a Bruna (Per motivi tecnici di linguaggio, tutti gli

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a Bruna (Per motivi tecnici di linguaggio, tutti gli
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a Bruna
(Per motivi tecnici di linguaggio, tutti gli apostrofi sono indicati cogl simbolo’ e tutti i punti di
sospensione col simbolo _ _)
la mirabolante avventura di
PAPPAGALLO
ROSSO
(Premio Firenze Capitale D’Europa 2003 Menzione speciale narrativa edita.)
Di Beccari Alberto
A tutti i bambini del mondo, sperando che gli adulti, abbandonato l’egoismo, ridiano loro i
tre diritti fondamentali: il diritto alla vita, il diritto al babbo ed alla mamma, il diritto alla gioia.
SORRISI ASTRALI
Questo libro singolare, e davvero molto diverso da quelli che si pubblicano oggi nelle collane
rivolte al pubblico giovanile, sembra voler ritrovare e rinnovare una tradizione che era molto nostra.
Collodi, Vamba, Yambo e Sto – non a caso tutti dotati di uno pseudonimo che esprimeva quasi un
programma – si rifugiarono per scelta nella letteratura infantile e scrissero aspre pagine in cui creavano
graffianti metafore capaci di demolire alcune delle abitudini e certi vizi presenti nella società del loro
tempo.
Questo uso così speciale dei libri per ragazzi scaturiva poi anche da una robusta tradizione in cui
valeva la sapienza del villano: il dileggio sarcastico del burattinaio colpiva i potenti, l’ironia del
cantastorie era del tutto anarchica.
Anche in questo libro ci sono tanti evidenti bersagli: le nostre opache pigrizie, i nostri luoghi
comuni, l’omologazione a cui ci diamo così volentieri, gli stereotipi da cui ci lasciamo dominare.
Proprio seguendo anche un uso che dagli Illuministi arriva fino al Piccolo Principe, il narratore
congiunge i fondamenti esopiani con i viaggi tra pianeti sconosciuti ed insieme notissimi. Ce n’è
davvero per tutti in questo itinerario: viene deriso il buonismo scioccamente dominante, si denuncia il
narcisismo di cui è invasa la nostra società, si mettono a nudo le tante finzioni di cui ci nutriamo senza
mai dire che non dovremmo tollerarle. I viaggi compiuti in questo cosmo arcano e arcimboldesco non
hanno esito rigeneratore e non si torna mai a rivedere le stelle, pur trovandosi sempre mescolati ad esse.
Il nostro mondo, tutto fondato sui compromessi e sui pasticci, qui riceve sferzate che non risparmiano
nessuna delle istituzioni su cui è basato.
Ci si potrebbe facilmente chiedere se l’infanzia e l’adolescenza di oggi possano accettare un tipo di
proposta così aspra e severa, anche se mascherata dalla metafora del riso. C’è, anche in questo senso,
un’interessante tradizione: l’infanzia di un tempo catturò e fece propri i libri più geniali e severi, si nutrì
di Gulliver, di Robinson, di Don Chisciotte. Perché era possibile una così stravagante modalità di
lettura? Perché, quando non è soggiogata da condizionamenti che la deformano, l’infanzia è anarchica,
nichilista, radicale. E quindi ama proprio le solenni metafore corrosive, apprezza gli affabulatori che
mettono a nudo gli imperatori. Proprio la fiaba di Andersen, ricavata per altro da un racconto medioevale
spagnolo, sembra sotto sotto presente in questo libro, che certo pensa di ritrovare la voce di quel
bambino privo di compromessi con il potere e quindi capace di gridare la verità quando tutti fingono e si
adeguano.
Come ogni prosa etica, come ogni racconto davvero sentitamente morale, anche questo è del tutto
privo di moralismi. Va via per conto suo, sorretto da una lingua che non si piega alle convenzioni di chi
riduce al nulla il nostro patrimonio lessicale per vendere meglio e di più. Libro senza padroni e senza
modelli attuali, ricerca nell’inattuale la propria dimensione, non cede al ricatto onnipresente, non si piega
a consuetudini accomodanti. Ma, nel sarcasmo e nel graffio costante, c’è nascosta una speranza, si avverte
il senso di una scommessa pedagogica: forse esiste ancora quel bambino intatto e vero, quel Puer
Aeternus sbarazzino e non allineabile, quel Fanciullino che non obbedisce e parla quando ne ha voglia.
Intriso come è di distopie il libro guarda però fiducioso a questa solenne utopia.
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Antonio Faeti
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Se per caso di queste inezie mie
Un lettore sarai, non vergognarti,
Vienimi incontro a stringermi la mano.
C. V. Catullo
CAPITOLO I°
Non perderò del tempo per parlarvi della sua esistenza più o meno reale. L’illustre professor Gufo
Barbogi, nella sua immensa ed enciclopedica opera: - Terque Quaterque et etiandio - che voi potrete
tranquillamente consultare in ogni rispettabile biblioteca, ha dissertando dottamente, dimostrato
l’inoppugnabile esistenza del nostro eroe. Del resto, io stesso, come avrei potuto raccontarvi questa storia
se proprio Lui non me l’avesse narrata? O forse pensate che un uomo, posato e serio come me, possa
perdere il suo tempo ad andare sul pianeta Pollastrella per poi scrivere di quel che succede lassù?
- Intanto vuoi dirci chi è questo eroe? - direte. Dio mio, se voi glielo aveste chiesto vi avrebbe risposto:
- Sono io! - ignaro del fatto che come risposta sarebbe risultata un po’ insoddisfacente. In realtà si
trattava di Pappagallo Rosso. Veramente non aveva nulla di rosso, se si escludeva il nome, ma ci teneva
a farsi chiamare così per distinguersi dagli altri milioni di pappagalli, più o meno variopinti, perché, in
realtà, egli non era per niente uguale a questi stupidi animali. Di quell’uccello bizzarro aveva il becco, un
ciuffo di penne sulla testa, altre due nel fondo schiena e la spavalda petulanza. Il suo corpo nessuno
l’aveva mai visto, perché Pappagallo Rosso era un essere civile, con portamento distinto e, pertanto,
vestiva pantaloni lunghi d’un verde vivace, camicia bianca e giacca colore di can che fugge: un bellissimo
colore che sta in mezzo tra il rosso, il viola, il giallo, il blu e chi più ne ha più ne metta. Ed i suoi piedi
non li aveva mai visti nessuno, perché portava delle scarpe di vernice nera coi calli sotto le suole e
nessuno aveva mai visto le sue mani, perché erano nascoste da candidi guanti, che non si toglieva mai,
nemmeno quando si lavava.
Pappagallo Rosso sosteneva che il suo corpo era uguale a quello dell’uomo, ma tutti coloro che lo
avevano conosciuto dicevano, maliziosamente, che si sarebbe trattato di un corpo da scimmia; portavano
a vantaggio di questa tesi il modo di ragionare del nostro eroe che lo faceva sembrare più simile a
quell’animale che ad un essere umano. In realtà, egli cercava di atteggiarsi ad uomo il più possibile,
coprendo le penne della testa con una nerissima tuba, mentre, come un gentiluomo d’altri tempi, teneva
sotto il braccio un grazioso bastone da passeggio, col pomello di marmo che era solito infilare tra le due
penne della coda quando gli servivano entrambe le mani.
Affinché la gente malignasse meno intorno alla sua natura di pappagallo, ogni settimana andava dal
barbiere e si faceva dare una spuntatina alle penne della testa ed alle due della coda che spuntavano,
civettuole, dal fondo dei pantaloni.
Se voi gli aveste chiesto chi fossero stati suo padre e sua madre, Pappagallo Rosso sarebbe rimasto
perplesso, perché, in effetti, egli non aveva avuto genitori, o forse suo padre ero stato io e sua madre un
essere bizzarro che sta fra la fantasia e l’ingenuità. Infatti, Pappagallo Rosso, come tutti gli altri
personaggi del suo stampo, viveva già ancor prima di nascere e non sarebbe mai morto, perché, nella
mente dei bambini, sono migliaia gli esseri buffi e graziosi che vagano in un regno fantastico, prima
ancora che un po’ d’inchiostro dia loro vita.
Il nostro eroe di professione faceva l’inventore e, di tanto in tanto, si dava anche ad avventure
mirabolanti, vuoi in compagnia di pirati, vuoi d’indiani e talvolta persino d’uomini preistorici o di belve
vissute in altre ere, anche milioni e milioni d’anni fa. Voi mi direte che tutto questo non è possibile,
poiché un essere che vive ai nostri giorni non può partecipare ad avventure con uomini delle caverne,
magari insieme ad alcuni brontosauri. Questo non è vero! Se voi ci pensate bene, chi fa andare avanti il
tempo è l’orologio; quando non c’erano gli orologi erano le clessidre e prima ancora le meridiane, perché,
in realtà, l’uomo, mentre viveva nel paradiso terrestre, non si annoiava mai e quindi non aveva nessun
bisogno di far passare il tempo ed il tempo non passava mai. Quando poi ne fu cacciato, cominciò ad
annoiarsi terribilmente ed allora inventò le macchine per farlo correre veloce.
Tornando a Pappagallo Rosso, egli ebbe la grande intuizione di capire che, se con un orologio normale il
tempo va avanti, con uno le cui lancette girino in senso inverso, il tempo dovrebbe andare all’indietro.
Costruì quindi un orologio del genere e, invece di farlo andare a carica, lo fece andare a fantasia.
I bambini mi capiranno subito, perché loro conoscono tutti i segreti del motore a fantasia; credo invece
che ben pochi adulti riescano a comprendermi. Questi ultimi, infatti, hanno dimenticato tutte le loro
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nozioni di fantasia man mano che acquistavano conoscenze relative alla fisica, alla matematica, od a
qualche diavoleria nucleare. Ecco allora che io dico loro:
- Prendete una sedia, sedetevi, pigiate un bottone che non c’è, tirate una leva immaginaria ed ecco che
voi, su di una lussuosa fuoriserie, potrete fare il giro del mondo in dieci minuti: quella macchina non va
a benzina, ma a fantasia. Credo di essere stato molto chiaro e, se qualcuno non è riuscito a capirmi, provo per lui un senso di
profonda pena.
Tornando al fatto, voi vi renderete conto che, con quell’orologio, il nostro eroe poteva, a suo piacimento,
vivere in qualunque momento del passato o del futuro, era sufficiente spostare avanti od indietro le
lancette. Naturalmente si dovevano ruotarle un po’ in fretta. (Figuratevi voi, per arrivare fino ai
dinosauri!)
Una delle sue invenzioni più clamorosa fu quella della macchina per tagliare la polenta a distanza.
C’erano ben centocinquanta ruote dentate, due paraurti d’automobile, venticinque leve, migliaia di viti ed
un ciuco sardagnolo che funzionava a fieno. Avendo inventato questa macchina nell’era dei sauri, come
spesso succede, non fu compreso dai contemporanei, anche perché, a quel tempo, non era stata ancora
inventata la polenta. Un lampo di genio prematuro, insomma, e, come tutte le cose premature, destinato
a cadere nel dimenticatoio. Tra l’altro non esistevano ancora i ciuchi sardagnoli.
L’invenzione, però, che riguarda direttamente questa storia, fu quella del famoso missile, fatto con pezzi
di ferro difettosi, che Pappagallo Rosso aveva raccolti ed immagazzinati all’epoca in cui faceva il
rottamaio. Era fatto a forma d’uovo, ma avrebbe potuto avere anche quella di un dromedario e sarebbe
stata la medesima, identica cosa. Nella parte posteriore, internamente, c’era una manovella in
comunicazione con un’elica esterna ed il tutto funzionava a fantasia. Ecco perché il missile avrebbe
potuto avere anche la forma di un dromedario: con un motore di quel genere qualunque dromedario
avrebbe potuto volare.
Per ora basta; domani vi narrerò di come ebbi occasione di incontrarmi con Pappagallo Rosso e come fu
che mi narrò del missile e dell’uso che ne fece in una delle sue più mirabolanti avventure.
CAPITOLO II°
Prendete un povero diavolo come me e pensatelo a letto, la mattina, verso le quattro, in piena estate; egli
si è appena appisolato dopo aver boccheggiato tutta la notte nella calura della valle padana. Svegliatelo
allora, all’improvviso, e fategli vedere un coso buffo, della forma di un uovo, dal quale escono tre cosi
buffi, alti così e così, che saltellano sul pavimento. Vi sembra uno scherzo da fare? Immaginate quindi
come ci rimasi quando una cosa del genere mi successe veramente.
- Chi è? - chiesi spaurito.
- Sono io. - mi rispose la figurina più così e così delle tre.
- Io chi? - IO! Ti ho portato i gemelli. Non conosco nessuno da queste parti ed ho pensato di lasciarli al primo
che mi fosse capitato sotto mano: la finestra era aperta ed io sono entrato. Fa loro da padre; ho fretta - .
- Ma se non sono nemmeno sposato! - protestai.
- Allora prendili per nipoti, per fratelli, per cugini, per quello che vuoi - strillò il coso. - Io non ho
tempo da perdere in chiacchiere inutili. Verrò a cena. - E se n’andò via in tutta fretta.
In verità rimasi un po’ sorpreso da un simile modo di comportarsi, perché, dico io, va bene rifilare ad un
povero diavolo due marmocchi, ma c’è modo e modo. Perché erano, scusate se non ve l’ho ancora detto,
un maschio il coso più piccolo ed una femmina il più grande. Il primo era alto come un soldo di cacio,
tutto spelacchiato e con due grandi occhioni da gufo, l’altra, alta un soldo e mezzo, capelluta come una
scimmia e dal visino sognante. Le chiesi allora:
- Chi era quell’essere buffo di prima, un tuo fratello? - Era Pappagallo Rosso e noi siamo i gemelli. - mi rispose.
- Gemelli? Ma se siete completamente diversi! I gemelli sono generalmente uguali e se non altro, hanno
la stessa età - .
- Noi siamo i gemelli del cielo. Mi avvidi proprio allora che il più basso aveva cominciato a rimpicciolirsi, a diventare sempre più
minuto, fino a sparire. La bimba si accorse del mio stupore e mi disse:
- Dobbiamo ancora nascere sulla Terra. Io verrò appena mi avrai dato una madre e mio fratello
Schichimeri un po’ più tardi, perché è il gemello più giovane. - Poi cominciò a diventare, anche lei,
sempre più piccola.
- Ehi - dissi - smettila di rimpicciolirti e spiegati meglio. - Questa sera verrà Pappagallo Rosso e ti chiarirà tutto, OE OE - .
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Vidi che dietro la testa le era spuntata una foglia di cavolo; cercai di strappare la foglia per bloccarla,
troppo tardi, era sparita anche lei. Mai, in vita mia, avevo atteso l’ora di cena con tanta ansia e curiosità.
Prima di tutto vi dico che cercherò di semplificare le cose per essere il più chiaro e semplice possibile nel
raccontare questa storia; Pappagallo Rosso, infatti, è un narratore oscuro come un filosofo, occorre quindi
strizzarsi il cervello per riuscire a comprenderlo e seguirlo nelle acrobazie dei suoi voli pindarici. Intanto
comincerò a spiegarvi perché ho detto che il nostro eroe è alto così e così. La sua statura è
incomprensibile, indefinibile e soggettiva. Il gemello più piccolo sosteneva, infatti, che il nostro eroe era
più basso di lui e Fifarella, la gemella più grande, che Pappagallo Rosso era più alto di lei. A me, infine,
era sembrato, come vi ho detto, così e così. Quando gli chiesi spiegazione di questo mistero mi rispose
seccato, col fare saputello di chi deve spiegare una cosa evidente ad un ignorante.
- Dipende dalle bretelle. – disse. - A volte le tiro a volte le allento - . E non andò più oltre. Lasciamolo
quindi bollire nel suo brodo e torniamo alla nostra storia.
In cielo esistono, come voi sicuramente saprete, le costellazioni. In una di queste vivevano i gemelli. Gli
uomini l’avevano chiamata così perché, al telescopio, da tanto lontano, i due bambini sembravano
proprio uguali. Se però li si fosse guardati ad occhio nudo, lasciando perdere scienza e cannocchiali, ci si
sarebbe accorti subito che, uguali uguali, proprio non erano.
Vi ho già spiegato che, essendo gemelli di un altro mondo, potevano essere diversi anche d’età, tant’è
vero che ora, che son nati su questa terra, chiunque li veda li chiama fratelli e non gemelli.
Gli uomini, pieni di retorica e prosopopea, li avevano chiamati Castore e Polluce, come voi ben sapete,
mentre i loro nomi erano: Schichimeri dell’uno e Fifarella dell’altra. Io poi li ho ribattezzati Vittorio e
Cynthia, cosa di cui potreste facilmente assicurarvi venendoli a trovare; tant’è vero che il primo crede già
di essere uomo e viaggia in treno, in automobile ed in aeroplano sempre seduto sulla stessa sedia, mentre
la sorella, meno distratta, usa tre sedie diverse. Quello, però, che fanno i due bambini sulla terra non ci
interessa minimamente. Torniamo, quindi, ai fatti nostri.
In cielo, ad ogni costellazione è adibito un custode, a volte un uomo, a volte un animale. Quando sorge
il sole e si spengono le stelle, questi custodi le puliscono, ad una ad una, affinché splendano, la notte,
come luci fatate e ci facciano sognare ad occhi aperti e pensare all’infinita bellezza di Dio.
Quando il cielo è nuvoloso i custodi si riposano.
Alla costellazione dei Gemelli avevano adibito due bambini, perché le stelle da pulire erano molte e
doveva rimanere un po’ di tempo per la scuola ed il giuoco. La Vergine faceva loro da madre e teneva in
ordine la Bilancia che usava spesso in cucina per pesare il pulviscolo, l’etere cosmico ed altre strane cose
che, lassù, servono da ingredienti per ammannire torte e budini. I gemelli odiavano l’Acquario, perché la
Vergine voleva che vi facessero il bagno tutte le mattine e, per loro, l’unico modo di scaldarsi un po’
nell’acqua fredda del cielo, era quello di giuocare coi Pesci; ma alla lunga che noia! L’Orsa Maggiore e
L’Orsa Minore si odiavano. Erano vicine di casa e, cose da nulla se vogliamo: una stella dell’una che
scappava nel pollaio dell’altra, un ciuffo di pelo dell’altra che si depositava su la stella dell’una, si
accapigliavano continuamente. Il Sagittario, allora, saltava sul Toro e correva a dividerle. Che dirvi
d’altro? Il Leone era vegetariano, il Cancro e lo Scorpione avevano formato un duo musicale di chitarra e
mandolino; quando c’era siccità si tosavano l’Ariete ed il Capricorno, che avevano il vello bianco, ed
allora sulla terra nevicava.
Ora, finalmente, dopo queste poche ma indispensabili spiegazioni veniamo alle mirabolanti avventure di
Pappagallo Rosso, il primo essere vivente terrestre che abbia viaggiato nella profonda immensità dello
spazio, oltre il limite del sistema solare, fino al pianeta Pollastrella, con molta semplicità, così, come
noi facciamo due passi con gli amici, o la mamma va a vedere, in via Emilia, le vetrine illuminate.
CAPITOLO III°
Quando lo vidi entrare compresi immediatamente che era lui, non tanto perché sembrasse un pappagallo,
quanto perché chi lo avesse visto avrebbe detto subito:
- Eccolo, è Pappagallo Rosso - .
Senza dire ne ahi ne bai, si mise a sedere, distese le gambe su di una sedia e non si tolse nemmeno il
cappello. In verità, un modo di comportarsi da perfetto villano e pensai subito che non avesse avuto ne
un padre ne una madre a dargli un’educazione almeno decente. Dopo essersi ben ben stiracchiato, si
degnò finalmente di rivolgermi la parola dicendo:
- Bravo giovanotto, vedo che hai conservato la foglia di cavolo come promemoria. Sposati subito e
facciamola finita. Fifarella non tarderà ad arrivare - . Rimasi infelicemente sorpreso dal tono della sua
condiscendenza irritante e stavo per ribattere, quando mi bloccò con un cenno imperioso della mano e
chiese:
- Si cena? -
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Ci sedemmo a tavola, portai le vivande e mangiammo silenziosamente. Dopo il caffè, Pappagallo Rosso
si tolse la tuba, la riempì d’olio, si stappò la testa, (proprio così, ragazzi miei, aveva un buco chiuso con
un tappo da spumante) poi si rimise il cappello. Quando l’olio ebbe terminato di scolare nel buco, si
tolse di nuovo la tuba e si tappò la testa; poi si rimise il cappello, quel maleducato.
- Il mio cervello - spiegò - è un prezioso ingranaggio ed ogni tanto devo lubrificarlo con olio
extravergine d’oliva. A proposito, era extravergine? - Lo rassicurai, allora continuò:
- Schichimeri nascerà due o tre anni dopo Fifarella; lassù dove tutto è eterno, questo breve lasso di
tempo rappresenta un attimo: giusto il minimo che occorra fra un gemello e l’altro. E cominciò a narrarmi questa vera, ma incredibile storia.
All’inizio prese a farneticare intorno alle sue mirabolanti invenzioni che gli avevano attirata l’invidia
feroce degli altri scienziati, per giungere finalmente al missile a manovella dalla forma di un uovo col
quale, lui ed i gemelli, erano scesi quella stessa mattina nella mia camera da letto, entrando dalla finestra
aperta. Gli feci osservare che aveva corso un bel rischio: sul momento, mezzo addormentato, l’avevo
preso per un uovo di gallina e stavo per berlo. Pensate un po’, un missile a colazione!
Senza tenere in nessun conto le mie parole, tanto d’aver sbuffato più d’una volta, prese allora a narrarmi
di questa mirabolante avventura nello spazio, vera a suo dire, così che ve la vendo come lui me l’ha
raccontata. Fermo restando il contenuto, cercherò, con modeste e semplici parole, di renderla
comprensibile alle vostre modeste menti umane.
Era una bella mattina di primavera, il cielo era azzurro, il sole splendeva e gli uccellini cinguettavano (in
casi del genere, nei racconti, gli uccellini cinguettano sempre), quando partì col suo missile a manovella,
senza tanto clamore, per andare a far due passi nello spazio infinito.
Preso il tè di meteoriti dalla Vergine, si fermò a fare due chiacchiere con Schichimeri e sua sorella ed è
proprio qui che la nostra storia entra nel vivo. Infatti, dopo aver detto qualche sciocchezza in generale,
anche se Pappagallo Rosso sostiene di non dir mai sciocchezze, spiegò che lo scopo principale del suo
viaggio era quello di visitare qualche strano pianeta sconosciuto che avesse casualmente incrociato.
Schichimeri propose di unirsi a lui, ma Fifarella affermò che non sarebbe stato prudente viaggiare da soli
nello spazio. Il nostro eroe, allora, urlò inviperito:
- Solo un mentecatto potrebbe pensare di correre dei pericoli viaggiando in mia compagnia - . E qui
Pappagallo Rosso si addentrò in profonde disquisizioni relative alla sua intelligenza ed alla sua
impareggiabile esperienza in fatto di viaggi ed avventure. Schichimeri non stava più nella pelle dal
desiderio di partire, sognava già d’indiani e bisonti alati dello spazio, di feroci pirati e malesi cosmonauti
dispersi nelle galassie. Fifarella, però, era una bambina e le bambine, ahimè, non si lasciano sedurre dal
desiderio di vivere fantastiche avventure; anche loro, tuttavia, non sanno vincere la tentazione di trovare
una bambola nascosta tra i nastri ed i pizzi multicolori di una cometa. Accettò, dunque, con entusiasmo,
sempre che si fosse passati dalla Vergine per chiederne il permesso.
Vi trovarono le due Orse che stavano litigando ed accusandosi l’un l’altra di essersi rubata una stella. Una
diceva:
- Mi manca un pezzo del timone - e l’altra:
- A me manca una ruota - . Dopo che la Vergine l’ebbe allontanate entrambe, assicurandole che entrambe
avevano sempre avuto un numero uguale di stelle, Schichimeri chiese il permesso di andar a fare un
giretto nello spazio. Pappagallo Rosso, vecchio dicitore di bugie, rotto a tutte le malizie, pensò bene di
aggiungere:
- Si tratterebbe di qualche ora, il mio missile è molto sicuro e collaudato da migliaia d’anni - .
- Non ci vedo nulla di male - disse la Vergine. - Siete creature dello spazio e dallo spazio non avete
nulla da temere, così come gli uccelli nulla hanno da temere dall’aria ed i pesci dall’acqua; in quanto a te,
e si rivolgeva a Pappagallo Rosso, io non sono tua madre. - Per quello - la interruppe il nostro eroe - di mamma ce n’è una sola e n’avanza; io per fortuna non ho
avuto nemmeno quella. - Che, se ci pensate bene, era proprio un ragionare da pappagallo. Allora
intervenne Schichimeri tagliando corto:
- Possiamo andare? - Se avete pulito per benino le vostre stelle, andate pure - .
Quale non fu la gioia dei due bambini che saltarono letteralmente al collo della Vergine, l’abbracciarono e
la baciarono proprio come fanno i bambini di questo mondo, con la loro mamma, quando sono felici.
Pappagallo Rosso guardava questa scena con disgusto: il non dover mai chiedere permessi a nessuno gli
faceva credere d’essere un individuo superiore; poverino, non sapeva quanto aveva perso in calore ed
affetto non avendo mai avuto una mamma. Voi lo sapete, è vero bambini?, quanto sia dolce accucciarsi
in quelle braccia che ti avvolgono protettive trasmettendoti tanta sicurezza a tanto amore.
Quando iniziarono il viaggio, il sole era già alto e tutti i custodi dello zodiaco stavano finendo di
lucidare le stelle. Questo lavoro, infatti, lo svolgono di giorno, quando c’è tanta luce che non vedreste
una stella nemmeno da due passi. Ma proprio questa fu la causa del fattaccio.
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Poco prima, quando la Vergine s’era adirata con le due Orse, mancava veramente una stella e nessuno,
con la luce del sole, se n’era accorto. L’aveva messa in tasca Schichimeri per fare una birichinata e poi se
n’era dimenticato. Quando venne la notte le Orse ricominciarono a litigare e questa volta si dovette dare
loro ragione: si vedeva chiaramente che mancava una stella. Il Toro, al galoppo, corse subito al
magazzino per prenderne una di ricambio. Troppo tardi: gli scienziati se n’erano già accorti e, riuniti a
congresso, avevano deciso che era un segno premonitore della fine del mondo. Gli uomini vissero nel
terrore fino a che non giunse la stella di ricambio che il Sagittario stesso volle rimettere a posto, di sua
propria mano. Si fece una rapida perquisizione e, non essendosi trovata la stella smarrita, del fatto furono
accusati, giustamente, i gemelli. Questa colpa era considerata, lassù, una delle peggiori.
Ci fu un processo clamoroso e l’opinione pubblica si divise in due, data la giovane età dei colpevoli. I
giornali ci fecero su un bel ‘mescolotto’; alcuni parlarono di gioventù bruciata, altri di colpe della società
nell’educarla.
Nonostante l’accorata difesa della Vergine, la condanna fu emessa all’unanimità: esilio perpetuo. Non
sarebbero mai più ritornati nello spazio celeste e sarebbero rimasti confinati tutta la vita sulla terra
(ahimè, in casa mia!)
Per i nostri eroi, ignari del destino che li attendeva al ritorno, il viaggio sul missile procedeva in modo
veramente piacevole. Con delle reticelle simili ai nostri acchiappa-farfalle, catturavano pulviscolo e
piccole meteoriti che poi Fifarella cucinava su di un minuscolo fornello a meta. Non era una gran cuoca
ed aveva dimenticato a casa l’etere cosmico per condire. Il cibo lasciava dunque molto a desiderare, ma,
insaporito dal piacere dell’avventura, acquistava un gusto delizioso. Trascorrevano il tempo giocando e
guardando dagli oblò le cose stupende che il firmamento faceva scorrere dinanzi ai loro occhi stupiti.
Tutto sarebbe, quindi, continuato nel migliore dei modi se, la sera, Schichimeri, non si fosse
dimenticato di caricare il motore a fantasia con la manovella. Durante la notte il missile si fermò poi,
adagio adagio, cominciò a scendere su di un pianeta. Figuratevi la sorpresa dei nostri eroi al risveglio.
Tutto questo, però, riguarda un altro capitolo: così per oggi basta, ne riparleremo domani.
CAPITOLO IV°
Il pianeta Pollastrella, che ruota attorno al sole Marmocchio, è uno strano pianeta: invece di avere una
sola luna ne ha sette, sicché gli indigeni sono molto più lunatici dei terrestri. (Figuratevi le indigene!) Il
giorno è assai più lungo che da noi e così pure l’anno, sicché, ad esempio, chi compie un anno lassù, è
come se ne avesse vissuti tre dei nostri, ma, stranamente, è grande come un bambino di un anno sulla
terra. Il clima, particolarmente freddo, fa sì che il pianeta sia spesso coperto di neve che scende in fiocchi
di vari colori, molto vivaci. A seconda del colore assume diversi sapori: rosso di fragola e verde di
pistacchio, per esempio. Questo ci spiega perché, ad un certo punto, Pappagallo Rosso aveva pensato di
aprire una calderia, ossia una rivendita di gelati caldi.
Gli industriosi abitanti del pianeta Pollastrella hanno da tempo provveduto al riscaldamento artificiale
delle montagne dove si recano a sciare sull’erba, trovando sempre una temperatura gradevolmente
primaverile. Il calore è prodotto da un combustibile chiamato Ippopotamo, la cui energia calorifica è
misurata in Ippopotami Secolo: il calore che fonde tanto ghiaccio quanto un ippopotamo sarebbe in grado
di mangiarne in cento anni del loro pianeta. L’erba è tutta a strisce bianche e nere, sicché qualche bello
spirito ha pensato di fondare, lassù, un club juventino. (Siamo poi sicuri che lassù sia proprio lassù? E
se fosse il cielo dall’altra parte della Terra, quella sotto di noi, per capirci, sarebbe laggiù?)
I bambini nascono anche là sotto i cavoli. Quelli buoni, ed i bambini lo sono quasi tutti, anche i più
birichini, a dodici anni muoiono e vanno in paradiso, quelli invece un po’ noiosetti ed un po’ saputelli
diventano adulti: uomini e donne. Succede allora che combinano un sacco di guai e quando muoiono, se
sono stati cattivi, possono anche andare all’inferno. Non molti, però, perché Dio è tanto buono ed ha
sicuramente più pazienza di un santo.
Quando i nostri amici uscirono dal missile si trovarono davanti un indigeno di circa nove-dieci anni dei
nostri che chiese subito:
- Di divi viniti? - Capperi - disse allora Pappagallo Rosso - siamo in Cina, questo è il dialetto che si parla vicino alla
grande muraglia - .
- Tu sogni. - esclamò Schichimeri. - I Cinesi dicono sempre: mui mai moi, qui siamo in Inghilterra,
paese del quale conosco benissimo la lingua - . Chi non si pronunciava era Fifarella che, prudentemente,
stava uscendo in quel momento dal missile. Ma Pappagallo Rosso non si dava per vinto. A sostegno
della sua tesi, aggiunse che lui conosceva tutte le lingue del mondo, che parlava il cinese bene quanto un
gallo sapeva fare chicchirichi e l’inglese come un’oca qua qua e che, infine, non aveva nessuna voglia di
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prendere lezioni da una sottospecie di merlo del calibro di Schichimeri. Fifarella, per tagliare corto, pensò
bene di chiedere a quell’indigeno chi fosse:
- Sini in Vilfiffi; scusate, sono un Vilfoffo e questo è il pianeta Pollastrella. Conosco molto bene la
vostra lingua terrestre che ho imparato da un marziano. Viene qui spesso a piantare giostre di cavalli,
crescono benissimo e basta piantarne una e tenerla annaffiata con del buon vino che, in meno che non si
dica, ti ritrovi un luna park - .
Li aveva quindi fatti accomodare su delle poltroncine attorno ad un tavolo, posto davanti alla sua casa,
che, stranamente, poggiava sul tetto invece che sulle fondamenta. Incalzato dalle domande dei nostri eroi,
spiegò allora che quella costruzione risaliva all’epoca dei Rovescisti. Erano stati questi degli strani
individui, seguaci di Tarlo Marzo. Sostenevano che si dovesse rifare il mondo, perché tutto era sbagliato
e stabilirono che lo si dovesse rifare alla rovescia. Ecco il perché della sua strana casa, la cui costruzione
risaliva a quei tempi. Tra le altre cose, ordinarono di vivere a testa in giù e gambe in su. Ritenevano che
in questo modo i concittadini, cominciando a ragionare coi piedi invece che con la testa, avrebbero
sicuramente assorbito le loro idee, facilitandone la diffusione. Stranamente riuscirono a darla a bere a
parecchie persone e governarono a lungo creando guai e disgrazie. Poi, un bel mattino, qualcuno si
svegliò e, quasi senza accorgersene, respirò un po’ più forte; bastò quel piccolo soffio a far crollare il loro
ridicolo impero di carta. Molti, tuttavia, erano morti nel frattempo, perché il sangue era andato loro alla
testa.
Tutti coloro che prima decantavano il Rovescismo come l’era di un nuovo paradiso terrestre, si
buttarono, allora, dalla parte dei loro avversari demografici, cercando di mimetizzarsi e ci riuscirono
molto bene, tanto che spesso poterono assumerne il comando.
Questi demografici non propugnavano l’incremento delle nascite, ma disegnavano degli strani grafici che
poi ognuno poteva interpretare a suo modo. Tracciavano una riga che saliva e scendeva a zig zag ed in un
punto scrivevano costo della vita, in un altro inflazione, in fondo a sinistra tasse, in alto a destra
sviluppo e chi più ne ha più ne metta. I loro capoccia preparava questi grafici e quando ne aveva messo
insieme un certo numero, nei quali non capivano più niente neanche loro, facevano votare i cittadini
affinché scegliessero il migliore. Dopo il voto, i grafici erano messi in un armadio guardaroba, sotto
naftalina, affinché li si potesse estrarre e ripresentare al popolo ad ogni nuova votazione:
- Proprio uguali, uguali? - Cambiavano due o tre virgole a caso e magari anche una parola o due per correggere qualche errore di
grammatica o di sintassi: due materie che a molti di loro sembravano ostrogoto. Avvenute le votazioni
chi aveva vinto governava il paese a modo suo, non tenendo conto ne di quello che aveva disegnato e
scritto nel suo grafico, ne di quello che aveva detto in campagna elettorale per sostenerlo; ed allora
parlavano, parlavano e non facevano mai nulla e se facevano qualcosa era sempre a vantaggio degli adulti
-.
Ci spiegò che la cosa più importante era quella di riuscire a confondere le idee della gente sul significato
del grafico, ma soprattutto su quello delle parole; si doveva, dunque, trovare un linguaggio abbastanza
ambiguo da poter dimostrare di avere sempre fatto quel che si era promesso, soprattutto quando si era
agito in modo assolutamente diverso. A tale scopo avevano abolito quattro vocali mantenendo solo la i.
Questa idea stravagante fu presentata come una grande riforma a vantaggio dell’arte, perché avrebbe
facilitato ai poeti la ricerca della rima. In effetti, si voleva solo confondere le idee alla gente. Figuratevi
che, per dire papà, si diceva pipì. (Fifarella, da acuta osservatrice, fece notare, giustamente, che anche
popò si diceva pipì, così come papà.) Alla lunga si erano dovuti adeguare anche gli animali. I gatti, ad
esempio, avevano abbandonato il classico - miao - per un - miii - alla moda, ridotto poi al
consuetudinario - mi - dialettale che eliminava le doppie, permettendo, così, di risparmiare il fiato. Se
però qualcuno avesse provato, per caso, a tirare loro la coda, li avrebbe sentiti sbottare, dimentichi di
tutto, in un - miao - all’antica. Chiaro?
Devo ora dirvi che gli abitanti di quello strano pianeta si chiamano Vilfoffi (o meglio Vilfiffi, come
dicevano loro) e non Pollastrelli come avrebbe indicato la logica. Del resto noi, con altrettanto buon
senso, chiamiamo Tedeschi gli abitanti della Germania.
Tornando al fatto, i bambini Vilfoffi, stanchi di queste ideologie (come le chiamavano i grandi)
minacciarono di diventare tutti buoni, cosa che avrebbe portato all’estinzione degli adulti. Dopo una
lunga lotta (verbale naturalmente), ottennero allora di nominare un re che li difendesse da tutte quelle
sciocchezze. Attualmente regnava un tipetto piuttosto originale che aveva assunto il nome di Lampo I°.
Ormai si era fatto tardi, ed era giunta l’ora del primo pranzo, infatti, lassù, se ne fanno cinque, poiché il
giorno è molto più lungo che da noi sulla Terra. Il Vilfoffo chiese ai nostri amici di cucinare sul missile.
Visto il loro stupore, disse che la sua casetta, fatta alla rovescia, era molto bellina ma non serviva a nulla
ed egli cucinava e dormiva per la strada, nell’attesa di una casa nuova che tutti mettevano nei grafici, ma
che a lui, stranamente, non veniva mai assegnata. Eppure ne facevano tante, ma la sua era sempre nel
lotto successivo.
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CAPITOLO V°
Fifarella, durante il pranzo, rimase sempre sul chi vive e non mangiò quasi nulla. Temeva che i Vilfoffi
fossero cannibali e si tranquillizzò solo alla fine del pasto. Mentre, da brava donnina di casa,
sparecchiava, i nostri tre amici si sedettero in poltrona per fare due chiacchiere.
- Avete una bella casetta. - Pappagallo Rosso e Schichimeri si misero a ridere:
- Non è una casetta, - disse il primo - ma un missile a manovella col quale si può volare qua e là per lo
spazio infinito, dove meglio ci aggrada - Molto interessante, io di missili ne avevo visti tanti, perché qui ne vengono da ogni parte dello spazio,
specie nei giorni di mercato, ma fatti così mai. È molto carino, anche se mi sembra poco affidabile per
l’uso che se ne deve fare. Chi lo ha inventato? - Modestamente IO! Solo la tua fenomenale ignoranza fa sì che tu non capisca d’essere davanti ad una
delle più strabilianti invenzioni di questo secolo! Si dà il caso che io, sempre modestamente, sia una
delle persone più importanti della Terra: artista, esploratore, storico, scienziato, condottiero e, perché no,
legislatore. Una specie di re dei re della crema terrestre. Mentre Schichimeri taceva ammutolito da questo cumulo di sciocchezze, Prudenzio, così si chiamava il
loro amico, disse che il re dei Vilfoffi, essendo un po’ matto come Pappagallo Rosso, lo avrebbe
sicuramente ricevuto a corte in udienza privata, per non perdere l’occasione irripetibile di vedere un simile
fenomeno.
Insieme a Fifarella, che nel frattempo aveva fatto toilette, (sapete come sono le donne, un pizzico di
cipria sul naso, due dita di rossetto sulle labbra ed a metà del pomeriggio son pronte) si avviarono verso
la reggia.
Le strade erano affollate da una miriade d’individui vestiti in mille fogge diverse. Essendo giorno di
mercato, c’erano, infatti, Marziani, Uraniti ed altri abitanti dei più strani pianeti.
Si accese allora una dotta discussione tra Prudenzio e Pappagallo Rosso; sosteneva, quest’ultimo che, in
quella folla, non c’era un solo Marziano: infatti, essendo stato più di una volta sul pianeta, ne conosceva
benissimo gli abitanti che erano identici a lui, tali e quali, se si escludeva la strana bizzarria di tenere la
testa dentro un bicchiere di vetro capovolto. Il Vilfoffo sosteneva invece che erano esseri normalissimi,
come tutti gli abitanti dell’universo, umani compresi, ed i bicchieri li usavano solo per bere; in quanto
alle penne, su Marte le avevano soltanto gli uccelli. Questa battuta finale, che sembrava malignamente
voler ferire Pappagallo Rosso nei suoi più profondi sentimenti, mandò il nostro eroe su tutte le furie,
sicché si chiuse in un altero silenzio.
Le strade erano spaziose, fiancheggiate dalle solite, strane casette appoggiate sul tetto, ricordo dei
Rovescisti, che dondolavano ad ogni stormir di fronda ed altre composte da piccoli cubicoli assemblati a
formare degli enormi alveari. Questi costituivano l’ultimo grido dell’edilizia demografica. Dapprima,
infatti, appena preso il potere, i Demografici avevano cominciato a costruire delle casette belle, comode e
spaziose, fino a quando era arrivato un tizio qualunque, dotato di un ottimo sciolinguagnolo. Nessuno
sapeva chi fosse, ne da dove venisse. Probabilmente si trattava di uno di quei moderni architetti che
costruiscono delle bellissime case, riportate nei testi di storia dell’arte, abbandonate dai proprietari in
fretta e furia appena passata la sbornia della novità. Stranamente egli era riuscito a convincere tutti che si
sarebbe risparmiata dell’area fabbricabile mettendo le casette una sull’altra, senza, peraltro, ridurre le
comodità. Il passo successivo era stato quello delle finestre: certamente sarebbe costata meno fare una
finestra grande invece di due piccole. Quello fu il principio della fine. Da prima si ridussero ad una sola
le finestre d’ogni camera, anche per recuperare spazio sulle pareti, poi si restrinse la stanza che sembrava
essere troppo larga per un’apertura così piccola, infine si adottò il vasisdas che permise di abbassare
notevolmente il soffitto dell’ambiente stesso.:
- Come gli ebrei a Venezia nel ghetto. - commentò Pappagallo Rosso che ci teneva a far bella figura, da
quell’individuo colto che pensava di essere. - L’idea generale era che l’abitudine avrebbe reso meno duro
il passaggio dalla casa alla tomba. Fifarella, nota scansafatiche, chiese se la reggia era ancora molto lontana, perché, in questo caso, sarebbe
stato più logico prendere un taxi. Prudenzio spiegò allora, che, sul loro pianeta, gli affiliati al partito del
- Marmocchio che piange - (come vedevano una macchina diventavano - Verdi - dalla bile) erano
riusciti a far rinchiudere tutte le automobili in riserve estremamente limitate, dove i turisti potevano
recarsi, pagando, col diritto di fumare con uno strano aggeggio chiamato calumet. I piloti vestiti in fogge
stravaganti, con occhialoni e caschi, usavano le macchine per fare rocamboleschi caroselli durante i quali,
pagando un supplemento, c’era anche la possibilità di farsi investire.
In quanto ai mezzi pubblici, la loro lentezza era proverbiale, sicché l’andare a piedi dava la sicurezza di
arrivare molto prima a destinazione; in genere li usavano solo i turisti per il giro della capitale, perché la
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loro bassa velocità rendeva molto facile sia il fotografare sia il riprendere anche le cose più insignificanti.
Quel giorno, tra l’altro, c’era anche lo sciopero generale sia dei mezzi pubblici che di quelli privati.
Pappagallo Rosso fu subito incuriosito dalle cause che lo avevano determinato. Data la sua struttura
mentale c’era stato, infatti, chi gli aveva pronosticato una brillante carriera politica: lo interessavano,
quindi, tutti i problemi sociali per i quali non conta tanto la conoscenza profonda, quanto il saperne
chiacchierare con disinvoltura.
Il dilemma stava in questi termini: i lavoratori venivano retribuiti in base alle ore di tempo libero ed i
datori di lavoro pretendevano di aumentarle, pagando salari più elevati; i dipendenti, invece, intendevano
incrementare le ore lavorative e conseguentemente diminuire gli stipendi. Di fronte allo stupore di
Pappagallo Rosso Prudenzio rispose dicendo: - Siamo arrivati. Il re ed i suoi ministri discuteranno oggi
di questo problema. Il dibattito è pubblico e voi, in qualità di ospiti, sarete ammessi in prima fila.
CAPITOLO VI°
La sala del trono era immensa, con centinaia di colonne, archi istoriati e soffitti policromi, che il re
Lampo I° aveva fatto decorare con crema e panna montata. L’ambiente era quindi tenuto al freddo come
un frigorifero, questo fatto aiutava a rendere i ministri meno magniloquenti e, di conseguenza, le loro
sedute estremamente contenute. Al centro della sala c’era un trono grandissimo al quale il Re bambino
poteva accedere mediante una lunga scala. (Vi ricordate Semola sul trono di Re Artù? Qualcosa del
genere). Di lassù parlava mediante un megafono ed ascoltava usando un cornetto acustico che gli
permetteva, togliendolo quando il dibattito assumeva dei toni troppo accesi, di ritirarsi in un silenzio
riposante. Sotto le scale del trono c’erano gli scanni dei ministri e davanti a questi, in semicerchio, le
poltrone per il pubblico.
All’arrivo del Re si fece silenzio. Egli salì sul trono e si sedette volgendosi verso i sudditi. Quale non fu
la meraviglia dei nostri amici quando, finalmente, lo videro in volto!
Dovete sapere che questo Re Lampo I°, sebbene maniaco dell’idraulica, era convinto di essere una
lampada da tavolo. Al posto della corona portava sulla testa la ventola di un’abat-jour, aveva un
interruttore invece del naso e due faretti al posto degli occhi; prima di parlare inseriva l’indice ed il
medio nella spina della corrente.
Dopo essersi ben bene accomodato sul trono ed aver sistemato le sue due dita nella presa dell’elettricità,
accese i faretti premendo il naso con un dito: la seduta era aperta. Si alzò allora uno strano ometto, il
primo ministro, vestito da Arlecchino e con una maschera al volto. Come ebbe modo di spiegare
Prudenzio, l’abito aveva tanti colori perché doveva servire per tutte le stagioni; in quanto alla maschera,
bastava cambiarla perché i cittadini avessero l’impressione che si fosse cambiato il ministro (in effetti,
qualche volta lo si cambiava, ma rimanevano sempre uguali le azioni ed i modi).
- Cari amici - iniziò a dire il primo ministro guardato con antipatia ed invidia da tutti gli altri - siamo di
fronte ad un dilemma cornuto come un cervo maschio. Da una parte vi sono gli operai che vogliono
lavorare di più e guadagnare di meno, dall’altra i datori di lavoro intenzionati ad aumentare sia il tempo
libero sia gli stipendi. Prima di prendere delle decisioni vi prego di tenere conto della congiuntura - .
Durante il discorso del primo ministro, si aggirava tra il pubblico uno strano ometto piccolo e panciuto;
indossava un lungo grembiule sul quale era ricamato un gran forno a legna col fuoco acceso. Pappagallo
Rosso, rivolgendosi a Prudenzio, disse allora:
- Quanto sono gentili. Guarda quel cameriere: distribuisce le bibite gratis. - È il ministro delle finanze che dà le spremute ai cittadini. Vedi quel forno da pizza? Rappresenta
l’inceneritore nel quale si bruciano la maggior parte degli introiti di balzelli ed imposte. Si era giusto allora alzato il ministro dell’industria, l’unico abitante di Pollastrella al quale era permesso
di fumare il calumet fuori delle riserve, affinché ognuno avesse presente, in ogni momento,
l’inquinamento prodotto dalle ciminiere delle officine. Per fortuna, infatti, stava aumentando, ogni
giorno di più, il numero di quei cittadini saggi e lungimiranti che chiedevano la chiusura delle fabbriche
ed il ritorno ad un mondo arcadico in cui l’uomo fosse educato a vivere brucando l’erba. (Ma se poi, oltre
le bestie, anche l’erba avesse un’anima?)
Questo ministro era un tipo abbastanza spiccio. Disse chiaro e tondo che se gli operai non avessero avuto
abbastanza soldi per comperare ed il tempo libero per consumare e distruggere quello che si produceva, la
merce si sarebbe accumulata nei depositi con una conseguente, spaventosa crisi economica. Lo sciopero
era quindi una protesta da mentecatti e lo riempiva di stupore che i rappresentanti dei lavoratori, uomini
intelligenti ed illuminati, avessero anche solo pensato di proporlo.
Durante questi due interventi, Pappagallo Rosso aveva cominciato ad agitarsi rumorosamente e non
appena si alzò a parlare un signore tutto imbellettato, dalle unghie laccate, adorno d’oro come
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un’immagine sacra e ricoperto da ben sei pellicce, (alla faccia dei seguaci del Marmocchio che piange)
chiese se si fosse trattato di un cittadino particolarmente ricco e freddoloso.
- No - rispose Prudenzio - è il tribuno dei lavoratori che si giustifica tirando in ballo il decoro e la
dignità dei suoi rappresentanti - Questo non è un consiglio dei ministri, è una gabbia di matti! - Esplose, allora, Pappagallo Rosso.
Il primo ministro, che lo aveva udito, ordinò che fosse arrestato e dato in pasto ai leoni e quando gli
fecero osservare che i leoni, su Pollastrella, erano vegetariani, ripiombò a sedere scoraggiato dicendo:
- Non è possibile governare in un simile paese. Anche Nerone avrebbe avuto delle difficoltà. Il re si schiacciò il naso, i faretti degli occhi si spensero e così si chiuse la seduta senza nessuna
decisione. Il ministro del tesoro, uomo dotato di grande senso pratico, si mise a bruciare, insieme ai
soldi dei contribuenti, anche la merce in sovrabbondanza e così i Vilfoffi, tutti felici, e contenti, si
avviarono allegramente verso la bancarotta.
Non appena la sala si fu vuotata, il Re scese dal trono per ricevere gli ospiti in udienza privata.
- Caro amico - disse rivolto a Pappagallo Rosso - mi è giunta voce che tu sia un genio enciclopedico ed
avrei bisogno del tuo consiglio relativamente ad un problema d’idraulica. Io ritengo che i nostri bagni
siano dotati di macchine troppo semplici per lavarsi le mani. Nei paesi sottosviluppati usano ancora due
rubinetti: uno col bollo rosso e uno col bollo blu. È una cosa che non invita a meditare e l’uomo che non
medita nel bagno è simile al selvaggio. - Giusto - . disse Schichimeri che nel bagno era solito passarci delle ore a leggere i romanzi d’avventura.
Ed il Re ignorando l’osservazione:
- Io credo che quando un cittadino arriva davanti ad un lavello debba cominciare ad interrogarsi sul
modo di far scendere l’acqua. Basterà mettere le mani sotto il rubinetto o si dovrà pigiare un pulsante con
i piedi? Più noi complicheremo questi sistemi, più l’uomo sarà costretto ad usare il cervello; cosa che
porta ad un sicuro aumento dell’intelligenza del cittadino. Guarda questo aggeggio formidabile! Trascinò Pappagallo Rosso davanti ad un lavello montato di fresco su di una parete:
- Fallo funzionare se sei capace! Passato un buon lasso di tempo senza che nessuno dei presenti fosse riuscito ad usarlo, il Re, gongolante
e soddisfatto, spiegò l’arcano:
- Posta una mano sotto il rubinetto, bisogna premere con l’altra il bottone in alto. Mentre col piede
destro si manovra quella specie di acceleratore, col sinistro si calca il pulsante al centro. Tu pensi di avere
risolto il problema? Niente affatto. Bisogna spingere col naso quel bottone sul cannello dell’acqua. Per
asciugarsi le mani _ _ Fu interrotto da un gendarme:
- Correte maestà, le cameriere stanno mangiando un’insalata di foglie di cavolo Il Re partì di corsa verso la cucina, dileguandosi come un ranocchio che salti in uno stagno e lasciando i
nostri amici con un palmo di naso.
Rimasti soli, Pappagallo Rosso, Prudenzio ed i due gemelli si avviarono, allora, verso l’uscita.
CAPITOLO VII°
Era il crepuscolo e, mentre Marmocchio stava tramontando all’orizzonte, sopra il rosso dell’astro morente
cominciavano a delinearsi tre pallide lune. Dopo aver stranamente taciuto a lungo, vinto il primo
momento di felice stupore, Fifarella chiese cosa ci fosse di male nel fatto che le cameriere mangiassero
foglie di cavolo.
- Non foglie di cavolo, ma giovani foglie di cavolo - Che differenza fa? - Questione di bambini - affermò stizzito Pappagallo Rosso con aria sprezzante e saputella.
- Certamente - continuò il Vilfoffo - Su questo pianeta esiste una legge che proibisce di mangiare le
foglie di cavolo avanti che sia nato il bambino. - spiegò poi che molto tempo prima, tanti e tanti secoli
fa, comandavano gli asini. Gli asinelli piccoli erano portati due volte l’anno dalle cicogne. Papà e
mamma asina avevano un bel da fare a tenere dietro alla loro squadra di somarelli. Cominciarono allora a
lamentarsi, a modo loro, ragliando verso l’alto. Contrariamente a quanto succede sulla terra, dove
affermano che il raglio d’asino non salga al cielo, su Pollastrella ci saliva e come. Arrivò allora lassù un
tal baccano da spaventare le cicogne che non vennero più. Nel frattempo gli uomini si erano accorti che i
bambini nascevano sotto i cavoli ed avevano iniziato a coltivarli intensivamente. Ben presto il numero
dei Vilfoffi aumentò a tal punto da poter prendere in mano le redini della situazione e cacciare gli asinelli
dall’altra parte del pianeta; a testa in giù per intenderci.
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- Voi capite ora chiaramente a qual punto siano giunte le cose. Gli abitanti di questa parte del pianeta si
sono accorti che le foglie novelle di cavolo, in insalata, costituiscono una primizia deliziosa ed hanno
cominciato a farne delle scorpacciate, strappandole prima ancora che sia nato il bambino. Tutto questo ha
portato ad un forte calo delle nascite. Nel frattempo sono giunte cattive notizie dal sud del pianeta.
Sembra, purtroppo, che i somarelli abbiano smesso di ragliare. Ritornando il silenzio, le cicogne hanno
ripreso le antiche rotte. - Roba da fine dell’Impero Romano - aveva commentato Schichimeri, appassionato delle vicende
umane. Ricordava di aver pianto, quel giorno, e le sue lacrime erano cadute sui capelli di Romolo
Augustolo come a formare un’invisibile corona di perle.
- Tutto passa - confermò Pappagallo Rosso - Anche questo orologio a fantasia, che mi permette di
andare avanti ed indietro nei secoli, non si ferma mai. Dio solo può fermare il tempo - . E questa fu una
delle poche idee da uomo che riuscì a formarsi in quella testa di uccello.
- La situazione diventava sempre più grave. – continuò il Vilfoffo. - Fu discussa a lungo in una riunione
del consiglio presieduta dal Re stesso. In quell’occasione il primo Ministro disse chiaramente che poteva
trattarsi dell’inizio della fine e consigliò a Sua Maestà Lampo I° di proibire, in tutto il regno, le insalate
di foglie di cavolo. Provvedimento inutile: in barba alla legge si era continuato. Come tutti gli sciocchi,
infatti, i mangiatori di cavolo si consideravano particolarmente moderni ed intelligenti. Stava ormai imbrunendo e lo spettacolo delle sei lune, alte nel cielo, rendeva taciturni i nostri amici.
Erano già giunti nelle vicinanze del missile quando Pappagallo Rosso chiese spiegazione della seduta alla
quale avevano assistito. - Non ho capito su quali strane teorie si basi la remunerazione del lavoro nel
vostro paese e che tipo di politica economica ne stabilisca le regole. Per me è incomprensibile che un
industriale desideri aumentare i salari e diminuire le ore di lavoro. - È un sistema che funziona in modo semplicissimo. Il datore di lavoro detrae i salari dai redditi e
diminuisce quindi le imposte che paga. L’aumento del tempo libero e del denaro permette al lavoratore di
consumare, con maggior comodo ed impegno, quanto ha costruito lavorando; contemporaneamente,
l’incremento degli stipendi fornisce allo stato la possibilità di aumentare le imposte ai salariati. Il
maggior ricavo viene ridistribuito proporzionalmente alla quantità della merce prodotta: più si distrugge
più si guadagna. - Ma è come un serpente che si morda la coda e tu non capisci più dove comincia e dove finisce. - Certo. I sudditi, anche i meno intelligenti, stanno rendendosi conto di essere vicino alla fine e
scioperano per lavorare di più e consumare di meno Giunti finalmente al missile, entrarono per la cena. La fame era lupina, in parte per la lunghezza della
strada percorsa, in parte per i pasti sostituiti con dei modesti panini. Si era poi perso molto tempo per
colpa di Fifarella che, fermandosi davanti ad ogni negozio, squittiva affermando che in quella città le
merci, specie i vestiti da donna ed i cosmetici, erano estremamente a buon mercato ed ogni acquisto
avrebbe rappresentato un ottimo affare.
Durante la cena Fifarella si convinse definitivamente che Prudenzio non era cannibale e, quando si
alzarono da tavola, andò in cucina a rigovernare canterellando.
Seduti in poltrona, davanti all’inutile casa del Vilfoffo, i nostri amici guardavano il cielo che aveva
assunto un colore blu cupo, quasi nero. Era un cielo pieno di stelle che brillavano, in alto, formando
un’infinità di costellazioni.
Quando i primi momenti di piacere per la visione di tale spettacolo furono superati, Pappagallo Rosso si
accorse che una di quelle costellazioni somigliava tutta a Biancaneve.
Anche Fifarella li aveva raggiunti e stava dicendo stupida:
- Ma quello è il Gatto con gli stivali! - Prudenzio spiegò allora che nel cielo del loro pianeta, di notte,
si specchiavano, con le stelle, tutte le favole dell’universo. C’erano Cappuccetto Rosso, la Bella
Addormentata nel bosco, Cenerentola e chi più ne ha più ne metta. La cosa più fantastica, però, era che
tutte queste stelle si muovevano formando varie figure. Biancaneve spariva lasciando il posto ai sette
nani e se ti distraevi un attimo, ecco che ti ritrovavi con la strega o col cacciatore.
- Vedi - disse Prudenzio - quella, caro Pappagallo Rosso, è la tua costellazione - Vorresti dire che io non sono vero e vivo in una favola? - Non so, forse vorrà dire che sei favoloso. - I nostri amici rividero allora, nel cielo, tutti i personaggi
di questa loro strana avventura e poi andarono a letto come smarriti.
Fifarella sognò il ministro delle finanze che le dava un’aranciata. Dopo che l’aveva bevuta le tirava il
collo fino a farle saltare fuori la lingua, sulla quale c’era uno zecchino d’oro di Pinocchio.
Schichimeri, con la spada in pugno, nel sonno, si batté come un leone contro Capitan Uncino che aveva
rapito Alice al Re di Pollastrella.
Pappagallo Rosso si trovò, stranamente, consigliere del ministro dell’industria, al quale disse di
aumentare sia le ore di lavoro che quelle del tempo libero, allungando la giornata per decreto legge.
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L’unico a dormire tranquillo fu Prudenzio. Egli, infatti, si trovava in un letto del missile, i suoi amici,
invece, nel paese delle meraviglie: con Alice, appunto, e tanti altri personaggi
CAPITOLO VIII°
Quale non fu lo stupore dei nostri amici quando, al risveglio, videro la porta del missile aperta;
Prudenzio era sparito e sul tavolo di cucina trovarono un biglietto con scritte queste terribili parole:
- Hi ripiti Pridinzi. Pighiminti 2000 Sacchi. Il Birbiri Sacchi, per evitare ogni possibile equivoco, era scritto con tutte le sue belle vocali, come Dio comanda.
Pappagallo Rosso tradusse subito:
- Ho rapito Prudenzio. Pagamento 2000 Sacchi. Il Barbaro. Fifarella, tutta tremante, gli chiese chi potesse mai essere questo Barbaro.
- Sicuramente un terribile bandito ed il riscatto richiesto è enorme. Le loro monete si chiamano così
perché valgono ciascuna l’equivalente di un sacco pieno di Dobloni d’oro. - Schichimeri propose allora
che Pappagallo Rosso inventasse, lì su due piedi, una rivoltella a fantasia, da usare per dare la caccia al
bandito e liberare il loro amico. Fifarella, più giudiziosa, affermò che si dovevano avvisare i gendarmi.
Anche Pappagallo Rosso si mostrò di questo avviso. Il percorso, fino al primo posto di guardia, fu
molto faticoso perché, durante la notte, i tecnici del comune avevano provveduto a far togliere l’asfalto da
tutte le strade per sostituirlo con dei ciottoli.
Come poi vennero a sapere, questi due tipi di pavimentazione erano spesso alternati, a seconda delle idee
dell’uno o dell’altro, per accontentare un po’ tutti. Essendo un lavoro che non presentava nessuna
urgenza, si procedeva con la massima lentezza possibile tra l’entusiasmo generale della cittadinanza.
Appena terminato il lavoro, in genere, ci si accorgeva di aver dimenticato la fognatura o i tubi del gas e,
di nuovo, si doveva buttare tutto all’aria. Il giorno precedente era stato uno di quelli rari nei quali le
strade erano perfettamente in ordine con grande tristezza dei cittadini:
- Ecco, - mugugnavano - in questo maledetto paese non si fa mai nulla - e magari decidevano di
cambiare partito. Valli un po’ a capire tu, i cittadini!
Giunti al posto di guardia consegnarono il biglietto ad un gendarme, uno di quelli belli, coi baffoni,
proprio alla Pinocchio. Questi prese in mano la missiva e, dopo averla letta, disse:
- Se gli ha sistemato i capelli pagatelo - Qui c’è scritto che l’hanno rapito, - urlò Pappagallo Rosso - bisogna liberarlo - Ripiti vuole dire rapato, per parlare all’antica, tanto è vero che è firmato il birbiri: il barbiere. - Il Barbaro, certamente un bandito! Si accese allora una violenta discussione al rumore della quale accorse il capoposto. Con molta
tranquillità fece osservare al gendarme che 2000 Sacchi gli sembravano una bella cifra per una rapata,
anche in tempo di svalutazione. Il guaio stava nell’uso del vocabolario di Fortunato Politichese. Questi
era un tizio che, per agevolare gli apprendisti politici, aveva raccolto in un libro tutte quelle parole, come
pipì, che potevano avere più di un significato. In genere la gente comune non le usava mai: invece di dire
papà, ad esempio, diceva babbo. Pappagallo Rosso fece osservare che l’uso di queste parole del
Politichese poteva essere un indizio importante per la ricerca del colpevole.
- Stammi bene a sentire, - disse il capoposto - lascia perdere le indagini. Con questo biglietto recati in
banca: ti daranno il denaro e ti indicheranno la caverna nella quale vengono rinchiusi i rapiti. Là troverai
il tuo amico che verrà liberato subito dopo il pagamento del riscatto. È importante che ti faccia rilasciare
una ricevuta con firma autografa di questo Barbaro e la consegni all’ufficio imposte. L’ufficio provvederà
direttamente ad emettergli una cartella esattoriale per un importo del 60%, a norma del contatto sindacale.
Schichimeri chiese stupefatto:
- Non lo metterete in prigione? - Ha una regolare licenza. Un tempo venivano imprigionati e condannati all’ergastolo. Quando, però, ci
si rese conto che gli uomini erano buoni e che era la società a renderli cattivi, si stabilì che il colpevole
doveva essere rieducato e la pena massima fu portata a 30 anni. Ricorsi, controricorsi, amnistie varie e
condoni, facevano sì che il colpevole non riuscisse mai a fare più di due o tre mesi. È un tempo
assolutamente insufficiente per rieducare un uomo. E se il carcere non serve a rieducare una persona, tanto
vale non perdere tempo e denaro per condannarla. Si ricorse quindi alla legalizzazione di questa attività
con notevoli vantaggi per tutti. Non ci sono mai dei morti. Il rapitore lavora, infatti, in modo
assolutamente tranquillo ed il rapito, sapendo che pagano le banche, non si ribella e viene trattato con la
massima umanità. Lo stato, attraverso l’imposta, recupera buona parte del riscatto.
- Ed il pietismo delle vecchiette? - Ogni tanto le teniamo due mesi senza pensione e questo fa sì che abbiano qualcosa d’altro a cui
pensare. - Dissero tutti che era un sistema perfetto e Pappagallo Rosso soggiunse che forse si trattava di
una sua invenzione della quale si era completamente dimenticato: ne faceva tante, lui!
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Passati dalla banca corsero poi verso la grotta. Là giunti abbracciarono il loro amico che stava pranzando
lucullianamente. Questo bandito, nonostante il nome feroce che aveva assunto per necessità di mestiere,
era una persona di estrema gentilezza. Dietro l’invito di Barbaro, infatti, si fermarono a pranzo ed egli
narrò, mentre mangiavano, la sua storia pietosa.
Nominato, suo malgrado, presidente di un ente statale insignificante, aveva accettato per il desiderio di
servire la collettività. L’incarico non era, infatti, remunerato, e ci tenne a precisarlo. Scaduto l’incarico,
non aveva potuto reinserirsi nella società al suo livello abituale, causa il modesto tenore di vita che gli
offriva un impiego di dirigente bancario. In preda alla disperazione si era dato a quella turpe attività.
- L’avevo detto io che si trattava di un politico, si capiva dall’uso sapiente delle vocali Tutti allora lodarono la gran perspicacia di Pappagallo Rosso, bevvero alcuni buoni bicchieri alla sua
salute.
Quella sera cenarono fuori, davanti al missile e Fifarella, dolce sobria fanciulla, ebbe un bel da fare a
riportarli dentro, su di giri com’erano, e metterli a letto. Al risveglio non erano usciti per un giretto,
perché i maschietti avevano tutti un gran mal di testa. Pappagallo Rosso affermava che doveva trattarsi di
una subdola forma nervosa, dovuta allo sforzo celebrale sopportato per giungere al salvataggio di
Prudenzio; Fifarella, invece, giovine fanciulla inesperta, parlava di una formidabile sbronza. Anche lei,
però, era rimasta insieme a loro: non osava passeggiare da sola, perché, pur fidandosi di Prudenzio, non
erano riusciti a toglierle dalla mente il sospetto che su quel pianeta ci fossero i cannibali.
CAPITOLO IX°
La sera era limpida e particolarmente calda, rispetto al clima abituale di Pollastrella. Smaltita la sbornia,
mentre cenavano e parlavano del più e del meno, Pappagallo Rosso chiese spiegazioni del fatto che le
lune fossero sette e se ne vedessero sempre solamente sei. Allora Prudenzio gli disse che tutte insieme
comparivano una sola sera ogni mille anni. In quelle occasioni, diceva la leggenda, si sarebbe dovuto
verificare un grande terremoto che avrebbe distrutto la vita e tutte le cose del pianeta. Ecco allora che si
puntellavano tutte le cose e ci si raccoglieva in preghiera. Così facendo ogni volta si era riusciti ad evitare
la catastrofe. I mille anni successivi servivano a rimboschire il pianeta nudo, causa il taglio degli alberi
che erano serviti per fare i puntelli.
Fifarella cominciò a strepitare che non si sarebbe fermata su quel pianeta nemmeno un minuto di più.
Inutilmente le spiegarono che mancavano ancora cinquecento anni alla prossima fatidica serata:
- Prima di tutto io non mi fido dei terremoti che godono di una brutta fama in fatto di puntualità, poi ci
siamo trattenuti molto di più di quanto avessimo detto alla Vergine. - Non ci fu nulla da fare, decisero
di partire quella sera stessa.
Mentre i gemelli preparavano il missile per la partenza, Prudenzio consigliò a Pappagallo Rosso di
visitare le lune:
- Un’occhiatina passando, caro amico, forse non tornerai mai più da queste parti. Quella lassù, che
sembra all’ultimo quarto, è, in effetti, quanto resta del satellite. Il suolo è fatto di gruviera ed è divorato
dai topi. Purtroppo è una specie animale che vive solo su quel satellite e non può vivere da nessuna altra
parte. - Prese un po’ di respiro e Pappagallo Rosso ne approfittò per osservare che si trattava di una
situazione drammatica. Dopo essersi bevuto un buon bicchierotto di birra, Prudenzio confermò le parole
del suo amico. Il consiglio dei ministri di Pollastrella aveva deciso di uccidere i topi ma i seguaci del Marmocchio che piange - si erano opposti, poiché quella specie di animali, unica nell’universo, si
sarebbe estinta. Così il tempo passava ed i topi continuavano a mangiarsi il satellite.
- Povero Marmocchio, per forza piange, con dei simili seguaci! - Prudenzio disse che aveva ragione, ma
che, purtroppo, sul pianeta Pollastrella, la teoria della selezione naturale ognuno l’adoperava secondo i
suoi desideri, usandola quando gli serviva ed ignorandola quando gli faceva comodo.
La luna piena, in alto a destra, sarebbe stata particolarmente interessante. Ne sconsigliava, però, la visita
a causa di Fifarella che avrebbe potuto riceverne un trauma irreparabile. Era, infatti, il satellite dei
fantasmi. Gli abitanti vivevano, dandosi a noleggio, chi in un castello e chi in una torre solitaria,
realizzando lauti guadagni. Lavoravano solo nelle notti buie, attorno alla mezzanotte. Giravano sempre
muniti di una lunga catena che serviva per gli effetti sonori e venivano allenati fin da piccoli a far cedere
quadri e pentole. In età ancora giovanile prendevano lezioni di dizione per realizzare sospiri e mugolii da
strappare le lacrime e seguivano un corso di chimica per l’uso appropriato di fosforo e solfo. I turisti,
bontà loro, erano disposti a pagare cifre folli per poterli vedere.
- Quella che questa sera non si vede e diffonde la luce spettrale che illumina l’orizzonte, basta un
nonnulla a farla risplendere, come se fosse una stella, perché è fatta di brillante. Lassù, i bambini nascono
con gli occhiali da sole ed il paraocchi: la natura provvede così a salvarli dal riverbero. Gli abitanti
portano degli stivaloni per ripararsi dal calore del suolo e camminano con lunghi passi per non bruciarsi i
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piedi. Non si fermano mai a chiacchierare per la strada e se devono dire qualcosa ai loro concittadini,
preferiscono farlo dai balconi.
Il satellite è diviso in tanti stati e gli abitanti di ognuno di questi pensano di essere i più intelligenti ed i
più belli, di conseguenza sono molto litigiosi. Io ti consiglierei di non visitare quel satellite, perché, in
qualunque paese tu dovessi arrivare, ti vedrebbero di malocchio in quanto straniero. Aggiungi il fatto che
il brillio del suolo può facilmente, prima abbagliare la vista e poi bruciare gli occhi. - Accidenti, dimmi allora che non se ne può visitare nessuno! Era arrabbiatissimo e Prudenzio ebbe un bel da fare a calmarlo. Gli spiegò che le due mezze lune erano
visitabili ed estremamente interessanti. L’altra, all’ultimo quarto, era meglio lasciarla perdere.
Ogni tanto su Pollastrella nasceva qualche bambino nero. I Vilfoffi dicevano che era brutto e che puzzava.
Lo spedivano, allora, su quella luna e non se ne curavano più. Tutti sapevano cosa succedeva lassù, ma
facevano finta di non ricordarsene. Avevano messo una specie di salvadanaio al centro di ogni piazza
laddove, su altri pianeti, mettono le fontane. Una volta all’anno andavano a depositarvi qualche soldo
convinti di lavarsi l’anima. In verità spariva l’odore ma restava il nero e l’anima dentro il nero non si
vede.
In quanto alla settima, nessuno l’aveva mai vista e non aveva la minima idea di come fosse. Era la luna
misteriosa e forse era meglio non andarci per nulla, perché fonte, secondo le leggende, di guai e
distruzioni.
- Bene - disse Pappagallo Rosso - io amo l’avventura e non ho paura di nulla. Tranne quella dei topi che
mi sembra una luna stupida e quella dei fantasmi per rispetto di Fifarella, visiterò tutte le altre. - Fai come vuoi, io ti ho avvertito. Intanto i due gemelli avevano caricato il missile delle poche carabattole che erano servite al soggiorno, le
sedie, un tavolo, qualche stoviglia. Quando uscirono per salutare il Vilfoffo, Pappagallo Rosso spiegò
loro che si sarebbero fermati a visitare qualche luna, prima di ritornare a casa.
L’idea fu accolta con entusiasmo da Schichimeri e con freddezza da Fifarella. La Vergine stava aspettando
e bisognava tornare. Dopo una lunga discussione, alla quale aveva partecipato anche Prudenzio,
riuscirono a convincere la bambina.
Fornitisi, dunque, di stivaloni ed occhiali da sole molto scuri, salutato l’amico, salirono sul missile e
puntarono, decisamente, verso la luna più vicina: quella di brillante. Voi penserete che il nostro eroe era
uno sconsiderato a spingere due bambini in un’avventura così perigliosa.
Forse avete ragione, ma dovete considerare che si trattava di gemelli di un altro mondo e che, come
vedrete, i maggiori pericoli li correva proprio lui: Pappagallo Rosso.
CAPITOLO X°
Se voi avete il tempo e la compiacenza di aprire lo Zingarelli, alla pagina giusta, potete leggere:
- Brillantina VN sf. olio, alcool e glicerina con sostanze aromatiche, per dare lucentezza ai capelli o ai
baffi. - A prescindere dal fatto che non si capisce perché non la si possa usare contemporaneamente per
entrambi, affermo che non ho nulla da dirvi relativamente al VN sf. (C’è qualcuno che sa cosa
significhi?) Posso tuttavia asserire che la definizione è assolutamente erronea.
Brillantina è il nome di una luna di Pollastrella ed è situata nel sistema del sole Marmocchio. Pappagallo
Rosso è in grado di affermarlo con certezza, perché c’è stato. (Ricordo anche che su questo argomento fu
molto preciso e si scandalizzò del fatto che fosse lecito propinare false nozioni agli studenti, da parte di
un vocabolario.)
Tornando a noi, il satellite si chiamava così, perché tutto il terreno era ricoperto di brillanti e come aveva
detto Prudenzio, brillava di una luce vivissima, anche di notte. Durante il giorno lo splendore era
talmente forte da costringere la gente a restare in casa per non perdere la vista.
La parte nord del pianeta si divideva in quattro stati: quello dei biondi, dei polentoni, dei rossi e degli
albini. Se nasceva uno coi capelli neri lo mandavano al sud, dove, come vedremo poi, tutto era diverso.
In ognuno dei detti stati, gli abitanti pensavano di essere i più intelligenti, i più belli, i più forti ed ecco
perché, pur pensandola tutti allo stesso modo, questi popoli erano spesso in guerra l’uno con l’altro.
Avendo giustamente calcolato sia i tempi sia la rotta, i nostri amici giunsero in piena notte nella piazza
più importante della capitale, gremita di folla formata da esseri uguali ai terrestri, ma tutti con gli occhi
azzurri, capelli di stoppa e forme erculee. Ascoltavano, rapiti ed entusiasti, un discorso del capo. Egli,
piccolo, brutto, coi baffi ed i capelli neri, dal balcone di un palazzo, stava appunto urlando che loro erano
i più intelligenti, i più belli ed i più forti (lui compreso).
Al termine del discorso, i nostri amici furono circondati da una folla ostile che li guardava con disgusto.
Giunsero allora, a salvarli da quella situazione pericolosa, due gendarmi seri, questa volta, non come
quelli di Pinocchio, che li portarono in caserma. Lì, un generale chiese loro da dove venissero ed, a
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Pappagallo Rosso, anche di che razza fosse. Voi ben sapete che questa aveva tutta l’aria d’essere proprio
una di quelle domande che lo facevano andare su tutte le furie.
- Mi stupisco della vostra mancanza d’ospitalità. Siete forse un popolo di selvaggi? Il generale gli spiegò che quella era la prassi e che, per dimostrare la loro gentilezza, li avrebbero ospitati
principescamente a spese dello stato. Potete immaginare la soddisfazione dei nostri amici! Pappagallo
Rosso non fece in tempo a dire che non si deve giudicare il prossimo dalla prima impressione che si
ritrovarono in cella tutti e tre.
Alle loro proteste il gendarme fece osservare che si trattava di un moderno carcere a cinque stelle, dotato
di tutti i servizi in camera: buggiolo per i propri bisogni, catino per lavarsi volto e mani, fogli di
giornali triplo uso (tovagliolo, asciugamano, carta igienica) ed infine una discreta finestra munita di
sbarre eccezionali e senza vetri, per permettere una buona aerazione dell’ambiente. Il pasto non era alla
carta, ma nessuno se n’era mai lamentato in presenza di testimoni.
Spiegate queste poche cose essenziali, il gendarme se ne andò tutto impettito.
Più tardi venne un giudice in toga a dire che i due ragazzi sarebbero stati rilasciati ed affidati al personale
d’un campo di rieducazione, perché, anche se evidentemente di razza inferiore, non facevano schifo come
Pappagallo Rosso. Quest’ultimo, trasportato in ospedale e tenuto sotto una campana di vetro, avrebbe
costituito materia di studio per gli studenti: un tal fenomeno, infatti, non si era mai visto.
Ecco allora che mentre Fifarella piangeva, Schichimeri ed il nostro eroe, che cercava inutilmente di darsi
un contegno, iniziarono a litigare tra di loro. Il gemello accusava Pappagallo Rosso di essere un
incosciente che portava in mezzo ai pericoli due bambini innocenti.
- Non per me, che non ho paura, - diceva con voce tremante - ma per mia sorella che ti è stata affidata
dalla Vergine - Tu sei un vigliacco, altro che sorella. Ti tremano _ _ - Ma proprio in quel momento giunse un
signore distinto dai modi cortesi che, aperta la porta della cella, disse di essere venuto a liberarli.
- Io sono un abitante del sud del pianeta. Questi polentoni sembrano dei duri, ma, mancando d’ogni
senso dell’umorismo, non sanno sopportare il ridicolo: basta prenderli per i fondelli perché perdano il
lume della ragione e scappino vergognosi come conigli. Inoltre sono ingenui come bambini e bevono
grosso. Ho detto loro che siete ambasciatori di un pianeta che ho inventato lì per lì e che, arrestandovi, si
sarebbero fatti deridere in tutti gli stati più civili dell’universo, com’è loro consuetudine. Non vorrei
essere nei panni di quel povero diavolo che vi ha messi in carcere. Appena ebbe finito di parlare corsero tutti insieme a recuperare il missile per partire alla volta del sud.
Durante il viaggio discussero degli avvenimenti trascorsi e di tante altre cose che Pappagallo Rosso mi
disse poi di avere completamente dimenticato. Le ore passarono tuttavia allegramente, questo lo
ricordava, in parte per il sollievo dello scampato pericolo, in parte per lo spirito e la simpatia del nuovo
amico.
Venanzio, così si chiamava, li fece scendere col missile nella piazza della sua città. Era un posto
meraviglioso, circondato da palazzi sorretti da slanciate colonne, alcuni ornati di marmi ed altri di
mosaici policromi. La circondavano calmi canali sui quali scivolavano misteriose imbarcazioni e la luce
giocava con l’acqua, formando una tavolozza che, di momento in momento, sembrava mutare i colori ed
impreziosirsi ora d’oro, ora d’argento. In questa piazza erano ospitate tutte le maschere che l’uomo aveva
inventato sulla nostra terra, da Pappo ad Arlecchino, dal Miles Gloriosus a Pulcinella ed ogni persona
civile si compiaceva di guardarle, lodarle ed accarezzarle. La lingua di questo popolo era dolce e si
scioglieva in bocca come un gianduia di cioccolata, lasciando sul palato un senso gradevole di dolce
appiccicaticcio. I nostri amici furono ospitati da Venanzio che fornì loro, prima un buon pranzetto
succulento, come da tanto non ne facevano, quindi un buon giacilio per un riposo ristoratore. Al
risveglio, Pappagallo Rosso gli chiese:
- Perché gli abitanti del Nord vi ritengono di razza inferiore? - Gli uomini veramente superiori hanno l’intima certezza della loro levatura. Quelli, invece, che soffrono
di complessi, devono urlarsela, l’un l’altro, quella loro superiorità che non hanno, per potersi convincere
d’averla. Pensa che una delle tante ridicole accuse che ci fanno, è quella di scrivere sui muri. Questo da
noi lo si faceva già più di duemila anni fa, quando loro, non avendo ancora i muri e, non sapendo
scrivere, potevano solo incidere cuori sulla corteccia degli alberi. Dal nord viene qualche turista che resta
stupefatto di quanto abbiamo creato nei secoli col nostro ingegno. Proprio per questo, i capi cercano di
impedirci ogni contatto coi loro popoli, perché temono che si sparga la voce della nostra grandezza.
Poiché il tempo stringeva, non ebbero modo di visitare il bellissimo palazzo del governo, ricco di ori e
di dipinti, ove ogni pietra parlava di eroismi, di agguati, di amori e di tradimenti.
CAPITOLO XI°
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Non appena partiti dall’Isola Felice, così si chiamava quel paese, con la prora volta verso il satellite
Terzo, mondo di sofferenza dei bambini neri, Pappagallo Rosso disse ai due gemelli di andarsi a
riposare:
- La rotta è calcolata con precisione millimetrica, e la velocità è regolata in modo perfetto: saremo a
Terzo alle 15, ora locale. - Ahimè, ecco delle informazioni che dovevano ben presto risultare molto
imprecise, anche se fatte da un genio.
Furono svegliati da un impatto piuttosto violento ed ebbero poi l’impressione che il missile stesse
penetrando, quasi scivolando direi, dentro un pane di burro.
- Accidenti - esclamò Schichimeri - siamo capitati sulla luna di gruviera e ci siamo impantanati, per
almeno tre metri, nel formaggio. - È impossibile, i miei conti erano esatti, io non sbaglio mai. - Allora intervenne Fifarella a dire che
probabilmente la colpa era sua; la sera prima, molto stanca, si era messa in tasca il foglietto coi calcoli di
Pappagallo Rosso e questi, forse distrattamente, aveva studiato rotta e tempo sui conti della spesa.
- Meno male che non hai comperato tutto il negozio - disse Schichimeri - altrimenti chissà dove
saremmo andati a finire. - Pappagallo Rosso, che si sentiva la coda di paglia, tagliò corto dicendo che la
prima cosa da fare era di tirarsi fuori da quell’inconveniente, anche per via dell’odore e ringraziare Dio che
non era gorgonzola.
Avviando, in retromarcia, il motore a fantasia, in meno di un secondo uscirono - a rivedere le stelle anche se si era di giorno; infatti, alzatosi di pochi metri, il missile cadde pesantemente al suolo
scaraventando i nostri amici contro le pareti. Ben presto Pappagallo Rosso si rese conto che non si
trattava di un guasto. Ruotando nel formaggio, l’elica esterna si era impastata di gruviera ed ora non
girava più. Fu allora che Fifarella cominciò ad emettere degli strani urletti e corse a nascondersi sotto il
letto. Dagli oblò si vedevano stuoli di topi giganti, dai piccoli occhietti luminosi e cattivi, che stavano
arrampicandosi sul missile.
Come voi sicuramente ricorderete, quei topi erano di una razza speciale (Sorcius Politicantropus) unica
nell’universo. Questi esseri ripugnanti si chiamavano volgarmente topi Dracula perché avevano due denti
sporgenti, forti come l’acciaio ed erano voracissimi. Quale non fu il terrore dei nostri amici quando si
accorsero che gli animali stavano provando, coi loro terribili incisivi, la robustezza della lamiera esterna,
forse già pregustando un piacevole pranzetto, diverso dal solito, monotono, quotidiano formaggio.
Fortunatamente alcuni di loro, vitelloni sfaticati, mentre si divertivano a guardar lavorare gli altri,
avevano iniziato a mangiare il gruviera che teneva bloccata l’elica. Ben presto questa fu ripulita ed i
nostri amici poterono riprendere il viaggio, liberi, felici e, si spera, meglio orientati.
Fatti brevi calcoli con carta e matita (il cervello del nostro eroe funzionava anche da computer ed una
delle due penne della coda anche da biro) si mise la prua verso Terzo, a velocità massima, per recuperare
il tempo perduto.
Decisamente quel viaggio era iniziato sotto cattivi auspici. Ben presto il missile si fermò cozzando
contro una superficie elastica ed invisibile. Fifarella naturalmente non se n’accorse nemmeno, perché era
ancora nascosta sotto il letto.
- Che altra novità c’è adesso? - Sbottò Schichimeri.
- Probabilmente si tratta del muro di mistero: circonda la luna detta della poesia. Come tu sai, compare
ogni mille anni, ma nessun Vilfoffo l’ha mai vista. - Che sciocchezze sono queste! Non significa niente: un muro di mistero. - Se ad un uomo delle caverne avessero nominato un campo magnetico sarebbe uscito nella tua stessa,
sciocca, affermazione. - Non si può fare un muro di mistero. - Qui l’hanno fatto. Nessun piede superbo di essere vivente potrà mai calpestare questa luna. Mi ha detto
Prudenzio il Vilfoffo che lassù vagano le anime dei poeti che l’hanno cantata. Essa manterrà eternamente
il suo fascino, anche se fatta soltanto di sterili pietre. Nel suo pallido volto, che nessuno ha mai visto, si
continuerà eternamente a sognare ora la compagna di un - pastore errante - , ora la dea Cynthia, ora
l’approdo di un cavallo alato.
Mentre stavano così conversando, il missile continuava coscienziosamente la rotta; quand’ecco,
all’improvviso, furono interrotti da una strana nebbia che aveva preso ad avvolgere la navicella nelle sue
spire. Ed allora fuori, nello spazio, cominciarono ad apparire strane figure: streghe che danzavano sulle
scope, gnomi che reggevano le stelle cadenti, maghi avvolti in candite barbe. Bianchi fantasmi, vestiti di
funerei sudari, sembravano accarezzare il missile. Fifarella, che era appena emersa da sotto il letto, ci si
rituffò con un nuovo tremulo gridolino, mentre iniziava, giusto allora, lo strano concerto delle urla
strazianti e delle catene strascicate alla luce spettrale dei lampi di solfo e di fosforo. Terminato lo
spettacolo, dopo che alcuni fantasmi spazzino avevano ben bene ripulito gli oblò, uno di loro, avvolto in
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un manto nero come la morte, passò per un’offerta. Nel frattempo il loro viaggio era continuato ed ora
stavano avvicinandosi rapidamente a Terzo.
Appena atterrati in un gran deserto di sabbia grigia, videro un bambino nero che si stava avvicinando
lentamente al missile. Era molto magro, e sotto la pelle tesa, sporgevano le ossa puntute. Prima ancora
di averli salutati chiese da mangiare e da bere. I nostri eroi gliene offrirono abbondantemente e quando si
fu ben ben rifocillato gli chiesero di far loro da guida.
In mezzo a quel terribile deserto, un tempo fertile perché ricco di acque e di piante, era rimasta qualche
rara oasi attorno alla quale giacevano, abbandonati e privi di ogni aiuto, stuoli di bambini neri, per la
maggior parte già moribondi a causa degli stenti.
- È terribile. - urlò straziata Fifarella. Allora la piccola guida cercò di calmarla dicendo:
- Non come sembra. Se tu guardi attentamente, vedi che ogni tanto a qualche bambino spuntano le ali
per volare in cielo. Dicono che lassù gli angeli stiano diventando in prevalenza neri. - Pensare che basterebbe rinunciare a una cena di capodanno _ _ - Se tutti muoiono da bambini - chiese Pappagallo Rosso - allora non ci sono adulti su questo satellite.
- Quei pochi che riescono a crescere scappano subito oltre le montagne. Nessun bambino è mai riuscito
ad arrivarvi. - Dopo che Fifarella ebbe distribuito tutti i viveri che erano rimasti loro, ripartirono col
missile per sorvolare la misteriosa zona oltre la catena montuosa.
Mentre la gemella, ancora sconvolta da quella triste visione, si era coricata piangente sul letto, i nostri
due amici, oltrepassate le montagne si abbassarono, col missile, fino a vedere chiaramente il terreno. Si
distinguevano lunghi ed ordinati filari di piante ad alto fusto dai cui rami pendevano strani frutti.
- Hanno tutta l’aria di essere piccoli televisori non ancora maturi - Disse Pappagallo Rosso.
- I televisori non nascono sugli alberi. - Sembra che su questo satellite siano riusciti a coltivarli. - Accidenti! Sembra anche che vogliano mantenerne il segreto. Da terra, infatti, avevano cominciato a sparare raffiche di mitraglia e cannonate contro il missile e fu
quindi giocoforza alzarsi e governare verso la luna più vicina.
In seguito Fifarella avrebbe detto che quello era stato il giorno più brutto della sua vita: i capelli, da neri,
le si era trasformati tutti in castani; forse, allora, era troppo piccola perché le potessero diventare bianchi.
CAPITOLO XII°
Il satellite appariva variopinto come la Terra e, man mano che si avvicinava, i nostri amici vedevano
comparire mari azzurri, monti innevati e verdi prati. Fecero un atterraggio perfetto col missile a sederino
in giù e punta in su, al centro di un’enorme piazza deserta. In pieno giorno la città era completamente
vuota, come dopo una pestilenza mortale. Cosa attendeva mai i nostri amici?
Dopo essere usciti dal missile, Pappagallo Rosso ed i due gemelli si guardarono attorno stupefatti.
La grande piazza, così deserta da sembrare il centro di una città spopolata, terminava con un verde
giardino di fianco al quale si alzava un bellissimo edificio neoclassico, ornato di statue di bianca
meringa. Un colonnato in grissini, che sorreggeva palazzi di un vago stile assiro-babilonese, chiudeva gli
altri tre lati della piazza.
Quand’ecco, in questo deserto, videro spuntare dall’erba del giardino e venire verso di loro
un’indefinibile pallina di lardo. Quando fu più vicina, capirono che si trattava di un leprotto grassoccio
che, reggendosi sulle gambe posteriori, spingeva avanti una pancetta tonda e paffutella.
- Chi diavolo siete? - li apostrofò agitatissimo, con la pancia che gli tremava tutta, come se fosse stata
di gelatina - Non sapete che è proibito stare qui in giorno festivo? - Io sono Pappagallo Rosso e questi due i miei amici: Schichimeri e Fifarella. Veniamo dalla Terra e
non conosciamo ne le vostre leggi, ne le vostre abitudini - Mi chiamo Fifì e faccio il presentatore televisivo. Son dovuto correre fino a casa, perché mi ero
dimenticato la colazione ed oggi restano chiusi sia i bar che i negozi. - Sono tutti morti? - No, sono andati in vacanza. Spiegò allora che su quel satellite, nei giorni festivi, tutti lasciavano la città. La mattina gli abitanti di
Lumachina (così si chiamava il satellite, perché era il più veloce dei sette, figuratevi a che velocità
diabolica andavano gli altri sei!) s’alzavano insonnoliti ad ore antelucane e, maledicendo, si preparavano
per il viaggio in automobile. (I tassi ed i ghiri causavano sovente degli incidenti stradali.) Passati dal
posto di controllo, per la verifica del contachilometri, si dirigevano verso il luogo prescelto, dove
trascorrevano i due giorni festivi. Qui giunti erano tenuti, tra l’altro, a compiere una lunga gita in pulman
per visitare località o zone di grande interesse turistico. Il cittadino, quando rientrava in città stanco
morto, alla fine del secondo giorno, passava di nuovo dal posto di blocco dove, dopo che egli aveva
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firmata una dichiarazione in cui giurava di essersi divertito, i poliziotti verificavano che avesse percorso
almeno mille chilometri con l’automobile e controllavano il biglietto del pulman relativo alla gita
obbligatoria.
Gli abitanti delle località turistiche, durante il fine settimana, sgobbavano tutti come dei pazzi. I servizi
sanitari venivano rinforzati perché, fra questi cittadini che in due giorni facevano il lavoro di cinque,
erano frequenti gli infarti. I pochi che sopravvivevano oltre le quarantott’ore, finivano la settimana in
città, dove avevano l’obbligo di divertirsi visitando musei, mostre d’incomprensibili pittori moderni o,
in alternativa, ascoltando concerti di musica dode-caffonica.
Chi non rispettava queste regole era punito severamente. Appena si accertava il reato, i gendarmi si
recavano a casa di chi l’aveva commesso ad arrestare il televisore. Questo, il giorno successivo, era
processato per direttissima e condannato al carcere per periodi più o meno lunghi, a seconda della buona
o cattiva sorte. La pena, infatti, veniva assegnata estraendo una pallina da un bussolotto: se il colore della
pallina corrispondeva a quello del vestito del giudice ci si limitava agli arresti domiciliari, in caso di
differenze contrastanti, si poteva giungere fino all’ergastolo.
- In definitiva - disse Pappagallo Rosso - una specie di giudizio di Dio. Ma non capisco che senso ci sia
a processare un televisore. - Se il televisore viene incarcerato, il colpevole resta, più o meno a lungo, senza spettacolo. Visto che nessuno dei tre amici aveva afferrato in cosa consistesse la gravità della pena, per chiarire loro
le idee, il leprotto pensò bene di spiegare il regime politico e la raffinata tecnica di potere applicati su
Lumachina. Il presidente della repubblica era un leone, in verità abbastanza bonario, per essere un animale
selvatico; il parlamento ed il governo erano composti da scimmie e l’economia, lasciata in mano alle
volpi, faceva la fortuna di tutti loro. Pensando che il sistema della vocale unica, in uso presso i Vilfoffi,
serviva benissimo a confondere la gente, ma creava anche degli strani quiproquò, avevano preferito
ottenere lo stesso risultato mediante la televisione. I cittadini erano ormai talmente intossicati, da un uso
sapiente di questo mezzo, da non poterne essere privati a lungo.
Il guaio era che, nel satellite Terzo, si producevano in grande quantità dei televisori che venivano venduti
da contrabbandieri ai colpevoli in crisi d’astinenza.
- Ne abbiamo viste le piantagioni. - Purtroppo - continuò Fifì - i prezzi si muovevano verso cifre sempre più elevate ed avevano raggiunto
valori astronomici. Questo mercato nero si stava sviluppando rapidamente, spargendosi a macchia d’olio.
Causa l’acquisto di questi televisori, (c’era chi ne comperava uno per ogni camera e le vaccherelle lo
tenevano anche nella stalla) molti si rovinavano finendo sul lastrico e creando notevoli problemi alla
collettività. Qualche destrorso reazionario aveva chiesto che venisse introdotta la pena di morte per i
televisori di contrabbando. Al termine di questa lunga spiegazione, Fifì chiese ai nostri eroi se lo volessero seguire nel palazzo della
televisione. Appena entrati nell’imponente edificio neoclassico, videro un caotico via vai d’animali che
lavoravano senza un attimo di respiro: maialetti, vaccherelle, orsacchiotti, ochette, tutti indaffarati. Molti
altri, invece, gesticolavano davanti alle telecamere. Metà del tempo lo passavano a lodarsi l’un l’altro e
l’altra metà a starnazzare, chiocciare, o grufolare a seconda della loro natura. Perché poi gli spettatori si
divertissero assistendo ad un tale gazzabuglio, nessuno dei nostri tre eroi era riuscito a capirlo.
In mezzo a quel ciarpame di telenovele, films soporiferi e teatro pesante che chiamavano leggero, lo
spettacolo più gradito era quello delle ochette che facevano lo spiumarello togliendosi, una ad una le
morbide penne. Lo facevano con una certa grazia, ma alla lunga anche questo numero perdeva d’interesse.
- Ecco - disse il leprotto - qui siamo tutti condannati ai lavori forzati, notte e giorno, giorno e notte,
questa macchina infernale non si ferma mai. Pappagallo Rosso si accorse solo allora che, sulle finestre, c’erano appoggiati stuoli di merli che
fischiettavano allegramente e chiese perché a quelli fosse permesso di restare in città a vagabondare in
giorno di festa.
- Costituiscono la maggioranza della popolazione di Lumachina; le scimmie si fidano ciecamente di loro
e li mantengono, di sana pianta, a far nulla. I merli si limitano a passare qualche ora al giorno in appositi
uffici dove fischiano tra di loro e consumano i pasti, tranquilli, senza altra preoccupazione. Nonostante
tutto vi si recano saltuariamente e si lamentano di continuo dello stipendio che ritengono non sufficiente
a compensare il loro alto contributo allo sviluppo della collettività. Aggiunse che erano gli unici esentati dall’obbligo di vedere la televisione, ma la guardavano ugualmente
considerandola un ottimo divertimento che sviluppava l’intelligenza ed era fonte di cultura. Quando se ne
stancavano, andavano a vedere lavorare gli altri, grande divertimento anche quest’ultimo, ma, in genere,
di breve durata, perché anche la sola vista del lavoro produceva in loro un leggero senso di nausea.
Ma proprio in quel momento entrò un bel gattone in uniforme da gendarme ed il leprotto fuggì via come
fanno i suoi simili sulla terra, quando vedono un cacciatore.
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CAPITOLO XIII°
Il nuovo venuto si presentò gentilmente, disse di chiamarsi Marcantonio e chiese loro chi fossero e da
dove venissero. Saputo che si trattava di turisti, si pose gentilmente a loro disposizione per fare da guida.
- Oggi è giornata festiva e potreste trovare qualche gendarme zelante felice di crearvi delle difficoltà. Io
sono un graduato, come vedete dalla lunghezza dei miei baffi ed in mia compagnia potrete gironzolare
tranquillamente senza essere disturbati.
Li accompagnò, poi, al piano superiore, dove avevano sede i maggiori quotidiani. Nella prima sala
c’erano dei pappagalli indaffarati che, con la loro fitta calligrafia, riempivano le sei facce di un cubo. Ad
una certa ora stabilita, arrivava un inserviente, metteva tutti i cubi su di una carriola e ne scaricava dodici,
a casaccio, nella sede d’ogni giornale. Entrava allora in azione il correttore di bozze che, senza leggerli, li
accostava l’un l’altro, formando il foglio del quotidiano che passava al tipografo. La pagina politica era
pronta ed aspettava solamente le altre per uscire fresca di stampa.
Altri uffici erano occupati da grossi lumaconi con gli occhiali. Chi era laureato in chimica faceva la
critica letteraria e chi era laureato in agraria scriveva di sanità. Guai se, anche una sola volta, avessero mai
svolto qualche attività inerente a quello di cui dovevano parlare. Ognuno di loro passava da un
argomento all’altro con la massima indifferenza e si considerava un esperto in ogni materia dopo averne
parlato, anche solo per cinque minuti, con qualche amico che ne capiva meno di lui.
In un’altra sala c’erano gli struzzi. Erano quelli che determinavano la politica dei più importanti
quotidiani. Tra l’altro, ogni anno decidevano quale sarebbe stato lo scandalo dei prossimi dodici mesi.
L’anno precedente avevano scritto della brutta abitudine di uccidere i maiali per farne dei salumi. In un
primo momento i lettori si erano scandalizzati, ma poi, poco alla volta, ci avevano fatta l’abitudine ed il
consumo dei salumi era aumentato.
Quest’anno si era interessata l’opinione pubblica al brutto vezzo delle ochette di uscire a tarda notte dagli
studi televisivi, a frotte, starnazzando. Lo spunto l’aveva data la lettera di un merlo: protestava per quel
baccano impossibile che gli impediva di dormire. All’inizio i lettori avevano reagito indignati per il
disturbo arrecato a questo servitore zelante della comunità, ma, in seguito, era stato estremamente
difficile trovare merli disposti a fare la fatica di scrivere altre lettere e, nell’arco di sei mesi, l’opinione
pubblica si era stancata dell’argomento. Il problema era quello di creare un nuovo scandalo che facesse
vendere i giornali, almeno fino alla fine dell’anno. Dopo lungo dibattito e ponderata riflessione, avevano
deciso di parlare delle galline. Questi poveri animali erano costretti a fare un numero spropositato di
uova, rispetto a quello relativamente modesto dei pulcini. Era tempo di finirla e di dare loro un po’ di
respiro. Stabilirono che l’argomento avrebbe retto giusto i sei mesi necessari.
Si misero poi a discutere delle cause incomprensibili che determinavano il calo delle vendite dei
quotidiani su Lumachina e decisero che i loro concittadini erano tutti ignoranti.
Al terzo piano si faceva del cinema. Si giravano soltanto films ad alto livello artistico. Il governo, che si
preoccupava della cultura dei cittadini, dava ai produttori dei grossi contributi. Il guaio era che la
maggior parte degli spettatori, alla fine di ogni film, si recava dal botteghino e pretendeva la restituzione
del denaro pagato per il biglietto, sostenendo che lo spettacolo non valeva il prezzo. I films che
incassavano meno venivano presentati in un festival, dove una giuria, composta di marmotte, assicurava
il premio a quello che avesse prodotto il maggior senso di noia negli spettatori.
- Purtroppo anche il cinema è in crisi - disse Marcantonio - ed è un peccato. Voi non potete capire
quanto sia pesante una lunga giornata di servizio! Noi abbiamo l’ingresso gratis e non c’è niente come un
buon riposino per riconciliarti con la vita. All’ora di pranzo Marcantonio li accompagnò in un magnifico ristorante che, essendo riservato ai
gendarmi, poteva lavorare nei giorni festivi. Loro, infatti, dovevano essere sempre in forma per poter
inseguire ladri, assassini e cittadini restii all’uso quotidiano del televisore.
Il locale era costruito su di una scacchiera. I re e le regine preparavano il cibo in cucina, i pedoni
correvano veloci a servire in tavola, mentre gli alfieri stappavano le bottiglie e facevano assaggiare i vini.
I due cavalli neri nitrivano accompagnati, al pianoforte, dai due cavalli bianchi e le torri, che non avevano
niente da fare, dormivano una in ogni angolo della sala da pranzo. Il conto fu salato a tal punto che il
gendarme, dopo aver salutato Pappagallo Rosso ed i suoi amici, legò tutti quei pezzi e li portò in
prigione a vedere il sole a scacchi.
Partiti da Lumachina, i nostri eroi, il giorno dopo, giunsero rapidamente su Gamberella, uno strano
satellite che, al contrario degli altri, andava all’indietro. Era celebre, in tutto il sistema di Marmocchio,
per i monumenti viventi che vi si potevano ammirare volti tutti ad esaltare i valori più significativi della
sua antica civiltà.
Questo satellite, abitato anch’esso da animaletti, era una colonia di Lumachina. Un tempo i suoi abitanti,
geniali ed industriosi, viaggiando nello spazio, l’avevano scoperta per primi, ma col tempo ne erano stati
colonizzati.
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I nostri eroi giunsero, con formidabile precisione, nella grande piazza della città principale gremita di
abitanti. Al centro c’era una specie di spelonca e proprio alla sua sommità si andò a posare il missile.
Molti animali, che erano lì d’attorno, corsero ad aiutarli per farli scendere e quindi furono subito
circondati da una folla festante di curiosi:
- E voi chi siete e perché lui ha il becco e voi no e perché voi due siete spelacchiati e lui ha le penne e
perché qui e perché là. Insomma, non la finivano più. Si perse così un bel po’ di tempo prima di cominciare la visita ai
monumenti viventi.
Il primo era costituito da un cucciolo in lacrime attorniato da una massa vociante di adulti circondati da
un gradone di cemento che li separava dalla folla. La guida stava spiegando che, tutti quegli animaletti,
erano i genitori del cucciolo. Nessuno si ricordava più del suo nome perché, a causa dei numerosi divorzi
e conseguenti matrimoni, ci si era dimenticati di chi fossero il suo papà vero e la sua vera mamma. Il
cucciolo voleva i suoi genitori e piangeva disperatamente.
Più avanti un vecchio gufo di 300 anni non poteva morire, perché, in quello strano paese, non si può
morire se non arriva il primo mese della pensione. Presentando un documento, si era sbagliato a mettere
una virgola ed ora la burocrazia si trovava nella strana condizione di non potergliela dare legalmente,
anche se ne aveva diritto. Sarebbe rimasto lì eternamente, perché il suo caso era irresolubile.
Il terzo era un treno sempre in orario; infatti, a differenza del famoso treno di Jerome che partiva e non
arrivava mai, questo arrivava sempre, perché non partiva mai. A qualunque ora tu fossi venuto lo avresti
trovato sempre lì che ti aspettava, in perfetto orario.
C’era poi una buca da lettere fantastica dove tu potevi imbucare una cartolina in qualunque momento e,
se tu avessi avuto l’accortezza di telefonare al destinatario, questi l’avrebbe potuta ritirare, a suo piacere,
anche subito, in una cassetta postale posta sotto la prima. L’unico inghippo era che, il più delle volte,
non funzionavano i telefoni.
Ma fu proprio davanti a quel monumento che cominciò l’inizio della fine del nostro racconto.
CAPITOLO XIV°
I nostri amici stavano entrando nella spelonca, posta al centro della piazza, quando furono avvicinati da
due cani, Asterix il primo e Vercingetorige il più grande, vestiti da gendarmi che avevano i baffi corti e
quindi doveva trattarsi, evidentemente, di militari di bassa forza:
- Alt! - Abbaiò il più piccolo - Dobbiamo consegnarvi un decreto di espulsione da parte del nostro
governo. Pappagallo Rosso chiese il motivo che poteva avere determinato un tale provvedimento.
- Non ne abbiamo la più pallida idea; sappiamo solo di dovervi portare al comando il più presto
possibile. Il nostro eroe si diede allora a pregarli di lasciargli il tempo per visitare la spelonca, perché gli avevano
assicurato che quest’ultima era il monumento più interessante della città
Dato che, come voi ben sapete, i cani che abbaiano molto sogliono mordere poco, vincendo la loro
comprensibile resistenza, Pappagallo Rosso ottenne di poter dare un’occhiata alla caverna.
Allora, prima di lasciarlo entrare, il più piccolo dei due animali, una specie di bassotto tanto bastardino
da sembrare più uno sgabello che un cane vero e proprio, gli disse:
- Le faine, che sono gli esseri sicuramente più civili ed emancipati del nostro satellite, si radunano
spesso nei salotti delle loro grotte dove, distesi su soffici cuscini di penne, sono soliti discutere della
pianta del bene e del male. È lì, da queste sublimi riunioni, che nascono le idee dei nuovi - diritti
incivili - da dare in pasto alle plebi ignoranti.
Qui voi visiterete la grotta più grande nella quale abita e comanda faina Padella, un essere che vive di
verità e quindi non sbaglia mai. Fu a questo punto che Pappagallo Rosso, commosso, affermò che sulla Terra ce n’era stato uno solo che
non sbagliava mai, ma lo avevano impiccato per i piedi.
- In genere, - continuò il bassotto Asterix ignorando l’interruzione - nella grotta entrano in prevalenza dei
polli che, ben ben spennati dalle faine, subiscono una trasformazione talmente - radicale - da uscire
irriconoscibili. Purtroppo i visitatori diminuiscono, perché, spennane uno oggi, spennane uno domani, i
polli con le penne sono rimasti pochini. - Bando alle chiacchiere, - disse allora Schichimeri sbuffando - vogliamo vedere? Ma i nostri eroi, appena entrati, senza aver avuto il tempo di dare nemmeno un’occhiata, furono costretti
a fuggire perché le faine si erano scagliate contro Pappagallo Rosso con tanta violenza che i due cani
avevano avuto difficoltà a proteggerlo; tanto più che il bassotto, da vero pauroso, si era limitato ad
abbaiare nascosto dietro la sottana di Fifarella.
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Quando finalmente furono in salvo fuori dalla grotta Vercingetorige, il cane più grande, si rivolse a
Pappagallo Rosso dicendo:
- Anche spelacchiato come sei, devono averti preso per un pollo. - - Io non sono spelacchiato e le due
penne che ho non sono certo di quello sciocco animale. Comunque, per evitare scene che potrebbero
impressionare i due bambini, preferisco rinunciare alla visita. I nostri amici, con Fifarella che tremava ancora verga a verga, furono quindi portati subito in caserma.
Quando vi giunsero, a riceverli c’era un can barbone, la cui lunga barba era indice d’altissimo grado.
Questi spiegò che, essendosi presentati dei casi di psitacosi, malattia infettiva notoriamente diffusa dai
pappagalli, gli abitanti del satellite tendevano ad incolparne il nostro eroe pennuto. La cosa era
estremamente grave, perché qualche scienziato (particolarmente tra i gufi) aveva chiesto di ucciderlo per
procedere all’autopsia ed analizzarne fegato e viscere.
- Io non sono un pappagallo! - Allora il graduato soggiunse con un mellifluo sorriso:
- Ti credo, ma, se fossi in te, taglierei la corda e mi andrei a far visitare da un buon veterinario. Questa allusione maligna alla sua natura, fece andare fuori dei gangheri il nostro eroe già irritato
dall’essere stato confuso, poco prima, con un pollo. Fifarella e Schichimeri ebbero un bel da fare a
trattenerlo, mentre fingeva di volersi avventare contro il gendarme. Stranamente, però, la sceneggiata ebbe
una durata molto breve ed egli si precipitò di corsa, seguito dai nostri amici, verso il missile a
manovella.
Quando giunsero sulle costellazioni del nostro cielo, era già notte; le stelle brillavano e solo allora
Schichimeri si ricordò di quella che si era dimenticato in tasca all’inizio del loro viaggio. Da birichino
qual’era, la rimise subito a posto senza farsene accorgere.
Più tardi, mentre dal Sagittario si difendeva raccontando un mare di bugie, giunse il Toro furibondo.
Sulla terra avevano notato che nel carro dell’Orsa Maggiore c’era una stella in più ed era già stato
convocato uno dei soliti congressi nel quale si era stabilito che la cosa dipendeva dal buco dell’ozono. Il
Toro aveva tolto la stella prima che succedesse qualche altro pasticcio ed era corso subito dal Sagittario
per narrargli l’accaduto.
- Se continua di questo passo ci proibiranno di bere le bibite con la cannuccia, sostenendo che questo
risucchio è la causa principale del buco nell’ozono. Comunque il giochetto di Schichimeri era stato scoperto. Si lesse la sentenza che condannava i due
gemelli all’esilio e fu concesso loro solamente il tempo necessario per passare a salutare la Vergine.
Mentre le due donne piangevano abbracciandosi teneramente, Schichimeri assumeva degli atteggiamenti
da superuomo.
Ma il tempo passava veloce e si doveva partire.
- Questo è quanto, il resto lo sai. - Concluse repentinamente Pappagallo Rosso.
- Ti sei fatto visitare da un veterinario? - Gli chiesi.
- Da un medico, per Bacco, perché tu sai che anche gli uomini possono essere infettati dalla psitacosi dei
pappagalli. - Non ho voluto insinuare nulla. Questa è comunque la fine dell’avventura. Mi sembra che, tutto
sommato, non siano state imprese ne rocambolesche, ne apportatrici di grandi novità. - Non puoi togliere nulla alla poesia degli spettacoli naturali che abbiamo visto. Tu forse non sai che io
sono soprattutto un poeta. Anzi, mi sovviene di un tempo, or non so più in che secolo, quando con un
amico, un certo Francesco Patacca, (così almeno mi sembra: non ricordo bene il nome) si chiacchierava in
riva ad un fiume. Fu allora che ci accorgemmo di una bellissima donna che stava facendo il bagno ed io
cominciai: - Chiare fresche dolci acque _ _ . - La conosco, quel poetastro da strapazzo che era in tua compagnia ti deve aver plagiato - .
Mi sembrò che la mia osservazione l’avesse fatto innervosire. Si tolse il cappello e vidi che la sua testa
stava fumando. Poi, con la solita cerimonia, versando di nuovo l’olio nell’apposito buco, si rimise la
tuba e senza salutare se n’andò via.
Avevo ancora la testa confusa da quei racconti di suoni, di luci, di voci che egli aveva saputo evocare con
la sua narrazione un po’ confusa. Era come se nel cervello mi frullasse l’idea che tutto più o meno, anche
se un po’ prima od un po’ dopo, fosse eternamente uguale: qui come nello spazio; come se la vita fosse,
anche lei, un’eterna favola.
In un secondo momento, presi a riflettere sulla mia strana situazione: non ero ancora sposato ed avevo
due figli in arrivo.
Quando, il giorno dopo, lo dissi alla mia fidanzata, ci volle del bello e del buono a farle digerire questa
storia, ma era, fondamentalmente, una brava ed ingenua ragazza: accettò di sposarmi ugualmente.
Davanti all’altare, durante la cerimonia, ecco che vidi Pappagallo Rosso prendere il posto del mio
testimone. Mi guardai attorno sgomentato, ma mi resi subito conto che io ero l’unico ad accorgermi della
sostituzione: solo a me compariva nella sua vera natura.
- Figliuolo - mi disse - stanno tutti aspettando il tuo sì. -