possono essere evitati se c’è un confronto competente, capace di dire la propria. Invece, se la debolezza di alcuni Stati, determina la forza di altri è chiaro che può esserci una sola produzione dell’Europa… allora è facile trasformarla in un bersaglio di comodo, ma le cause di quest’assenza di solidarietà risiedono nella debolezza, incapacità di alcuni Stati, di alcuni governi nazionali, istituzioni di politica industriale e finanziaria e dunque dell’altra impostazione non importa nulla.” (LSR) Quindi un problema di solidarietà? “ Si, io dicevo questo. I diritti devono essere convenienti, c’è poco da fare. Questi sono processi lunghi. Io ricordo 20 anni fa, gli ordini degli avvocati in Italia, non so come siano adesso, potrebbero anche essere rimasta cosi la situazione, rifiutavano l’iscrizione degli avvocati laureati in Francia, era cosi. Questo meccanismo, in cui quindi un diritto di un francese veniva vissuto come una minaccia e considerato non conveniente, secondo me oggi deve cambiare, siamo già ad un La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 11 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino passaggio in cui si rovescia questa logica. Perché oggi c’è un numero crescente di giovani italiani che troverebbe conveniente potersi iscrivere all’ordine degli avvocati di Tolosa. Cioè il diritto diventa conveniente in quel momento e proprio in quel momento si scopre che il diritto oltre ad essere conveniente è anche giusto. Questi tempi spesso sono lunghissimi, bisogna però assecondarli. Io l’altro giorno ho presentato il libro in Sardegna. Mentre parlavo c’erano in sala tantissima gente e tanti miei parenti. C’erano però solo i miei parenti coetanei perché in posti sostanzialmente depressi ma vivi per altre ragioni di natura intellettuale e sociale come Sassari, io ho sei nipoti, sei figli di mie sorelle, tutti, tranne uno, all’estero, cinque lavorano all’estero. Una lavora ad Alghero, gli altri 5 all’estero. Quindi ogni discorso viene azzerato. Perché se i miei parenti, genitori di questi giovani, fossero tentati di usare argomenti xenofobi contro stranieri presenti in Italia, sanno che gli rode perché temono che i propri figli siano oggetto di xenofobia in Irlanda e Inghilterra. Allora ecco che diventano convenienti.” Notes from the Editors “Samir Amin’s Review of the Month in this issue, “Popular Movements Toward Socialism,” offers a masterful analysis of struggles all over the world in the era of what he calls “generalized-­‐monopoly capitalism.” The most important theoretical innovation in his article, in our opinion, is his attempt to bring together a variety of global struggles under the rubric of the “movement toward socialism,” borrowing the terminology from the current practice of a number of South American parties: in Bolivia, Chile, and elsewhere. Movements that fall under this mantle, Amin suggests, may include those that seek to transcend capitalism, as well as others for which the object is more ambiguously a radical upending of labor-­‐capital relations. In terms of the Latin American parties who are consciously organized around the “movement toward socialism,” he tells us, this generally signifies a shift away from the traditional strategy of Communist parties of seizing the state as a whole and nationalizing the economy. Instead they are engaged in the more patient building up of the political, economic, and social conditions that will allow a real advance toward socialism. Amin is quite clear that such popular movements toward socialism are not social-­‐democratic movements dedicated to operating within capitalism, but on a kinder, gentler basis. Rather the movements toward socialism are dedicated to radical social change but are confronted with circumstances that hinder the achievement of socialist transformation in the present, and require a strategic reorientation toward a long revolution. Indeed, this characterizes the general nature of socialist struggles today…….”Monthly Review june 2014 vol. 66 n.2 [ see also September 2014, vol. 66 n. 4 review of the month: The Return of Fascism in Contemporary Capitalism] Apre con queste note il numero di giugno 2014 di Monthly Review che propone una interessante riflessione di Samir Amin sul tema dei movimenti e del socialismo. La Sinistra Rivista, ha recuperato alcuni dei contributi, considerati storici e segnalati nei numeri 3-­‐4, 7, 8-­‐9 del 1977 dell’edizione italiana di Monthly Review, i lettori di La Sinistra Rivista possono richiederli via mail, mentre come accompagnamento alla lettura di “Popular Movements Toward Socialism,” che 12 potete trovare nella versione originale sul numero di giugno 2014 di Monthly Review. http://monthlyreview.org/2014/06/01/popular-­‐movements-­‐toward-­‐socialism presentiamo la riflessione del novembre 2001, n.22, la rivista del manifesto. RADIOGRAFIA DEL MONDO ARABO Samir Amin è direttore del third World Forum in Dakar, Senegal. Questo saggio risulta da una sintesi che lo stesso Samir Amin ha tratto per noi da un suo lavoro molto più ampio (Il mondo arabo: stato dei luoghi, stato delle lotte) che è in corso di pubblicazione in lingua araba e prossimamente verrà tradotto in inglese e in francese. [“The Liberal Virus”, “The World We Wish to See”, “The Law of Worldwide Value” e di recente, “The Implosion of Contemporary Capitalism”]. Il risultato del lavoro di sintesi è tuttavia molto più ampio rispetto alle consuetudini di questa rivista. Per darlo integralmente, abbiamo accresciuto il numero delle pagine di questo fascicolo. Abbiamo fatto questa scelta non solo per l’intrinseco interesse del saggio e l’autorevolezza di Samir Amin. Ma anche per altre due ragioni. Anzitutto perché, pur essendo stato scritto prima dell’11 settembre, il saggio fornisce elementi preziosi di informazione, di analisi e di riflessione su un soggetto sociale, politico, culturale e su una grande regione del mondo che assumono un ruolo nella crisi internazionale oggi in corso. In secondo luogo perché queste pagine di Samir Amin offrono un esempio di come si dovrebbe affrontare il tema del Sud del mondo. Tema che, dopo una lunga parentesi, è tornato al primo posto grazie al movimento sulla globalizzazione, ma sul quale resta molto generica la conoscenza e manchevole l’iniziativa della sinistra. E che invece non può più essere visto solo come il mondo della povertà e dell’emarginazione in generale, ma nella sua complessità tra dinamismo produttivo e degrado, analizzato nella composizione di classe, nelle istituzioni, nelle culture che l’organizzano. Indagare sulla società che chiamiamo ‘civile’, sui movimenti sociali e sulle lotte che queste organizzazioni conducono nel mondo arabo, significa indagare sull’assenza della società civile e sulla mancanza di movimenti sociali all’altezza delle sfide alle quali i popoli della regione devono fra fronte. Spesso ripetuta, questa cinica affermazione contiene una parte di verità. Ma è un’affermazione ingiusta per lo squilibrio cui si ispira sia nell’analisi delle realtà concrete sia nella valutazione delle prospettive future. Le società del mondo arabo stanno attraversando – come tutte le altre – una difficile transizione storica e la fine del tunnel non sembra ancora arrivata. Ma sono impegnate in lotte multiformi, che possono essere comprese nella loro realtà e nella loro portata solo facendo riferimento alla critica della globalizzazione liberale da cui sono sfidate, indipendentemente dal loro livello di consapevolezza e dalla natura delle forme della loro legittimazione. Quello che ci proponiamo di fare in questo bilancio sintetico sarà proprio quello di identificare le questioni poste dai movimenti e dalle lotte, di analizzarne le ambiguità e i limiti, di misurarne la La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 13 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino portata e, a partire dalle contraddizioni del sistema, di identificare i progressi in senso popolare e democratico che queste lotte potrebbero permettere. Si tratta di un bilancio sintetico che si basa sui numerosi lavori e dibattiti che si sono sviluppati, soprattutto sulle reti del ‘Forum du Tiers Monde’, nel corso degli ultimi anni. II. Lo Stato autocratico di fronte alla sfida della modernità 1. Nel mondo arabo non esiste uno Stato democratico. Ci sono solo Stati autocratici. Un giudizio probabilmente duro, ma in gran parte corretto. Anche se questa autocrazia prende forme diverse, non è difficile identificare in ognuna un carattere comune. La sorte dei popoli arabi dipende, o è dipesa, dagli stati d’animo di un generale assassino, o di un poliziotto subalterno specializzato nella tortura, o di un monarca costruttore di prigioni in cui non entra mai la luce, di un capo di una piramide tribale o di un religioso fanatico. In altri casi invece lo Stato arabo è stato diretto da un despota illuminato o da un erede mite, più o meno tollerante. Anche se autocratici, i regimi politici arabi non sono sempre stati, o non sono, illegittimi agli occhi della loro società. Hashem Sharaby parla di poteri statuali come poteri personali, in contrapposizione al potere della legge che definisce lo Stato moderno. Un’analisi descrittiva, alla Weber, che deve essere relativizzata, in quanto questi poteri personali (personalizzati) sono legittimi solo se si proclamano rispettosi della tradizione (e in particolare della sharia1religiosa) e se sono considerati tali. Più profonda è invece la relazione che Sharaby stabilisce tra l’autocrazia e il carattere ‘patriarcale’ del sistema di valori sociali, attribuendo al concetto di patriarcato un significato molto più ampio di quello che in genere si dà al termine volgarizzato di ‘maschilismo’ (affermazione e pratica di emarginazione delle donne nella società). Il patriarcato è un sistema che mette in valore a tutti i livelli il dovere dell’obbedienza: educazione scolastica e familiare che soffoca sul nascere qualunque velleità critica; sacralizzazione della gerarchia nella famiglia (con la subordinazione delle donne e dei bambini), nell’impresa (con la subordinazione del lavoratore al datore di lavoro), nell’amministrazione (con la sottomissione assoluta al capo gerarchico); divieto assoluto di libera interpretazione religiosa, e così via. Questa constatazione – che mi sembra indiscutibile – va messa in riferimento con la definizione della modernità. Quest’ultima è basata sul principio che gli uomini, individualmente e collettivamente, fanno la loro storia e che per farla hanno diritto di innovare, di non rispettare la tradizione. Proclamare questo principio significa operare una rottura con il principio fondamentale che disciplina tutte le società premoderne, comprese quella dell’Europa feudale e cristiana. La modernità è nata con questa affermazione. Non si tratta di una ‘rinascita’, ma di una nascita vera e propria. La definizione di Rinascimento che gli europei stessi hanno dato a questo periodo della loro storia è ingannevole, in quanto è il prodotto di una costruzione ideologica secondo la quale l’antichità greco-­‐romana avrebbe conosciuto il principio della modernità, rimasto sepolto durante il ‘Medioevo’ (tra la modernità antica e la nuova modernità) per colpa dell’oscurantismo religioso. Si tratta però di una concezione mitica dell’antichità, che sta alla base dell’eurocentrismo attraverso il quale l’Europa pretende di ereditare dal suo passato, ‘di ritornare alle fonti’ (da ciò deriverebbe il termine ‘Ri-­‐nascimento’), mentre in realtà opera una rottura con la sua storia. 14 Il Rinascimento europeo è il prodotto di una dinamica sociale interna, la soluzione data alle contraddizioni specifiche dell’Europa di quei secoli con la creazione del capitalismo. Al contrario, quello che gli arabi hanno chiamato, per imitazione, la loro ‘Rinascita’ – la nahda del secolo XIX – non ha avuto queste caratteristiche. Essa è invece la reazione a un trauma esterno. L’Europa, che la modernità aveva reso potente e conquistatrice, esercitava sul mondo arabo un effetto ambiguo, al tempo stesso di attrazione (ammirazione) e di repulsione (per l’arroganza della sua conquista). La Ri-­‐nascita araba attribuisce al nome un significato letterale e implica che, se gli arabi – come avevano fatto gli europei (secondo le loro stesse parole) – fossero ‘tornati’ alle fonti, avrebbero ritrovato la loro grandezza. La nahda non sa in che cosa consiste la modernità che fa la grandezza dell’Europa. Non è questa la sede per analizzare i diversi aspetti e momenti dello sviluppo della nahda. Mi limiterò a affermare che essa non compie quelle rotture necessarie con la tradizione che definiscono la modernità. La nahda non sa cosa vuol dire laicità, cioè la separazione tra religione e politica, condizione necessaria per permettere alla politica di diventare il campo della libera innovazione e quindi della democrazia nel senso moderno del termine. La nahda crede di poterle sostituire una rilettura della religione purificata dai suoi eccessi più retrivi. E, ancora oggi, le società arabe hanno difficoltà ad ammettere che la laicità non è una ‘specificità’ occidentale, ma un’esigenza della modernità. La nahda non capisce che cosa significa la democrazia, intesa giustamente come il diritto di rompere con la tradizione. Essa rimane quindi prigioniera dei concetti dello Stato autocratico; fa appello a un despota ‘giusto’ (al mustabid al adel) – e non ‘illuminato’. La nahda non capisce che la modernità produce anche l’aspirazione delle donne alla loro liberazione e, con essa, il diritto a esercitare il loro diritto di innovare, di rompere con la tradizione. In definitiva la nahda riduce la modernità all’apparenza immediata di ciò che produce: il progresso tecnico. Questa presentazione, volutamente semplificata, non vuole però ignorare le contraddizioni espresse nella nahda, né la presenza di alcuni pensatori di avanguardia consapevoli delle sfide reali della modernità, come Qassem Amin per quanto riguarda l’importanza della liberazione delle donne, Ali Abdel Razek per quella della laicità, Kawakibi per la sfida democratica. Ma nessuna di queste analisi ha avuto conseguenze pratiche. Al contrario, la società araba ha reagito rinunciando a seguire le vie indicate. La nahda non è quindi il momento della nascita della modernità nei paesi arabi, ma quello del suo aborto. 2. Le società arabe non sono ancora entrate nella modernità, anche se ne subiscono la sfida quotidiana. Di conseguenza la maggior parte dei popoli arabi continua ad accettare i principi del potere autocratico. Un potere la cui legittimità non fa riferimento al principio della democrazia. Se è capace di resistere – o ne dà l’impressione – all’aggressione imperialista, se è capace di offrire un miglioramento visibile delle condizioni materiali di vita di molti, se non di tutti, allora il potere autocratico – divenuto dispotismo illuminato – beneficia di una popolarità che ne costituisce al tempo stesso, la garanzia di stabilità. Si deve anche al fatto che le società arabe non sono entrate nella modernità se il rozzo rifiuto retorico di quest’ultima, esibito come tema ideologico esclusivo piazzato al centro del progetto islamista, incontra il larghissimo consenso che sappiamo. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 15 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Oltre che su questo principio di non-­‐modernità, il potere autocratico basa quindi la sua legittimità sulla tradizione. Può trattarsi in alcuni casi di una tradizione monarchica nazionale e religiosa come in Marocco (ed è caratteristico in questo senso che nessun partito marocchino rimetta in discussione il motto di questa monarchia: ‘Allah, la nazione, il re’), o di una monarchia tribale come nella penisola arabica. Ma esiste un’altra forma di tradizione, quella ereditata dall’impero ottomano che ha dominato gran parte del mondo arabo, dall’Algeria all’Iraq, e che possiamo definire il ‘potere dei mamelucchi’. Si tratta un sistema complesso che associa il potere personalizzato di guerrieri (più o meno gerarchizzati e centralizzati o, al contrario, isolati), di commercianti e di religiosi. Mi riferisco ovviamente agli uomini, poiché le donne erano escluse dall’esercizio di qualunque responsabilità. Le tre dimensioni di questa organizzazione non sono contrapposte ma fuse in una sola entità di potere. I mamelucchi sono guerrieri che traggono la loro legittimità da una concezione dell’Islam che pone l’accento sul contrasto Dar El Salam (mondo musulmano, cioè mondo sottomesso alle regole di una gestione pacifica) / Dar El Harb (mondo extramusulmano cioè luogo dove prevale la Jihad, la ‘guerra santa’). Non è un caso se questo concetto militare della gestione politica è stato coniato dai conquistatori turchi selgiuchidi e poi ottomani, che si autodefinivano ‘ghazi’, cioè conquistatori e colonizzatori dell’Anatolia bizantina. Non è un caso neppure che il sistema mamelucco si sia costituito all’epoca di Saladino, il liberatore delle terre fino ad allora occupate dai crociati. Saladino è sempre evocato con ammirazione rispettosa dai poteri populisti nazionalisti contemporanei, omettendo sempre tutte le devastazioni di cui fu responsabile. Alla fine delle crociate, il mondo arabo (diventato turco-­‐arabo) entra in un processo di feudalizzazione militare e di isolamento. Una regressione che mette fine alla brillante civiltà dei primi secoli del califfato, mentre l’Europa comincia la sua emancipazione dal feudalesimo, apprestandosi a entrare nella modernità e a partire alla conquista del mondo. 3. In cambio di questa funzione di protettori dell’Islam, i mamelucchi lasciano ai religiosi il monopolio dell’interpretazione dei dogmi, della giustizia esercitata in suo nome, del controllo morale della società. Ridotta alla sua dimensione sociale puramente convenzionale – il solo rispetto dei riti importanti – la religione è perfettamente strumentalizzata dal potere autocratico dei guerrieri. La vita economica è sottoposta agli umori del potere politico-­‐militare. Il mondo contadino è costantemente sottoposto alle esazioni di questa classe dirigente, la proprietà privata (il cui principio è indubbiamente sacralizzato dai testi fondatori dell’Islam) diventa precaria e lo stesso accade per i profitti del commercio. La classe dirigente mamelucca aspira ovviamente alla diffusione del suo potere autocratico. Formalmente sottoposti al sultano-­‐califfo, i mamelucchi beneficiano della distanza – all’epoca considerevole – che li separa dalla capitale (Istanbul) per esercitare a titolo personale il potere sul loro territorio. Laddove invece la tradizione di centralizzazione statale ha carattere millenario, come in Egitto, si assiste a numerosi tentativi per disciplinare l’insieme del corpo militare. Non è un caso che Mohamed Alì imponga il suo potere centralizzato massacrando i mamelucchi, per ricostruire però un’aristocrazia militare e fondiaria interamente sottomessa al suo potere personale. I bey di Tunisi, su scala più modesta, cercheranno di fare altrettanto. I dey di Algeri non 16 ci riusciranno mai. Questa dinamica interesserà anche il sultanato ottomano, che in questo modo integrerà in un potere ‘modernizzato’ le province turche curde e armene dell’Anatolia e le province arabe della Siria storica e dell’Iraq. Modernizzazione pura e semplice? O modernizzazione della sola autocrazia? Dispotismo illuminato? O dispotismo tout court? Le distinzioni e le varianti si limitano a queste possibilità e non permettono di andare oltre. Il modello autocratico mamelucco ha dovuto fare i conti con realtà molteplici e diverse, che di fatto ne hanno limitato i poteri reali. Le comunità contadine rifugiate sulle montagne fortificate (cabìli, maroniti, drusi, alauiti ecc.), le confraternite sufi, le tribù costringevano i poteri dominanti al compromesso e alla tolleranza nei confronti dei gruppi ribelli. Ma le forme dell’esercizio del potere nel mondo arabo sono state innovate al punto che oggi possiamo considerare quelle finora descritte come appartenenti a un passato ormai definitivamente concluso? In realtà lo Stato autocratico e le forme della gestione politica che gli sono associate sono ancora esistenti, ma, sempre meno capaci di fronteggiare le sfide della modernità, sono entrate in una crisi profonda che ne ha ampiamente minato la legittimità. Lo testimoniano l’affermazione dell’Islam politico, la confusione dei conflitti politici ma anche la rinascita delle lotte sociali. II. L’Islam politico 1. Ritenere che l’affermazione di movimenti politici in grado di mobilitare le grandi masse che si rifanno all’Islam sia il prodotto inevitabile dell’irruzione sulla scena politica mondiale dei popoli culturalmente e politicamente arretrati, incapaci di comprendere una lingua diversa da quella del loro oscurantismo quasi atavico, è un errore grave. Un errore purtroppo largamente diffuso dalla volgarizzazione dei media dominanti e ripreso nei discorsi pseudoscientifici dell’eurocentrismo e di uno scorretto ‘orientalismo’. Un discorso fondato sul pregiudizio che solo l’Occidente poteva inventare la modernità, mentre i popoli musulmani sarebbero prigionieri di una ‘tradizione’ immutabile, che li rende incapaci di comprendere la portata del cambiamento necessario. I popoli musulmani e l’Islam hanno una storia, come tutte le altre regioni del mondo, che è una storia di interpretazioni diverse dei rapporti tra la ragione e la fede, una storia delle trasformazioni e degli adattamenti reciproci della società e della sua religione. Accade che la realtà di questa storia sia negata non solo dai discorsi eurocentrici, ma anche dai movimenti contemporanei che si rifanno all’Islam. Gli uni e gli altri condividono infatti lo stesso pregiudizio ‘culturalista’ in virtù del quale le ‘specificità’ delle varie dinamiche dei popoli e delle loro religioni sarebbero intangibili, incommensurabili e trans-­‐storiche. All’eurocentrismo degli occidentali, l’Islam contemporaneo oppone solo un eurocentrismo capovolto. L’affermazione dei movimenti che si rifanno all’Islam è in realtà l’espressione di una rivolta violenta contro gli effetti distruttori del capitalismo esistente, contro la modernità incompiuta, mutilata e ingannevole che l’accompagna. È l’espressione di una rivolta perfettamente legittima contro un sistema che non ha nulla da offrire a questi popoli. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 17 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 2. Il discorso dell’Islam proposto in alternativa alla modernità capitalistica (alla quale sono assimilate senza alcuna distinzione le varie esperienze di modernità dei socialismi storici) è solo di natura politica e non teologica. Le determinazioni come integralismo e fondamentalismo che spesso gli vengono scorrettamente attribuite non attengono affatto a questo discorso, il quale, del resto, non vi fa quasi riferimento, se non in alcuni intellettuali musulmani contemporanei che si rivolgono in questi termini soprattutto all’opinione pubblica occidentale. L’Islam proposto è l’avversario di ogni ideologia della liberazione. L’Islam politico invoca la sottomissione e non l’emancipazione. L’unico tentativo di interpretazione dell’Islam che andava in questo senso fu quello del sudanese Mahmud Taha. Ma l’eredità intellettuale di Taha, condannato a morte e giustiziato dal potere di Khartum, non è stata rivendicata da alcun partito islamico, né ‘radicale’ né ‘moderato’, e non è stata difesa da alcun intellettuale favorevole alla ‘rinascita islamica’ o anche semplicemente disposto a ‘dialogare’ con questi movimenti. I protagonisti di questa ‘rinascita islamica’ non si interessano alla teologia e non fanno mai riferimento ai grandi testi che la riguardano. Da questo punto di vista l’Islam sembra essere solo una versione convenzionale e sociale della religione, ridotta al rispetto formale e integrale della pratica rituale. L’Islam in questione definirebbe una ‘comunità’ alla quale si appartiene per eredità, per caratteristiche etniche, e non per una convinzione personale intima e forte. Si tratta solo di affermare un’‘identità collettiva’. Per questo motivo l’espressione di Islam politico con la quale questi movimenti sono definiti nei paesi arabi, è certamente più corretta. 3. L’Islam politico moderno era stato inventato dagli orientalisti al servizio del potere britannico in India, prima di essere ripreso dal pachistano Mawdudi. Si voleva ‘dimostrare’ che i musulmani credenti possono vivere solo in uno Stato islamico – anticipando la divisione dell’India – perché l’Islam ignorerebbe la possibilità di una separazione tra lo Stato e la religione. È un peccato che questi orientalisti abbiano omesso di osservare che gli stessi inglesi del secolo XIII non concepivano la loro sopravvivenza al di fuori della cristianità! Abul Ala Mawdudi riprende quindi il tema secondo il quale il potere è emanazione diretta ed esclusiva di dio (‘wilaya al faqih’2) e rifiuta il concetto di un potere legislativo da parte dell’uomo. Lo Stato quindi ha solo il potere di applicare la legge definita una volta per tutte (la ‘sharia’). Joseph de Maistre aveva scritto cose analoghe accusando la Rivoluzione del crimine di aver inventato la democrazia moderna e l’emancipazione dell’individuo. Rifiutando il concetto della modernità emancipatrice, l’Islam politico rifiuta il principio stesso della democrazia: il diritto per la società di costruire il proprio futuro con la libertà che si dà di legiferare. L’Islam politico non è, come pretende il principio della shura, la forma islamica della democrazia, poiché è prigioniero del divieto dell’innovazione (ibda) e può accettare solo quello dell’interpretazione della tradizione (ijtihad). La shura è solo una delle numerose forme della consultazione del popolo che si trovano in tutte le società premoderne, pre democratiche. Certo, l’interpretazione è stata talvolta il veicolo di trasformazioni reali, imposte dalle nuove esigenze. Ma questa, a causa del suo stesso principio – il rifiuto del diritto di rottura con il passato – rende impossibile la lotta moderna per il cambiamento sociale e per la democrazia. Il preteso paragone 18 tra i partiti islamici – non fa differenza tra radicali o moderati, poiché tutti aderiscono agli stessi principi ‘antimodernisti’ in nome della pretesa specificità dell’Islam – e i partiti democristiani dell’Europa moderna non hanno quindi alcuna validità, anche se i media e la diplomazia degli Stati Uniti vi fanno continuamente allusione per legittimare il loro sostegno a regimi ‘islamisti’. La Democrazia cristiana infatti si inserisce nella modernità, di cui accetta i concetti fondamentale di democrazia creatrice e di laicità. L’Islam politico invece rifiuta la modernità. La proclama senza essere in grado di comprenderla. L’Islam che viene proposto non può quindi essere definito ‘moderno’ e gli argomenti invocati dai sostenitori del ‘dialogo’ sono estremamente banali, e vanno dall’uso di videocassette da parte dei suoi divulgatori all’osservazione che questi ultimi sono reclutati negli strati più ‘istruiti’ della popolazione – ad esempio tra gli ingegneri! Del resto, questi movimenti fanno riferimento solo all’Islam wahhabita, che – come non si stancano di ripetere gli scritti del più reazionario dei teologi del Medioevo, Ibn Taymiya – rifiuta tutto quello che l’interazione tra l’Islam storico e la filosofia greca aveva prodotto a suo tempo. Anche se alcuni dei suoi protagonisti definiscono questa interpretazione un ‘ritorno alle fonti’ (o addirittura all’Islam dei tempi del Profeta), si tratta in realtà solo di un ritorno alle concezioni in vigore duecento anni fa, quelle di una società bloccata nel suo sviluppo da diversi secoli. 4. L’Islam politico contemporaneo non è, come purtroppo si dice molto spesso, il prodotto di una reazione ai pretesi abusi della laicità. Di fatto, nessuna società musulmana dei tempi moderni – se si escludono le comunità appartenenti alla defunta Unione Sovietica – è stata veramente laica, o caratterizzata dal coraggio di un qualunque potere ateo. Lo Stato semi moderno della Turchia kemalista, dell’Egitto nasseriano, della Siria e dell’Iraq baathista3 si era limitato a controllare gli uomini di religione (come era spesso successo in passato) per imporre loro un discorso destinato esclusivamente a legittimare le sue scelte politiche. Il concetto di laicismo esisteva solo presso alcuni ambienti intellettuali critici. Non aveva molto influenza sullo Stato e questo, tutto preso dal suo progetto nazionalista, ha addirittura fatto registrare passi indietro, come testimonia l’evoluzione inaugurata da Nasser, che ha operato una rottura netta con la politica che il Wafd4 aveva adottato dopo il 1919. La spiegazione di questo atteggiamento è evidente: rifiutando la democrazia, questi regimi le sostituivano ‘l’omogeneità della comunità’, di cui è facile constatare la crescente pericolosità nella regressione della democrazia nello stesso Occidente contemporaneo. L’Islam politico propone di portare a termine un’evoluzione già largamente iniziata in questi paesi, diretta a ristabilire un ordine teocratico conservatore, associato a un potere politico di tipo ‘mamelucco’. A chiunque osservi i degradati regimi post nazionalisti della regione e i nuovi regimi cosiddetti islamici viene naturale l’analogia con quella casta militare al potere ancora due secoli fa, che si poneva al di sopra di ogni legge (fingendo di riconoscere in questo campo solo la ‘sharia’) e si appropriava delle ricchezze economiche, accettando – in nome del ‘realismo’ – di collocarsi in posizione subalterna nella globalizzazione capitalistica dell’epoca. 5. Da questo punto di vista non c’è molta differenza tra le correnti dette ‘radicali’ dell’Islam politico e quelle che si vorrebbero dare un volto ‘moderato’. Entrambe hanno lo stesso progetto. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 19 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Anche il caso dell’Iran non sfugge alla regola generale, nonostante alcuni equivoci che sono stati all’origine del suo successo, dovuti alla concomitanza tra lo sviluppo del movimento islamico e la lotta condotta contro la dittatura dello scià, socialmente retrograda e politicamente filoamericana. In un primo momento le stravaganze estremiste del potere teocratico erano compensate dalle sue posizioni antimperialiste, da cui traeva la sua legittimità e grande popolarità all’estero. Ma con il passare del tempo, il regime avrebbe dimostrato di essere incapace di affrontare la sfida di uno sviluppo economico e sociale innovatore. La ‘dittatura dei turbanti’ (i religiosi) che aveva preso il posto dei ‘berretti’ (dei militari e dei tecnocrati), come si diceva in Iran, porta a un incredibile degrado degli apparati economici del paese. L’Iran, che si vantava di ‘fare come la Corea’, si colloca oggi nel gruppo dei paesi del ‘quarto mondo’. L’insensibilità dell’ala dura del potere ai problemi sociali che affliggono le classi popolari del paese è all’origine della sua sostituzione da parte di chi si è autodefinito ‘riformatore’. Oggi infatti si assiste al rafforzamento dell’ala riformista, portatrice di un progetto capace di attenuare i rigori della dittatura teocratica, anche se non rinuncia al suo principio – inserito nella Costituzione (‘wilaya al-­‐faqih’) – sul quale si basa il monopolio di un potere che progressivamente ha rinunciato ai suoi atteggiamenti ‘antimperialisti’ per integrarsi nel mondo ‘compradoro’ del capitalismo delle periferie. In Iran il sistema dell’Islam politico è alle corde. Le lotte politiche e sociali nelle quali il popolo iraniano è ormai apertamente impegnato porteranno prima o poi al rifiuto del principio stesso della ‘wilaya al-­‐faqih’, che colloca il collegio dei religiosi al di sopra di tutte le istituzioni della società politica e civile. È la condizione fondamentale del loro successo. In definitiva l’Islam politico non è altro che un adattamento allo statuto subalterno del capitalismo ‘compradoro’. Per questa ragione la sua forma cosiddetta ‘moderata’ costituisce probabilmente il pericolo principale per questi popoli, mentre la violenza dei ‘radicali’ non ha altra funzione da quella di destabilizzare lo Stato per permettere l’affermazione del nuovo potere ‘compradoro’. Il lucido sostegno che le diplomazie dei paesi della ‘triade’5, in linea con gli Stati Uniti, danno a questa ‘soluzione’ è perfettamente coerente con la loro volontà di imporre l’ordine liberale globalizzato al servizio del capitale dominante. 6. Invece di essere conflittuali, i discorsi del capitalismo globalizzato e dell’Islam politico sono perfettamente complementari. Le diplomazie delle potenze del G7 e quella degli Stati Uniti sanno quello che fanno quando scelgono di sostenere l’Islam politico. Lo sapevano in Afghanistan, quando definivano i fondamentalisti islamici «combattenti per libertà» (!) contro l’orribile dittatura del comunismo, che in realtà non era altro che un progetto di dispotismo illuminato, modernista, nazional-­‐
populista che aveva avuto il coraggio di aprire le scuole alle donne. Sanno che il potere dell’Islam politico ha il ‘pregio’ di ridurre all’impotenza la popolazione e quindi di assicurare senza difficoltà la sua passività. Con il cinismo che lo caratterizza, l’establishment americano approfitta dell’Islam politico anche in un’altra maniera. Gli ‘eccessi’ dei regimi che ne traggono ispirazione – i Taleban ad esempio (che non sono affatto delle schegge impazzite, ma regimi perfettamente coerenti con la logica dei loro 20 programmi) – possono essere sfruttati ogni volta che l’imperialismo ritenga utile intervenire, se necessario in maniera brutale. Il carattere ‘selvaggio’ attribuito ai popoli che sono le prime vittime dell’Islam politico permette di alimentare l’‘islamofobia’. Ciò fa accettare più facilmente la prospettiva di un ‘apartheid su scala mondiale’, che non è altro che la conseguenza logica e necessaria di un’espansione capitalistica sempre più radicale. Gli unici movimenti politici che dichiarano di ispirarsi all’Islam, e che sono stati fin dall’inizio condannati senza mezzi termini dalle potenze del G7, sono quelli che – data la particolare situazione locale – si inseriscono nelle lotte antimperialiste: gli hezbollah in Libano, Hamas in Palestina. E non a caso. III. Conflitti politici e lotte sociali 1. Una rapida analisi della situazione attuale permette di capire che la situazione è rimasta invariata: il potere mamelucco continua a dominare. La prima analogia evidente con il passato è il ruolo dell’esercito, che in Algeria, in Egitto, in Siria e in Iraq ha il potere supremo. Si tratta di un’istituzione militare che può essere disciplinata e sottoposta a una gerarchia rispettata (Egitto) o caratterizzata da numerosi generali in lotta più o meno aperta tra loro (Algeria). Certo, questa istituzione può anche non essere quel solido garante della stabilità che ci si aspetterebbe. Ma anche se influenzata dall’islamismo politico, non immunizzata dalle forze centrifughe che la diversità etnica o confessionale può alimentare, l’istituzione militare rimane comunque l’unico erede del nazionalismo populista degli anni cinquanta, sessanta e settanta. Conserva quindi una tradizione nazionalista che non è completamente scomparsa. Le elezioni farsa non sono prese sul serio da nessuno, e men che meno dalle classi popolari, che se ne disinteressano. Un presidente succede a un altro attraverso elezioni, nei periodi di calma, o con un ‘colpo di Stato’, come ai tempi dei sultani, dei pascià e dei mamelucchi, sempre pronti a uccidersi tra loro. In Marocco, in Arabia Saudita e negli Emirati arabi del Golfo Persico l’istituzione monarchica, fusa con l’istituzione religiosa tanto marocchina che wahhabita, assicura direttamente la trasmissione del potere supremo. La seconda analogia con l’autocrazia mamelucca riguarda gli stretti rapporti esistenti tra il mondo degli affari e quello del potere. In realtà non esiste un vero e proprio ‘settore privato’; non ci sono molti capitalisti indipendenti che siano garantiti nella gestione delle loro imprese. La lingua egiziana ha creato un termine per indicare i nuovi ricchi dell’‘apertura economica’ (infitah) arrivata con la nuova globalizzazione liberale. Si fa distinzione tra il settore ‘privato’ (khas) – cioè le vere e proprie attività capitalistiche – e il settore ‘personale’ (firdani), cioè gli affari che esistono solo con la complicità del potere. Il settore privato, quando esiste, è rappresentato da imprese di medie dimensioni piuttosto malmesse a causa della congiuntura e della globalizzazione liberista. Al contrario , il fatturato del settore ‘personale’ cresce di anno in anno, accentuando la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Un esempio fra tutti: gli Imprenditori arabi (al Muawilin Al Arab), un’‘impresa’ egiziana diretta dal supermiliardario Osman Ahmad Osman. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 21 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Questa organizzazione ha assunto il controllo di tutte le attività commerciali dello Stato, che poi subappalta, anche se le leggi in teoria vieterebbero questa pratica. Di conseguenza, la maggior parte dei profitti della cosiddetta economia privata nel mondo arabo degli ultimi vent’anni rappresenta di fatto una vera e propria rendita politica. Terza analogia: la strumentalizzazione della legittimità religiosa convenzionale e conservatrice. Infatti più il potere mamelucco -­‐ compradoro è subordinato agli interessi imperialistici dominanti, più si adegua alle esigenze della globalizzazione liberale e più cerca di compensare la perdita di legittimità nazionale che questa sottomissione comporta con l’irrigidimento delle pretese ‘religiose’ del suo discorso, entrando da questo punto di vista in competizione con la corrente fondamentalista. Esattamente come facevano gli antenati ottomani e mamelucchi, via via che cedevano ai diktat degli imperialisti dei secoli passati! Il lettore potrebbe obiettare che i fenomeni descritti non sono specifici del mondo arabo. L’Indonesia offre un evidente esempio di dittatura militare-­‐mercantile accompagnata da un’identica retorica religiosa. Anche in questo caso si può parlare di un effetto della ‘cultura islamica’? Ma allora perché la Cina dei ‘signori della guerra’ e del Kuomintang di ieri o le Filippine di oggi rientrano per molti aspetti in questa casistica? In definitiva, mi pare più appropriato vedere nel modello ‘autocratico militare, mercantile (mamelucco-­‐compradoro/rentier), conservatore, culturale e religioso’ il prodotto del ‘sottosviluppo’ inteso non come ‘ritardo’, non come una ‘fase’ dello sviluppo, ma come uno degli aspetti della polarizzazione propria dell’espansione mondiale del capitale. Questa non produce la modernizzazione (e la democrazia potenziale), ma il suo contrario – la modernizzazione dell’autocrazia, la modernizzazione della povertà. L’autentica modernizzazione e democratizzazione si conquistano contrapponendosi alle forze dominanti del sistema mondiale, non inserendosi nella loro scia. 2. La specificità del mondo arabo è che questa rinascita contemporanea dell’autocrazia mamelucca non sarebbe stata pensabile solo cento o cinquanta anni fa. Allora quel capitolo sembrava definitivamente chiuso. In un primo tempo il mondo arabo – almeno i suoi centri egiziani e siriani – sembrava impegnati in un’autentica modernizzazione borghese. Mohamed Ali6 e poi la nahda del secolo XIX sembravano aver gettato le basi per questo superamento. La rivoluzione egiziana del 1919 ne rappresentava la prima espressione. E non è un caso che questa rivoluzione si sia fatta nel segno di una grande laicità, secondo il principio che ‘la religione è di dio, la patria di tutti’ e scegliendo una bandiera che univa la mezzaluna alla croce. Nell’impero ottomano i tanzimat7 davano il via a un’evoluzione simile di cui avrebbero beneficiato le province arabe, che a loro volta si sarebbero emancipate dopo la divisione dell’impero. Costituzioni, codici civili, partiti borghesi ‘liberali’, elezioni parlamentari lasciavano sperare che, nonostante tutte le debolezze e le insufficienze, la società si fosse avviata sulla strada giusta. I magri risultati ottenuti in termini di sviluppo economico e sociale reale – che si spiegano con la debolezza delle borghesie locali di fronte agli imperialisti dell’epoca e ai loro alleati reazionari locali – e quindi l’aggravamento della crisi sociale avrebbero messo fine a questa prima fase della modernizzazione mancata del mondo arabo. 22 Il secondo momento fu quello del nazionalismo populista degli anni cinquanta, sessanta e settanta. Nasserismo, baathismo, rivoluzione algerina sembravano in grado di contrastare la crisi sociale con l’utilizzo di una strategia di confronto più energico contro l’imperialismo (grazie anche al sostegno sovietico) e con attive politiche di sviluppo economico e sociale. Ma anche questo capitolo si è chiuso, per motivi che non possiamo analizzare in questa sede e che combinano le contraddizioni e i limiti interni del sistema e la trasformazione delle congiunture economiche e politiche mondiali. È in questo momento che si riafferma lo Stato autocratico premoderno. Ma a questo ritorno si accompagna una società che non è più paragonabile con quella di cento o di cinquanta anni fa. Oggi la crisi sociale è molto più acuta rispetto al passato. Non che la società sia complessivamente più ‘povera’. Al contrario, in termini di reddito reale medio, il progresso è evidente. Né la ricchezza vi è distribuita in misura più diseguale. Al contrario, in questo settore le trasformazioni riguardano soprattutto l’espansione delle classi medie, passate in Egitto nello spazio di cinquant’anni dal 5 al 30% della popolazione relativamente ai suoi strati superiori e dal 10 al 50% per l’insieme delle categorie che li compongono (secondo Galal Amin). Tuttavia la modernizzazione ha riguardato anche la povertà. La gravità della crisi è proporzionale al grado di urbanizzazione del mondo arabo. Oggi più della metà della popolazione araba è urbanizzata. Ma questo trasferimento di massa non è il risultato di una duplice rivoluzione agricola e industriale, più o meno analoga a quella che ha caratterizzato l’Occidente capitalista o il mondo sovietico e la Cina contemporanea da circa mezzo secolo. Al contrario, esso è il risultato dell’assenza tanto della rivoluzione agricola quanto di quella industriale. La crescente miseria rurale, che le industrie e le attività moderne sono incapaci di assorbire, si è semplicemente trasferita nelle città. La struttura delle classi e dei ceti sociali popolari nella quale questa crisi si manifesta non ha più nulla a che vedere con quella del mondo arabo di cento o di cinquant’anni fa. La crisi si svolge nelle nuove strutture della vita politica, delle ideologie, delle organizzazioni e delle forme di lotta sociale. Dopo aver voltato anche la pagina del nazionalismo, il sistema del partito unico ha ceduto il posto allo sviluppo incontrollato del multipartitismo, che i media mondiali dominanti si sono affrettati a salutare come l’avvio di uno sviluppo democratico, prodotto ovviamente – come proclama la vulgata oggi tanto di moda – dall’apertura ai mercati. Il paradosso è che questa esplosione del multipartitismo è stata accompagnata da un ritorno all’autocrazia di tipo mamelucco. 3. In Egitto il nasserismo aveva ‘nazionalizzato (in realtà statalizzato) la politica’, cioè aveva soppresso attraverso la repressione violenta i due poli intorno ai quali si erano riunite le forze politiche attive e l’opinione pubblica – il polo liberale borghese e il polo comunista. In questo modo ha creato un vuoto ideologico che l’Islam avrebbe colmato, progressivamente durante il periodo nasseriano, molto più rapidamente a partire dal 1970. L’influenza dell’istituzione religiosa, incoraggiata dalla modernizzazione di Al Azhar8 intrapresa da Nasser, penetrava nelle classi medie in espansione, principali beneficiarie delle politiche populistiche di sviluppo dell’educazione e dell’occupazione. Apparentemente sotto controllo, Al Azhar non costituiva una preoccupazione per il regime; era l’epoca in cui le sue ‘fatwa’9 giustificavano il ‘socialismo’. I Fratelli musulmani10, La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 23 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino che per qualche tempo avevano pensato di imporre la loro presenza all’interno del regime, resistevano a una repressione che nei loro riguardi era sempre stata più debole (non si dimentichi che ne facevano parte molti «Ufficiali liberi»11). Dopo la formale messa fuori legge del movimento, i Fratelli musulmani hanno continuarono a essere tollerati attraverso le ‘associazioni religiose’ che progressivamente penetrarono negli apparati amministrativi, dell’educazione, della giustizia e dei media. Quando Sadat, dopo la morte di Nasser (1970), decideva la svolta a destra, tutto era pronto per permettere all’Islam politico di arrivare brutalmente alla ribalta, con il sostegno finanziario del Golfo Persico e quello – pubblico – della diplomazia americana. Il prezzo da pagare era ‘l’apertura’ (infitah), avviata da Nasser dopo la sconfitta del 1967, che avrebbe permesso la reintegrazione nel capitalismo mondiale, la rottura dell’alleanza sovietica, il viaggio a Gerusalemme (1977) e, infine, il processo di pace che avrebbe portato a Madrid e a Oslo (1993). Ci sono voluti dieci anni prima che la legge istituisse un multipartitismo ‘octroyé’ (nel 1979), limitato in primo tempo alle tre cosiddette ‘tribune’ della defunta Unione socialista di sinistra, di centro e di destra. La costituzione, immutata, affida al presidente poteri che lo pongono al di sopra della sfera legislativa, esecutiva e giudiziaria. La nuova democrazia concessa e controllata (le ‘elezioni’ devono garantire la stabilità del potere del presidente scelto dall’istituzione militare) è stata negoziata con gli Stati Uniti (con l’accordo del 1991 tra il governo e l’UsAid!12), permettendo così a Washington di conferire al potere egiziano un attestato di democrazia. Non bisogna quindi farsi illusioni sui ‘partiti politici’ provenienti da tali combinazioni. L’Unione nazionale democratica non è molto più attiva dell’Unione socialista, di cui è l’erede. Questa non aveva neanche la legittimità storica dei veri partiti comunisti (dell’Urss, della Cina o del Vietnam), di cui in realtà era solo la brutta copia. Infatti questi partiti, prima di subire l’effetto degenerativo dell’esercizio solitario del potere, avevano guidato vere rivoluzioni. L’Unione socialista invece è stata istituita per decreto presidenziale, in assenza di una storia precedente. Di conseguenza, ha messo insieme solo un’accolita di opportunisti senza convinzioni, cosa del resto che assecondava il volere del despota illuminato. L’autoscioglimento dell’organizzazione comunista egiziana nel 1965, ottenuta non senza la resistenza di molti militanti, non avrebbe dato nuova linfa a questa organizzazione, poiché il potere aveva rigorosamente impedito che questo ‘pericolo’ si concretizzasse. Tra i nuovi partiti politici il Tagammu13, dopo aver tentato di riunire la sinistra nasseriana e gli eredi del comunismo egiziano, ha dovuto registrare l’abbandono dei militanti della prima formazione. Nostalgici del passato, evidentemente incapaci di comprendere la natura delle nuove sfide, i vecchi nasseriani si sono accontentati della retorica nazionalista araba (qawmi) e si sono avvicinati agli islamici, anch’essi attratti da un progetto piuttosto semplicistico. Tuttavia il Tagammu, se riuscirà a mobilitare le tradizioni militanti finora accuratamente messe da parte, resta una speranza di rinnovamento del dibattito politico. Il Partito del lavoro, animato da Adel Hussein (morto nel 2001), e al quale è succeduto un membro della sua famiglia (!), ha praticato in forma estrema il programma islamista, ponendosi in diretta concorrenza con i dirigenti tradizionali dei Fratelli musulmani. 24 Finora la democrazia politica dei partiti egiziani rimane molto limitata. Rinunciando a qualsiasi forma di azione concreta – che il regime vieta formalmente – limitandosi quindi alla semplice propaganda, questi partiti non si pongono in alternativa reale al potere. Non sviluppano programmi alternativi credibili, ma si limitano a criticare di volta in volta questo o quell’elemento dell’azione governativa. Le conseguenze di questo vuoto politico hanno avuto un ruolo importante nella riaffermazione della tradizione autocratica mamelucca. La manifestazione più preoccupante di questa deriva ha trovato un’espressione inattesa nel corso delle ultime elezioni parlamentari (1999): una folla di candidati ‘indipendenti’ ha sfruttato le possibilità che la situazione offriva. Non si tratta di oppositori, neanche mascherati, ma di candidati di quella classe ‘di imprenditori-­‐beneficiari di rendite statali’ (tipica del sistema mamelucco) che spesso hanno saputo creare una loro clientela capace di ‘vincere’ le elezioni nell’indifferenza della maggior parte della popolazione. La definizione di ‘baltagui’ che il popolo egiziano ha dato di loro traduce bene quello che sono – il termine significa all’incirca ‘mascalzoni, capibanda’. I vari ‘professori universitari’ liberali – anche americani – che descrivono il fenomeno come espressione della ‘nascita di una borghesia imprenditoriale’, possono forse ingannare l’opinione pubblica internazionale, ma non il popolo egiziano! In queste condizioni la sola forza alternativa al potere reale – costituito dall’istituzione militare – è rappresentata dai Fratelli musulmani. Ma questi hanno soltanto un progetto: quello di un potere autocratico della stessa natura, nel quale l’istituzione religiosa prenderebbe il posto dell’esercito. Da questo punto di vista i Fratelli musulmani rassomigliano ai partiti della democrazia cristiana, anche se a volte si cerca di farli passare per tali. Per il resto – inserimento nel liberalismo globalizzato ed economia locale ‘compradora’ di rendita – non c’è alcuna differenza. Per questo motivo la diplomazia di Washington vede in loro un’eventuale soluzione di ricambio. Il regime nasseriano era un progetto di dispotismo illuminato. Il suo programma sociale ed economico era reale e veniva applicato con determinazione. Per questo motivo, anche se dittatoriale e poliziesco, il regime doveva tener conto – e così fece – di forze sociali reali le cui forme di espressione erano i sindacati operai, i movimenti studenteschi, le associazioni professionali, le cooperative rurali, la stampa e gli intellettuali. Del resto il linguaggio politico nasseriano aveva dato loro un nome – marakez quwa (centri di potere) – che ne riconosceva di fatto l’ importanza. Ci sono oggi in Egitto quasi 25.000 comitati sindacali integrati in 23 sindacati, unificati all’epoca nasseriana in una centrale unica (l’Unione generale dei lavoratori d’Egitto) che raccoglie tra i 3 e 4 milioni di iscritti reali (può sembrare poco rispetto ai 15-­‐17 milioni di lavoratori dipendenti, ma è già molto e interessa la quasi totalità dei lavoratori delle imprese moderne). Il nasserismo aveva dato loro poteri reali, non di partecipazione alla direzione delle imprese (questi poteri erano solo di facciata) ma di gestione della manodopera (garanzia dell’occupazione, ecc.) e della vita quotidiana (alloggio, cooperative di consumo, ecc.). Avendo rinunciato alla ‘lotta di classe’, la classe operaia era ricompensata in termini di miglioramento delle sue condizioni materiali. E, sebbene il regime si fosse assicurato il controllo dei sindacati attraverso la nomina ai posti direttivi La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 25 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino nazionali di personale fedele, alla base (nei 25.000 comitati locali) lo spirito militante e l’influenza comunista non hanno mai cessato di esercitarsi. Ciò spiega la scarsa attrazione che l’Islam politico ha avuto sulla classe operaia. Qual è la situazione attuale? L’emigrazione, autorizzata dal 1970, ha certamente indebolito lo spirito militante. Perché battersi per ottenere qualche punto in percentuale di aumento del salario quando si può guadagnare il doppio, o di più, in pochi mesi di lavoro nel Golfo Persico, in Libia o in Iraq? Come sempre, l’emigrazione incoraggia le soluzioni individuali e indebolisce la lotta collettiva. Ma una volta esaurita l’ondata migratoria assisteremo al ritorno alla tradizione egiziana di soluzioni collettive? Le nuove leggi che deregolamentano il mercato del lavoro hanno a loro volta indebolito i sindacati, favorendo il ritorno della disoccupazione di massa. Generatrice di quella stessa povertà che si pretende di combattere, questa politica non sembra però turbare i sostenitori della difesa della democrazia nelle istituzioni del sistema globalizzato! Molti indizi indicano una ripresa delle lotte. Ormai si calcolano non più a centinaia ma a migliaia le azioni di lotta, spesso violente e disorganizzate. Nel 1998 ci sono stati settanta scioperi nelle più grandi imprese del paese, e non si è riusciti a nascondere l’intervento brutale delle forze speciali di sicurezza. In alcuni casi si sono registrati dei successi, se pur modesti. Ma se ne parla poco. Sull’argomento i partiti politici mantengono il silenzio. Nessuno – neanche gli islamisti, naturalmente – vogliono prendersi il rischio di assumersi la responsabilità di queste lotte. Le lotte operaie rimangono isolate, ma non sono né ignorate né impopolari. Nel mondo rurale il nasserismo operava attraverso 15.000 cooperative che si occupavano dell’acquisto di fattori produttivi e della vendita di prodotti finiti. Sebbene basate sulla classe rurale media e largamente influenzate dalle sue componenti ricche, queste cooperative non erano semplici istituzioni di subalterne alle decisioni del ministro dell’Agricoltura, come si è detto fin troppo spesso, ma partner di cui si teneva conto. Ciò permetteva di evitare i conflitti e di salvaguardare le classi povere del mondo contadino. La nuova politica liberale – soppressione delle sovvenzioni, liberalizzazione del credito e aumento dei suoi tassi medi dal 5 al 14%, triplicazione dei tassi di rendita fondiaria e infine la liberalizzazione dei rapporti tra i proprietari e i contadini (garantiti fino ad allora dal rinnovo dei contratti di locazione) – ha distrutto il movimento cooperativo, ha permesso alla classe dei contadini ricchi di arricchirsi ancora di più, impoverendo le classi medie. Le violenze frequenti ma isolate che hanno accompagnato questo cambiamento di linea non hanno però bloccato il processo di liberalizzazione. Nel 1983 il Tagammu ha cercato di dare vita a una nuova ‘Unione contadina’. Ma ha dovuto rinunciarvi di fronte agli ostacoli amministrativi. Ciò non ha impedito però lo sviluppo nel 1998 di un grande movimento di protesta degli agricoltori. Il potere è comunque riuscito a superare queste difficoltà e quindi a neutralizzare (provvisoriamente?) il movimento. Ci si può chiedere se i Fratelli musulmani, prendendo apertamente posizione in favore dei proprietari in nome del diritto della proprietà, hanno ‘perso’ un’occasione di mobilitare in loro favore questo mondo rurale sempre sensibile al discorso religioso. In realtà i Fratelli musulmani sapevano quello che facevano. Hanno deliberatamente scelto di schierarsi con gli agricoltori più 26 ricchi e con i compradores urbani, preoccupati soprattutto di mantenere la loro immagine di interlocutori validi per il capitale dominante e per la diplomazia americana. Il loro discorso si rivolge solo alle classi medie (come si vede dall’impegno con cui sono intervenuti nelle associazioni professionali), lasciando alle organizzazioni islamiche ‘radicali’ (la jihad islamica e altre) il compito di reclutare i loro uomini nelle classi medie impoverite e nel proletariato. Evitando di difendere o di condannare queste organizzazioni, i Fratelli musulmani sono consapevoli che le operazioni di destabilizzazione dello Stato che queste organizzazioni conducono non fanno altro che rafforzare la loro posizione di candidati alternativi. I Fratelli musulmani continuano a ripetere ai loro interlocutori di essere gli unici in grado di mettere fine alle degenerazioni ‘terroristiche’. La propaganda e l’azione dell’Islam politico si rivolge quindi in primo luogo alle classi medie. La loro espansione quantitativa ha conferito alle loro organizzazioni un peso politico eccezionale nella vita del paese. Si contano ventitré grandi associazioni professionali (avvocati, medici, giornalisti, ingegneri, farmacisti, insegnanti ecc.) con centinaia di migliaia di iscritti e migliaia di agenzie locali. Il nasserismo controllava senza grande difficoltà questi settori della società, che di fatto costituivano i principali beneficiari dell’espansione economica e sociale populista. La crisi sociale provocata dalla scelta economica liberale ha permesso all’Islam politico di impadronirsi della leadership di molte di queste associazioni. Tanto più che il discorso politico, in mancanza di un vero e proprio dibattito all’interno dei partiti, ha assunto un carattere radicale proprio in queste associazioni. Nel 1993 lo Stato ha reagito approvando delle leggi che gli permettono di assumere il controllo delle associazioni considerate ostili. La posizione ufficiale – più o meno demagogico – insiste sul fatto che la ‘politicizzazione’ delle associazioni va a danno del loro impegno nella difesa degli interessi reali delle professioni. Una denuncia non del tutto infondata, a meno che la tutela effettiva di questi interessi non entri a sua volta in conflitto con le politiche liberali dello Stato, il che rappresenterebbe un’occasione favorevole per un intervento militante della sinistra egiziana. Lo sviluppo tumultuoso della vita associativa, sulla quale torneremo più avanti, ha portato alla costituzione di un nuovo tipo di associazione che riunisce gli ‘uomini d’affari’. Poiché la vecchia «società dell’industria e del commercio» era stata sciolta da Nasser e le Camere di commercio, all’epoca della pianificazione , avevano perduto la loro funzione, le nuove associazioni di uomini d’affari colmano un vuoto evidente. Se ne parla molto, sono presentate come la prova della vitalità del capitalismo. Ma la realtà è ben diversa. Si tratta solo di ‘procacciatori di rendite politico-­‐economiche’, che tuttavia hanno un peso tutt’altro che trascurabile nella vita del paese. I membri di queste associazioni sono visti come dei ‘saggi’ e a volte sono addirittura riusciti a far adottare il loro punto di vista (cioè politiche che garantiscono le loro rendite) ai danni di qualche ministro recalcitrante. Nel mondo arabo, come in tutto il Terzo mondo, il movimento studentesco ha tradizionalmente svolto un ruolo di avanguardia. Per decenni è stato dominato dall’influenza comunista. Anche nel periodo migliore del nasserismo, quando il regime godeva di prestigio e rispetto, gli studenti nasseriani si ponevano a sinistra del regime. Furono loro che, all’indomani della sconfitta del 1967, si mobilitarono per chiedere la radicalizzazione del regime, mentre Nasser sceglieva al contrario la strada delle concessioni alla destra, aprendo la strada alla ‘infitah’. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 27 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Oggi il movimento studentesco non esiste più. Questa evoluzione, che si ritrova in quasi tutto il Terzo mondo contemporaneo, ha probabilmente ragioni complesse e non ancora analizzate a fondo. La straordinaria espansione delle classi medie prodotta dall’ondata di emancipazioni nazionali del dopoguerra, unita alla diffusione delle istituzioni universitarie, ha probabilmente svolto un ruolo importante in questo processo di spoliticizzazione. Ma questo fenomeno è stato spesso favorito dalla sistematica scelta repressiva del potere. È il caso dell’Egitto. Prima e dopo Nasser, il potere ha deliberatamente sostenuto, grazie anche a considerevoli finanziamenti esteri (provenienti dal Golfo Persico), la presenza nell’università dei Fratelli musulmani per contrastare il comunismo. Inoltre la ‘modernizzazione’ di Al Azhar, avviata da Nasser, ha ampliato la sfera di diffusione degli insegnamenti oscurantisti, che hanno favorito questa tendenza. Tuttavia il mondo universitario continua di tanto in tanto ad agitarsi, sebbene ormai quasi esclusivamente sulla questione palestinese (sostegno alle due intifada), mentre la critica delle politiche economiche e sociali liberali non rappresenta più un fattore di mobilitazione. L’aggravamento della crisi sociale, il degrado della situazione delle classi medie e la mancanza di sbocchi per i laureati hanno rafforzato questi atteggiamenti di riflusso, tanto più che l’abbassamento della qualità degli insegnamenti priva ormai i giovani di quella capacità critica di cui erano dotati in passato. La penetrazione islamica è il risultato e non la causa di questa situazione. Il mondo della stampa, gli intellettuali, gli artisti (in particolare i registi) e gli scrittori (poeti e narratori) sono sempre stati presenti e attivi sulla scena politica egiziana. In epoca nasseriana un’istituzione come «Al Ahram»14, diretta da Hassanein Heykal, era considerata uno di questi ‘centri di potere’ e beneficiava quindi di una certa tolleranza da parte del despota illuminato. Ma se la fondazione, il suo giornale (fondato 125 anni fa e paragonabile per qualità ai migliori giornali del mondo) e i suoi centri di ricerca hanno conservato un’alta qualità, la loro influenza sulla società è trascurabile. I grandi media – in particolare la televisione – sono ormai monopolizzati dalla banalità della cultura ufficiale e da una mediocre e reazionaria propaganda religiosa. Le televisioni ‘private’ (Nil Tv) praticano un’autocensura che ne annulla l’influenza potenziale, e quelle degli altri paesi arabi non sono molto migliori, con la sola eccezione delle numerose televisioni politiche del Libano. La nuova televisione del Qatar deve il suo successo alla sua apertura a dibattiti vivaci, ma è chiusa a qualunque critica radicale da sinistra. Inoltre si sospetta che essa sia lo strumento di forze non bene identificate. In Egitto continua a operare un cinema di qualità, anche se la grande produzione commerciale lo relega spesso in secondo piano. La letteratura – l’Egitto è un paese di scrittori di alto livello – esercita un’influenza culturale e politica considerevole. Cinema e narrativa sono i veicoli principali attraverso i quali sopravvive una cultura politica critica. Il deficit democratico nella gestione di quasi tutte le forme di organizzazione politica e sociale – partiti, sindacati, organizzazioni professionali (e, si vedrà più avanti, nella nuova vita associativa in espansione) è una rilevante caratteristica negativa dell’Egitto e forse di altri paesi arabi. Nei gruppi dirigenti vi sono più ‘capi storici’ inamovibili che militanti. Per completare questa descrizione delle lotte, dobbiamo segnalare l’affermazione delle nuove forme di lotta delle classi più povere, poco analizzate perché si svolgono al di fuori delle organizzazioni ufficiali. Venditori ambulanti, guardiani di automobili, squatters non rappresentano solo un settore ‘informale disorganizzato’. Combattuti in un primo tempo, perché trasgrediscono 28 la legge e le regole formali, finiscono spesso per imporsi – con azioni collettive – e per dare voce alle loro rivendicazioni. Lo Stato ad esempio ha rinunciato alla distruzione programmata delle bidonville del Cairo e adesso prevede progetti di recupero (approvvigionamento di acqua, strade ecc.). 4. Questo quadro della politica e delle lotte sociali in Egitto non può essere generalizzato all’insieme del mondo arabo, dove si deve tener conto delle condizioni concrete e delle radici storiche dei vari paesi. Si possono però identificare alcune tendenze di carattere generale. Nel corso degli anni cinquanta, sessanta e settanta Egitto, Siria, Iraq e Algeria hanno condotto esperienze nazionalistiche politiche molto simili tra di loro. In Siria e in Iraq il Partito Baath è all’origine di queste esperienze. A differenza dell’Egitto, la cui evoluzione in questa direzione era il frutto del colpo di Stato militare degli Ufficiali liberi che non aveva a sostegno una struttura di partito, il Baath è rimasto l’elemento centrale dell’organizzazione politica della Siria e dell’Iraq (mentre l’Unione socialista dell’Egitto non ha mai avuto un potere effettivo). La struttura militare dei regimi della Siria e dell’Iraq è stata il prodotto di un’infiltrazione degli eserciti da parte del Baath. In Egitto la scelta populista è stata progressivamente imposta da Nasser con il parere contrario della maggioranza dei dirigenti provenienti dagli Ufficiali liberi – piuttosto reazionari – anche se i relativi conflitti non si sono mai trasferiti nell’esercito, rimasto disciplinato. In Egitto c’è un solo faraone, così come in Cina c’è un solo imperatore. Il sistema dominante nel modello baathista è quindi quella di un complesso autocratico baathista-­‐militare-­‐mercantile, nel quale la retorica del baathismo (in primo luogo l’arabismo) svolge funzioni analoghe a quelle del discorso religioso. Il conflitto tra questo modello di potere autocratico e l’Islam politico è quindi più violento, poiché l’integrazione fra le due forze nella versione post-­‐nasseriana è più difficile. Il modello baathista, proprio perché almeno all’inizio disponeva di una reale struttura partitica, è ‘più efficiente’ nell’esercizio della sua dittatura: normalizzazione delle organizzazioni politiche dissidenti (come alcune correnti del comunismo siriano e iracheno), annientamento degli avversari (borghesi liberali, comunisti refrattari, Fratelli musulmani), controllo assoluto delle organizzazioni sociali (con la soppressione di qualunque attività di base, ad esempio nei sindacati, mentre in Egitto il regime è sempre stato costretto a scendere a patti con queste organizzazioni). Le debolezze del sistema riguardano altri fattori, non meno obiettivi, in particolari attinenti ai particolarismi regionali e alla diversità etnica e confessionale dei due paesi. Una diversità che è stata gestita in modo discutibile – ed è il meno che si possa dire – e in ogni caso nel disprezzo assoluto dei principi della democrazia. Le qualità e i difetti personali dei capi supremi hanno avuto un peso determinante: un leader intelligente, paziente, diplomatico – Hafez El Assad – in Siria, che ha dovuto fare i conti con l’espansionismo israeliano, di cui ha saputo limitare le ambizioni strategiche con una scelta di resistenza tenace e senza cadere nelle illusioni della ‘soluzione negoziata’ sotto l’egida della diplomazia americana. Una serie di militari assassini – da Abdel La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 29 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Salaem Aref a Saddam Hussein – in Iraq, che hanno portato il paese alla tragica situazione in cui si trova oggi. Il populismo originario non esiste più. Il complesso militare-­‐mercantile si è avviato sulla strada di una ‘infitah’ inconfessata ma visibile agli occhi dell’opinione pubblica. La legittimità e la credibilità del progetto sociale originario, e del discorso panarabo che lo accompagnava, sono di fatto largamente superate. Le lotte politiche e sociali riprendono vita. La firma da parte di mille intellettuali siriani di una petizione, che non è stata seguita da repressioni (fatto del tutto nuovo), in favore della democrazia indica forse un nuovo punto di partenza. L’Algeria invece ha conosciuto una storia del tutto diversa. La lotta di liberazione nazionale ha preso qui un’altra dimensione in quanto condotta dal Fronte di liberazione nazionale (Fln), un partito autentico, forte, sotto questo punto di vista simile ai partiti comunisti della Cina o del Vietnam, pur distinguendosene quanto all’ideologia (ridotta, di fatto, alla rivendicazione nazionale), al progetto sociale (o piuttosto alla sua assenza) e quindi al contenuto sociale del potere che ne sarebbe derivato. Si può dire inoltre che la coscienza nazionale è stata in questo caso il prodotto di questa lotta, e che di conseguenza nazione algerina e Fln sono diventati sinonimi. Il dramma trova la sua origine nella rapida sostituzione – dal luglio 1962, forse anche prima, e poi all’epoca di Boumedienne – del Fln con l’Aln (l’esercito, un esercito di frontiera che non aveva rappresentato l’asse centrale della lotta dell’Fln). Posto al vertice del potere, centro esclusivo delle decisioni finali, l’esercito ha privato l’Fln della sua legittimità e credibilità. Il populismo algerino non è sopravvissuto a Boumedienne. Scegliendo Chadli come successore, l’esercito cessava di essere unito e disciplinato, e ognuno dei suoi generali si impadroniva – sull’esempio del modello mamelucco – di una parte dei poteri militari-­‐mercantili. L’Algeria entrava in un periodo di disordini, di acuti conflitti politici e di lotte sociali, che avrebbero avuto conseguenze terribili (questa è la realtà fino a oggi) anche se non mancano i segni positivi (e non si tratta di semplice ottimismo). Il popolo algerino, infatti, aspira alla democrazia politica e sociale più di qualunque altro popolo arabo. Un’aspirazione che risale probabilmente all’epoca coloniale, all’ambiguità della sua cultura dominante, alle forme di resistenza che ha prodotto. Un’aspirazione che il populismo dell’Fln dei momenti migliori durante il potere di Boumedienne non ha potuto realmente controllare. Del resto la carta costituzionale algerina del 1964 (copia conforme di quella nasseriana del 1961), rivista nel 1976, afferma alcuni grandi principi che mirano a riconoscere determinati grandi interessi sociali di cui non si voleva ammettere il carattere conflittuale. Si dovevano quindi riconoscere altre ‘centrali del potere’ (all’egiziana). I sindacati operai in primo luogo, importanti, attivi e rivendicativi (almeno alla base), frequentati da militanti ribelli alle direttive imposte dall’alto. Queste istituzioni, poco disposte a sottomettersi all’Fln, hanno ripreso vita nel corso degli ultimi anni: si contano ormai ogni anno diverse migliaia di scioperi e di ‘agitazioni’. Al contrario, il mondo contadino, oppresso e distrutto dalla colonizzazione e dalla guerra di liberazione, non è riuscito a imporsi come forza autonoma, nonostante le speranze riposte negli anni Sessanta nell’‘autogestione’ dei patrimoni ripresi ai coloni. La ‘rivoluzione 30 agraria’ proclamata da Boumedienne è stata un processo dall’alto, che non si è basato su alcun movimento contadino. Questo ha permesso di ‘cancellarla’ allo stesso modo in cui era stata ‘promossa’, senza alcun clamore. In mancanza di una vera rivoluzione, la questione contadina si esprime attraverso la diversità etnica – con la presenza costante del problema berbero. Ma anche in questo caso la gestione deplorevole di questa diversità reale con una politica di arabizzazione mal concepita e con la negazione permanente del problema (nella tipica tradizione dei poteri autocratici), ha avuto solo il risultato di far esplodere il problema. Un altro segnale di crisi è stata l’esplosione del 1988, provocata dalle popolo minuto delle città e in particolare dai giovani emarginati, senza speranze, le cui condizioni peggioravano via via che le nuove politiche ‘liberali’ abolivano le eredità del populismo sociale. Non si è trattato quindi di una rivolta della ‘classe operaia’ né di una ‘rivolta contadina’ né, tanto meno, di un movimento di rivendicazione di democrazia politica delle classi medie e degli intellettuali, ma di un’esplosione delle nuove vittime del capitalismo contemporaneo, che non avevano alle spalle una tradizione organizzativa né un patrimonio ideologico. Si capisce allora perché questa esplosione, che ha imposto il ritorno alle elezioni (quelle del 1992), abbia prodotto una situazione senza vie di uscita. Di fatto i responsabili della ‘corrente islamista’ hanno capito che tutte le loro possibilità risiedevano in questo elemento: un elettorato infuriato, che sceglie di dire ‘no’ al potere dicendo ‘sì’ ai fondamentalisti islamici. Questi ultimi rappresentavano un’alternativa – l’unica visibile. Ma il potere che, fortunatamente, aveva scelto di contrastare questa situazione, si è rivelato, purtroppo, incapace di riformarsi o non ha avuto alcuna intenzione di farlo. Così l’Algeria è entrata nella spirale infernale di due avversari che lasciavano al popolo un’unica scelta: ‘o loro o noi’. Non è necessario parlare degli omicidi, rivendicati dai fondamentalisti, delle personalità che avrebbero potuto incarnare la terza e unica scelta valida – giornalisti, professori e artisti democratici. Inutile ricordare che gli abitanti massacrati dei villaggi della Mitidja permettono agli speculatori dell’agro-­‐business di ‘ricomprare’ – a prezzi bassissimi – le loro terre migliori. Meglio di molte analisi di esperti stranieri, la lettura dei romanzi di Yasmina Khadra15 permetterà di capire la natura della logica dettata dalle scelte dell’Islam politico. L’esplosione del 1988 aveva però provocato un tale trauma che già nel 1989 la legge autorizzava la ricostituzione della vita politica. Ciò ha portato alla nascita di cinquanta partiti politici e di 55.000 associazioni. Ciò significa, al di là delle cifre che possono disorientare l’osservatore, che la volontà di democrazia politica e sociale e la possibilità oggettiva della creazione di una ‘terza forza’ è potenzialmente molto forte e non si è realizzata fino a oggi per ragioni difficili da accettare: a causa dei conflitti personali tra i vecchi ‘leader storici’ tornati alla ribalta. Le numerose associazioni che lottano effettivamente sul terreno delle rivendicazioni democratiche e sociali – per la difesa dei diritti dell’uomo, contro la tortura e i sequestri, per la revisione del diritto di famiglia, per i diritti culturali dei popoli berberi, ecc. – non costituiscono un’alternativa alle carenze strutturali dei dirigenti. E altrettanto si può dire per quanto riguarda lo sviluppo di quelle lotte operaie cui abbiamo accennato in precedenza. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 31 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Quello che manca, purtroppo, è una tribuna unificata dalla quale si possa elaborare un’alternativa in tutte le sue dimensioni: definizione di un’autentica politica economica e sociale di sviluppo (che non sia semplice retorica o espressione di una nostalgia populista); di una idea moderna di nazione, al tempo stesso araba e rispettosa della realtà berbera; dei termini di compromesso tra gli interessi conflittuali delle classi e dei gruppi sociali; del ruolo dello Stato, definizione dei rapporti con il sistema mondiale. Insomma, gli argomenti non mancano! Il Sudan è caratterizzato da due contraddizioni di fondo che non hanno ancora trovato una soluzione – e non la troveranno – attraverso la politica della violenza cui si è fatto ricorso nell’ultimo mezzo secolo. Del resto l’Islam politico – al potere in questo paese – ha dimostrato di non riuscire a venirne a capo da solo. La prima di queste contraddizioni contrappone il mondo rurale del Nord arabo-­‐islamico al mondo urbano. Le campagne sudanesi sono fortemente inquadrate all’interno di due confraternite – gli ansar e i khatmia – sulla base di un modello che dal Senegal al Mar Rosso domina tutto il Sahel africano. I due grandi partiti politici (i mahdisti e il Partito nazionale democratico), che si sovrappongono alle due confraternite (e costituiscono l’Islam storico esistente in Sudan) sono di conseguenza sicuri della loro vittoria in ogni competizione elettorale, anche se non hanno altro programma da quello della gestione della società così com’è. La città al contrario è estremamente progredita: potenti sindacati operai (in particolare quello delle ferrovie, un settore vitale in questo grande paese), movimenti studenteschi di avanguardia, organizzazioni professionali della classe media attive e democratiche (un’eccezione, o quasi, nel mondo arabo), un grande sviluppo della vita associativa e democratica, movimenti di donne, una forte influenza del Partito comunista. Si tratta di una contraddizione insolubile, che provoca l’alternarsi di dittature militari, accettate dalle due confraternite, e di movimenti democratici popolari. La seconda contraddizione contrappone, in questo paese di 30 milioni di abitanti, il Nord arabo-­‐
musulmano al Sud che non lo è (tra un quarto e un terzo della popolazione). Contraddizione che i governi riescono a gestire solo attraverso un clima di guerra permanente. Eppure non sarebbe difficile offrire a questa contraddizione una soluzione basata sulla democrazia, sull’autonomia locale e sul riconoscimento delle diversità. Soluzioni del resto raccomandate da tutte le forze democratiche del Nord, in particolare dal Partito comunista, e applicate da queste organizzazioni nei brevi momenti (mai più di pochi mesi) in cui sono state al potere, per essere poi rimesse in discussione con il ritorno delle forze reazionarie. Soluzione raccomandata anche dalle forze politiche del Sud, il cui esercito diretto da John Garang si chiama – non a caso – Sudan People Liberation. L’ascesa dell’Islam politico è risultata dal lassismo prodotto dalla ripetizione dei fallimenti, dall’arrivo massiccio di fondi di origine saudita (attraverso una potente classe mercantile legata alle confraternite) e dal genio tattico di un folle dalle ambizioni smisurate e avido di potere, Hassan Tourabi. Stringendo alleanza direttamente con la dittatura militare (di Numeiri e poi di Beshir), scavalcando le confraternite, Tourabi sognava (o faceva finta di sognare, volendo in realtà solo il potere) di ‘purificare’ l’Islam storico del paese per ‘wahhabizzarlo’ (da ciò il sostegno saudita). 32 I mezzi adoperati dalla dittatura militare islamica si consideravano quindi ‘moderni’ e volevano farla finita con la ‘tolleranza’ dell’Islam storico delle confraternite. Da ciò la serie di leggi scellerate che hanno vietato la libera attività sindacale (1992), controllano la vita associativa (legge del 1995, in particolare riguardanti le associazioni incaricate di interventi umanitari in questo paese devastato dalla guerra e dalla carestia), istituiscono la censura della stampa (1996), ecc. Ma tutti questi tentativi di sostituire alle organizzazioni democratiche una rete di nuove istituzioni, di carattere ‘moderno’ – in realtà controllate dal potere personale di Tourabi – non hanno dato alcun risultato. Le poche Ong (organizzazioni non governative) che sembrano sopravvivere al massacro sono ormai completamente controllate dalle confraternite! A quanto pare, l’azione economica e sociale del regime non poteva non terminare con un disastro: completamente sottoposto alle logiche del liberalismo globalizzato ed esasperando fino al grottesco l’affarismo dei clan militari islamici, l’Islam politico al potere non ha prodotto altro che un terribile aggravamento di tutti i problemi. Il regime ha risposto a questa deriva con una politica del ‘laisser aller’, non facendo nulla per impedire la guerra nel Sud, lasciando che tutte le province – a maggioranza musulmana – dell’Ovest (Kordofan, Dar Four) e dell’Est (Kassala) si governassero da sole in una situazione di semi-­‐secessione. Il regime ormai si preoccupa solo di salvare le apparenze, conservando il potere nella capitale e nelle campagne vicine. Per questo motivo la sua realizzazione principale è la creazione di reti di ‘difesa popolare’ e di ‘sicurezza studentesca’ reclutate nel proletariato – sull’esempio dei pasdaran iraniani – incaricate di terrorizzare la popolazione. Tutto ciò comporta un’applicazione rigida della sharia nelle sue disposizioni più discutibili (amputazione per i ‘ladri’ – quelli di poco conto ovviamente), condanna a morte del teologo musulmano della liberazione Sheikh Mohamad Mahmud Taha (nel 1977) e così via. Il tallone di Achille del sistema è la sua assoluta mancanza di una qualunque forma di legittimità in grado di assicurare la sua successione politica. Al contrario dell’Iran dove la ‘wilaya al-­‐faqih’ è sostenuta da una vera e propria chiesa nazionale (in questo caso sciita) che rappresenta l’istituzione dominante dello Stato, al contrario dell’Arabia Saudita la cui monarchia unisce la legittimità tribale e quella della versione wahhabita dell’Islam (o del Marocco la cui monarchia è al tempo stesso nazionale e religiosa), in Sudan un potere islamico diverso da quello delle confraternite avrebbe molta difficoltà ad attecchire. Tuttavia l’opposizione democratica non è morta. È sopravvissuta a tutte le brutalità dell’Islam politico. Ma i suoi responsabili hanno dovuto prendere la strada dell’esilio. L’Egitto – che non ha mai considerato i sudanesi come stranieri e che quindi ha sul suo territorio almeno due milioni di sudanesi (per lo più sono semplici lavoratori che fuggono dal crollo della vita economica nel loro paese) – ospita l’Alleanza democratica nazionale sudanese, costituita all’Asmara nel 1995 e che raggruppa tutti i partiti e le organizzazioni vietati a Khartum. Tuttavia questo fronte, potenzialmente molto forte, non ha un programma in grado di coordinare le varie lotte – disorganizzate ma continue nel paese – e di fornire loro la capacità di creare un’alternativa credibile. La monarchia del Marocco, fondata su una duplice legittimità, nazionale e religiosa, ha consentito grandi progressi democratici, che saranno garantiti finché saranno sostenuti dal re. Progressi che La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 33 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino hanno soprattutto il vantaggio di non essere una minaccia né per le classi dominanti locali né per il sistema mondiale. Tuttavia, la crescente contraddizione fra le speranze alimentate da questi progressi e le manifestazioni della crisi sociale – che le scelte politiche compiute in questo regime democratico non permettono di attenuare – è destinata prima o poi a scoppiare. Mentre altrove – in Egitto, in Tunisia, in Iraq – le lotte di liberazione nazionale erano costrette a prendere le distanze o a entrare in conflitto con le monarchie locali, in Marocco le cose sono andate diversamente. Da un lato c’è l’Istiqlal, l’ala conservatrice del movimento a lungo al potere e mai del tutto emarginata, che si è sempre limitata a rafforzare la sovranità del Marocco e della sua monarchia. Dall’altro lato, l’ala modernista – che non ha mai criticato apertamente la monarchia – ha una forte base nel paese, rappresentata: dai sindacati operai rimasti molto attivi nonostante la liberalizzazione economica e la disoccupazione, e capaci di conservare la loro autonomia nei confronti dello Stato (che non ha mai cercato di controllarli, non essendo uno Stato populista) e dei loro alleati e sostenitori politici (l’Unfp diventato Usfp e il Partito comunista diventato Pps); da una classe media in espansione, che aspira di arrivare ad avere una parte del potere monopolizzato dal Maghzen (la ‘Corte’), e dalla borghesia commerciale periferica, anch’essa esclusa dal Maghzen. Le fasi delle concessioni fatte dalla monarchia a queste forze sono note: dalle prime elezioni parlamentari del 1963 alle revisioni costituzionali del 1992 e del 1996; dalle prime esperienze ‘democratiche’ (cioè un governo formato sulla base di elezioni più o meno regolari) a quella che ha portato l’Usfp e il suo leader Abdel Rahman Youssofi al governo nel 1998, si ritiene che il sistema sia ormai diretto sulla strada di una monarchia parlamentare, che conserverà però il potere religioso. Del resto la stessa regina d’Inghilterra non è forse il capo della chiesa anglicana? Il potere marocchino non deve quindi fare i conti con gravi problemi politici. Le classi medie marocchine non hanno ‘problemi di identità’, come accade nella vicina Algeria. La diversità culturale-­‐etnica è stata gestita dal sistema marocchino senza provocare rotture nette nella nazione, secondo il principio tradizionale della dualità Maghzen (città e campagne limitrofe) / Bled Siba (campagne lontane dai centri abitati, per lo più di lingua berbera). Il re ha rinnovato i vincoli tribali nel rispetto dell’autonomia dei notabili locali. Promuovendo la cultura e la lingua amazigi, il sistema marocchino non ha mai concepito l’arabità, l’Islam e la realtà berbera come elementi contraddittori. In questo caso l’Islam politico si scontra con la legittimità religiosa del Maghzen, che finora non ha potuto mettere in discussione. Ma il potere è confrontato da problemi sociali sempre più gravi, poiché nessun governo, anche quelli che possono definirsi democratici, ha mai cercato di uscire dagli schemi del liberalismo globalizzato. Non è quindi un caso che anche qui le numerosi agitazioni interessino le masse povere urbane, la nuova classe delle vittime del capitalismo moderno. Tumulti contenuti o repressi con la violenza, nel silenzio delle principali forze democratiche; ma fino a quando? Lo sviluppo tumultuoso delle forme della vita associativa porta in sé i germi di un rinnovamento della dinamica democratica? È una questione che affrontiamo qui di seguito. 34 IV. Il ‘terzo settore’ della realtà sociale 1. Anche in questo caso si tratta di una di quelle espressioni messe in circolazione dalle mode che dominano il dibattito contemporaneo. Ma come tutte le altre espressioni – per le quali i sinonimi (come ad esempio quello di ‘società civile’) si succedono gli uni agli altri – anche questa è vaga, ambigua; fa riferimento ad aspetti della realtà che non sono nuovi e ad altri che lo sono, senza avere l’accortezza di distinguere gli uni dagli altri. Sappiamo grosso modo cosa vuol dire Stato e potere statale, e le relative istituzioni possono essere individuate con precisione. Queste comprendono non solo gli strumenti centrali e locali del potere legislativo, esecutivo e giudiziario, ma anche i mezzi della riproduzione della loro legittimità ideologica e culturale (fra l’altro le strutture educative e i media che dipendono dai poteri pubblici). Questo sarebbe, secondo la suddetta terminologia il ‘primo settore’ (la realtà sociale?). Si sa anche che cosa vuol dire, nel nostro sistema capitalistico, ‘mondo degli affari’, cioè l’insieme delle unità di produzione di beni e di servizi mercantili comandati dalla logica della produttività e del profitto e fondati sui principi dell’economia capitalistica (la proprietà privata, il diritto di impresa, la concorrenza sui mercati). La contabilità nazionale definisce le frontiere di questo ‘secondo settore’ (la realtà economica?), ne misura il volume e ne descrive l’evoluzione. Ma è evidente che la realtà sociale non può essere ridotta ai due poli che costituiscono lo Stato e il settore privato (se questo è il nome che diamo alle unità che compongono l’economia capitalistica). La vita politica e sociale degli individui e dei gruppi si esprime anche con altri mezzi, attraverso altri modi di organizzazione, formali e informali. Questa constatazione – valida in tutti i tempi e in tutti i luoghi – non meriterebbe neppure di essere definita come la ‘scoperta’ di una nuova realtà cui si dà il nome di ‘terzo settore’, – come se si trattasse di un insieme omogeneo e coerente al pari delle altre due – se dietro questa innovazione del linguaggio non si profilasse una strumentalizzazione e un’ideologia che bisogna individuare e decostruire. La contabilità nazionale permette infatti di dividere il prodotto nazionale (e la spesa) tra lo Stato, l’impresa privata e un terzo settore, quello della ‘vita associativa’. Si scopre così che in tutti i paesi capitalistici sviluppati (la ‘triade’: Stati Uniti/Canada, Unione europea e Giappone) questo settore associativo rappresenta all’incirca il 5% del Pil. Una media che inganna perché questo settore associativo – almeno in parte – è in concorrenza con attività simili condotte dai servizi pubblici. L’insegnamento o la sanità ad esempio, che in un paese possono essere di competenza esclusiva o principale del servizio pubblico, altrove possono dipendere dal settore privato di mercato o associativo. Tuttavia non sempre è facile fare la distinzione tra il settore privato di mercato – retto dal profitto – e il settore associativo (‘charity’ in inglese), che risponde a questo criterio. Infatti per i paesi della ‘triade’ il finanziamento delle attività associative è garantito solo per il 7% dai contributi dei membri delle organizzazioni interessate e dalle donazioni dei benefattori privati, e per il 45% dalle sovvenzioni dello Stato e per il 47% dal prodotto delle vendite di servizi offerti dalle associazioni in questione (Lester Salamon). La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 35 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino L’ampiezza delle attività di questo ‘terzo settore’ dipende quindi dalle idee che si attribuiscono alla natura dei servizi – che possono essere resi dal servizio pubblico, dalle organizzazioni associative o dall’impresa commerciale – dai ‘pro’ e dai ‘contro’ relativi a ciascuna delle tre scelte possibili. 2. Da questo punto di vista, uno sguardo alla storia passata e recente è più istruttivo della lettura della retorica ideologica ‘antistatale’ di cui si alimenta la cultura dominante. Nelle società premoderne europee e nel mondo islamico le chiese o le istituzioni islamiche avevano grandi responsabilità nel campo dell’istruzione e della sanità. Le istituzioni religiose disponevano infatti di proprie risorse (semi fiscali). Lo stesso si poteva dire per le corporazioni di mestieri, attraverso le quali si trasmettevano le conoscenze tecniche. La laicizzazione del moderno Stato europeo e l’espansione di servizi commerciali non hanno cancellato questo ruolo delle chiese. Nei paesi in cui la riforma protestante ha trionfato le chiese sono state ‘nazionalizzate’ – quasi ‘statalizzate’ – conservando in questo modo parte delle loro funzioni, finanziate però con le sovvenzioni pubbliche che si sono sostituite alle precedenti risorse proprie (anche a quelle provenienti dallo sfruttamento dei possedimenti agricoli di cui la chiesa fu espropriata). Nella stessa Francia, dove la rivoluzione laica fu più radicale, la chiesa ha conservato fino agli inizi del secolo XX il quasi monopolio sull’istruzione elementare e conserva ancora la gestione di una parte dell’insegnamento, ormai sovvenzionato dallo Stato. Divisa tra il servizio pubblico e l’esercizio mercantile della libera professione medica, la sanità è diventata un servizio pubblico solo con la generalizzazione del Welfare State, dopo la seconda guerra mondiale. A sua volta, la forma puramente mercantile della fornitura di questi servizi era rimasta del tutto marginale fino all’offensiva neoliberale degli ultimi vent’anni. La situazione era diversa negli Stati Uniti, dove le ‘comunità locali’ (anch’esse spesso confuse con le varie comunità religiose) e il settore privato di mercato hanno sempre assicurato la maggior parte dei servizi in questione. Il mondo arabo e islamico ha conosciuto una storia del tutto analoga e l’eredità di questi antichi sistemi si fa sentire fino ai giorni nostri. L’istituzione religiosa – in mancanza di organizzazioni proprie simili a quella delle chiese cattolica od ortodossa – era ampiamente subordinata al potere dello Stato, del califfo o dei sultani locali. Laddove questa istituzione si è data una forma simile a quella della chiesa – ad esempio nell’Iran sciita – questa è stata posta sotto lo stretto controllo dello Stato (a partire dai sefevidi nel secolo XVIII). La rivoluzione islamica iraniana ha semplicemente rovesciato i rapporti sottomettendo lo Stato all’istituzione religiosa. Nel mondo sunnita l’assenza di un’autonoma organizzazione caratteristica dell’istituzione religiosa ha favorito la moltiplicazione di ‘confraternite’ – sufi o altro – che hanno cercato di rendersi autonome rispetto al potere dello Stato, il quale le ha sempre combattute o neutralizzate. Anche nella laica Turchia kemalista l’istituzione islamica è stata statalizzata e non soppressa o ‘ignorata’ come spesso si scrive. In questo senso il kemalismo perseguiva gli stessi obiettivi del sultanato ottomano: strumentalizzare la religione e sottometterla ai suoi obiettivi. 36 Nulla di tutto ciò è scomparso nel mondo arabo e islamico contemporaneo, né in seguito alla colonizzazione in Africa del Nord né per opera dei regimi ‘borghesi’ del periodo tra le due guerre in Egitto e in Mashrek16 o dei successivi regimi populisti della seconda metà del XX secolo. In Marocco ci sono ancora più di cinquemila habou (l’equivalente dei waqf del Mashrek) – grandi proprietà di manomorta – i cui redditi costituiscono la fonte principale del finanziamento dei servizi al di fuori della sfera statale. Ribattezzate Ong, le ‘associazioni’ in questione non sono altro che le eredi degli antichi habou. Anche in Sudan dietro la maggior parte delle Ong, che distribuiscono i servizi sociali, si distinguono le due grandi confraternite (gli ansar e i khatmia), ridefinite ‘partiti politici’. I tentativi del potere ‘islamico’ fondamentalista e la volontà di ignorare le confraternite non hanno dato grandi risultati. Nei paesi del Mashrek i regimi del nazionalismo populista hanno soppresso i waqf (come era avvenuto nella Turchia kemalista) ma hanno anche statalizzato l’istituzione islamica. I regimi di questo nazionalismo populista avevano ovviamente dato allo Stato il monopolio del finanziamento dei servizi sociali, ma lo Stato stesso si integrava nell’istituzione religiosa, che all’epoca appariva sotto controllo. 3. Il momento attuale è caratterizzato da un’offensiva del capitale, che cerca di trovare nuovi spazi per la sua espansione, in particolare tra quelli gestiti finora fuori dal mercato dallo Stato o dalle istituzioni religiose e comunitarie, che rispondono solo molto imperfettamente ai criteri della ‘vita associativa’. Quale rapporto fra lo sviluppo di questa vita associativa (le Ong) – anch’essa integrata, dentro o fuori l’istituzione religiosa – e l’espansione dei valori e dei criteri dell’economia di mercato? Come si intrecciano o si contrappongono i concetti di servizio pubblico e quelli che definiscono la razionalità del mercato? Questi sono gli interrogativi che la retorica ‘antistatale’ maschera e che invece si devono affrontare apertamente. Su questo argomento i propagandisti della teoria liberale hanno idee semplici – e questo ne costituisce la forza – e tuttavia senza fondamento scientifico né base empirica. Secondo questo discorso le comunità (che definiscono il ‘mondo associazionistico’) e il settore privato di mercato sarebbero capaci, meglio delle strutture pubbliche, di fornire i servizi sociali richiesti dalla società. Lo Stato sarebbe infatti solo sinonimo di burocrazia irrazionale, spesso di tirannide, sempre fonte di sprechi indecifrabili poiché i costi dei servizi che gestisce sono diluiti nel bilancio nazionale. Al contrario, le comunità e, a maggior ragione, il settore privato di mercato saprebbero gestirsi meglio, visto che spendono denaro proprio. Saprebbero meglio adattarsi quindi alla varietà dei bisogni, essendo flessibili per natura. Il settore associativo e quello privato sarebbero perciò, al contrario dello Stato, un’espressione superiore dell’esercizio democratico, della trasparenza e della responsabilità (accountability). La democrazia di cui si parla è quella della libertà nel senso che Von Hayek dà a questo valore esclusivo; la libertà dei più forti, che ignora l’altro valore – quello dell’uguaglianza – senza il quale non c’è democrazia17. Ma Von Hayek è un libertario di destra e non un democratico. La realtà dimostra al contrario la superiorità incontestabile del servizio pubblico rispetto al settore associativo e soprattutto a quello privato (il confronto ha senso solo se i termini a confronto riguardano sono compresi nella stessa società o in società simili per quanto riguarda lo sviluppo La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 37 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino generale e la ricchezza). Le spese sanitarie, largamente privatizzate negli Stati Uniti, assorbono il 14% del Pil rispetto al 7% dell’Europa, i cui risultati misurati, in termini di mortalità infantile e di aspettativa di vita, sono molto migliori. E questo risultato si spiega proprio col fatto che in Europa la salute è soprattutto nelle mani del servizio pubblico. Senza contare le disuguaglianze, molto più evidenti negli Stati Uniti, i cui cittadini beneficiano di un diritto alla salute direttamente proporzionale al loro portafoglio. Viceversa, la privatizzazione della sanità garantisce alle industrie farmaceutiche e mediche e alle assicurazioni americane profitti molto più alti rispetto ai loro equivalenti europei. Si tratta di uno spreco la cui portata supera di gran lunga quella che si può attribuire alle burocrazie e agli abusi dei beneficiari della sicurezza sociale pubblica. Quanto alla trasparenza e alla responsabilità finanziaria, esse si possono garantire molto più facilmente dal servizio pubblico – che, per principio, in una democrazia effettiva può essere oggetto di indagini del Parlamento e di inchieste – rispetto al settore privato che si muove nel segreto del mondo degli affari. La cosiddetta teoria liberale in questo settore non è quindi né una teoria né il frutto di una constatazione empirica. È pura e semplice propaganda, nel senso più rozzo del termine. Le istituzioni che se ne fanno portavoce, come la Banca mondiale, non sono in realtà che una sorta di ministero della propaganda del grande capitale dominante. Dietro questa propaganda si profila il conflitto tra due concetti di gestione dei servizi sociali. Da un lato abbiamo il concetto britannico – che ignora il servizio pubblico – esportato e portato ai suoi eccessi negli Stati Uniti. Dall’altro quello del servizio pubblico, largamente dominante nella cultura moderna non solo in Francia ma anche nella maggior parte dei paesi dell’Europa continentale. Il concetto anglosassone subordina tutti gli aspetti della vita sociale alle esigenze prioritarie ed esclusive dell’espansione del settore gestito dal capitale. Il concetto franco-­‐europeo ne limita i danni. L’insistenza con cui finora ho descritto il sistema di valori, le concezioni relative ai rapporti tra economia (capitalistica) e società, le realtà empiriche attraverso le quali le diverse scelte si traducono in questi settori non è superflua: al contrario nei paesi arabi questi temi sono al centro di accese discussioni e dello scontro fra diversi progetti politici. V. Il mondo delle associazioni. Autentico sviluppo o apparenza? 1. Lo sviluppo improvviso e tumultuoso del mondo associazionistico negli ultimi vent’anni è in sé un fatto indiscutibile, sia nel mondo arabo che in qualsiasi altro paese. I dati quantitativi – molto approssimativi e sempre molto sottovalutati – avanzano la cifra di 55.000 associazioni (Ong) registrate in Algeria, 15.000 in Egitto, 18.000 in Marocco, probabilmente più di 100.000 in tutto il mondo arabo. Secondo i paesi, negli ultimi anni, queste cifre sono state moltiplicate per un coefficiente fra 5 e 10. 38 È chiaro che, tanto nel mondo arabo che altrove, la vita associativa non è un fenomeno nuovo. Nel mondo musulmano, i waqf18 (habou in Nord Africa) hanno rappresentato la principale forma di organizzazione collettiva, basata essa stessa su attività caritatevoli e servizi sociali (educazione, sanità). In Marocco, 5000 habou forniscono tuttora una quantità impressionante di servizi sociali. In un paese come il Sudan, le forme tradizionali di cooperazione del mondo agricolo, analoghe a quelle che troviamo in tutto il mondo africano, sono ancora correnti, per esempio, tra l’altro, il nafir (aiuto reciproco per il raccolto), il faza (lavori collettivi in caso di calamità naturali), l’ajawid (consigli collettivi che amministrano il diritto consuetudinario), il khalawy (educazione religiosa). La maggior parte di queste forme di vita associativa che ancora sopravvivono non sono mai state registrate in vista di un calcolo quantitativo del loro impatto sulla realtà. Un certo numero di queste antiche realtà sono impegnate in un processo di ‘modernizzazione’ e assumono la forma di ‘Ong’ dotate di statuto, bilancio, personale responsabile, ecc. Il movimento islamico, tra l’altro, ha scelto spesso di agire in tal modo nell’ambiente degli habou (Marocco) o delle Confraternite (Sudan in particolare). Inoltre, molte attività sociali – comprese quelle di natura politica – vengono condotte con modi organizzativi informali. In molti paesi arabi ci si può riunire senza che la polizia politica (presente in ogni paese) lo proibisca o lo reprima (accontentandosi di raccogliere informazioni). In Egitto in particolare (e sono davvero numerosi) sono di questo tipo informale la maggior parte dei ‘comitati di lotta contro la normalizzazione delle relazioni con Israele’, Ma non è così dappertutto: l’occhio vigile della polizia ne rende la pratica rischiosa in Tunisia, in Siria (è in corso un ammorbidimento), e chiaramente in Iraq. Come vedremo, c’è comunque qualcosa di qualitativamente nuovo e un certo numero di buoni studi sul campo forniscono valutazioni e analisi preziose su questo mondo di ‘Ong’. 2. Il ‘pubblico’ interessato dalle reti di Ong in questione è davvero così vasto come a volte si dice? Di che genere di ‘pubblico’ si tratta: sono autentici soci (più o meno attivi) o semplicemente ‘clienti’ (paganti) o ‘beneficiari’ (non paganti) dei servizi offerti dalle Ong? Valutazioni e giudizi variano moltissimo. Le Ong ‘intervistate’, danno chiaramente l’immagine più favorevole delle loro attività e del loro impatto. A sentir loro – sommando le cifre fornite dai responsabili ed estrapolandole – in Egitto, le attività delle Ong (organizzazioni che non siano partiti politici, sindacati, cooperative e le associazioni professionali di cui si è detto sopra), riguarderebbero tre milioni di cittadini. La cifra di dieci milioni per tutto il mondo arabo sembra plausibile. E questo non è di certo un fatto trascurabile. 3. Il volume di risorse finanziarie trattato dalle reti di Ong è poco conosciuto. Sebbene le Ong siano sotto stretta sorveglianza da parte delle autorità in tutti i paesi arabi, siano generalmente registrate da qualche parte (al ministero degli Affari Sociali o dell’Interno secondo il paese) e siano tenute a fornire informazioni sulle loro risorse e spese, non conosciamo le cifre statistiche globali La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 39 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino rappresentate dalle attività in questione. O, per lo meno, coloro che ne sono probabilmente a conoscenza (i servizi di sicurezza) le mantengono riservate. Qui, dunque, faremo soltanto valutazioni molto approssimative, partendo dai dati parziali forniti dai campioni intervistati qua e là. Considerando il mondo arabo nel suo insieme, esclusi Tunisia, Siria e Iraq (paesi in cui è praticamente impossibile condurre un’indagine sull’argomento), costatiamo una notevole dispersione del ventaglio delle Ong. La maggior parte di loro (tra il 60 e il 70%) sono molto piccole se non addirittura minuscole, considerato il volume finanziario che trattano (circa mille dollari l’anno). Ma per il 10%, le più importanti denunciano ‘cifre di affari’ di 200.000 dollari e molto più. L’estrapolazione in scala delle 100.000 Ong arabe darebbe un volume finanziario dell’ordine di due miliardi di dollari, cifra sicuramente molto al di sotto della realtà. 4. Il finanziamento di queste attività è anch’esso poco conosciuto (senz’altro tranne che dai servizi di sicurezza). Ci sono però indicatori sufficienti per potersene fare un’idea d’insieme corretta. Metà delle Ong ricevono sovvenzioni da parte dei propri paesi, sia sotto forma di contributi annuali e di finanziamenti per progetti, che con la messa a loro disposizione di personale dei servizi pubblici e di locali (un quinto dei casi studiati, considerando il mondo arabo nel suo insieme). Queste sovvenzioni non sono mai trascurabili rispetto alle risorse totali e possono arrivare a rappresentare la metà delle spese di alcune tra le più grandi Ong attive nella fornitura di servizi sociali (aiuti alle famiglie, educazione, sanità) o di ‘progetti di sviluppo’ urbani e rurali. La maggior parte delle Ong (la quasi totalità di quelle intervistate) ricevono sovvenzioni ‘private’ di origine domestica (cioè non straniera). Queste sovvenzioni raggiungono volumi considerevoli per quelle organizzazioni più grandi che operano nel campo dell’educazione, della sanità e di altri servizi ‘sociali’ o riconosciuti come tali. Queste sovvenzioni provengono sia dagli habou (è il caso del Marocco), sia dalla rete delle istituzioni economiche islamiche (la Banca Islamica per esempio), sia da ‘benefattori’ che in realtà sono i miliardari della rete Stato-­‐affari-­‐movimento islamico. Flussi provenienti dal Golfo petrolifero si inseriscono in questo insieme di sostegni di cui godono esclusivamente le organizzazioni connesse al movimento islamico. La terza fonte di finanziamento è costituita dalla vendita di servizi, da cui traggono profitti un terzo delle Ong, in particolare quelle più importanti che si occupano di educazione e sanità. Molte Ong, in realtà, portano avanti attività puramente mercantili, pur presentandosi come ‘benefattrici dell’umanità’. Anche in questo caso, a dominare la scena è la confusione con le attività politico-­‐
ideologiche del movimento islamico. Infine ci sono gli aiuti esterni, sia da parte di governi stranieri (o di istituzioni straniere) che da parte di istituzioni che rientrano nelle organizzazioni internazionali (Banca Mondiale, Programma di sviluppo delle Nazioni Unite e Cooperazioni europee in particolare). Queste fonti non sono censiti meglio delle altre forme di finanziamento anche se gli organismi donatori potrebbero farlo facilmente. Ne beneficiano un terzo delle Ong. Quali di loro si collocano nella rete della vita associativa? Nei paesi arabi i controlli delle autorità statali sono minuziosi e in linea di principio, 40 quasi dappertutto, le sovvenzioni straniere vengono sottoposte ad autorizzazione preliminare. I servizi di sicurezza quindi potrebbero – ma non vogliono – fornire questi dati significativi. Ma sembra proprio che il donatore principale, almeno per quanto riguarda l’Egitto, sia UsAid che gode di un regime ‘speciale’ con l’Egitto. Le sue sovvenzioni, sembra, vadano a un bel gruppo di Ong di media grandezza che si occupano della fornitura di servizi e di progetti di sviluppo, e sono ben viste dalle autorità (beneficiano anche di sovvenzioni pubbliche) e dal movimento islamico (cui un buon numero si riferisce apertamente). Sembra che i donatori che rientrano nella Comunità europea (in particolare i Paesi Bassi) siano più attivi in Nord Africa, Libano e Palestina. ‘Trasparenza’ e ‘responsabilità’ (accountability) non caratterizzano i finanziamenti delle Ong! Contrariamente a quanto sostiene la propaganda ufficiale, si tratta di un insieme di istituzioni e di attività notevolmente più oscure di quanto non lo siano le organizzazioni e le attività dei settori pubblici, i cui bilanci sono quantomeno pubblicati e disponibili. 5. Salvo qualche sfumatura per quel che riguarda Libano e Palestina, le Ong operano in tutti i casi sotto la stretta sorveglianza dello Stato. Nel mondo arabo non è in vigore il principio democratico secondo cui la creazione di associazioni è libera, con lo Stato che si riserva il diritto di intervento (che può arrivare fino al divieto) solo per motivi definiti per legge e sotto il controllo della giustizia. Qui al contrario, come regola generale, vige il principio dell’autorizzazione preliminare. Questo permette all’amministrazione di essere padrona del gioco attraverso i suoi cavilli burocratici (e alla polizia con metodi più brutali). Questi ‘cavilli’ – nel caso della Tunisia, della Siria e dell’Iraq – possono arrivare a rendere praticamente impossibile qualsiasi attività che non rientri nella linea di azione dello Stato. In Algeria, nello stato attuale di disorganizzazione del paese, le Ong sembrano bloccate. In Sudan, sebbene la dittatura ‘islamica’ sostenga di vietare tutto quel che non proviene direttamente da iniziative interne al proprio sistema, la rivolta latente si manifesta con la comparsa di organizzazioni – ‘illegali’ – che riescono a imporsi nonostante le violenze cui vengono sottoposti i loro militanti. Nei paesi in cui il potere sembra essere forte e stabile – Egitto e Marocco per esempio, o i paesi del Golfo –a dominare la scena è il compromesso: la maggior parte delle Ong infatti sono quelle che con una bella espressione inglese si chiamano: ‘Government sponsored Ngo’s’. O, quanto meno, si tratta di Ong tollerate, se non addirittura amiche – in Egitto quelle del movimento islamico – che in realtà non patiscono le vessazioni che affliggono quelle associazioni che cercano di essere indipendenti, critiche o addirittura militanti. Queste ultime però esistono, e il loro impatto sulla società non è trascurabile, almeno in Libano, Giordania ed Egitto; in misura minore in Marocco e in una situazione molto più drammatica in Tunisia. La legge – a dispetto della pretesa ‘democratizzazione’ – si è evoluta in senso negativo, restringendo sempre più le libertà. Anche quando non viene applicata rigorosamente, la legge è sempre sospesa come una spada di Damocle sulle teste di quelle attività che sembrano poter diventare ‘pericolose’. Per chi contravviene alle leggi e ai regolamenti sulle associazioni, sono previste pene severe – carcere incluso – anche per trasgressioni minori (un ritardo nel fornire informazioni, ecc.). La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 41 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino A questo proposito, l’esempio dell’Egitto è molto eloquente. La legge del 1945, sottoponeva le attività associative al diritto civile, permettendo in tal modo l’esercizio più o meno normale del diritto di associazione; questo in teoria più che in pratica poiché la legge marziale e le leggi eccezionali adottate con il pretesto dello Stato di guerra con Israele permettevano di fatto il controllo (‘anticomunista’) della polizia. Il regime nasseriano abolì la legge del 1945 e, con la legge del 1956, sottomise tutte le attività collettive e le associazioni all’autorizzazione preliminare, assicurandosi il loro controllo (da parte del ministero degli Affari sociali e dell’Interno) grazie a una clausola che la dice lunga: «queste attività devono rientrare nel quadro della pianificazione dell’azione sociale da parte dello Stato». La legge del 1964 aggravava la situazione, precisando le modalità del controllo diretto da parte dell’amministrazione, i cui rappresentanti era stabilito che sedessero negli organismi decisionali delle associazioni. La legge del 1994 ha ripreso e aggravato le disposizioni della legge precedente. Il nuovo progetto, elaborato dai servizi dello Stato nel 1999, è ancora in discussione ed è vivamente contrastato da molte associazioni. Se in Marocco, alla vigilia dell’indipendenza, la legge (del 1958) autorizzava in linea di massima la libera costituzione di partiti politici e associazioni, quella del 1973 mise le associazioni sotto controllo. Un controllo che è rimasto effettivo nonostante gli emendamenti costituzionali del 1992 e del 1996, che, quanto meno in linea di principio, rafforzano le libertà. Il Consiglio dei Diritti dell’Uomo, collocato direttamente sotto la responsabilità del re, consente, se necessario, un’interpretazione dei testi. 6. I campi di intervento delle reti di Ong sono vari; ma senza difficoltà possiamo classificarli sotto cinque voci generali: la prima categoria riguarda diversi interventi in campi che normalmente sono di competenza dei servizi statali (educazione, sanità, servizi sociali); essa assorbe la maggior parte dei mezzi finanziari del settore associativo nel suo complesso (più di due terzi). Le ricerche condotte sull’insieme dei paesi arabi permettono di quantificare approssimativamente l’entità relativa dei vari servizi sociali forniti da questo ‘terzo settore’ della vita sociale. In testa si trovano educazione e formazione, dalle elementari all’Università, e le varie formazioni professionali; subito seguite da tutti i servizi che riguardano sanità, cura dell’infanzia, pianificazione familiare e altri servizi sociali simili. Resta il fatto che non sempre è facile valutare la vera natura dei servizi forniti. Nella maggior parte dei casi – trattandosi in particolare di scuole, se non di università private il cui numero cresce di giorno in giorno (oppure di sedicenti istituti di formazione), di ospedali o centri di cura – risulta chiaro il carattere mercantile dell’operazione. Il motivo per cui queste attività vengono considerate rientranti nel ‘terzo settore’, e non nel semplice settore di mercato, è che esse sono portate avanti da associazioni che nel mondo arabo dipendono ampiamente da interventi del movimento islamico, mentre le altre – in Egitto e in Libano – vengono portate avanti da associazioni religiose cristiane. In compenso, un certo numero di attività raggruppate sotto questa categoria rientrano più nel campo dell’assistenza, per non dire della carità: interventi in favore della ‘famiglia’, pianificazione e igiene familiare, protezione materna e infantile, sostegno per gli handicappati e per i vecchi, 42 bambini di strada, ecc. Le sovvenzioni pubbliche e quelle dei donatori stranieri intervengono più spesso in questi casi che nei campi propriamente detti dell’educazione e della sanità. Il fatto è che questi programmi vengono spesso concepiti – se non proprio per attirare i finanziamenti in questione – nei termini stabiliti dalle modalità per la ‘lotta alla povertà’. L’apporto dei movimenti fondamentalisti islamici – e spesso il loro controllo – risulta in questo caso ugualmente evidente; non viene del resto nascosto ma rivendicato. La seconda categoria, che riguarda le attività delle Ong associate a progetti specifici di sviluppo, interessa circa il 15% delle associazioni attive registrate. Per metà si tratta di progetti urbani (piccole imprese artigianali e cooperative, corsi di formazione professionale), per l’altra di progetti agricoli. Anche qui sembrano decisivi gli apporti pubblici ed esterni, mentre pare siano marginali quelli riferibili ai movimenti fondamentalisti islamici. La terza categoria riguarda le organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti: diritti umani in generale, diritti dei lavoratori in particolare o diritti e rivendicazioni delle donne. Nel caso dell’Egitto, bisogna segnalare che oltre alle classiche associazioni per i diritti umani, esiste una rete non trascurabile di associazioni che sostengono (anche giuridicamente) sia i sindacati operai che le cooperative agricole. Si tratta in questo caso di un bell’esempio, coraggioso, di comportamenti che assicurano un legame tra i professionisti intellettuali e le classi lavoratrici. Essendo impegnate in lotte vere, spesso difficili, sono queste le associazioni che più attirano su di sé gli sguardi inquieti del potere. Allo stesso tempo, sono quelle che possiedono minori mezzi finanziari, sia perché i contributi provenienti dall’estero vengono distribuiti con il contagocce, sia perché le stesse organizzazioni possono essere reticenti nel richiederli. Le autorità – quando non ne hanno create di proprie – hanno spesso tentato di rispondere alla sfida appoggiando la creazione di associazioni ‘moderate’. Queste ultime dispongono chiaramente di più mezzi, compresi quelli provenienti dall’estero. Il movimento islamico, che a lungo ha avuto atteggiamenti di condanna verso questi diritti, e ancor più verso i diritti delle donne (accusati entrambi di essere stati ‘importati’ dall’Occidente), in una seconda fase ha ritenuto utile dare luogo a interventi più sistematici in questi campi. Infine metteremo in questa categoria anche alcuni centri di studio, di riflessione e dibattito, importanti in una congiuntura come quella attuale segnata dalla povertà intellettuale, da un controllo sulle università e dalla restrizione delle loro libertà e dei loro mezzi. La quarta categoria di intervento si occupa più in particolare della difesa dei diritti – culturali se non proprio politici – di quelle che nel linguaggio internazionale vengono chiamate ‘comunità’, e talvolta ‘minoranze’, termini che le associazioni e le istituzioni in questione rifiutano di usare perché – giustamente – si considerano parte integrante dei segmenti di un’unica società nazionale. È il caso delle associazioni locali marocchine, molto numerose, e di quelle create per la promozione della cultura amazigi. Anche le chiese – quella copta per esempio – che si ritrovano in questo spirito, hanno cominciato a creare numerose associazioni che rafforzano i loro legami con i propri popoli. La quinta categoria, quella delle ‘associazioni di uomini d’affari’, costituisce un’autentica novità e in qualche paese arabo si sta sviluppando con successo. Si tratta di organizzazioni potenti. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 43 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 7. Conosciamo le argomentazioni avanzate dai difensori e dai critici del mondo delle associazioni in generale e di quello che si sta sviluppando in questi anni nei paesi arabi e altrove. Molte di queste argomentazioni vengono formulate in termini troppo generali perché possano servire alla discussione sulle prospettive che queste attività possono aprire, sui loro limiti nella situazione attuale delle società arabe contemporanee, sulle forze politiche che vi si sviluppano, sui margini di libertà consentiti dallo Stato autocratico, sui mezzi proposti per superare questi limiti. Avendo presenti questi problemi, farò alcune osservazioni di vario ordine, che mi sembra emergano dall’insieme degli studi e delle discussioni di cui sono a conoscenza. a. L’innesto dei temi ecologisti non ha attecchito nel mondo arabo. In nessun paese arabo di mia conoscenza, si riesce a trovare un solo ‘movimento ecologista’ che sia degno di questo nome. A eccezione forse di qualche organizzazione, conventicole prive di capacità d’azione reale, nate dal sostegno estero, e talora strumentalizzate da qualcuno. Questo non significa che la preoccupazione per l’ambiente sia completamente assente. Essa compare in alcuni progetti di sviluppo, ma – bisogna dirlo – solo grazie al sostegno estero, tanto in alcuni progetti statali che in un pugno di mini-­‐progetti di associazioni cui viene tributato un apprezzamento assolutamente sproporzionato. In ogni caso, sia nelle grandi scelte dello Stato, dei privati e del settore associativo, le preoccupazioni per l’ambiente restano all’ultimo posto. b. Il femminismo non è diventato una forza all’altezza della tragica sfida da cui le società arabe sono confrontate. Più di un secolo fa, Qassem Amin19 osava pensare e scrivere in Egitto che il grado di liberazione e progresso di una società, si misurava dalle norme riguardanti le sue donne; osava proporre riforme radicali della legge che sancisce queste norme (la sharia), criticare le interpretazioni religiose tradizionali che dominavano in questo campo. Idee che oggi vengono considerate ‘blasfeme’, vengono censurate dal sempre più potente Al Azhar e perseguite dalla giustizia. Questi dati ci dicono che i movimenti di protesta delle donne arabe si trovano attualmente in una congiuntura ideologica e culturale che ha fatto grossi passi indietro. Detto ciò, è importante non confondere gli autentici movimenti di lotta delle donne (vale a dire quei movimenti che si propongono di cambiare la realtà) con la «partecipazione delle donne allo sviluppo». A questo proposito, chi difende il sistema attuale, mette in evidenza ‘cifre’ che non significano nulla. Infatti, sia gli uomini che le donne ‘beneficiano’ degli interventi che riguardano l’educazione e la salute. Nel mondo arabo non siamo allo stadio afgano per cui alle donne vengono rifiutate le cure ospedaliere! Inoltre, gli interventi che riguardano la ‘famiglia’ in generale, i bambini, l’igiene, la pianificazione familiare si rivolgono soprattutto alle donne. Questi interventi però non mettono affatto in questione lo statuto subalterno della donna, le leggi che lo consacrano, i pregiudizi e le pratiche. L’intervento dei movimenti islamici in questi campi non ha fatto altro che peggiorare le cose. Gli studi condotti in Egitto su questo argomento dimostrano che questi interventi mirano a promuovere l’obbedienza delle donne alle leggi attuali in cambio di un piccolo miglioramento delle 44 condizioni materiali: ‘carità’ e non diritti. Il paradosso si spinge fino a concepire che alla direzione dei movimenti femminili debbano esserci… gli uomini (e generalmente dei religiosi)! Allo stesso tempo, il movimento islamico predica severità nell’interpretazione reazionaria della religione e della legge. E, purtroppo, in questo campo è riuscito a ottenere qualche risultato imponendo arretramenti sui precari progressi realizzati nel codice della famiglia. È riuscito a far ammettere il principio della ‘hisba’, ovvero il diritto di un qualsiasi individuo di denunciare un cittadino o una cittadina qualsiasi con l’accusa di apostasia ottenere che il tribunale imponga il divorzio alla coppia. È successo e continua a succedere! Negli ultimi quattordici secoli l’applicazione di questa interpretazione della legge religiosa non conosce precedenti! Esistono diverse categorie di ‘movimenti femminili’. Vi sono veri movimenti di lotta che conducono la loro battaglia nelle attuali condizioni particolarmente difficili, e ve ne sono altri che non ci provano neanche. È il caso di quelle ‘grandi’ organizzazioni presiedute generalmente dalla moglie del capo dello Stato. Esistono solo sulla carta, ma dotate di abbondanti risorse (sovvenzioni dello Stato, di UsAid e di altri donatori stranieri), queste organizzazioni perpetuano la tradizione di carità le cui manifestazioni sono quotidianamente magnificate da parte dei media. c. Si dice spesso che le iniziative delle associazioni si rivolgono a un pubblico ignorato dalle forme che dominano la vita e l’azione sociale: Stato, partiti politici, sindacati. Non c’è dubbio che le società arabe di oggi siano molto diverse da quelle di mezzo secolo fa. La crisi sociale – cioè la polarizzazione interna contemporanea a quella prodotta su scala globale dall’espansione del capitalismo e aggravata nell’attuale congiuntura liberista – si manifesta con il fatto che una parte, misurabile fra un terzo e metà della popolazione urbana non è integrato in quello che si definisce il settore ‘informale’. Inoltre, questa crisi produce un aumento della ‘povertà’, sia pure moderna, che colpisce – secondo i criteri della Banca Mondiale – più di un terzo della popolazione araba urbana. Questa povertà urbana moderna si aggiunge alla povertà rurale ‘tradizionale’ (ma che tradizionale non è, essendo anch’essa il prodotto della modernizzazione capitalista, in particolare delle sue scelte liberiste) che colpisce una porzione forse ancora più grande della popolazione delle campagne. Questo stato di cose pone il problema seguente: si deve mettere l’accento sull’esigenza di un’altra strategia economica, sociale e politica, mirante a riassorbire questa emarginazione, o si può accettarla, cercando solo di regolarla e gestirla? Il pensiero dominante lascia intendere che l’unica opzione ‘realistica’ sia la seconda. Al tempo stesso, questo pensiero trae da questa constatazione la seguente importante conclusione pratica: le forme ‘tradizionali’ di lotta sociale – che si sviluppavano nell’ambito di luoghi di lavoro identificabili e spesso circoscritti (la fabbrica, l’amministrazione, gli ordini professionali, le cooperative…) coinvolgono, a dir molto, solo metà della popolazione attiva. Per questa ragione avrebbero perso la loro efficacia, quindi la loro credibilità. Vero, ma solo in parte. Si aggiunge che le nuove strutture sociali mettono invece il luogo di abitazione – il vicinato – al centro delle esigenze della mobilitazione e dell’azione. Cosa non del tutto esatta. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 45 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino L’analisi di quel che avviene nella attuale sfera ‘informale’ si presta a commenti critici. Buona parte dell’azione delle associazioni si rivolge a queste aree sociali, è vero. Ma le ricerche condotte sulle loro attività dimostrano purtroppo che la partecipazione attiva dei beneficiari dei progetti non viene realmente ricercata. Nei casi esaminati in Egitto e in altri paesi, metà dei responsabili confessa di non cercarla nemmeno, mentre l’altra metà sostiene che la ‘consultazione’ (quasi in nessun caso la partecipazione diretta) degli interessati è difficile. A giustificazione di questi comportamenti vengono date spiegazioni molto banali: i destinatari sono ignoranti, non sanno cosa sia giusto per loro, ecc. È senz’altro per questo che i ‘movimenti spontanei’ che si sviluppano in quest’area, sono estranei alle associazioni e vengono accusati – a buon diritto – di essere ‘illegali’. L’idea della ‘azione dal basso’ (grass-­‐roots) rimane solo un idea. Non ci si deve quindi stupire se gli interessati si comportino da ‘clienti’, e rafforzino in questo modo i comportamenti di nepotismo dei dirigenti. Tali comportamenti portano alla ‘spoliticizzazione’ delle masse interessate e alla loro ostilità nei confronti della politica (così come è praticata nei rapporti tra le associazioni, o lo Stato, e le masse), riallacciandosi così alla tradizione del populismo autoritario di cui l’Islam politico ha preso il testimone. d. La maggioranza delle attività svolte in ognuna delle cinque categorie di intervento esaminate non sono indipendenti dallo Stato. La vita associativa è dunque ampiamente apparente. E dico non a caso la maggioranza perché, chiaramente, fanno eccezione alla regola le organizzazioni di lotta per i diritti umani, i diritti sociali e i diritti delle donne. Le ricerche quindi rivelano che la maggior parte delle associazioni della ‘società civile’ non si lamentano dello Stato. Fino al 70% di loro si ritengono soddisfatte del suo ‘liberismo’, e del livello del suo intervento di sostegno. A loro non interessa valutare – o quantomeno conoscere – il quadro politico in cui si inscrive la loro azione. Non criticano né il liberismo economico né la globalizzazione che ne costituisce l’orizzonte. Relazioni di autentica cooperazione tra diverse associazioni e lo Stato esistono, e non implicano solo il sostegno finanziario pubblico, ma anche la progettazione delle azioni, elaborate di comune accordo con quelle amministrazioni che vengono ritenute competenti in materia. Questa perdita di autonomia non è sentita, in realtà, con fastidio, giacché forse è il prodotto dell’assenza di idee da parte dei dirigenti delle associazioni in questione, o anche dell’assenza, fin dal principio, di un’idea di autonomia. Le critiche rivolte allo Stato sono di importanza minore, riguardano essenzialmente la farragine delle procedure amministrative. Dietro a queste difficoltà che molti non esitano a chiamare ‘fastidi’, si profila l’autocrazia dello Stato che ben conosciamo. Non possiamo farci niente e ce lo dobbiamo tenere – dice la maggior parte degli intervistati. Anche i fondamentalisti islamici se ne rendono conto e sanno bene che lo Stato continua a non fidarsi di loro, pur rinunciando a impedire la loro espansione. Da parte loro, i fondamentalisti islamici non criticano né le scelte economiche liberiste, né l’autocrazia, parola di cui, peraltro, non intendono il senso. Si può parlare di complicità tra Stato e Islam politico? Il nasserismo aveva soppresso i Fratelli musulmani, ma aveva tollerato la loro esistenza di fatto sotto forma di una rete di associazioni 46 religiose che assunse il nome di ‘Jamaia Al Charia Li Taawun Al Amilin bil Kutab wal Sunna Al Mohamadia’ (Associazione per il sostegno della sharia e della Sunna). Associazione più grande di qualsiasi partito politico, con 3864 sezioni in Egitto, riconosciuta e sostenuta finanziariamente tra l’altro da UsAid e presentata come la faccia ‘dell’Islam moderato’ (e quindi partner e alternativa eventuale.) Questa organizzazione dirige un numero inverosimile di moschee (in Egitto ne sono state costruite più in vent’anni che in quattordici secoli), ne nomina gli imam (il che permette loro quindi di influenzare il pensiero più diffuso nel paese), gestisce scuole, asili nido, centri di cura, ospedali e confessa anche di continuare a dare il proprio sostegno morale e finanziario ai ‘combattenti afgani’ (i Taleban). Quest’ultimo punto, però, non viene molto pubblicizzato all’estero! e in molti dei casi che riguardano i servizi di educazione e sanità, l’indipendenza del mondo delle associazioni rispetto al capitale privato è decisamente dubbia. È anche vero che classificare questi servizi come associazioni è senz’altro improprio. f. I rapporti con gli organismi stranieri sono fondamentalmente paralleli a quelli che intercorrono tra le associazioni in questione e lo Stato. Essere più vicine allo Stato significa anche essere più vicine ai donatori, soprattutto ai più importanti (Banca mondiale, Undp e sistema delle Nazioni Unite, Comunità europea). Entrare in conflitto con lo Stato significa anche limitare i rapporti a qualche sovvenzione da parte di donatori stranieri più disponibili al senso critico. La dipendenza dall’estero di un folto numero di organizzazioni della società civile è un dato di fatto. Ma non si tratta esclusivamente, né principalmente, di dipendenza finanziaria, sebbene per alcune, essa non sia affatto trascurabile; si tratta prima di tutto di un ‘allineamento’ sulle strategie caldeggiate dalle grandi ‘agenzie’ straniere. Queste strategie vengono esposte secondo i multiformi e potenti mezzi che sono propri della globalizzazione liberista. Conferenze mondiali e vertici in campi tanto diversi quanto lo sviluppo sociale, l’ambiente, i diritti umani, i diritti delle donne, la popolazione, il razzismo, fanno da cassa di risonanza a temi ideologici e formulazioni politiche (‘policies’) elaborate altrove, nei centri di pensiero del capitale dominante. Sono temi formulati in ‘pillole di pozione magica’ (lotta alla povertà, liberalizzazione dello Stato, deregulation del mercato, ecc.), miseri e vuoti clichés, se li si giudica dal punto di vista scientifico, ma efficaci nella diffusione delle politiche che si cerca di imporre. La Banca mondiale, responsabile della diffusione di questi temi, agisce come una specie di ministero mondiale per la propaganda del capitale transnazionale dominante. Naturalmente, poi, le ricette riescono solo a produrre il contrario di ciò per cui vengono raccomandate (non fermano l’avanzata della povertà e della crisi economica e sociale), e benché producano quel che il capitale si aspetta da loro, cioè la crescita dei profitti (ma non si deve dire), devono essere rinnovate al ritmo delle mode, che, come si sa, invecchiano presto. Quelle organizzazioni della società civile che accettano di schierarsi dalla parte di queste strategie – nel mondo arabo e altrove – possono essere definite come strumenti ‘dell’esterno’, se si accetta l’idea che il capitale dominante a livello mondiale sia ‘esterno’. Questa forza esterna però agisce solo grazie ai suoi contatti interni, tra cui c’è lo Stato allineato con la globalizzazione liberista. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 47 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino L’accusa formulata dal potere, secondo cui le Ong costituiscono il cavallo di Troia dell’imperialismo è a dir poco farsesca. Perché il principale cavallo di Troia non è altro che lo stesso Stato autoritario mamelucco. In questo modo i ‘mamelucchi’ pretendono di riservarsi l’esclusiva di denunciare il tradimento nazionale. In realtà, le affermazioni dell’Islam politico che rivolgono questa critica agli organismi della società civile – essere cioè gli ‘alfieri dell’Occidente’– sono ugualmente farseschi perché nella pratica i fondamentalisti islamici accettano il liberismo globale. Quelli che rifiutano di schierarsi con queste strategie – gli organismi di resistenza e lotta della società civile – si inimicano contemporaneamente lo Stato, l’Islam politico e le suddette istituzioni straniere! Vero è che molti tra i responsabili delle Ong – in realtà una maggioranza – che trattano con queste istituzioni straniere non mancano di lamentarsi, chi della loro arroganza, o della loro incompetenza, poiché soffrono per i rapporti diseguali a cui porta la dipendenza finanziaria. Sono banali ovvietà. Questi motivi di irritazione non toccano il problema di fondo. La vera questione è: vengono accettate o criticate le strategie del capitale dominante espresse dalle scelte del liberismo globale? Vengono accettati o respinti i discorsi di propaganda in cui esso è impacchettato (l’inefficienza dello Stato, l’elogio incontrollato dell’efficacia della vita associativa come portatrice di democrazia, ecc.)? Vengono accettate o criticate le prescrizioni che esso propone (come la lotta alla povertà)? g. I problemi che riguardano la democrazia e l’efficacia della gestione si pongono allo stesso modo sia all’interno delle organizzazioni della vita associativa che all’interno dello Stato o delle organizzazioni di lotta politica e sociale (partiti, sindacati e altro). Esattamente nello stesso, identico modo. L’analisi dell’esperienza reale della maggioranza delle Ong arabe – ma anche delle altre – non autorizza certo conclusioni entusiasmanti. Chi dirige le Ong arabe? Innanzitutto gli uomini – fino all’85% – mentre le posizioni esecutive sono occupate al 50% da donne. Le donne che rivestono posizioni di comando si trovano esclusivamente nelle organizzazioni di lotta femminili. Altrove – le organizzazioni di ‘azione sociale’ e quelle sotto il controllo del movimento islamico – le rare donne vengono messe in mostra solo per far colpo sugli osservatori. I suddetti uomini, poi, sono pressoché inamovibili, visto che, certo, rivestono la loro posizione perché, a volte, ne hanno la competenza ma soprattutto e più spesso, perché – nonostante gli statuti prevedano sempre formalmente la loro elezione – hanno conoscenze (il potere, i donatori). I responsabili intervistati – quantomeno la maggior parte di loro – invocano come circostanze attenuanti le reali difficoltà con cui hanno dovuto confrontarsi: la difficoltà di trovare quadri nazionali competenti, e ancora di più da reclutarli, assistenza ‘tecnica’ straniera spesso deludente, (competenze discutibili sostenute solo dalla loro arroganza e dai vantaggi materiali di cui dispongono), volontariato inesistente (le condizioni di vita troppo difficili non lo permettono). È tutto vero: ma lo si può applicare tanto ai servizi pubblici quanto alle Ong. Dunque, signori, siate severi con voi stessi quanto lo siete con lo Stato che mettete sotto processo. Stesse cause, stessi 48 effetti. Le stesse ragioni che nei servizi pubblici sono alla base delle pratiche di nepotismo, quando non della corruzione, sono anche alla base di quegli stessi mali che ritroviamo tali e quali nelle organizzazioni della società cosiddetta civile. h. Su questo argomento, Libano e Palestina meritano un trattamento particolare. La società civile libanese è, ed è sempre stata, più attiva rispetto agli altri paesi arabi. Il motivo risiede semplicemente nel fatto che il paese è amministrato da un sistema decisamente meno dispotico che altrove, per ragioni, storiche e non, che qui non possiamo analizzare in dettaglio. Nel complesso delle organizzazioni formali e informali della vita politica e sociale di questo paese, si possono distinguere due sottoinsiemi ben riconoscibili. Una consistente maggioranza di quei servizi sociali che non rientrano in quelli garantiti dallo Stato (che sono estremamente poveri) o in quelli offerti dal privato commerciale (che sono relativamente più importanti che altrove) vengono forniti da organizzazioni confessionali (maronite, sciite, sunnite, ortodosse, druse ecc.). In compenso però, la vita politica, nel senso ampio della parola, quella cioè che muove i partiti politici, i sindacati e le associazioni professionali, le associazioni per la difesa della democrazia (diritti umani), le organizzazioni femminili e i gruppi formali e informali del mondo artistico e letterario, è assai lontana dall’essere monopolizzata dalle forze che dominano ciascun gruppo confessionale. Ciò non è sempre vero; esistono comunque anche alcuni partiti e alcune organizzazioni chiaramente e apertamente legati (anche nei loro programmi) al diversificato panorama confessionale. Ma a sinistra esistono forze reali che superano le barriere confessionali e, in più, sono mosse da una profonda consapevolezza di questa esigenza. Un esempio, che io sappia senza eguali nel resto del mondo arabo, è l’esistenza di un fronte organizzato comune dei movimenti democratici. Quali che siano i limiti e gli handicap del suo potere e della sua influenza tra il popolo libanese, questo esempio è comunque un potenziale portatore di sviluppi promettenti. La convergenza transconfessionale necessaria venne minacciata durante la guerra civile (1975-­‐
1985). A quel tempo le ‘milizie’ confessionali si erano erette a padrone assolute dei destini dei popoli per la cui difesa so erano formate. Per di più, la congiuntura lasciava che tutte le forze esterne al Libano operanti nella regione potessero intervenire in questo gioco complesso, a beneficio di interessi arabi, israeliani, occidentali. Il disastro fu parzialmente attenuato, però, dall’intervento della società civile, nonostante, per forza di cose, essa si fosse frammentata per la diversità delle confessioni. Vennero costituite comunità di vicinato che in breve tempo si dimostrarono efficaci di fronte alle necessità più urgenti: interruzione della distribuzione di acqua ed elettricità, chiusura delle scuole e dei centri di cura; smantellamento dei circuiti alimentari di base, sistemazione dei rifugiati. Il successo di queste azioni merita una riflessione, tanto più che questa nuova vita collettiva seppe distinguersi dalle milizie confessionali, preparando così la riconciliazione e la ricostruzione. Senza questa democrazia libanese, non capiremmo neanche come abbia potuto organizzarsi la resistenza all’invasore israeliano nel sud del Libano. Che Hezbollah ne sia stato il motore, dando il cambio ad altri soggetti che erano stati eliminati dai calcoli di potere di Damasco (la sinistra La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 49 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino libanese), non cambia le cose. Come non le cambia il fatto che Hezbollah abbia goduto di sostegno esterno – siriano e iraniano. Tutti i movimenti di liberazione sono stati accusati dagli imperialisti di essere ‘agenti’ delle potenze straniere. Tutti, in realtà, hanno beneficiato del sostegno esterno, di cui del resto è il caso di rallegrarsi. Nessuno, però, ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto vero del suo popolo. La resistenza nel Sud del Libano e l’ampio sostegno ottenuto in tutto il paese hanno dimostrato ai popoli arabi che la strategia del fermo rifiuto di accettare ‘il fatto compiuto’ e di partecipare ai ‘negoziati’ in posizione svantaggiata costituiva l’unica scelta efficace. Certo, in questo caso si tratta di una lotta di liberazione nazionale, ma per questa ragione non c’è motivo di escluderla dal quadro delle lotte in corso nel mondo arabo contemporaneo. Le lotte portate avanti dal popolo palestinese – la prima intifada (1987-­‐1991) e poi la seconda (iniziata dal 1998) – costituiscono chiaramente il quadro di analisi di tutte le lotte politiche e sociali in corso in Palestina. Il ruolo della società civile palestinese nell’organizzazione della sopravvivenza e dei suoi rapporti con l’Anp (Autorità nazionale palestinese) è definito dai caratteri della seconda intifada. 8. Il bilancio dell’azione della società civile araba che qui proponiamo, riflette in larga parte le conclusioni delle discussioni svolte dalle reti del Forum du Tiers monde e dei suoi partner, nonché la lettura di altri lavori sull’argomento. a. La società civile araba è, come altrove, il riflesso di ciò che sono lo Stato e la società politica nell’area. Contrapporre lo Stato e i partiti politici – decretati ‘cattivi’– alla società cosiddetta civile – che si suppone dotata di tutte le qualità che le attribuisce il pensiero dominante – è nel migliore dei casi un’ingenuità. Nel complesso, le azioni della società civile non si sono rivelate né più efficaci né meglio gestite di quelle offerte dai servizi pubblici. Esaminandoli caso per caso, si scopre che la maggior parte dei ‘progetti’ concepiti qua e là dagli uffici ispirati dai ‘finanziatori’ (la Banca mondiale in particolare) sono elaborati male, inadatti alle condizioni locali e non rispondono a problemi reali. I fallimenti non si contano più. Il paragone tra questi progetti e l’azione dei servizi dello Stato – a dispetto di tutto quello che in proposito si è potuto scrivere e dire di critico – risulta piuttosto favorevole a quest’ultimo. I risultati di questi progetti sono mediocri anche se si assumono gli stessi criteri di riferimento che ispirano la maggioranza di queste azioni. La povertà avanza. La parte di popolazione beneficiaria delle politiche messe in atto rimane minoritaria. E per quanto riguarda il loro ‘empowerment’, esso esiste solo nelle menti di coloro che ne parlano. Queste attività dunque, non sono nel loro insieme in alcun modo ‘più efficaci’ di quelle dello Stato, e neanche meno costose. Inoltre, non sono né trasparenti, né più ‘responsabilizzate’ (accountability). Anzi, lo sono meno di quelle del settore pubblico. Infine, non sono gestite né meglio, né più democraticamente. Non v’è dubbio che la critica di smodata ‘burocrazia’ rivolta allo Stato ha un fondamento. Dovrebbe però far sorridere conoscendo la burocrazia della Banca mondiale o dello Undp, con le loro tonnellate di formulari mal fatti, ideati da burocrati la cui arroganza è pari alla loro mediocre competenza. 50 b. Questa situazione si spiega con il fatto che le strategie fondamentali su cui si basano queste azioni – che sono le stesse dello Stato – sono in definitiva le strategie del capitale che domina su scala mondiale e locale, e non vengono in nessun modo in risposta ai problemi dei popoli. Queste strategie perseguono obiettivi ben precisi. Innanzitutto allargare la sfera dei rapporti commerciali per fornire al capitale più occasioni di ‘profitto’. La privatizzazione dell’educazione e della sanità risponde a questo scopo. Non diversa è la natura di quei progetti di ‘modernizzazione dell’informale’ che mirano ad accentuare la sua sottomissione articolata al settore ‘moderno’, per dare la possibilità a quest’ultimo di estrarre maggior plusvalore dal prodotto del lavoro che si presta nell’informale. Si tratta, in questo caso, dell’esatto contrario di quel che dovrebbe essere il rafforzamento di un’economia popolare. Perché esso dovrebbe prevedere preliminarmente il rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori in questione, e non cero il suo indebolimento con il pretesto della ‘deregulation’ in generale, e di quella del mercato del lavoro in particolare. Queste strategie si propongono, inoltre, di indebolire la società – in questo caso quella araba – riducendone così la capacità di negoziare i termini del suo inserimento nella globalità. Il mezzo più sicuro per farlo è indebolire la legittimità dello Stato. Se è vero che gli Stati autocratici tendono (almeno all’inizio) a essere iper centralistici, e quindi avrebbero bisogno di decentramento, tuttavia essi non possono dare i buoni risultati che ci si aspetta da loro se questo decentramento non si situa nella prospettiva del rafforzamento dello Stato (decentralizzato) e non del suo indebolimento. Infine si mira a dare ‘all’esterno’ – ovvero all’imperialismo – le possibilità di penetrare più a fondo nella società locale. Il finanziamento esterno (che promette sempre più di quanto veramente non dia) trova qui il suo spazio, facendo sì che gli agenti della società civile si trasformino in corrieri per la trasmissione diretta delle strategie del capitale dominante, saltando il passaggio obbligato per lo Stato. Mentre lo Stato democratico può essere un luogo di accumulazione di conoscenze e di esperienze, il puro e semplice trasferimento delle responsabilità alla società cosiddetta civile senza uno Stato, demolisce la costruzione di capacità locali durature. Ed è probabilmente questo che si cerca di ottenere. c. Quel che abbiamo appena detto riguarda soltanto l’insieme delle attività della società cosiddetta civile (e dello Stato) fondate sul (falso) principio cosiddetto consensuale, che si iscrive nella logica del liberismo dominante. Al contrario, le lotte politiche e sociali condotte con, contro o nei partiti, sindacati, associazioni professionali, organizzazioni di lotta per la democrazia, per i diritti dell’uomo, dei lavoratori, delle donne, aprono le prospettive di un’alternativa possibile. Questo lato creativo della società politica e civile impegnata nella lotta per la trasformazione dei rapporti sociali di forza, costituisce la base su cui può essere costruito un futuro diverso, più equo, che dia più libertà agli individui, ai popoli e alle nazioni. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 51 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino La congiuntura attuale, secondo un’opinione largamente condivisa, è caratterizzata dalla polverizzazione delle lotte politiche e sociali. Il vuoto ideologico prodotto dall’erosione e poi dal crollo dei progetti di partecipazione sociale del nazionalismo populista e dei socialismi ancora esistenti, toglie a queste lotte – nello stato attuale del loro sviluppo – la prospettiva di porsi come alternativa credibile. Del resto, il pensiero dominante le spinge a rinunciarvi del tutto e ad accontentarsi di ‘occuparsi del quotidiano’. Il pensiero postmoderno dà di questa ideologia della capitolazione una versione ‘dotta’, mentre quello del ‘buon governo’ (good governance), che ne è la versione volgare ‘in stile Banca mondiale’, mischia proposte inconsistenti e moralizzanti a proposito di pezzi parziali di problemi che riguardano la gestione amministrativa (denunciare l’irresponsabilità, il nepotismo, la corruzione… niente di più facile!) all’analisi del problema del potere reale nello Stato e nella società (la natura sociale dello stato autocratico). L’alternativa può essere costruita solo partendo dalle lotte concrete, la riflessione teorica non può sostituire l’assenza di discussione alla base. Sono indispensabili entrambe, ma acquistano efficacia solo insieme. ‘Ricomporre le lotte sociali (di classe)’ – che è l’obiettivo di questa dialettica – vuol dire riunire sulla base degli autentici interessi comuni scelti dai gruppi coinvolti, definire obiettivi graduali che permettano progressi e miglioramenti delle condizioni materiali e morali di questi gruppi e portare avanti la lotta con questa prospettiva. Cammin facendo, le lotte condotte in questo modo riusciranno a diffondere i comportamenti democratici necessari e daranno luogo a nuovi e autentici movimenti popolari. Nel mondo rurale, la visione strategica che qui viene suggerita parte dalla presa di coscienza degli effetti distruttivi che avrà, su tutta la società, la liberalizzazione dell’agricoltura messa all’ordine del giorno nel prossimo ‘Round’ del Wto (Organizzazione mondiale del commercio), la cui riunione è prevista a Doha nel Qatar (novembre 2001). La difesa del reddito dei contadini non interessa soltanto le classi rurali, perché essa soltanto può impedire il massiccio trasferimento della povertà delle campagne nelle città, i bassi salari e la sottomissione a una divisione internazionale del lavoro che riprodurrebbe e aggraverebbe la polarizzazione mondiale. Nella regione araba, in cui l’agricoltura esige il controllo dell’irrigazione, la ripartizione su scala nazionale dei suoi costi (si tratta quindi di macro-­‐economia e macro-­‐politica statale) è ineludibile. Qualsiasi progetto rurale di sviluppo che ignorasse la dimensione macro-­‐economica nazionale della gestione dell’acqua non ha la minima possibilità di progredire nella direzione necessaria. Nelle città, questa visione strategica implica il dare la priorità alla costruzione di un fronte che metta insieme i lavoratori dei settori moderni, più o meno organizzati o organizzabili, e quelli dell’informale. La nuova questione operaia non può essere definita in altro modo, considerando l’obiettiva e gigantesca trasformazione delle strutture del mondo del lavoro prodotta negli ultimi decenni dall’espansione del capitalismo polarizzatore. La rivendicazione democratica, in ogni suo aspetto, è al centro di qualsiasi strategia di trasformazione dei rapporti sociali di forza. Cancellarne la valenza politica, i diritti del cittadino, con il pretesto che sia prioritaria la soddisfazione dei bisogni materiali, vuol dire rimanere prigionieri dell’ideologia populista e dello Stato autocratico, infine autocondannarsi all’impotenza. È invece associando la battaglia democratica alla lotta sociale, che si può dare a queste due componenti di rinnovamento della vita sociale la loro autentica potenza creatrice. 52 L’emancipazione femminile non è più un ‘lusso’ superfluo. Essa, al contrario, si trova al centro della trasformazione culturale e politica senza cui non è possibile nessun cambiamento economico e sociale. Come Qassem Amin diceva più di un secolo fa, «il progresso della società egiziana passa per la liberazione della donna». Le lotte politiche e sociali in atto nel mondo arabo, hanno già dato inizio a cambiamenti positivi nell’equilibrio (in realtà, nello squilibrio) dei rapporti tra potere e società. Il potere si trova ormai sulla difensiva in campi sempre più numerosi. L’esempio più tangibile è l’Algeria. Per perpetuare il proprio dominio sulla società, il potere cerca di nascondere la propria effettiva capitolazione di fronte alla sfida della dittatura ‘liberista’ del capitale dominante, attraverso una retorica vuota, che sia quella del ‘nazionalismo’ (puramente verbale) o quella dell’autenticità dei valori e delle proprie specificità (idea dell’Islam politico). Il cammino verso il consolidamento di un’alternativa efficace esige la critica di queste idee. VI. Geo strategia e panarabismo. Nella geopolitica mondiale e nella geo strategia militare egemonica degli Stati Uniti, il Medio Oriente ha sempre occupato, e continua a occupare, una posizione particolare a causa della sua straordinaria ricchezza petrolifera, vitale per l’economia della triade dominante (Stati Uniti, Europa, Giappone). Per di più, all’epoca della guerra fredda, la sua importanza veniva esaltata dalla collocazione geografica sul versante sud dell’Urss. Dopo il crollo del regime sovietico, questo posto è stato preso dal Caucaso e dall’Asia centrale ex sovietica, regioni ricchissime di petrolio costituite in maggioranza da paesi musulmani, in cui le diplomazie di Washington e Mosca continuano ad affrontarsi. Il Medio Oriente costituiva, e costituisce ancora, una zona di primaria importanza (come i Caraibi) nella suddivisione geo militare americana che ricopre l’intero pianeta, il che significa che è una zona per la quale gli Stati Uniti si sono arrogati il ‘diritto’ di intervento militare. Come hanno fatto del resto durante la Guerra del Golfo (1990), approfittandone poi per mettere sotto un protettorato militare permanente i paesi interessati. In Medio Oriente, gli Stati Uniti agiscono in stretta collaborazione con i loro due fedeli e incondizionati alleati: Turchia e Israele. L’Europa si è tenuta lontana dalla regione lasciando che siano gli Stati Uniti da soli a difendere i vitali e globali interessi della triade, cioè i rifornimenti di petrolio. Nonostante alcuni segni di irritazione, in Medio Oriente gli europei continuano a navigare nella scia di Washington. Il populismo nazionale arabo non accettava questo stato di cose e ambiva a imporre alle potenze il riconoscimento dell’indipendenza del mondo arabo. Era questo il senso del ‘non-­‐allineamento’ sostenuto dai sovietici. Finita quell’epoca, il mondo arabo si ritrova senza una visione propria di quale sia il suo posto nel nuovo sistema mondiale. Questo è il motivo per cui i ‘progetti’ che riguardano l’organizzazione della regione vengono fatti altrove. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 53 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Gli Stati Uniti avevano preso di nuovo l’iniziativa avanzando l’idea di uno strano ‘mercato comune medio orientale’ in cui i paesi del Golfo avrebbero fornito i capitali, gli altri paesi arabi la manodopera a basso costo, mentre Israele si sarebbe occupata del controllo tecnologico e delle funzioni di intermediario obbligato. L’Europa, allora, ha tentato di reagire, proponendo a sua volta l’idea di una ‘partnership euro-­‐mediterranea’, che comprendeva sempre Israele, ma escludeva i paesi del Golfo, riconoscendo in tal modo che la loro ‘gestione’ dipendesse esclusivamente da Washington. Questi aspetti di geopolitica non possono essere ignorati dalla discussione sulle lotte politiche e sociali. L’espansionismo coloniale di Israele è una sfida reale e non il frutto della fantasia araba. Israele è l’unico paese al mondo che rifiuta il riconoscimento definitivo delle proprie frontiere (e a questo titolo non avrebbe diritto di far parte dell’Onu). Come gli Stati Uniti nel XIX secolo, Israele pensa di avere il ‘diritto’ di conquistare nuovi spazi per espandere la propria colonizzazione, trattando i popoli che vi abitano da mille e più anni, come Pellerossa da scacciare o sterminare. Israele è l’unico paese a dichiarare apertamente di non sentirsi obbligato dalle risoluzioni dell’Onu. La guerra del 1967, pianificata d’accordo con Washington dal 1965, aveva diversi obiettivi: innescare il crollo dei regimi nazionalisti populisti, rompere la loro alleanza con l’Unione Sovietica, costringerli a ricollocarsi nella scia americana e aprire nuove terre alla colonizzazione sionista. Nei territori conquistati nel 1967, Israele metteva dunque in atto un sistema di apartheid ispirato a quello sudafricano. All’accusa di razzismo, il sionismo, come sappiamo, risponde con il sistematico ricatto dell’antisemitismo e dello sfruttamento della ‘industria dell’Olocausto’. Israele quindi, per perseguire il suo progetto ha bisogno che il mondo arabo rimanga su tutti i piani il più debole possibile. Ed è qui che gli interessi del capitale dominante a livello mondiale si allacciano a quelli del sionismo. Perché la logica del progetto, del capitalismo reale ha sempre prodotto, e continua a produrre, la polarizzazione su scala mondiale. Lo sviluppo di una regione qualsiasi del Terzo mondo – in questo caso la regione araba – entra in conflitto con l’espansione mondiale del capitalismo reale. D’altronde, un mondo arabo ricco, moderno e potente rimetterebbe in questione il saccheggio da parte dei paesi occidentali delle sue risorse petrolifere, necessario all’indefinito proseguimento dello spreco tipico dell’accumulazione capitalista. Nei paesi della triade, i poteri politici, così come sono – ovvero servi fedeli del capitale transnazionale dominante – non vogliono un mondo arabo moderno e potente. L’alleanza tra le potenze occidentali e Israele è dunque fondata sulla solida base dei loro interessi comuni. Questa alleanza non è né il risultato del senso di colpa degli europei, responsabili dell’antisemitismo e del crimine nazista, né il risultato dell’abilità della ‘lobby ebraica’ di sfruttarlo. Se le potenze occidentali pensassero che i propri interessi sono danneggiati dall’espansionismo coloniale sionista, troverebbero immediatamente i mezzi per ovviare al loro ‘complesso di colpa’ e per neutralizzare la ‘lobby ebraica’. Poiché non sono tra coloro che credono ingenuamente che l’opinione pubblica dei paesi democratici così come sono attualmente riesca a imporre i suoi punti di vista al potere. Sappiamo che anche l’opinione pubblica si può manipolare. Israele non potrebbe resistere più di qualche giorno all’imposizione di un (anche moderato) embargo come quello inflitto alla Jugoslavia, all’Iraq o a Cuba dalle potenze occidentali. Quindi, se solo si volesse, non 54 sarebbe difficile rimettere Israele al suo posto, creando le condizioni per una pace vera. Ma non è questo che si vuole. L’opinione pubblica araba non è in grado di capire la natura del rapporto di complementarità tra il progetto sionista e quello dell’espansione generale del capitalismo, che sta a fondamento della loro convergenza. L’opinione pubblica araba è in questo caso vittima dei limiti del pensiero nazionalista populista che essa non è stata ancora capace di criticare alla base, né, tanto meno, di superare. In seguito alla sconfitta del 1967, Sadat dichiarava che, avendo gli Stati Uniti il «90% delle carte» (fu proprio questa la sua espressione) bisognava rompere con l’Urss e integrarsi nel campo occidentale, e che, in tal modo, Washington avrebbe fatto una sufficiente pressione perché Israele tornasse alla ragione. Al di là di questa ‘idea strategica’ propria di Sadat – di cui il seguito degli avvenimenti ha provato l’inconsistenza – l’opinione pubblica araba rimane largamente incapace di capire la dinamica dell’espansione capitalistica mondiale, e ancor più di identificarne le vere contraddizioni e debolezze. Non sentiamo forse dire e ripetere che «gli occidentali alla lunga capiranno che è nel loro stesso interesse intrattenere buone relazioni con i duecento milioni di arabi – loro immediati vicini – e non sacrificarle in nome del loro sostegno incondizionato a Israele»? Questo implicitamente significa pensare che gli occidentali (cioè il capitale dominante) desiderino un mondo arabo moderno e sviluppato, e non capire che invece essi vogliono mantenerli nell’impotenza, e che per questo il sostegno a Israele è loro indispensabile. La scelta che ha portato i governi arabi – eccetto Siria e Libano – a sottoscrivere attraverso i negoziati di Madrid e Oslo (1993) un piano americano per una ‘pretesa’ pace definitiva, non poteva dare risultati diversi da quelli che ha dato: incoraggiare Israele a spingere avanti le pedine del suo progetto di espansionismo. Oggi, rifiutando apertamente i termini del ‘contratto di Oslo’, Ariel Sharon dimostra soltanto ciò che si sarebbe dovuto capire prima e cioè che non si trattava di un progetto di ‘pace definitiva’ ma dell’apertura di una nuova fase dell’espansione coloniale sionista. Lo stato permanente di guerra che Israele impone alla regione insieme alle potenze occidentali che sostengono il suo progetto, costituisce a sua volta il valido motivo per cui i sistemi autocratici arabi continuano a reggersi in piedi. Questo blocco di una possibile evoluzione democratica indebolisce le possibilità di una rinascita araba e fa il gioco dell’espansione del capitale dominante e della strategia egemonica degli Stati Uniti. Il cerchio si chiude: l’alleanza israelo -­‐ americana si presta perfettamente agli interessi dei due partner. La lotta per la democrazia e il progresso sociale nel mondo arabo non passa per l’approvazione di pretesi, ma in realtà inesistenti, piani di pace. La condotta efficace di questa lotta esige invece la critica di questi progetti e il disvelamento dei loro veri obiettivi. Mi sembrava necessario riprendere il filo dei ragionamenti che mi hanno portato a questa conclusione, secondo me, fondamentale. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 55 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino I ragionamenti in termini di geo strategia che ho fin qui svolto hanno i loro limiti. Essi, infatti, inquadrano solo i protagonisti che occupano le prime file: le forze dominanti, cioè il capitale transnazionale, e i poteri al suo servizio. Quando diciamo ‘le potenze occidentali, gli interessi occidentali’ vogliamo dire ‘gli interessi del capitale dominante’. Quest’ultimo però non costituisce la totalità della realtà sociale. Esistono anche le sue vittime – i popoli, tutti i popoli. Una strategia di lotta efficace contro questa logica ‘geopolitica’ implica l’acutizzazione delle contraddizioni tra gli interessi delle vittime e gli interessi delle forze che dominano i poteri. È una strategia che non risulta più facile né in Occidente – dove la democrazia le permetterebbe un rapido svolgimento – né in Oriente – dove la violenza degli effetti distruttivi dell’espansione capitalista è più palese. Anche se per ragioni specifiche diverse, questa operazione è difficile in entrambi i casi. Ma intraprendere questo cammino è l’unica scelta. Perché, alla conclusione del dispiegamento del progetto capitalista liberista globale c’è l’apartheid su scala mondiale e, su quella locale, l’apartheid imposto dal sionismo ai palestinesi. Costituire su scala mondiale un fronte a sostegno del popolo palestinese in lotta contro l’apartheid non è solo un dovere morale, ma anche un aspetto importante di una strategia di lotta efficace contro la dittatura del capitale, e anche un contributo reale alla lotta dei popoli arabi per la democrazia e il progresso sociale. Il panarabismo è una realtà e un fenomeno positivo. Se, di fronte alle distruzioni culturali e d’altro tipo della globalizzazione, la francofonia, la lusofonia, il senso della famiglia latino-­‐americana costituiscono legittimi fronti di resistenza (e secondo me è così), perché disprezzare il panafricanismo o il panarabismo? Perché il legame fraterno tra i popoli che occupano uno spazio continuo che va dall’Atlantico al Golfo, e condividono la stessa lingua (nonostante le varianti dei dialetti locali), dovrebbe essere priva di valore e interesse? Da qui a dire che non esiste altro che ‘una nazione araba’ smembrata contro la sua volontà, c’è un passo che bisogna stare attenti a non compiere. Il problema nazionale arabo infatti, è infinitamente più complicato di quanto non possa immaginare l’ideologia del ‘nazionalismo arabo’ (qawmi, in opposizione a qutri, relativo allo spazio definito dalle frontiere degli Stati arabi). La realtà nazionale dei popoli arabi si manifesta come i piani sovrapposti di una piramide. La dimensione panaraba (qawmi) è reale come lo sono le dimensioni ‘locali’ (qutri). Se è vero, infatti, che la divisione della Siria storica (gli attuali territori di Siria, Libano, Palestina e Giordania) è recente (1919), artificiale e derivante da una spartizione imperialista, come quella della Mezzaluna Fertile (Siria storica e Iraq), sostenere che l’Egitto, il Marocco e lo Yemen siano costruzioni artificiali e recenti è ridicolo. Antica o moderna, la ‘piccola nazione’ (qutri) si fonda su interessi e percezioni reali della propria specificità. I movimenti di liberazione nazionale e i nazionalismi populisti che essi hanno prodotto, sono partiti da queste realtà locali necessariamente nell’ambito degli Stati così come sono. Le strategie di sviluppo che essi hanno voluto costruire su fondamenta autocentrate, guardando alla modernizzazione della loro società, alla loro trasformazione progressista e all’affermazione della loro autonomia nei confronti dell’imperialismo, non potevano che essere come furono: concepite e messe in atto nell’ambito degli Stati (qutri). La dimensione panaraba avrebbe potuto chiedere l’attuazione di strategie complementari che mirassero a rafforzare la costruzione autocentrata di ogni partner, non a sostituirvisi. Così non è 56 stato perché i responsabili dei nazionalismi populisti non furono capaci di concepire questa complementarità in maniera efficace, in quanto la loro percezione dell’autentica natura della sfida del capitalismo moderno era, quanto meno, insufficiente. Ecco perché tutto quel che i ‘tecnocrati’ al loro servizio potevano concepire erano solo dei ‘mercati comuni’, cioè una formula capitalistica perfettamente inadeguata. Sul piano politico, proprio i limiti del populismo e dello Stato autocratico sono alla base dei fallimenti. Il Baath che si pone come ideologo dell’arabità (ourouba) non è stato in grado di andare al di là della ripetizione suggestiva, e delle analogie con l’esperienza dell’unità tedesca e di quella italiana portate fino a una forma caricaturale, senza la minima coscienza del fatto che le condizioni alla periferia del sistema nel XX secolo non sono le stesse dell’Europa nel XIX! Per un momento, il panarabismo ufficiale dei governi populisti è stato scavalcato a sinistra dal movimento dei qawmiyin, un raggruppamento di giovani rivoluzionari impregnati di marxismo, maoismo e guevarismo, che fu all’origine della costituzione dei partiti radicali della Palestina (Fronte democratico di Naief Hawatmeh e Fronte Popolare di George Habash), della rivoluzione popolare nello Yemen del Sud e della guerra del Dhofar20. Meglio di molte analisi quasi sempre troppo teorico-­‐ideologiche (ossessionate dalla ricerca degli errori e delle ‘deviazioni’), il romanzo di Sanallah Ibrahim (Warda), ripercorre le tappe della morte lenta di questo movimento, la sua profonda aspirazione alla liberazione sociale, collettiva e personale (delle donne in particolare) e dell’illusione che il kalashnikov – popolare fino all’estremo in quel momento della storia araba moderna – potesse diventare un efficace rimedio all’inerzia delle classi popolari. Questo ‘fuochismo’21 arabo si è spento come quello dell’America Latina. Il panarabismo ha dato luogo a diverse organizzazioni che operano in tutto il mondo arabo. Per ognuna delle professioni che riguardano in particolare le classi medie, esistono organizzazioni di questo genere, a volte attive («Arab Lawyers», «Arab Engineers», «Arab Doctors», «Arab Writers» ecc.), ed esiste anche, almeno sulla carta, una centrale sindacale panaraba («Arab Workers Union»). L’intensificazione dell’immigrazione intra-­‐araba, negli anni settanta e ottanta (verso i paesi petroliferi), ha sicuramente contribuito a divulgare la mutua conoscenza dei popoli arabi. Questa però è avvenuta in un’atmosfera generale di spoliticizzazione e in uno scenario dominato dalle pratiche super-­‐reazionarie dei paesi del Golfo. I suoi effetti sono molto dubbi, come quelli determinati dal flusso di capitali in senso inverso, che ha, in buona sostanza, aiutato gli affaristi del movimento islamico ad arricchirsi. Il panarabismo autocratico è morto. Per convincersene, basta aver partecipato (come è capitato all’autore di questo scritto) a una delle sue ‘cerimonie’ (funebri) che riuniscono ogni anno la schiera dei suoi ‘dirigenti storici’ (uomini in giacca e cravatta la cui età media supera ormai i sessant’anni; non ce n’è uno più giovane né c’è una donna), nostalgici nient’altro che dell’epoca populista. Il suo tentativo di avvicinamento al movimento islamico non avrà sicuramente il dono di riportarlo in vita; al contrario contribuisce alla sua diluizione in una nuova e vuota illusione: la Nazione Islamica (al Umma al islamiya). La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 57 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino È un capitolo di storia chiuso. Il mondo arabo non ha più un proprio progetto, né per quanto riguarda i singoli Stati, né in senso panarabo. Ecco la ragione per cui i progetti che vengono ideati all’estero (negli Stati Uniti e in Europa) sembrano imporre i propri programmi. Questo non significa affatto che l’oggettivo bisogno di un’alternativa complessa, sia a livello nazionale che panarabo, sia scomparsa. Non significa nemmeno che la dimensione panaraba sia scomparsa dalla coscienza dei popoli. Lo testimonia la varietà di iniziative a sostegno delle intifada palestinesi (i Ligan did al Tatbi: comitati di opposizione alla normalizzazione delle relazioni con Israele). Questa solidarietà però non costituisce, da sola, un’alternativa all’assenza di una visione di insieme del ruolo degli arabi nel mondo di oggi. (Traduzione di Andrea De Ritis e Paolina Baruchello) Note: 1 Shariah, il Codice di leggi coraniche (NdR). 2 Baath, in arabo ‘rinascita’, nome corrente del Partito della rinascita socialista araba, sorto nel 1953 con un programma laico di modernizzazione e di unificazione dei popoli arabi (NdR). 3 Wafd, il partito nazionalista fondato nel 1917 con il programma dell’indipendenza dell’Egitto dal dominio coloniale inglese (NdR). 4 Vilaya al-­‐faqih, il principio che attribuisce ai religiosi una vasta serie di poteri statuali, giuridici e giurisdizionali (NdR). 5 Con il termine di ‘triade’ si intende i tre protagonisti fondamentali dell’economia mondiale: Usa/Canada, Giappone, Unione europea (NdR). 6 Mehmet (o Muhamad o Mohamed) Ali (1769-­‐1849), fondatore dello Stato egiziano, autore di numerose riforme laiche e modernizzatrici nell’ordinamento giuridico, nell’istruzione, nella economia (NdR). 7 Tanzimat (plurale dell’arabo tanzim: rigenerazione), nome attribuito al periodo storico (1839-­‐1876) dell’impero ottomano caratterizzato da una serie di riforme modenizzatrici e occidentaleggianti degli apparati statuali, degli ordinamenti giuridici e amministrativi (NdR). 8 Al Azhar, al-­‐Djami al-­‐Azhar, «la moschea splendida», università fondata al Cairo nel 973, la più antica e prestigiosa istituzione religiosa e culturale del mondo arabo e musulmano. Da sempre riservata agli studi teologici e scritturali, dal 1961 affianca l’insegnamento di discipline secolari (NdR). 9 Inappellabile decreto dell’autorità religiosa (NdR). 10 «Fratelli musulmani», movimento islamista, fondato a Ismailia (Egitto) nel 1928, di forte caratterizzazione popolare. Antioccidentale, anticapitalista, antisocialista, proclamava l’obiettivo della fondazione di uno Stato islamico. Adottò metodi terroristici e si rese responsabile di attentati a Nasser e dell’assassinio del suo successore, il presidente egiziano Anwar el Sadat (NdR). 11 «Ufficiali liberi», organizzazione segreta fondata da Nasser nell’ambito dell’esercito, che depose nel 1952 con un colpo di Stato re Faruk, dando vita alla repubblica. 12 UsAid (United States Agency for International Development) organizzazione governativa statunitense che, accanto e sotto la copertura di interventi per lo sviluppo, svolge intensa attività diplomatica, propagandistica e politica a tutela degli interessi americani. 13 Tagammu, partito nazionalista progressista, fondato nel 1976 con il motto «Libertà, socialismo, unità». 58 14 «Al Ahram», periodico fondato al Cairo nel 1876, uno dei più antichi del mondo arabo. Attualmente è un imponente complesso multimediatico e culturale che unisce al quotidiano, un settimanale, varie edizioni on-­‐line in lingue europee, una fondazione, un centro di ricerca. 15 Yasmina Khadra, pseudonimo di Mohammed Mulessul, ufficiale superiore dello Stato maggiore dell’esercito algerino, autore di numerosi romanzi di successo ambientati nell’Algeria della recente guerra civile. Tradotti in italiano: Cosa sognano i lupi, Feltrinelli 2001; Doppio bianco, E/O editore, 1998. 16 Area del Medio Oriente comprendente Egitto, Siria, Iraq. 17 Cfr. S. Amin, Marx et la démocratie. 18 Istituzioni sociali originate da lasciti religiosi, assai diffuse nel mondo musulmano prima della fondazione degli Stati arabi moderni. 19 Qassem Amin, (1863-­‐1908) uno dei pionieri del movimento nazionalista egiziano, noto per le sue idee riformatrici, in particolare sull’emancipazione femminile (scrisse nel 1899 L’emancipazione delle donne). 20 Dhofar, regione meridionale del Sultanato di Oman: nel 1965 vi si svolse l’insurrezione armata contro il regime dittatoriale del sultano Sai bin Taimur. 21 Fuochismo, teoria rivoluzionaria basata sulla diffusione dei ‘fuochi’ di insurrezione armata, elaborata nell’ambito del guevarismo. Greenreport.it – quotidiano per un’economia ecologica Greenreport è edito dalla eco Srl, un’agenzia di comunicazione e marketing ambientale con sede in Livorno – viene aggiornato dalle 10.30 fino alle 19 (dal lunedì al venerdì). Greenreport non è un sito né un portale, ma un vero e proprio quotidiano in Internet che offre la possibilità di utilizzare un mezzo snello e flessibile per antonomasia quale è la rete, abbinandolo all’opportunità di fornire informazione competente e di qualità sulle tematiche ambientali. E’ appunto la qualità dell’informazione il valore aggiunto di greenreport, sbarcato nel panorama editoriale nazionale il 2 gennaio 2006. Una redazione formata da giornalisti e collaboratori esperti sulle tematiche ambientali (energia, acqua, rifiuti, rumore, ecc….), processa ed elabora ogni giorno informazioni di carattere internazionale e nazionale ma anche declinate a livello regionale. Allo stesso tempo questo giornale offre l’opportunità di valutare le notizie pubblicate anche da altri media, ma con maggiore completezza di informazione e con un più accentuato grado di approfondimento. Tutto questo significa divulgazione di informazione ambientale competente e di qualità, fruibile giornalmente e gratuitamente da tutti coloro che lo vogliono. Eco²-­‐Ecoquadro, il think tank di greenreport.it: greenreport ha raccolto il meglio tra accademici e profondi conoscitori della sostenibilità nella sua triplice declinazione – ecologica, sociale ed economica – ognuno di loro da un proprio privilegiato punto d’osservazione, per creare le La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 59 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino condizioni di un confronto costruttivo sul tema più importante per le generazioni di questo millennio Greenreport e Repubblica.it, partner per un'informazione ambientale di qualità: Greenreport.it ha siglato nel 2011 un’importante partnership. Gli articoli di greenreport potranno infatti essere letti anche sulle pagine di Repubblica.it, che ha deciso di rilanciare il punto di vista di greenreport, operando una selezione delle nostre notizie e pubblicandole sulle proprie pagine. Greenreport.it -­‐ newspaper for an ecological economics Greenreport is an online newspaper dealing with the environment and the respective issues, above all eco-­‐friendly economy. Greenreport -­‐ published by “eco” Srl, an environmental communication and marketing group headquartered in Livorno. Neither a website, nor a portal, but rather a real online daily newspaper offering the chance to exploit the Internet, namely the most rapid and flexible means of communication, by combining it to the supply of a competent high-­‐quality information on environmental issues. The quality of the information is the true added value of greenreport, which started its activity in the field of regional press and information on 2nd January 2006. Every day the editorial staff, including journalists as well as a network of well-­‐trained experts in environmental matters (energy, water, waste, noise, etc...), processes international, national and regional news. At the same time, this newspaper enables the readers to examine the news published also by other media, though granting more precision and a deeper insight. All this stands for the publication of a competent high-­‐quality environmental information, freely and daily accessible to the interested readers. Eco²-­‐Ecoquadro, the greeenreport’s think tank: greenreport has collected the best of academic and deep connoisseurs of sustainability -­‐ in its triple declination, ecological, social, economic -­‐ each of them with its own privileged point of observation, to create the conditions for a constructive dialogue on the most important issue for generations of this millennium. Greenreport and Repubblica.it: a new partnership aiming at a high-­‐quality environmental information. In 2011 Greenreport.it signed an important partnership agreement. In fact, the articles published on greenreport will be visible on the web pages of Repubblica.it, which has decided to highlight the point of view of greenreport by selecting some news taken from our newspaper and publishing them on its own pages. Di economia verde molti parlano, ma pochi hanno le idee chiare su che cosa significhi. Green economy, la nuova economia tra valore della natura e natura del valore «Dobbiamo capirlo: la nostra vera legge di stabilità è dare finalmente valore al capitale naturale» di Gianfranco Bologna 60 In un momento di crisi complessiva di un modello economico dominante che ha prodotto devastazioni ambientali e sociali di portata molto significativa, il dibattito sulla cosiddetta green economy diventa sempre più utile, interessante e stimolante. Ma cosa significa veramente una green economy? È un ennesimo aspetto di quello che, sin dalla fine degli anni Ottanta, si definiva “greenwashing”, e cioè un tentativo di far credere che una “tinteggiatura” di verde delle attività produttive delle corporation -­‐ ben divulgata dal marketing e dalla comunicazione -­‐ potesse renderle più sostenibili per i sistemi naturali? E’ un semplice spostamento di investimenti da attività chiaramente negative per la salute e la vitalità dei sistemi naturali e sociali, come l’utilizzo dei combustibili fossili, ad altre più sostenibili come l’uso delle energie rinnovabili, del tipo eolico e fotovoltaico? Oppure è l’impostazione di una nuova modalità di fare economia che dia finalmente valore al capitale naturale e che ne faccia discendere prassi operative conseguenti? A monte di questo dibattito è fortemente presente la straordinaria importanza che le culture delle nostre società attribuiscono alla continua crescita materiale dell’economia che, non a caso, ha prodotto anche modifiche dello stesso termine green economy in green growth o green growth economy. Da anni esperti e studiosi si occupano dei ben noti limiti biofisici che il nostro meraviglioso pianeta presenta nei confronti della nostra continua crescita economica materiale e quantitativa. Si tratta dell’argomento centrale che è stato sempre presente nelle riflessioni e nelle azioni di una figura dalle straordinarie qualità umane e intellettuali, Aurelio Peccei (1908–1984) nato proprio a Torino, fondatore e presidente fino alla sua scomparsa del famoso think-­‐tank del Club di Roma. Grazie al visionario stimolo di Peccei il Club pubblicò nel 1972 il suo primo rapporto realizzato dal prestigioso Systems Dynamics Group del Massachussetts Institute of Technology (MIT), dal titolo “The Limits to Growth”, i limiti della crescita. A questo primo rapporto il Club ne ha fatto seguire decine di altri, tutti dedicati ad esplorare e cercare di capire e comprendere i futuri desiderabili e possibili dell’interazione sistemi naturali-­‐ocietà umane (e, tra questi, sono usciti altri tre rapporti specifici sul tema dei limiti alla crescita che hanno aggiornato il primo del 1972). Credo che il tema dei limiti alla crescita, così centrale per il futuro dell’intera civiltà umana, dovrebbe essere al primo posto delle agende politiche internazionali e, conseguentemente, dell’impostazione delle green economies. Il fondatore della bioeconomia, Nicholas Georgescu-­‐Roegen, ha scritto: «L’attività industriale in cui oggi è impiegata larga parte dell’umanità accelera sempre di più l’esaurimento delle risorse terrestri, fino ad arrivare inevitabilmente alla crisi. Prima o poi la “crescita”, la grande ossessione degli economisti, standard e marxisti, deve per forza finire. La sola questione aperta è quando». L’astrofisico del Politecnico, Angelo Tartaglia, nella sua relazione introduttiva al convegno ha in proposito ricordato come il primo rapporto per il Club di Roma sui limiti della crescita fu subito attaccato ideologicamente da “destra” e da “sinistra”, perché «l’idea che la crescita materiale dell’economia avesse dei limiti fisici era inaccettabile». Ma Tartaglia ha poi affermato: «Il fatto è che la materia: a) esiste; b) evolve secondo leggi che non dipendono né dalle scuole filosofiche né La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 61 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino da quelle economiche e che non sono per nulla influenzate dalle vicende politiche. Accettabili o meno, nessun parlamento le può riformare e non sono nemmeno quotate in borsa». Da diversi decenni i più grandi programmi internazionali di ricerca che analizzano i cambiamenti globali e gli effetti dell’intervento umano sui sistemi naturali (riuniti nell’ampio partenariato dell’Earth System Science Partnership, e nel nuovo grande programma “Future Earth” coordinato dall’International Council for Science) ci forniscono una straordinaria documentazione che prova come le attività umane influenzano significativamente le funzioni del complesso sistema Terra in molti modi e come i cambiamenti antropogenici sono chiaramente identificabili oltre la naturale variabilità e sono equivalenti, per estensione ed impatto, alle grandi forze della natura che hanno modellato la nostra Terra nella sua intera storia. Infatti è stato documentato che le attività umane provocano effetti multipli che interagiscono a cascata attraverso il sistema Terra in modi complessi. Gli effetti a cascata prodotti dalle attività umane interagiscono con molti altri effetti naturali e producono cambiamenti a scala locale e regionale in modi multidimensionali. Le attività umane possono scatenare cambiamenti nelle dinamiche del sistema Terra, che è già caratterizzato da soglie critiche e cambi repentini, con conseguenze potenzialmente catastrofiche per il genere umano. Inoltre le stesse pressioni umane sui sistemi naturali presentano le potenzialità di modificare il sistema Terra in modi operativi alternativi che possono dimostrarsi irreversibili e con evidenti difficoltà gestionali da parte delle società umane. In poche generazioni l’umanità ha infatti consumato le riserve di combustibili fossili, generate in centinaia di milioni di anni, avvicinandosi alla soglia dell’esaurimento; la concentrazione in atmosfera di diversi gas che incrementano l’effetto serra naturale è aumentata pericolosamente, innescando rapidi cambiamenti climatici; circa il 50% della superficie terrestre è stata modificata direttamente dall’intervento umano, con conseguenze sulla biodiversità, sui grandi cicli biogeochimici, sul ciclo dei nutrienti, sulla struttura del suolo ed il clima; la quantità di azoto fissato sinteticamente nell’agricoltura è oggi superiore a quella fissata naturalmente negli ecosistemi; più della metà della quantità globale di acqua dolce accessibile è utilizzata direttamente o indirettamente dalla nostra specie; i tassi di estinzione delle forme di vita sono notevolmente aumentati tanto da far dichiarare gli esperti che ci troviamo nel mezzo di un grande evento di perdita della biodiversità (la cosiddetta sesta estinzione di massa) provocato, per la prima volta nella storia della vita sulla Terra, dalle attività di una singola specie vivente: la nostra. E’ quindi di tutta evidenza che l’impostazione dell’economia del futuro non può assolutamente essere la normale prosecuzione di quella attuale. Come ci ricordano Johan Rockstrom e Jeffrey Sachs in uno dei background research paper per l’High Level Panel on the Post-­‐2015 Development Agenda delle Nazioni Unite, dal titolo “Sustainable Development and Planetary Boundaries” se il reddito dei paesi attualmente a livello medio e basso dovesse salire a quello dei paesi ad alto reddito (che si aggira intorno ai 41.000 dollari pro capite annui) l’economia globale dovrebbe crescere di 3,4 volte passando dagli attuali 87.000 miliardi di dollari a 290.000 miliardi di dollari annui. Le possibilità rigenerative e quelle ricettive dei sistemi naturali, per fare fronte sia 62 all’utilizzo di risorse sia alla produzione di scarti da parte dei metabolismi delle società umane sono limitate, e proseguire su questa strada è impossibile. Ecco quindi che la green economy dovrebbe muoversi nell’ambito di una complessiva reimpostazione dell’attuale sistema economico che certamente non può considerare la crescita materiale e quantitativa come un obiettivo futuro perseguibile. E qui emerge un altro elemento fondamentale che è stato lucidamente messo a punto in questi ultimi anni dal grande programma mondiale del TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity): la centralità del valore del capitale naturale, senza il quale non è possibile alcun benessere e sviluppo delle comunità umane. Come scrive Pavan Sukhdev, il noto economista indiano direttore del TEEB ed anche direttore del programma green economy dell’Unep (il Programma Ambiente delle Nazioni Unite) nel primo rapporto del TEEB rilasciato nel 2008: «Non sempre a tutto ciò che è molto utile viene attribuito un gran valore (ad esempio, l’acqua) e, viceversa, non tutte le cose che hanno un grande valore sono automaticamente molto utili (si pensi ai diamanti). Questo esempio illustra ben due sfide in termini di apprendimento che oggi la società si trova a dover affrontare. Innanzitutto, stiamo ancora imparando a conoscere la “natura del valore”, ampliando il nostro concetto di “capitale” fino a includere anche il capitale umano, sociale e naturale: riconoscendo l’esistenza di questi diversi capitali, e cercando di aumentarli o conservarli, possiamo avvicinarci alla sostenibilità. In secondo luogo, abbiamo ancora difficoltà nell’individuare il “valore della natura”. La natura è infatti la fonte di molta parte di ciò che definiamo “valore” al giorno d’oggi, eppure solitamente aggira i mercati, sfugge alla fissazione di un prezzo e si ribella alla valutazione. Proprio questa mancanza di valutazione si sta rivelando una causa soggiacente al degrado degli ecosistemi e alla perdita di biodiversità ai quali assistiamo». Purtroppo non abbiamo messo al centro dei processi economici il capitale fondamentale che ci consente di perseguire benessere e sviluppo e cioè il capitale naturale, costituito dalla straordinaria ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta, grazie al quale la specie umana vive. Non abbiamo sin qui fornito un valore ai sistemi idrici, alla rigenerazione del suolo, alla composizione chimica dell’atmosfera, alla ricchezza della biodiversità, al ciclo del carbonio, dell’azoto, del fosforo, alla fotosintesi, solo per fare qualche esempio. La perdita della ricchezza della biodiversità provoca il progressivo impoverimento della struttura, delle funzioni e dei processi degli ecosistemi che, a loro volta, consentono alla nostra specie l’utilizzazione dei servizi offerti. Dagli inizi degli anni Novanta il Wwf, insieme al Parlamento Europeo, alla Commissione Europea, all’Ocse e al Club di Roma, ha lanciato un ampio programma di approfondimento e di iniziativa politica dal titolo “Beyond GDP” (andare oltre il PIL), che ha portato, tra l’altro, all’apposita comunicazione della Commissione del 2009 “Non solo PIL: misurare il progresso in un mondo in cambiamento”, dove si riconosce la necessità di rafforzare gli indicatori esistenti con dati che incorporino gli aspetti ambientali e sociali in grado di mettere a disposizione una capacità politica più coerente e comprensiva della realtà. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 63 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Nel 1996 il Wwf ha reso noto uno studio pioneristico in collaborazione con la Fondazione ENI Enrico Mattei che ha riconsiderato il PIL italiano dal 1960 al 1990, secondo un noto indice correttivo definito RIBES (Ricostruzione dell’Indice di Benessere Economico Sostenibile). Dalla ricerca si è evidenziato un discostamento del RIBES dal PIL negli anni Sessanta. Negli anni Settanta e Ottanta il RIBES restava del 30-­‐40% inferiore al PIL (nel 1990 un milione di lire di PIL italiano valeva 620.000 lire in termini di benessere economico sostenibile). La presentazione di questi dati diede il via ad una serie di proposte di legge sulla contabilità ambientale che, in tutti questi anni, non hanno mai visto l’approvazione definitiva (nel 2007 il governo Prodi approvò un disegno di legge delega in materia di contabilità ambientale che non terminò la sua strada a causa dell’anticipata chiusura della legislatura). Oggi la comunità internazionale, attraverso la Divisione Statistica delle Nazioni Unite, ha approvato un sistema di contabilità ambientale-­‐economico, come standard statistico internazionale da adottare nei sistemi di contabilità nazionale (si veda in proposito il sito http://unstats.un.org/unsd/envaccounting). Dobbiamo capirlo: la nostra vera legge di stabilità è dare finalmente valore al capitale naturale. E questa la strada maestra di una green economy. E’ venuto il tempo di modificare drasticamente le modalità con cui abbiamo sin qui elaborato politiche economiche e di sviluppo. Una politica sana che mira al benessere ed allo sviluppo delle persone la possiamo avere solo mettendo al centro il capitale naturale e gli straordinari servizi che gli ecosistemi ci offrono gratuitamente, tutti i giorni, e su questo la politica dovrebbe discutere ed agire, tutti i giorni. East Wind, West Wind. Gone with the Wind? The Shared Philosophical Legacies of Gramsci and Lenin Jelle Versieren, University of Antwerp, The Centre for Urban History 1. Introduction Ever since the October Revolution, a specific political philosophical model reigned over Marxist, social-­‐democratic, left-­‐liberal, and rightist minds and opinions. This dominant model expressed the ill thought out conjecture that the peculiarities of Russian history and the ensuing defective Soviet society could be conflated with Lenin’s concrete political intentions and philosophical writings. On this interpretation, the backward feudal community of tsars and tenant peasants inevitably had to lead to a nation under new oppressors. And Lenin, as a proto-­‐Stalinist, so goes this rehashed tale, was the main culprit of this world historical disaster. Whether one skims the pages of his enormous collected works or diligently peruses them, it has to be admitted that Lenin will never 64 become the foremost intellectual giant of Marxism as a scientific paradigm. But neither can Lenin be dismissed as an insignificant theoretician regarding the analysis of the nexus between social phenomena and political currents. Three main reasons can be given to support such a proposition. First, contrary to other pre-­‐
revolutionary Russian philosophers, Lenin showed a remarkably versatile mind in rethinking his own analysis and reconfiguring his conceptual framework when dealing with new empirical data. Logical coherency and transparent accurate application of the categories he used were the hallmark of both his polemic pamphlets and scientific tractates. This made him an exceptional member of the social circles of Russian intelligentsia within he moved. From one side lurked Plekhanov with his encyclopaedic knowledge of the history of philosophy. He was thoroughly acquainted with both the canon of philosophy and with new trends such as Bergson’s vitalism, but his eclectic mechanical and evolutionist monism evinced an undialectical disarticulation between his philosophical categories and political praxis. From the other side, the intellectuals within the populist-­‐narodnik tradition tended to stick with one pre-­‐set strategy and political outlook, even when ground-­‐breaking events should have induced them to reconsider their initial conclusions. For example, Lenin reconsidered his outlook on the agrarian question several times in the first two decades of the twentieth century. He lauded Kautsky’s book “Die Agrarfrage” (1899) as the most definitive overview of agrarian capitalism. This form of capitalism facilitated land concentration and was the driving force of large-­‐
scale production efficiency. But, in later years, Lenin would develop a more refined account of the struggle of the small peasantry. Another example is the political question about the relations between the state, social forces and international economic tendencies. This resulted in two important books during the war years. In “The State and Revolution” (1917) Lenin took a leftist-­‐libertarian turn to rectify his older means-­‐
ends ideas about conquering the state, in the light of Marx’ meticulous method to reconstruct the interaction between a complex class society and political events in “The Eighteenth Brumaire of Louis Bonaparte” (1852) and the concept of dialectical temporality in “The Civil War in France” (1871). Moreover, in the same year his second celebrated book “Imperialism, the Highest Stage of Capitalism” was published. This work tackled the question of the uneven development of capitalist nations within the framework of the world market. In his early work “The Development of Capitalism in Russia” (1899) Lenin contended that after the abolishment of serfdom (1861) and the freeing of twenty million peasants the capitalist mode of production became dominant.i This bold and historiographically doubtful statement had to be fundamentally revised. Lenin came to the conclusion that the process of proletarianization was indeed much slower and more complex than his initial view that it entailed a one-­‐stage transformation of the Russian population into an industrial proletariat. But until 1917, Lenin denied the possibility of a proletarian revolution. In other words, Lenin struggled to construct a coherent alignment between his socio-­‐economic scientific analysis of the Russian social formation and the underpinnings of his political strategy. During the war, a war between mobilized social formations with significantly different class structures, Lenin grasped the relatedness of the uneven and combined development of capitalism as a world-­‐encompassing economic system. Conceptualising Russia as a social formation within capitalism as a world system, he concluded that the perspective of a successful proletarian La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 65 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino revolution in the context of underdeveloped national markets and the lack of industrial accoutrement rested on the outcome of political struggles throughout Europe. But Lenin tended to commit the following fallacious inference: imperialism is not a specific moment of mediation of the elements constituting capitalism, but rather he posited it as a distinct phase apart from other presumed self-­‐enclosed historical stages. As a result, Lenin’s model represents history as a deficient schematic sequence of homogenous stages. However, Lenin presented an alternative road to scientific investigations at a moment when it became clear that Kautsky’s pre-­‐war writings on ultra-­‐imperialism had been unfruitful in solving the theoretical predicaments regarding the changing tide of the internationalization and monopolization of capital. Although Lenin and Kautsky were both influenced by the brilliant work of Rudolf Hilferding, Kautsky split up the Marxist political economy into on the economics of laws and abstract tendencies the one hand, and on the other hand the history of political relations. For him capitalism possessed an unmistakable drive towards monopolization on a world-­‐scale scale, as the world market becomes one giant factory. Only political competition between national elites prevented the outcome of this presumed law of concentration of capital. The advent of ultra-­‐imperialism would, Kautsky hoped, be beneficial to a quick international economic transformation towards capitalism. Lenin profoundly disagreed with this scientific split between economics and political sciences, and his stage-­‐theory of imperialism was a direct answer to the strategic consequences of Kautsky’s deficient scientific conclusions.ii Lenin’s thought on imperialism allowed him to understand which general economic challenges Russia had to overcome in order to shed its feudal remnants. In addition, Lenin managed to escape the theoretical deadlock of the Kautsky-­‐Bernstein debate. The price deflation crisis of the last quarter of the nineteenth century signalled a profound transitional process from early liberal capitalism with competing small firms towards a verticalized hierarchy of big industrial conglomerates and finance capital. When the European national economies recovered, professionalized management structures began to avoid cutthroat price competition for controlled enhanced quantitative output. The idle and crushed hope of the IInd International intellectual leaders that this crisis would have resulted in the final breakdown of capitalism lead to a first paradigmatic crisis of Marxism. Bernstein’s revisionism was the negative mirrored inability of Marxist’s to rethink their economic theory, their philosophical meta-­‐foundations, and their political praxis.iii Lenin, as a young intellectual, sided with the revolutionary aspirations of the pre-­‐
war Kautsky without succumbing to the widespread idea of the fatalist iron laws of capitalism. The second reason why quick-­‐witted was Lenin’s epithet can be found in the debate about political mobilisation and class-­‐consciousness. Against the theory of capitalism’s collapse, Lenin went to great lengths to convince other socialist leaders that the subjective factor was not one-­‐sidedly determined by economic laws and structured social patterns. A reciprocal interference existed between the dialectic of capital and the political decisions of the working class movement. Within the Italian context of the sudden and surprising rise of fascism, Gramsci extended and reworked Lenin’s astute remarks about the party as an ideological organ of social transformation. Lenin and Gramsci emphasised the fact that the arrow of time was not predetermined. The third and final reason for re-­‐appreciating Lenin’s original contributions, although on the most abstract and theoretical level, has been the discovery of his wartime notebooks on the Logik of Hegel. The study of Hegel’s Logik helped Lenin in crystalizing his thoughts on the relation between actuality, negativity, and future time as an open site of possibilities. Through Hegel he avoided to conceive political acts as purely decisionist exertions of power; decisionism reduces political praxis to the self-­‐presumed “right” state of mind. The Weberian accusation that Lenin was blinded by 66 ideological conviction can be immediately vitiated by emphasising a clear interdependence of means and ends in Lenin’s mature writings.iv In a time of crisis, Lenin realized the importance of developing a rational image of a mediated actuality, and political praxis needed to penetrate the on-­‐going social contradictions. 2. The false one Lenin The Eurocommunist and Post-­‐Marxist/postmodern interpretations of Gramsci intentionally compartmentalise his writings in order to separate these from some of the most important contextual influences: the early Bolshevist intellectuals.v Recent studies in the history of political economic thought make it abundantly clear that Bukharin, Preobrazhensky, Maksakovsky, Lenin, Rubin, and Trotsky made indispensable contributions to the research on imperialism and the modes of production, value theory or the development of social formations. The same acknowledgement did not happen towards Lenin or Trotsky when looking at the neo-­‐Gramscian perspectives in political theory. However, Gramsci, as a young talented journalist or as the leader of the Italian Communist Party, always engaged with these illustrious Russians in order to analyse concrete problems such as the Southern Question, qualitative differences between Western and Eastern social formations or the concept of the modern party. From the start of the October Revolution a rather artificial break had been propagated by several Marxists between the self-­‐proclaimed heirs of Marx, social-­‐democrats or Marxists, and the Bolshevist intellectual leaders. The best known critique came from Luxemburg, Kautsky, Pannekoek, Mattick and several Menshevist intellectuals. They adhered to the idea that Lenin developed a unique party model which diverted from West-­‐European social-­‐democratic parties and could be labelled as “authoritarian”, “voluntarist” or “conspiratorial”. Rightist polemists within the social-­‐democratic parties and early Kremlinologists added orientalist prejudices regarding the Bolshevists’ theoretical sophistication and inner party decisions.vi But council-­‐communist Paul Mattick also accused Lenin of confusing polemical commentaries with criticism on more theoretical level.vii This self-­‐proclaimed break between “Western Marxism” and Lenin still haunts current debates on the political nature of Gramsci’s writings. By first presenting a short overview of different current interpretations of Lenin, I hope to show some similarities and parallels regarding the Lenin-­‐debate and the Gramsci-­‐debate. But the dominant idea about these two Marxists has been rehashed over and over again: Lenin is the proto-­‐Stalinist, while Gramsci, together with Lukàcs and Korsch, is the protagonist of a generation of critical Marxists. The heated debate regarding the differences between Lenin and Western Marxism was recently revived with the publication of a few innovating books: Lars T. Lih’s Lenin Rediscovered: What Is to be Done? in Context (2005) and the ensuing debates in the journal Historical Materialismviii , and the edited book of “Open Marxism” autonomists Bonefeld and Tischler What Is to be Done?: Leninism, Anti-­‐Leninist Marxism and the Question of Revolution Today (2003). Lih presents Lenin’s early contribution to Marxist political theory in its historical and textual context based upon philological research, which helps to rebut the Stalinist party-­‐school’s formalised interpretation and the post-­‐war analysis of Kremlinologists in order to substitute their own suppositions about the Soviet-­‐Union. Lih argues that Lenin never intended to publish this book as a definitive theory about party-­‐strategy.ix He digs deep into the discussions between Lenin and his adversaries, and shows us that What Is to be Done? did not propagate the instalment of a vanguard party. Rather, Lih states that Lenin wanted to establish a Russian version of the Social Democratic Party of Germany and that he espoused the basic tenets of the Erfurt-­‐program. What Is to be Done? was a La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 67 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino defence of this program against the voluntarist remnants of narodniki-­‐populists and social-­‐
revolutionaries, and also against the growing influence of Eduard Bernstein.x Gramsci went beyond the Erfurt-­‐program. He did not only concentrate on the centralisation of the hegemonic apparatus in the party, but conceived the “political constitution of the social”.xi This means that this model possesses “transformative dimensions of a social formation or relations between social formations” which enables “ the possibility of intervention by various projects”.xii Without Lenin’s lessons, he never could have evolved to this point of view. Long in gestation within autonomist circles, Bonefeld and Tischler’s collection of papers reinforces the thesis of Bolshevik party usurpation and substitution of the working class struggles. They radicalise the critique of the Mensheviks and Luxemburg which states that modern forms of party models are outdated because these cannot capture the social substance of any revolution and failed in the prime task of emancipation of the people. In this edited book Cajo Brendel regards Lenin as a proponent of a conspiratorial party, because Russia only had a proletarian struggle in a very small measure.xiii Leaving aside the Leninist heritage, in Brendel’s opinion, means to embrace new possibilities to organise counter-­‐hegemonic forces in a late-­‐modern day and age. But in fact, as Lih has shown, Lenin already propagated the final break with the old methods of conspiracy in What Is to be Done? in the same way that Gramsci denounced Bordiga’s organic centralism and its invariant theory. For Lenin, the choice for a new model was very clear: the party had to prepare itself to propagate the socialist message among the masses.xiv Lenin, like Gramsci, did not retreat to a pessimistic outlook which would have resulted in falling back to failed old recipes, but was furious at the Mensheviks for not taking the chance to create a mass organisation. Lenin condemned the Mensheviks, in Gramscian terms, to be nothing more than traditional intellectuals lacking organic ties with the masses. These ties enabled Lenin to detect changes in the class configuration and political situation of the Russian social formation. R.W. Davies, an eminent researcher on the history of Soviet economic history, confirms that the 1890s introduced the first signs of heavy industrialisation and signalled an accelerated integration of the underdeveloped country within the capitalist world market. “Discontent was widespread among the new classes which had emerged with the growth of industry and the towns: factory workers were dissatisfied with their economic and social conditions; the urban middle class were demanding political rights. And the discontent spread to large sections of the peasantry.”xv Furthermore, Lenin, like Gramsci, wrote insightful things regarding the limitations of a purely corporatist trade-­‐unionist ideology in the workers’ struggle. Lenin admired the intellectual cadres of the German Social Democratic Party; nowhere else could a unified socialist party gain as much political and ideological influence in a social formation. For any foreign Marxist intellectual Kautsky, Bebel, Liebknecht, and Mehring represented the zenith of theoretical sophistication. But Kautsky, as the editor of the journal Die Neue Zeit, recognized the discrepancy between the erudite Marxist core groups, and the limited political zeal and articulated ideological mind-­‐set of local party members and labour union activists. Even the famous Kautsky-­‐Bernstein debate remained a bout between two eloquent and well-­‐versed men having a crystallized scientific conviction. Outside their libraries and frequent gatherings the SPD still struggled with the multiple traditions of corporate interests, underdeveloped anarchist thought, and the vagaries of left-­‐
liberal humanist aspirations.xvi Under the crushing weight and authoritarian repression of the Prussian aristocratic state, Kautsky was puzzled about the question how to fabricate an ideological and political alignment between the heterogeneous subaltern classes – factory workers, proletarianized day labourers, small craftsmen and journeymen – and the clear proclamation of social and economic goals in the Erfurt Program (1891).xvii In the last decade of the nineteenth century, small labour and craft unions engaged in an endless series of spontaneous strikes to 68 obtain specific corporate demands – changes in the imposed system of remunerations and commissions. For Kautsky the valid Marxist analysis of class struggle could only be introduced by party intellectuals in order to articulate these corporate interests with a socialist outlook. The important relation between ideology and subject interpellation, political praxis, and the idea of the party as the constitutional force of effective political opposition and the kernel of overall social transformation, would continue to stir the minds of all European socialist intellectuals. Together with the debate concerning the relation between the growing integral bourgeois state and working class politics, this issue would reappear in the writings of all classical “Western” Marxist thinkers. Both Lenin and Gramsci invested much time and energy to further elaborate and refine Kautsky’s initial dive into the complex depths of the determination and constitution of class consciousness. Both Plekhanov and Lenin leaned on Kautsky’s exhortations to solidify the particularist interests of all oppositional groups into one social-­‐democratic party.xviii From an international perspective, they belonged to a consensus that corporate structures, although acting within a larger relatively autonomous space, should resonate with the political demands of social-­‐democratic parties. Neither Lenin nor Plekhanov supported the old conspiratorial road to revolution, but full-­‐heartedly agreed with the purported point of view of the SPD at the international congresses in Paris (1889) and Brussels (1891). Those conventions undergirded the promotion of unionizing workers in large organizations and the effectiveness of mass politics. What Is to be Done? reiterated thoroughly this relation between union activism, the limitations of corporate consciousness, and socialist mass politics.xix Thus, Rosa Luxemburg’s reductionist fallacy that the snobby Lenin deeply mistrusted the proletariat can be disproven. In fact, Lenin sought to remedy Plekhanov’s inclination towards a complete intellectualization of corporate praxis and mass politics. For Lenin, conceptualising union activity as an independent and isolated category, which he called trade unionism, would lead to a gradual integration and pacification of the worker’s struggle. Nonetheless, contrary to Luxemburg’s Menshevist sources, he did not denounce the value of the spontaneous element in strike movements.xx But in relation to organized mass politics he developed this spontaneous element into a more complex concept. Trade unionism uses the concept of spontaneity to depoliticize discontent whilst socialist politics proper gives guidance to the immediacy of spontaneous unrest.xxi Luxemburg tried to attenuate the unchecked centralization of the party apparatus, whilst in Lenin’s case the Russian social democracy lacked the real insertion of a set of coherent organizational principles. Gramsci, taking lessons from Kautsky, Sorel, Lenin, and Luxemburg, made the most sophisticated contributions in the debates regarding the relation between the party and more general phenomena of opposition in civil society. Consequently, the early bourgeois state became the integral state in an attempt to ideologically integrate civil society, Gramsci called forth a further mediation between the party and all potential social progressive forces. Thus, the notion of the “historic bloc” as the most encompassing ensemble of social relations expresses the necessity to make a class analysis in political terms and vice versa. A hegemonic project can only be successful when an organic process occurs within the intellectual/people dyad, which sparks “a movement that aims at ever-­‐higher and ever-­‐wider cultural, moral, and intellectual spheres of action, where the people’s action on its intellectuals produces a more historically rooted and more critical knowledge of the world, and where the intellectuals’ action on the people results in the raising and widening of the cultural level of the people.”xxii Gramsci’s main objective concerns the La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 69 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino democratic focus to obliterate the lethargic acquiescence and the self-­‐defeating attitude of assent of the masses vis-­‐à-­‐vis the hegemonic discursive formation of the dominant classes. Gramsci took Lenin’s remarks on the limitations of trade unionism several steps further in his analysis of ideology. A remarkable parallel exists between Gramsci and Bourdieu when discussing the forms and functions of hegemonic thought. Bourdieu, in his description and analysis of the shaping and fabrication of public opinion, stated that a set of assessments about social questions by the subaltern classes are being reduced -­‐ retranslating Bourdieu in Benjamin’s conceptual vocabulary -­‐ to one-­‐dimensional, fractured, and isolated sterile thought-­‐images. Bourgeois society reduces political discursivity and ideological subject interpellation, within an endless asymmetric exertion of power, to a seemingly objective procedural processing of the rational evaluations of autonomous individuals. The representation of the presupposed public will is not only an act of limiting the epistemological categories and their content, of which most politicians have been using it as the means of legitimization, but it also profoundly alters the praxis of all participants and the systemic exigencies. This “creates the idea that a unanimous public opinion exists in order to legitimate a policy, and strengthen the relations of force upon which it is based or make it possible.”xxiii The making of this public opinion depends on the opposition between political forces and classes and the success of ideological displacements and political condensations expressing the strength of hegemonic and counter-­‐hegemonic movements.xxiv The degree of consent will parallel the degree of concealment of tensions and contradictions. Gramsci, again referring to Lenin, discerned three fundamental reversible and mutually imbricating phases of ideological consciousness: the economic-­‐corporate phase of self-­‐
identification of interests of a particular social group defined by labour functions, socio-­‐
geographical boundaries or cultural distinctions; the phase of the articulated shared interests of members of one social class; and the third phase, the hegemonic phase of a social class and its political power with absolute moral-­‐intellectual leadership, being the engine of national-­‐popular mobilization of other social classes. The establishment of a historic bloc as a successful hegemonic project is inherently characterized by a myriad of processes. In Hegelian terms, the leading party needs to calibrate the continuous processes of attraction and repulsion of corporate and class interests. A hegemonic project does not entail a homogenous filtration of the necessary heterogeneous social world. The One does not cancel out the many. Rather, as Gramsci agreed with Lenin, the struggle for a hegemonic project is nothing more than being schooled in the daily struggle for a democratic society.xxv 3. Lenin and Gramsci: the renewal of theory During and after the war Lenin attacked Kautsky numerous times for lacking the intellectual and political honesty to admit that he had deviated from the principles of his pre-­‐war revolutionary aspirations. Lenin and Gramsci both realised that the pre-­‐war social-­‐democratic leaders refused to give an account of what went wrong in order to avoid future political mistakes and to redesign the faltering ideological and theoretical framework. The Bolshevist success was the immediate and concrete negation of the Kautskyan course during wartime. But Lenin and Gramsci also negated the philosophical tenets of the Second International. Lenin was, so to say, born and raised in the positivist, neo-­‐Kantian and mechanical evolutionary thought of Kautsky and Plekhanov, which always referred to Engels’ Anti-­‐Dühring. This dominant influence resulted in a non-­‐dialectical materialist and positivist epistemology which can be read in Materialism and Empirio-­‐criticism (1909). But the war changed everything. 70 In the midst of one of the greatest disasters for the international proletarian movement, Lenin singlehandedly rediscovered the critical potential of Hegelian thought. Kevin Anderson discerned Lenin’s appreciation for Hegel’s methodology in his book Lenin, Hegel and Western Marxism (1995). In his wartime notebooks, Lenin took a deep dive into the Logik, rediscovering the fundamental conceptual and dialectical framework in which the relations between form and content, existence and essence, necessity and contingency, universality and particularity, and the material moment of praxis assisted him to scientifically grasp the very nature of interaction between men within their living world. Among other reasons, the fact that Lenin, among other reasons, did not have access to Marx’ Grundrisse, he did not fully integrate Hegel’s concept of the subject within the dialectical model of knowledge acquisition as a reflective mode of praxis. Nonetheless, Lenin did underscore the importance of Hegel’s connection between a subjective and an objective logic, which brings together the outlook of intersubjectivity with the mediation of self-­‐identities. These notebooks place Lenin between the early contributions of Labriola and the first “Western Marxists” Lukàcs and Korsch. For Lenin, reflecting on the philosophical achievements of Hegel meant rethinking the whole evolution of the Marxist paradigm vis-­‐à-­‐vis the rapid changing political conditions. Hegel’s anti-­‐foundationalist philosophy “is of help at the very outset in … understanding of what it means to think about philosophy … Hegel’s logic is not deductive but developmental.”xxvi Precisely for this reason Lenin took the luxury to wrestle with the initial opacity of Hegel’s Logik. Neither Plekhanov nor Kautsky could give Lenin sufficient theoretical guidelines how to precisely understand the grounding processes of political change pertaining in Russia. Gramsci’s reconstruction of Marxist philosophy did not have that explicit Hegelian overtone, because Hegel was already present in the concepts of Italian philosophers such as Croce and Gentile. Peter Thomas succeeded into reconstructing Gramsci’s Hegelian applied thought in three fascinating chapters in The Gramscian Moment (2009), referring to “absolute historicism”, “absolute humanism” and “absolute immanence”. With these three concepts “the philosophy of praxis, therefore, redefines the previously established fields of knowledge not as “component parts” but as “moments” of its own dynamic overdetermined constitution. It is the ‘unitary synthetic moment’ of the new concept of immanence that makes such relations of translation possible, for it was only by means of such a method grasping the theoretical significance of “relations of force”, subsequently “universalised” in an adequate fashion to the whole of human history … Each moment is now internally related to the other; that is, they are immanent to each other, because the social practices they sought to comprehend are recognised as determined by the same relations of forces … Insofar as it is a conception of the world defined by on-­‐going relations of translation between different theoretical and practical moments that are immanent to each other, the philosophy of praxis can never attain to the closed systematic form of supposedly “classical” philosophical doctrines (lusted after by Diamat and its numerous inheritors).”xxvii Lenin and Gramsci sought to revitalise Marx’ break with older philosophical traditions, because they realised that history, in other forms and for other practical-­‐concrete reasons, was at risk of repeating the same mistakes in thought and in praxis. The making of a revolutionary organisation also meant to regaining the unique philosophical vitality of Marxism. The concept of the “Modern Prince”, the party-­‐type which enables the proletariat to change society by political means, is the practico-­‐philosophical nexus between politics proper, social practices and its related organic ideologies, and philosophical investigations. The Modern Prince aims to assume leadership of the working class and linking together other subaltern strata of society. While Gramsci tried to find an answer to the question of how to establish this leadership La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 71 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino against the bourgeois hegemonic apparatus against the rise of fascist coercive forces with a focus on the peculiarities of the West-­‐European history, Lenin , after making the assessment of the success of the Bolshevist political leadership during the revolution, needed to find answers how to posit “a political programme that could reshape the social relations inside a social formation devastated after the civil war”.xxviii Peter Thomas, with occasional references to Badiou’s theory of truth throughout his book, states that Gramsci and Lenin stressed the importance of a philosophy of praxis as speaking the truth. Because only speaking the truth about the contradictions of society can lead to the efficient transformation of that very society. Hegel made it clear that truth is not a static given being, but something that has to be constructed within the dialectic of a subjective and objective logic. Understanding is inadequate because thinking is part of the living totality. Gramsci translated this Hegelian historicist dialectic into an immanent social dynamic, emphasising the fusion of history and philosophy in order to “correct” history itself. The Modern Prince is not only a party-­‐model, but the laboratory of this immanent social dynamic. A specific set of social relations can be transformed through the pedagogical process between subjects in different contexts that dialectically construct the truth. Knowledge and the social are both elements of the same immanent process, which imputes political action with the good sense. Peter Thomas calls this a dialectical dialogue that encompasses “relations/translations/re-­‐translations”, and as a result the Modern Prince itself becomes an active social relation. Each subject is a philosopher who becomes aware of his position at the crossroads of politics and history. Philosophy is therefore “the shared, social conception of the world that actively worked to organise it, a particular mode of coherent organisation”.xxix 4. The many Gramsci’s: Post-­‐Marxism, contemporary philosophy and class politics Peter Thomas’ book The Gramscian Moment is also a work about myths and detours in Marxist thought. After the first years of the shock generated by the unseen atrocities of the Second World War, analysed by Sartre and Adorno, the ensuing Cold War again put the presumed differences between Western Marxism and Lenin at the forefront. The destalinisation-­‐debate of the fifties and sixties and May 1968, culminating in the fragmentation of the student movement and the failed reorientation of the communist movement under the banner of eurocommunism, released a new wave of energy throughout the philosophical field. Besides the interpretations of Marx through the prism of Hegel, Spinoza or Leibniz, two “moments”, as Peter Thomas describes it in a Hegelian fashion, became the methodological touchstones of future research concerning social formations: the Gramscian paradigm and the Althusserian paradigm. Between them, a myriad of mostly French Trotskyites, Italian Autonomists, and to a lesser extend Maoïsts acted as mediators between these two poles of opposition against the Soviet formalization of Marxist thought. On the one hand exhortations of an apparent aversive stance toward the Hegelian method blossomed -­‐ Foucault, Althusser, Deleuze, Derrida, on the other hand Gramsci had been appropriated, for better and for worse, to defy the communist party intellectuals. But even a critical amount of phenomenological thought (Heideggerian or Husserlian), Nietzschean perspectives or Spinozist conceptualisations could not provide a definite break with Hegel. After all, Hegel’s anti-­‐
foundational project, whether being lukewarm about it or not, cannot be separated from Aristotle's non-­‐contradictory inductive-­‐logical and taxonomic principles or Spinoza’s ontological monist positivity.xxx Furthermore, Nietzsche’s and Heidegger’s philosophy could not have happened as a philosophical event if they had not first developed their critique of the Hegelian dialectic.xxxi Thus, Hegel has not been philosophically negated, but even returns politically – the state as the Absolute and Reason -­‐ in a time of ubiquitous instabilities of the capitalist state-­‐form under a policy of a counter-­‐reform under the aegis of speculative world money.xxxii 72 Althusser’s endeavour to reshape Marxism as a scientific analysis of history, historical materialism, was intended to discard the theoretical contaminations of Stalinist politics. Hence his emphasis on the relative autonomy of science. In the 1960s and 1970s any debate about the revitalisation of Marxist thought referred to his radical point of view, especially regarding epistemology and the mode of analysis of historical, economic or sociological practices. Whether he was right or wrong, Althusser forced any Marxist to rethink his own scientific or ideological presuppositions. Althusser wanted to correct the theoretical practice because he wanted to invent a new political practice. Furthermore, Althusser is a key figure in the promulgation of post-­‐Marxist thought in the critical human sciences. As Jacques Rancière has shown in his book La Leçon d’Althusser (1974), Althusser gave his readers new tools for reinterpretations of the history of thought in order to understand history as social change, but post-­‐Marxists – the same happened with Althusser himself in the late writings about “aleatory materialism” – drew different conclusions. For the later Althusser, aleatory materialism has the potential to bring about a shift in the use of the Hegelian category/concept of necessity, or rather the elimination of this very concept, in favour of particularity and contingency. This message has been greeted with much enthusiasm in the post-­‐
Marxist circles. In order to understand post-­‐modern leftist thought, its scientific praxis cannot be separated from the social determinations – a process which can be baptized as “academisation”. The “academisation” of critical thought resulted in a further political division of labour between intellectuals – organic intellectuals occupying traditional professional positions -­‐ and small counter-­‐hegemonic organisations in civil society. Instead of a dissemination of critical thought throughout society, the implosion of the organizational strength of the Gramscian Prince fostered an isolation of the intellectual labour functions. The gap between the masses and the intellectuals fostered a dwindling of philosophy as the gateway to the good sense. Since the 1980’s a new generation of young turks have taken over the French opinion pages as “meta-­‐commentators” on social events. Armed with high profile university degrees, they put themselves in the limelight of the mass-­‐media, writing a hollow prose and narrating the tendency of the day. In a book called Mediocracy: French Philosophy since 1968 (2001) Dominique Lecourt analyses the origins of their compelling common-­‐sensical ideas. The “Nouvelle Philosophie” – Finkielkraut, Lévy, Glucksmann, Ferry and Renautxxxiii – reacted against the recalcitrant leftist academia. In doing so, they ironically combined a critique of the Marxist tradition, showing a profound lack of in-­‐depth knowledge of the subject, with the proliferation of the neoliberal agenda of individualism and free-­‐market policy. In order to attract attention of the higher-­‐educated middle class, they tend to do this by using strategy of mixing jargon with utterances of elitist discourse. Lecourt states that these “columnist-­‐philosophers” have the pretention to present themselves as “transcendental journalists”, but instead they vitiated critical journalism by a rightist agenda.xxxiv Any event is being judged by their own subjectivist ideological preferences. Form -­‐ the alleged putative credentials of these commentators -­‐ reined in the old metier of careful and convoluted thought. Post-­‐Marxism did not lower the bar for the interpellation of social phenomena. But it replaced the theoretical-­‐practical nexus of working-­‐class politics with the notions of the radical democracy, the network society, etc. Contrary to the “Nouvelles Philosophes” these post-­‐Marxist thinkers did not make an extreme turn to the right. Citing Ellen Meiksins Wood’s The Retreat From Class: A New ‘True’ Socialism (1986), renowned authors like Mouffe or Balibar “remain committed to egalitarian goals or to some kind of social justice, have not entirely escaped this contradiction between emancipatory aspirations and the repudiation of any moral or political foundation to support La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 73 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino them”.xxxv But their detours, via Schmitt (politics-­‐qua-­‐politics), Heidegger (post-­‐metaphysical existences), Nietzsche (genealogical methodology) or Wittgenstein (language games), end up in a one-­‐way street. This detour likewise happened with Gramsci’s concept of hegemony, which serves as a platform for postmodern political theory. While Althusser tried to add something to the theoretical moment of class politics and the post-­‐capitalist transition, Mouffe believes in the emancipatory power of a radicalised democratic practice within a class society. The theoretical practices of the new social movements within this radical democratic framework underscore identity politics and cultural issues as being just as important as the opposition between capital and class. This results in a tendency to autonomise the scattering of ideology and politics. Following Fredric Jameson in his work A Singular Modernity (2002), this autonomisation is in fact nothing more than a late-­‐modern proliferation of a series of breaks within the practices and discourses of contestation groups, because these only subjectively reflect and copy the alienated feeling of social disorientation, loss of political coherence and a fragmented life-­‐world.xxxvi In reality the dialectic ontology of capital vis-­‐à-­‐vis labour did not change. This situation, commonly known as postmodernism, results in a defeat for real emancipatory goals of the old socialism and the disconnection with class politics, although the initial purpose entailed a critique of reductionist economism under the pretence of countering hegemonic techniques in the political sphere. Although post-­‐Marxist thinkers unerringly pointed out the importance of other social and political struggles, they did not retroactively reconnect these issues with the opposition between labour and capital. The appeal of Gramsci for post-­‐Marxists is very evident: his historicist project of a renewed integration of politics, political economy, ideology and cultural phenomena eschewed any reductionist orthodox economism. But, as already mentioned, the postmodern superstructuralism not only autonomises every practice, but also refuses to properly deal with Gramsci’s strategic questions regarding the global social processes of emancipation by political means. After Mouffe’s plea for a radicalisation of bourgeois democracy, a new generation of autonomists altogether avoid the state debate, because, according to Richard Day’s sympathetic book with the suitable title Gramsci is Dead: Anarchist Currents in the Newest Social Movements (2005), they want to explore the possibilities of new forms of social relations outside the hegemonic sphere accordingly to the Deleuzian nomadic figure. This kind of voluntarist self-­‐organisation lacks a dose of necessary realism, although other autonomist political philosophers like the younger Picciotto and Holloway at times modified the displacement of the state as the nexus of class struggle – the state as a social form of class relations, but they continuously reiterate the old orthodox idea of the state as a relation of force. 5. Perry Anderson and his antinomies A word on Anderson’s interpretation of Gramsci. Anderson’s article “The Antinomies of Antonio Gramsci” still remains ubiquitous in bibliographies. I agree with Anderson’s perspicacity that the Eurocommunist interpretation is an instrumentalisation and deformation of the carceral writings. Nonetheless, eminent expert Peter Thomas states that Anderson was wrong to suppose that: a. these writings do not possess a clearly defined and fundamentally coherent project b. his reconstruction by detours of other thinkers elucidated Gramsci’s theory in a structural way c. his temporal reconstruction of the philological development of the concept of hegemony was correct d. Gramsci developed a simple opposition between the West and the East deriving from a generic state model e. Gramsci developed a simple and absolute differentiation between civil and political society in order to explain the state-­‐form f. Gramsci did not fully understand the specific political conditions of the Russian social formation and at one point blurred the differences between the 74 political and civil society g. Gramsci’s portrayal of the political conditions of the West resembles Kautsky’s analysis of the West-­‐European parliamentary states h. the Western bourgeoisie already conquered state power before possessing ideological dominant power.xxxvii I fully agree with Peter Thomas’ emendation of Anderson’s appraisal of Gramsci. It has the merit of avoiding the pitfalls of Anderson’s reading on Gramsci as the generally accepted point of view. At the same time, he provides a critique of the Post-­‐Marxist “subalternity” reading. Martin Thomas, from a Marxist point of view, partially remits Anderson’s attempt to avoid the Eurocommunist appropriation of Gramsci, which can also be read in Gregory Elliott’s book Perry Anderson: The Merciless Laboratory of History (1998). Elliott underscores the fact that Anderson tried to reinvent the Marxist revolutionary tradition in a time of discredited sovietism and failing Eurocommunist trajectories. “Noting that Gramsci had utilized the concept of “hegemony” … to essay a differential analysis of the structures of bourgeois power in the West, Anderson sought to dispel the left social-­‐democratic “illusions” created by one of the models of hegemony decipherable in Prison Notebooks.”xxxviii In the eyes of Anderson, Gramsci’s notebooks could lead to a Eurocommunist interpretation when not rectified by other Marxist philosophers. His alternative is complex to pinpoint, because he simultaneously had to revaluate his old reformist illusions. The result was eclectic:” Anderson's reiteration of Marx's anatomy of the liberal-­‐representative state in The Jewish Question does not subscribe to the “dominant ideology thesis” characteristic of Western Marxism (it does not discount the “dull compulsion of economic relations” referred to by Marx in Capital). It does, however, identify the ideology of the bourgeois democracy present in the West … as the cultural dominant of capitalist class power and therewith it repudiates the prioritization of consent in civil society in Problems of Socialist Strategy. An alternative model of Gramsci's, assimilating “civil society” to the state, was likewise considered by Anderson to misconceive the uniqueness of the West and to induce political aberrations -­‐ of either a reformist-­‐Eurocommunist genre or an ultraleftist Maoist variety -­‐ insofar as the classical notion of political revolution, directed at the state apparatus, was therein dissolved into “cultural revolution”.”xxxix Anderson’s greatest concern was the Eurocommunist “culturalisation” of the state, which in fact inversed the old idea of state monopoly capitalism. In both cases the political moment has been reduced to state apparatus or civil society. He also wanted to go beyond the symmetrical ideological relation between the political and civil society in Western Marxism. Martin Thomas, fully agreeing with Anderson and Elliott, warns about the consequences of the conflation between the state and civil society, because the liberal ideological values of the state concerning freedom of speech and freedom of press are also positive values in a proletarian state.xl But Peter Thomas rescinds Anderson’s binary model solution, elucidating Gramsci’s unique elaboration of the state-­‐form. Gramsci also understood ideology as a material, semiotic and therefore social practice which runs through this state-­‐form. Gramsci underscored the fact that ideology could only be as effective as the mechanisms for wielding power over the state. But, on the other hand, regarding their respective political coordinates, Martin Thomas asserts that the scope of disagreement between Anderson and Peter Thomas is limited. Peter Thomas is wrong to suppose that Anderson’s misconceptions arose from his Eurocommunist sympathies. Thus, Peter Thomas is right in negating Anderson’s conceptual framework, while Martin Thomas and Gregory Elliott are right in emphasising the Marxist political motivations. 6. Conclusion The contemporary contributions towards a more balanced and better contextualized evaluation of Lenin’s thought bring us closer to a versatile understanding of the tensions between changing La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 75 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino intellectual traditions of representation and the historical tensions between the main protagonists of the pre-­‐war Marxist scientific paradigm. The Menshevik-­‐Kautskyan-­‐Luxemburgian and Western Kremlinologist division between an authoritarian deviated eastern Lenin and a western democratic socialist tradition cannot hold. Lenin, within the specific particularities of the Russian social formation, never departed from the shared Marxist tenets and the ensuing debates thereof. The heated discussions, although adumbrating international political divergences, always expressed commensurable thematic and programmatic concepts and principles. The purely endless exegetic interpretations of the old communist movements are inflexible and fruitless. A proper historiographical turn needs to replace the conflation of Lenin’s writings with the idea of a homogenous Soviet system. Furthermore, history and theory have to be integrated in order to develop a critical stance towards contemporary unreflective assumptions regarding the value of Lenin’s thought. Gramsci also belonged to the same Marxist tradition. He gave attention to the understanding of the differences between bourgeois and proletarian historical dialectic of association and organisation as political-­‐cultural material practices.xli Working-­‐class politics does not solely aim to question and contest the hegemonic ideology nor does it have to copy the bourgeois form of association. Rather, it needs to posit truth as a practical principle of organisation that channels the potential power of the proletarian association to reconfigure the social relations. Both Gramsci and Althusser realise that ideology is not purely a matter of thought, but consists of a material quality in the social practices, relations and institutions. And both understand that the bourgeois hegemony consist of multiple layers of consent or multiple practices within numerous institutions. Post-­‐Kantian thought still reigns in the academic realm: this construal of critique focuses on the epistemological conditions of knowledge and the limitations of understanding. Subsequently the mapping of the cognitive faculties determines the ontological foundations of reality. The philosophy of praxis, dependent on the Hegelian-­‐Marxist tradition, consists both of a critique of past philosophies and a new philosophical practice – the practice of searching the truth and the politics of truth. Post-­‐Kantians do not aim to actively reform the institutions. Gramsci goes beyond the concept of understanding. As already mentioned, the foundations of philosophy can only be changed by the dialectical-­‐pedagogical process between subjects in which the everyday practices of the common sense forms a moral-­‐intellectual bloc with the basic tenets of Marxism. This unity of differences between theory and praxis can integrate the concreteness of daily life, while Post-­‐
Kantians still try to find the perennial philosopher’s stone behind their desk. Lenin, Gramsci, and the traditions of modern Marxist thought express a profound historical demand, wherein, pace Kant, the critical component undergirds reason with the long-­‐lasting class struggle. As Deleuze noted, the Kantian project has been doomed to fail when the applied formalization of reason cannot discern its own becoming.xlii i
V.I. Lenin, The Development of Capitalism in Russia. Collected Works Volume 3, Progress Publishers, Moscow, 1964,
J. Gronow, On the Formation of Marxism. Karl Kautsky’s Theory of Capitalism, the Marxism of the Second
International and Karl Marx’s critique of Political Economy, Helsinki, Societas Scientarium Fennica, 1986, p. 111.
iii
T. Mcdonough, Lenin, Imperialism, and the Stages of Capitalist Development, in: Science & Society, 59:3 (1995), pp.
340-343.
iv
A further reappraisal of Lenin and the ethics of the October Revolution: A. Callinicos, Leninism in the Twenty-first
Century? Lenin, Weber, and the Politics of Responsibility, in: S. Kouvelakis, S. Zizek, et al. (eds.), Lenin Reloaded:
Toward a Politics of Truth, Duke University Press, Durham, 2007, pp. 28-36.
v
M. Thomas (ed.), Antonio Gramsci: Working-Class Revolutionary. Essays and Interviews, Workers’ Liberty Press,
London, 2012, p. 15.
ii
76 vi
For a round-up of Lenin as a deviation from classical Marxism see: J.H.L. Keep, The Rise of Social Democracy in
Russia, Oxford University Press, Oxford, 1963; A. Ascher, The Revolution of 1905: Russia in Disarray, Stanford
University Press, Stanford, 1988; L. Haimson, Russia’s Revolutionary Experience, 1905-1917: Two Essays, Columbia
University Press, New York, 2005.
vii
P. Mattick, The Lenin Legend, 1935. http://www.marxists.org/archive/mattick-paul/1935/lenin-legend.htm (accessed
20 April 2014).
viii
Historical Materialism 18:3 (2010).
ix
L. T. Lih, Lenin Disputed, in: Historical Materialism, 18:3 (2010), pp. 163.
x
L. T. Lih, Lenin Rediscovered: What Is to Be Done? in Context, Haymarket Books, Chicago, 2008, pp. 93-6.
xi
M. Thomas (ed.), op. cit., p. 24.
xii
Ibid, p. 26.
xiii
C. Brendel, Kronstadt: Proletarian Spin-Off of the Russian Revolution, in: W. Bonefeld; S. Tischler, What Is to Be
Done? Leninism, Anti-Leninist Marxism and the Question of Revolution Today, Ashgate, Farnham, 2003, p. 18.
xiv
L.T. Lih, op. cit., 2010, pp. 159-160.
xv
R.W. Davies, Soviet Economic Development from Lenin to Khrushchev, Cambridge University Press, Cambridge,
1998, p. 8.
xvi
For a historical revision of the mistaken assumption of the SPD as a monolithic Marxist party see: H.J. Steinberg,
Karl Kautsky und Eduard Bernstein, in: H.U. Wehler (ed.), Deutsche Historiker (4), V&H Verlag, Göttingen, 1972, pp.
53-64; K. Brandis, Der Anfang vom Ende der Sozialdemokratie. Die SPD bis zum Fall des Sozialistengesetzes,
Rotbuch, Berlin, 1975; S. Papcke, Karl Kautsky und der historische Fatalismus, in: C. Pozzoli (ed.), Jahrbuch
Arbeitersbewegung, Fischer Verlag, Frankfurt, 1975, pp. 231-46; H.J. Steinberg. Sozialismus und Deutsche
Sozialdemokratie. Zur Ideologie der Partei vor dem 1. Weltkrieg, Dietz Verlag, Berlin, 1976, pp. 38-46.
xvii
S. Perkins, Marxism and the Proletariat. A Lukacsian Perspective, London, Pluto Press, 1993, p. 80.
xviii
C. Brendel, op. cit., p. 26; S. Clarke, Was Lenin a Marxist? The Populist Roots of Marxism-Leninism, in: W.
Bonefeld; S. Tischler, What Is to Be Done? Leninism, Anti-Leninist Marxism and the Question of Revolution Today,
Ashgate, Farnham, 2003, p. 71.
xix
N. Harding, Lenin's Political Thought Theory and Practice in the Democratic and Socialist Revolutions, Chicago,
Haymarket Books, 2009, p. 157.
xx
The ironic twist of this dispute is that both Lenin and Luxemburg tried to make a connection between mass politics
and spontaneous corporate praxis. Contra the romanticisation of the anarcho-syndicalists, both tried to categorize the
different kinds of strikes and corporatist demands. Regarding Luxemburg, see: D. Behrens, Perspectives on Left
Politics: On the Development of anti-Leninist Conceptions of Socialist Politics, in: W. Bonefeld; S. Tischler, What Is to
Be Done? Leninism, Anti-Leninist Marxism and the Question of Revolution Today, Ashgate, Farnham, 2003, p. 37.
xxi
L.T. Lih, op. cit., 2008, pp. 423-457.
xxii
B. Fontana, Hegemony & Power. On the Relation between Gramsci and Machiavelli, Minneapolis, University of
Minneapolis Press, 1993, p. 33.
xxiii
P. Bourdieu, Public Opinion does not Exist, in: A. Mattelart; S. Siegelaub, Communication and Class Struggle.
Volume 1. Capitalism, Imperialism, New York, International General, 1979, p. 125.
xxiv
See Laclau’s superb analysis of Latin America: E. Laclau, Politics and Ideology in Marxist Theory. Capitalism,
Fascism, Populism, London, Verso, pp. 176-194.
xxv
V.I. Lenin, Reply to P. Kievsky (Y. Pyatakov). Collected Works Volume 23, Moscow, Progress Publishers, 1964, p.
25.
xxvi
S. Rosen, The Idea of Hegel's Science of Logic, Chicago, Chicago University Press, 2014, p. 4.
xxvii
P.D. Thomas, The Gramscian Moment. Philosophy, Hegemony and Marxism, Brill, Leiden, 2009, p. 361.
xxviii
M. Thomas (ed.), op. cit., p. 21.
xxix
Ibid, p. 38.
xxx
R. Bhaskar, Dialectic: The Pulse of Freedom, London, Routledge, 2008, pp. 73-74; p. 240.
xxxi
D. Coole, Merleau-Ponty and Modern Politics after Anti-Humanism, Plymout, Rowman & Littlefield, 2007, p. 84.
xxxii
D. MacGregor, Hegel and Marx after the Fall of Communism, Cardiff, University of Wales Press, 1998.
xxxiii
For example, Ferry and Renaut claim that the “philosophy of May 1968” completely reduced the question of
modern subjectivity to the field of obsolete metaphysics under the banner of anti-humanism. Rather, the “antihumanist” interrogation of subjectivity tried to rectify the old idea of transparency of the knowing subject, bringing in
both the historical as a site of production of power, and what escapes history. L. Ferry; A. Renaut, La Pensée 68. Essai
sur l’anti-humanisme contemporain, Paris, Gallimard, 1988, p. 74.
xxxiv
D. Lecourt, Mediocracy: French Philosophy since 1968, London, Verso, 2001, pp. 75-97.
xxxv
E. Meiksins Wood, The Retreat from Class: A New "true" Socialism, London, Verso, 1999, p. xiii.
xxxvi
F. Jameson, A Singular Modernity. Essay on the Ontology of the Present, London, Verso, 2002, pp. 23-36.
xxxvii
P.D. Thomas, op. cit., pp. 47-67.
xxxviii
G. Elliott, Perry Anderson: The Merciless Laboratory of History, Minneapolis, University Of Minnesota Press,
1998, p. 113.
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Ibid, p. 114.
M. Thomas, op. cit., p. 52.
xli
Ibid, pp. 16-23.
xlii
G. Deleuze, Nietzsche and Philosophy, London, Athlone Press, 1983, p. 91.
xl
COSA C’ENTRA LA CRISI ALIMENTARE CON LA “PRIMAVERA ARABA”? Iside Gjergji 1. Parliamo del pane. La “guerra del pane” insanguinava da mesi l’Algeria e la Tunisia, quando il ministro dell’agricoltura egiziano ordinò all’inizio del 2010 l’aumento dell’importazione di carne dal Kenya e di mucche dall’Etiopia. Il ministro egiziano puntava a compiere il “miracolo”, ovvero cercava di evitare che si ripetesse in Egitto lo scenario del 2008, periodo in cui in diverse città egiziane, e in particolare a Mahalla al-­‐Kubra, vi furono massicce proteste contro l’aumento del prezzo del pane. I palazzi del Cairo furono scossi dalla fondamenta allora e il governo di Mubarak non poteva permettersi di nuovo una simile ondata di proteste. La situazione, però, era disperata: secondo la FAO, infatti, nel dicembre 2010, il prezzo dei prodotti alimentari in Egitto aveva raggiunto un “livello record”, arrivando a sfiorare un aumento del 20%. Infatti, gli sforzi del ministro egiziano furono vani e oggi, a distanza di tre anni dalla cacciata di Mubarak, lo sappiamo bene. Eppure, nell’analisi mainstream dei fattori che hanno fatto esplodere le rivolte arabe del 2011, la questione della crisi alimentare resta quasi sempre in secondo piano. Come se si trattasse di una faccenda di second’ordine, che nulla c’entra con la rabbia espressa dai popoli arabi scesi in piazza per chiedere “bread, freedom, social justice” (“pane, libertà e giustizia sociale”). Sulla “libertà” si sono spesi fiumi di inchiostro, sulla “giustizia sociale” un po’ meno, eppure qualcosa è stato scritto, sul “pane” – che pure era il primo elemento rivendicato nelle piazze – nulla, o quasi. 78 Allora, vale la pena ripercorrere, seppur sinteticamente, la storia della crisi alimentare in Nord Africa, al fine di individuare le cause di fondo e di cercare di intravvedere future traiettorie. 2. L’origine del problema: si parte da lontano. La storia inizia da lontano, ovvero dal periodo coloniale1, quando le colonie furono forzatamente “convertite in zone di approvvigionamento di cibo e materie prime per alimentare il capitalismo europeo” (McMichael, 2009a: 1) e prosegue, nel cosiddetto ‘periodo post-­‐coloniale’, con le politiche imposte dalle istituzioni internazionali (neo)liberali (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione Internazionale del Commercio) ed il saccheggio organizzato da parte delle grandi corporation dell’agroalimentare, che hanno trasformato i paesi del Sud in una “fattoria globale”, attraverso cui alimentare una minoranza di consumatori, concentrati per lo più in Occidente. Il nuovo ordine mondiale, così come uscito dalla seconda guerra mondiale e dagli accordi di Bretton Woods, ha fortemente influenzato, sin dall’inizio, i mercati dei prodotti alimentari. Già con il programma Usa di aiuti alimentari, approvato dal Congresso statunitense nel 1954, con la legge n. 480, furono create le premesse per un forte dominio degli Usa nel commercio mondiale dei prodotti alimentari, in particolare nei due decenni successivi, dal momento che gli Usa trasformarono le loro eccedenze alimentari in “aiuti” per altri stati, vale a dire in aiuti per quei paesi che erano ritenuti “meritevoli” sulla base degli interessi economici e geopolitici statunitensi. Già questo sistema di “esportazione” contribuì a destabilizzare i mercati mondiali dell’agroalimentare e a scuotere i mercati interni dei singoli paesi, riducendo spesso al lastrico gli agricoltori locali, non più in grado di competere con i prezzi bassi degli alimenti, causati dall’introduzione massiccia di prodotti agricoli di importazione. Accanto a questo fattore di destabilizzazione dei mercati mondiali degli alimenti, occorre aggiungerne un altro: il modello di sviluppo imposto ai paesi “post-­‐coloniali”, specie a quelli che sono comunque rimasti nell’orbita dell’influenza dei vecchi paesi colonizzatori. Si è trattato, in sostanza, di un modello di sviluppo fondato sulla commercializzazione/privatizzazione dei beni pubblici (terra, foresta, acqua, risorse energetiche) e sull’importazione dell’industria, della tecnologia e dei beni di consumo (McMichael, 2009a: 4). Ciò ha consentito non solo la riproduzione dei meccanismi di sfruttamento coloniale, ma ha anche causato una forte restrizione del settore agricolo di quei paesi, avendo come risultato la diminuzione della popolazione La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 79 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino mondiale rurale e la sua conseguente urbanizzazione. Si calcola che, dal 1950 al 1997, la popolazione rurale nel mondo sia diminuita di circa il 25% e ora il 63% della popolazione urbana mondiale abita ai margini delle metropoli del Sud del mondo (McMichael, 2009a: 5). Tra il 1980 e il 2010 la popolazione rurale nel mondo arabo è scesa in modo significativo, da circa il 60% a circa il 40 %. In termini assoluti, circa settanta milioni di persone hanno lasciato le campagne per stabilirsi nei centri urbani (Kadri, 2012). Il vero e proprio assalto, però, all’economia alimentare del Sud è arrivato verso la metà degli anni ’70. E’ in questo periodo, infatti, che si registrò la saturazione del consumo pro-­‐capite di alimenti in Occidente. Questa saturazione spinse i colossi occidentali dell’industria alimentare – fortemente preoccupati della parabola discendente dei loro profitti – a chiedere (e ad imporre) con forza la liberalizzazione del mercato mondiale dei prodotti agroalimentari. La liberalizzazione dei mercati dei paesi periferici del globo avrebbe consentito, come in effetti ha consentito!, la penetrazione massiccia dell’industria occidentale alimentare in tali paesi, assicurando nuove fette di mercato da colonizzare e, di conseguenza, maggiori profitti (Wilkinson, 2009). Per realizzare in fretta l’obiettivo prefisso bisognava attraversare un passaggio “obbligato”: ovvero smantellare dalle fondamenta l’indipendenza agroalimentare dei paesi periferici. Questi dovevano diventare, infatti, e molto rapidamente, dipendenti dalle multinazionali occidentali. Diversamente operando, ogni strategia di penetrazione delle multinazionali occidentali nei mercati del Sud avrebbe potuto rischiare il fallimento. Tali intenzioni, del resto, si evincono con estrema chiarezza anche nelle parole dell’allora segretario all’agricoltura statunitense: “L’idea che i paesi in via di sviluppo siano in grado di sfamarsi da soli è un anacronismo che appartiene a un’epoca remota; essi potrebbero assicurarsi una maggiore sicurezza alimentare acquistando prodotti agricoli statunitensi, disponibili in molti casi a prezzi inferiori” (Schaeffer, 1995: 268). La modalità scelta per imporre il processo di liberalizzazione dei mercati agroalimentari del Sud è stato il ricatto. Ognuno di questi paesi, letteralmente strozzato dai debiti, era (ed è) costretto a chiedere al FMI e alla BM la rinegoziazione del debito (attraverso la richiesta di nuovi prestiti), per non vedere morire di fame o di malattie le proprie popolazioni. Queste istituzioni internazionali si mostravano disponibili alla rinegoziazione del debito, a patto però che fosse consentito alle multinazionali occidentali di varcare i confini di tali paesi e, soprattutto, che questi ultimi fossero 80 disposti a demolire gli stock governativi che avevano garantito, fino ad allora, la (quasi) indipendenza alimentare. Con la pistola puntata alla tempia, i governi di molti paesi del Sud, in particolare quelli africani, hanno dovuto arrendersi ed accettare il ricatto. Questo processo si è ulteriormente rafforzato ed ampliato con gli “accordi” imposti dalla WTO (World Trade Organisation – Organizzazione Mondiale del Commercio), a partire dalla metà degli anni ’90. Per poter accedere ai mercati mondiali, i paesi periferici erano tenuti a sottoscrivere degli accordi con la WTO. Tali accordi proibivano (e tuttora proibiscono!) a tali paesi di creare riserve alimentari pubbliche, di sostenere i prezzi agricoli attraverso politiche protezionistiche, di controllare la produzione agricola, di introdurre restrizioni commerciali o sovvenzionamenti vari. Queste erano (e tuttora sono!) le condizioni capestro imposte dalla WTO per consentire l’accesso dei paesi periferici ai mercati mondiali. Nell’altra parte del globo, ovvero nei paesi occidentali, la musica è stata diversa. Qui i sussidi pubblici per il settore agroalimentare sono stati importanti, anche se negli ultimi anni stanno lentamente diminuendo. In ogni caso – occorre esplicitarlo! – si è sempre trattato di sussidi che hanno favorito esclusivamente le grandi imprese agricole capitalistiche. Queste si sono trovate così ad operare nei mercati partendo da una posizione particolarmente favorevole, perché i loro profitti sono in qualche modo garantiti, indipendentemente dall’esito delle operazioni commerciali nei mercati mondiali. L’evidente squilibrio tra Nord e Sud ha consentito, infatti, alle multinazionali statunitensi ed europee di vendere i loro prodotti a livello mondiale ad un prezzo inferiore rispetto ai costi di produzione (OXFAM, 2008). Il che ha letteralmente demolito l’economia agricola dei paesi del Sud, non potendo competere con i bassi prezzi dei prodotti imposti dalle multinazionali. Le conseguenze generali di questo attacco organizzato sono state dunque: 1) lo smantellamento dell’auto-­‐sufficienza alimentare dei paesi periferici; 2) la caduta del prezzo mondiale dei beni agricoli; 3) la distruzione dell’economia agricola interna a tali paesi (McMichael, 2009b). 3. La seconda fase dell’attacco. La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 81 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino Nel periodo compreso tra il 1975-­‐2001 si calcola che il prezzo del cibo a livello mondiale sia sceso del 53% (in dollari Usa e al netto dell’inflazione), mentre dopo il 1995 i prezzi dei prodotti agricoli scambiati globalmente sono crollati di oltre un terzo, raggiungendo i prezzi più bassi di sempre (The Economist, 1999: 75). E’ nei paesi africani, in particolar modo, che gli esiti di tali politiche sono maggiormente evidenti. Secondo le statistiche, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, gran parte dei paesi africani sono stati costretti ad importare più del 25% del cibo necessario per poter sfamare le loro popolazioni. L’Egitto rappresenta, in questo senso, un caso scuola. Se negli anni ’60 l’Egitto era in grado di soddisfare il mercato interno di tutti i prodotti-­‐base, ad eccezione del grano (che comunque copriva il 70% dei bisogni interni), nel 2008 le importazioni agricole hanno superato la cifra di 8 miliardi di dollari, facendo così dell’Egitto il primo e il secondo importatore di grano e mais al mondo (Minot et al., 2010: 68-­‐69). Le esportazioni agricole, invece, si sono assestate intorno a un miliardo di dollari nel periodo 2004-­‐2006 (si tratta soprattutto di prodotti ortofrutticoli, riso e cotone). In un paese come l’Egitto, dove circa il 40% della popolazione soffre di problemi di malnutrizione, la minima riduzione del livello di offerta interna si traduce in una riduzione del consumo pro capite. E’ stato infatti calcolato che negli ultimi venti anni, il consumo medio di prodotti alimentari di base pro-­‐capite in Egitto è sensibilmente diminuito. Il tasso di malnutrizione nei bambini in Egitto, infatti, ha raggiunto il 30%. (Kadri, 2012). Anche in Tunisia, a partire dalla metà degli anni ’80, il settore agricolo ha conosciuto una fortissima contrazione, a causa della liberalizzazione dei prezzi, dell’aumento dei costi di produzione e della restrizione creditizia. Non potendo più fare fronte alle difficoltà, molti piccoli contadini sono stati costretti a vendere i propri terreni, andando così ad ingrossare le fila dei proletari nelle periferie delle metropoli. Il processo, inoltre, ha consentito anche la concentrazione della proprietà terriera e della produzione agricola in pochissime mani, spesso straniere, che, in seguito, hanno potuto influenzare (e gestire dall’alto) direttamente l’andamento dei prezzi dei cereali (OECD, 2008: 588). Il processo di liberalizzazione commerciale dei prodotti agroalimentari, oltre ad aver distrutto il settore dell’agricoltura e ad aver imposto lo smantellamento dell’autosufficienza alimentare dei paesi del Sud, ha prodotto anche una maggiore concentrazione nella produzione. Vale a dire che dal processo di liberalizzazione commerciale sono sopravissute poche imprese, ossia le più competitive, le uniche in grado di soddisfare le richieste di prodotti a basso prezzo avanzate dai 82 (super)mercati globali. Se si tiene presente che, nel 2000, il 60% delle azioni globali investite nei prodotti agroalimentari apparteneva a imprese multinazionali, sei delle quali controllavano l’80% del commercio mondiale di frumento e riso, tre paesi producevano il 70% del mais da esportazione (Angus, 2008), cinque corporation controllavano il commercio mondiale del grano e poche imprese produttrici di sementi, pesticidi e fertilizzanti controllavano più del 30% del mercato, allora riusciamo ad avere un quadro abbastanza chiaro delle conseguenze della liberalizzazione commerciale e di come sia stato facile imporre i prezzi (sia bassi che alti) che hanno poi letteralmente distrutto l’economia agroalimentare del Sud. L’arma del prezzo, insomma, era impugnata da poche multinazionali, le quali potevano disporne in qualsiasi momento, puntandola, di volta in volta, contro questa o quell’altra popolazione. Qualche dato sulla situazione negli Stati Uniti potrebbe rendere ancora meglio l’idea della fortissima concentrazione proprietaria nel settore alimentare: “All’inizio dell’millennio la situazione era la seguente: 55% della produzione di carne di pollo è controllata da Tyson Foods, Gold Kist, Perdue Farms e ConAgra; 87% della produzione di manzo è controllata da Ibp, ConAgra e Farmland Industries; 60% della produzione di maiale è controllata da Smithfield, Ibp, ConAgra e Cargill; 62% della farina è controllata da Adm, ConAgra, Cargill e CerealFood Processors; 57% della macinazione a secco del mais è controllata da Bunge, Illinois CerealMills, Adm e ConAgra e il 74% del mais umido è detenuto da Adm, Cargill, Tate and Lyle e Cpc” (Brenni, Franchini , 2011)2. In uno scenario di questo tipo, infatti, svanisce persino l’esigenza di stabilire pratiche collusive tra cartelli alimentari che operano nei mercati. Per le corporation maggiori è sufficiente ‘aggiustare’ il loro comportamento, in totale autonomia, per creare un controllo informale su produzione e prezzi. Dopo la fase discendente dei prezzi, a seguito della liberalizzazione commerciale e la concentrazione monopolistica della produzione nel settore agroalimentare – che ha messo in ginocchio l’economia agricola del Sud – negli ultimi dieci anni la tendenza si è invertita: i prezzi degli alimenti-­‐base sono enormemente e rapidamente aumentati. 4. I Quattro fattori principali che hanno causato la crisi. A causare l’impressionante aumento dei prezzi alimentari sono stati diversi fattori: La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 83 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino a) possiamo, innanzitutto, menzionare il boom dell’industria mondiale di biocarburanti, in particolar modo quella statunitense, essendo gli Stati Uniti un paese sempre più dipendente dalle risorse energetiche. La produzione di biocarburanti – a base di grano, mais, bietola, canna da zucchero, etc. – è sostenuta in occidente da imponenti sussidi pubblici ed è considerato uno dei settori industriali da potenziare. Soltanto negli Stati Uniti, uno dei maggiori produttori di biocombustibile, i sussidi arrivano a 1.38 $ a gallone, ovvero la metà del prezzo di vendita all’ingrosso. E secondo il programma “Renewable Fuels Standards”, approvato sotto la presidenza Bush, l’obiettivo è quello di accrescere il volume fino a 36 milioni di galloni entro il 20223 (Magdoff, 2008). A seguito dello sviluppo dell’industria dei biocarburanti, i prezzi di molti prodotti-­‐
base dell’alimentazione hanno conosciuto un forte aumento. Per avere un’idea generale di come tutto questo abbia dirette ripercussioni sui prezzi alimentari a livello mondiale, basta osservare come negli ultimi dieci anni più del 6% della produzione di grano (complessivamente 350 milioni di tonnellate) sia stato utilizzato per scopi energetici. Secondo una ricerca dell’IFPRI (Istituto internazionale di ricerca sulle politiche alimentari), la crescente produzione di biocarburanti “porterebbe ad una diminuzione della disponibilità di cibo e di consumo di calorie in tutte le regioni del mondo, in particolare ne soffrirebbe di più l’Africa sub-­‐sahariana”; b) tra i fattori che hanno determinato l’impennata dei prezzi dei prodotti agroalimentari a livello mondiale vi è anche l’aumento dei prezzi petroliferi a partire dal 2007. Nel 2008 il prezzo per ogni barile di petrolio ha toccato la cifra di 150 dollari, rendendo di conseguenza più costosi la produzione ed il trasporto dei prodotti agroalimentari, nonché più conveniente la produzione di biocarburanti. L’aumento del prezzo del petrolio è causato, a sua volta, dalla combinazione di una serie di fattori, tra cui: l’intensificazione della domanda di energia da parte dei cosiddetti “paesi emergenti” (quali la Cina e l’India, fino ad arrivare alla Corea del Sud, Messico, Turchia e Polonia), la speculazione finanziaria, etc.; c) altro elemento importante, da annoverare tra le concause dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari, è la speculazione finanziaria nel mercato dei prodotti alimentari. Ad esempio, il prezzo del riso è salito del 31% il 27 marzo 2008 e il grano del 29% il 25 febbraio 2008. Il New York Times, del 22 aprile 2008, così scriveva: “Questo boom dei prezzi ha attirato una valanga di nuovi investimenti da parte di Wall Street, che si stima essere attorno ai 130 miliardi di dollari”. Nello stesso articolo, si specifica inoltre che la Commissione sul commercio dei prodotti “future” riferiva che: 84 “I fondi di Wall Street controllano da un quinto alla metà dei contratti future per le materie prime come il mais, grano e bestiame vivo su Chicago, Kansas City e New York. Tra gli scambi di Chicago [...] i fondi rappresentano il 47% dei contratti a lungo termine per i futures di maiale vivo, il 40% nel grano, il 36% in bovini vivi e il 21% nel mais" (Berthelot, 2008). L’influenza della speculazione sull’andamento dei prezzi alimentari è causata anche dalla politica espansiva della FED, unita al drenaggio degli avanzi commerciali dei paesi periferici da parte degli Stati Uniti, nonché dallo scoppio della bolla del mercato delle “dotcom” nel 2000, che ha spinto molti investitori a cercare nuovi mercati, “più sicuri”, per i loro investimenti. Soltanto nel periodo 2005-­‐2008 la speculazione finanziaria ha determinato la triplicazione del prezzo del mais, aumentato del 127% quello del grano e del 170% il prezzo del riso (McMichael, 2009b: 283). Una conferma diretta del ruolo giocato dalla speculazione finanziaria nell’andamento dei prezzi alimentari si può trovare nelle parole di Mike Masters, fund manager di Capital Management Master, il quale, dinanzi al Senato degli Stati Uniti nel 2008, ha confermato il ruolo chiave della speculazione finanziaria nel rialzo dei prezzi alimentari a livello mondiale: “Siamo venuti a conoscenza di questa [ndr. speculazione alimentare] nel 2006. Non mi sembrava molto importante allora. Ma nel 2007-­‐2008 la realtà è venuta a galla. [...] Quando ho guardato i flussi ho avuto le prove. Conosco molti commercianti e tutti hanno confermato ciò che stava accadendo, la maggior parte del business alimentare è ormai speculazione ... direi il 70-­‐80%”. Anche Hilda Ochoa-­‐Brillembourg, presidente del Gruppo di Investimento Strategico a New York, concorda con quanto affermato da Masters. Lei stima, infatti, che la domanda speculativa di futures nel campo dei prodotti alimentari è aumentata del 40-­‐80% dal 2008. L’inglese The Telegraph si spinge persino ad affermare che vi sia una connessione diretta tra le manovre della Federal Reserve statunitense, finalizzate a “rilanciare” il credito attraverso operazioni monetarie dirette all’acquisto dei titoli statali o altri titoli “sicuri” (il cosiddetto “quantitative easing”) e le recenti sollevazioni in Nord Africa. La connessione tra i due processi, quello finanziario della FED e quello delle sollevazioni nordafricane, sono rappresentate, infatti, in un grafico, la cui eloquenza colpisce. Ogni volta che la FED usa il “quantitative easing” i prezzi degli La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 85 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino alimenti a livello mondiale crescono, fino ad arrivare ai livelli scioccanti del 2011, in corrispondenza con il secondo “quantitative easing” della FED. Fonte: FMI indice dei prezzi alimentari, Bloomberg, Europe Economics, pubblicato da A. Lilico, How the FED triggered the Arab Spring uprisings in two easy graphs, The Telegraph, 4 maggio 2011 d) altri fattori da tenere in considerazione, senza tuttavia accettare spiegazioni convenzionali e naturalistiche sul tema, sono gli elementi “congiunturali”: i disastri meteorologici ed ecologici5. Ciò che ha scritto John Vidal sul Guardian, nel novembre 2007, riassume molto bene il quadro generale: “Il Programma Ambientale delle Nazioni Unite ha dichiarato che l’acqua, la terra, l’aria, le piante e gli animali del pianeta sono tutti in ‘declino inesorabile’. Secondo il Programma alimentare delle Nazioni Unite (PAM), 57 paesi, tra cui 29 in Africa, diciannove in Asia e nove in America Latina, sono stati colpiti da inondazioni catastrofiche. I raccolti sono stati colpiti dalla siccità e ondate di calore in Asia, Europa, Cina, Sudan, Mozambico e Uruguay”. 86 Molti paesi produttori di cereali, infatti, hanno dovuto ridurre la quantità di cereali da esportare, causando di conseguenza l’impennata dei prezzi nei mercati mondiali. L’aumento pauroso dei prezzi dei prodotti alimentari, a partire dalla fine del 2007 ad oggi, può di sicuro essere considerata diretta conseguenza di una “tempesta perfetta”, come si afferma in un recente rapporto delle Nazioni Unite. Tuttavia, questa “tempesta” non ha davvero nulla di “naturale”. Si tratta, in realtà, di una “tempesta” causata dalla combinazione perfetta di cause economiche, sociali e politiche, da cui non ci si può davvero difendere, a meno che non si decida di cambiare radicalmente il sistema che l’ha prodotta. 5. Di che colore si tingerà l’orizzonte del futuro? Quello che stiamo vivendo ha tutta l’aria di essere un passaggio epocale e, non a caso, l’Economist considera il 2007 come l’anno che ha sancito la fine di un’era e l’inizio di un’altra, ovvero: “L’era della fine del cibo a buon mercato”6. Nella nuova era, cioè quella dei prezzi stratosferici del cibo, la vita delle popolazioni dei paesi periferici del mondo diventa impossibile, posto che ora sono costretti a importare ciò che prima riuscivano a produrre in (quasi) totale autonomia. Il popolo egiziano si è ribellato a tutto ciò. Da quando Saddat, il successore di Nasser, prese il potere ed avviò le riforme economiche liberiste in Egitto, ulteriormente rafforzate e rinvigorite in seguito da Mubarak, l’Egitto ha iniziato a perdere la sua indipendenza agroalimentare nonché a vedersi restringere sempre di più il settore agricolo, che ora conta non più del 14,6 % dell’intero PIL nazionale. L’impennata dei prezzi agroalimentari – va da sé! -­‐ si è tradotta nell’allargamento della povertà7. E in una società come quella egiziana, in cui gran parte della forza-­‐lavoro è impiegata nell’economia informale8, tutto ciò significa ridurre letteralmente alla fame milioni di persone. Anche in Tunisia, paese considerato il “fiore all’occhiello” del FMI e della BM negli ultimi venti anni, e dove il livello di disoccupazione tra il 2000 e il 2008 ha oscillato tra il 13,9 e il 15,7%, l’aumento dei prezzi alimentari a livello mondiale ha avuto nefaste conseguenze, gettando nella disperazione milioni di persone. L’orizzonte che abbiamo davanti è, se possibile, ancora peggiore di quello che abbiamo conosciuto finora. I prezzi degli alimenti, nel 2011, sono aumentati del 10% anche in Europa (Vidal, La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 87 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino 2011). Per di più, secondo quanto riferisce l’ONU, i prezzi alimentari sono destinati ad aumentare fino al 40% nel prossimo decennio (Allen, 2011). Se si tengono in considerazione tutti questi elementi (liberalizzazione commerciale, speculazione finanziaria, smantellamento dell’indipendenza alimentare dei paesi periferici, imposizione di politiche liberiste, impoverimento generalizzato di milioni di individui e riduzione alla fame), appare evidente il collegamento esistente tra l’aumento dei prezzi alimentari e le recenti sollevazioni in Nord Africa. Analizzando l’andamento dei prezzi mondiali degli alimenti, c’è persino chi, come Andrew Lilico, direttore di Europe Economics, azzarda singolari paragoni storici. Egli rileva, infatti, osservando l’andamento dei prezzi alimentari dal 1848 ad oggi, come ad ogni aumento repentino dei prezzi alimentari corrisponda un maggiore numero di rivoluzioni, in diversi paesi. Fonte: A. Lilico, “How the FED triggered teh Arab Spring uprisings in two easy graphs”, The Telegraph, 4 maggio 2011. Il grafico di Lilico contiene qualche elemento di interesse, nonostante non si voglia qui ridurre le cause di fondo delle sollevazioni arabe ad una sola o a fornire una visione meccanica (o 88 matematica) della storia. Al di là di questi grafici, però, ciò che di sicuro si può affermare, senza tema di smentita, è che l’aumento dei prezzi non può essere imputabile alla sola congiuntura interna dei singoli paesi nordafricani. La crisi alimentare che ha colpito violentemente varie parti del mondo, compreso il Nord Africa, non è che l’altro volto dell’attuale crisi globale del capitalismo. Bibiografia
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“GROWTH BELOW ZERO”: IN MEMORY OF SICCO MANSHOLT Joan Martinez-­‐Alier, RESPONDER conference, 21 March 2014 Istituto di scienza e tecnologia ambientale, Università Autonoma di Barcellona In 1971 Sicco Mansholt, a Dutch agrarian unionist and social-­‐democratic politician, who had promoted an expansionist agricultural policy in Europe as commissioner for agriculture pushing for consolidation of farms and increasing subsidies so much that mountains of surplus butter were produced, suffered a radical change of outlook after he read an advance copy of the Meadows report. In his speeches and writings at the time he did not refer to the “Report to the Club of Rome” but to the “MIT report” because he read it before it was published by the Club of Rome. This report propelled the Meadows to well-­‐deserved fame, and made the Club of Rome also famous although we know that the men behind the Club of Rome, such as Alexander King, disapproved of the anti-­‐economic growth conclusions of the Meadows report. The Club of Rome’s representatives also disapproved of Sicco Mansholt conversion to a doctrine of non-­‐growth, or even of “growth below zero”, that is, degrowth. Alexander King wrote to the president of the European Commission Franco Malfatti explicitly arguing against Mansholt’s interpretation of the findings and recommendations of the MIT report to the Club of Rome. The Club of Rome was not in favour of zero growth. Sicco Mansholt was in favour of zero growth. He went on in 1972 to be president of the Commission for some months. Before that, he had written a letter to President Franco Malfatti proposing a change in objectives and policy. Europe should not aim at maximizing economic growth, measured by the Gross National Product, but it should aim to increase le Bonheur National Brut. Broad economic policies, not only sectorial environmental policies, should exploit a new large tax base, taxing polluting industrial processes and products. Products should have environmental certificates, many products should be just forbidden, including some types of imports. The EC should have a general economic plan to push its economy into an environmental direction. He gave some interviews and gave some speeches on these lines. Already as president of the European Commission he gave a long interview to Le Nouvel Observateur and he took part in a large open meeting in June 1972 in Paris with 50 times more people than we have here today 90 in the Petra Kelly room. By the way he knew well Petra Kelly who later was a German Green Party’s founding member with Rudi Dutchke and other Achtundsechziger. Sicco Mansholt was one generation older. He had been in the Dutch resistance to the Nazi invasion. At the crowded meeting in Paris organized by Le Nouvel Observateur on the Meadows report Sicco Mansholt was the only politician. There was one older philosopher, Herbert Marcuse (he talked against militarism) and one younger philosopher, Edgar Morin, who talked already about uncertainty and complexity, and against the notion of ecological equilibrium. There was André Gorz (with his other pseudonym, Michel Bosquet) who asked whether capitalism was possible in a non-­‐growing economy. He was skeptical about this although a new sector of depolluting industries could give new opportunities of investment to capital. This is what now some people call a “green economy” in which they include not only compensatory corrections (defensive Ausgabe) but also appropriation and payment for environmental services. Gorz also used at this meeting the word décroissance, saying that zero growth was not enough. At the meeting in Paris there was also Edward Goldsmith who had published Blueprint for Survival, and Edmond Maire, a tradeunionist. Sicco Mansholt not only gladly joined such bad company but he reiterated his views against economic growth, and against population growth. This has been censored in the official short biographies of Presidents of the European Commission where his strongly expressed views against economic growth and even in favour of “below zero growth”, his irony against GDP growth as a policy objective, his proposals for a general economic plan for Europe and for using anti-­‐pollution taxes and environmental quality certificates to guide consumption, his proposal for environmental barriers against some cheap raw materials and products in international trade, go unmentioned. Already at the time he had been attacked by the French president Georges Pompidou and by Georges Marchais, the secretary of the Communist Party. I do not know whether he read NGR’s The Entropy Law and the Economic Process, or H.T. Odum, Energy, Power and Society, or Barry Commoner’s The Closing Circle, all published in 1971. Was he was aware, given his agrarian interests, of Rachel Carson’s Silent Spring of 1962? Did he perhaps read in 1973 Herman Daly’s Steady-­‐state economy? He was not an economist. Did he know K.W. Kapp, The social costs of business enterprise, 1950, where externalities are not interpreted as market failures but as cost-­‐
shifting successes? I would like to know but I do not know.But he read certainly very carefully the Meadows report of 1971 based on Forrester’s system dynamics, a report often and mistakenly known as the Club of Rome report. He was converted by it. He became for about six months the first and so far only green President of the European Commission before green politics existed. He retired early, before he was 65 year old, failing to move European social-­‐democracy in an environmental direction. Social democracy was at the time fixated in Keynesianism and social pacts (corporatist policies if you wish). Regarding long term economic growth, Keynesianism after Keynes had become with the Harrod-­‐Domar models of the 1950s, a doctrine of long term economic growth, oblivious of energy and material flows, oblivious of social metabolism. After Keynesianism, came the neo-­‐liberal wave in the late 1970s (starting already in 1973 in Chile), a market fundamentalism that forgets about environmental damage to future generations, damage to poor people and damage to other species unable to come to the market. Social democratic Keynesianism tried in the 1980s to acquire a green disguise with Brundtland’s report on La Sinistra Rivista – Rivista Quadrimestrale -­‐ ISSN 2282-­‐3808 -­‐ Autorizzazione n. 23/2013 -­‐ 91 N.5 Settembre 2014 -­‐ Direttore responsabile: Alfonso Marino sustainable development. This was not very different from today’s so-­‐called green growth. It is not serious. Intellectually and politically I feel the Sicco Mansholt of 1971, 1972 to be more our contemporary as ecological economists than today’s silly notions coming from Brussels and Beijing such as a “circular economy”, while we know that the industrial economy is entropic. His notion of Bonheur National Brut (he mentioned Tinbergen, and we can remember also another Dutchman, Roefie Hueting’s critique of GDP only a few years later) has now been developed by Tim Jackson’s in his ecological macroeconomics as human “flourishing”,épanouissement, as the objective of a society of “prosperity without growth”. This is related to notions of Buen Vivir or Sumak Kawsaycoming from South America, to Ashish Kothari’s proposal in India for a Radical Ecological Democracy, to debates on post-­‐Wachstum or Décroissance in Europe (as we shall discuss in Leipzig in September 2014). The post-­‐growth economy of Europe (which in fact is already a reality) is related to proposals to leave the unburnable fuels in the ground, oil in the soil, coal in the hole, grass under the grass, to Ogonization and Yasunization. The main push for an ecological economy comes from the South, from the global movement for environmental justice. Let us look beyond Europe not through rapacious Raubwirtschaft eyes scheming how to secure raw materials (we know that the EU imports three times more than it exports, measured in tons). Let us look outside Europe searching for allies for a world ecological economy that deals with poverty through solidarity and redistribution and not through economic growth. 92