l`approccio naturalistico alla psichiatria
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l`approccio naturalistico alla psichiatria
Erica Citterio 5^Cs • L’approccio naturalistico alla psichiatria. • Psicoanalisi: scienza naturale o ermeneutica? • La mente e il corpo. L’APPROCCIO NATURALISTICO ALLA PSICHIATRIA La psichiatria rappresenta l’unica che si è dovuta rapportare con un vero e proprio movimento di protesta. Questo movimento è noto con il nome di antipsichiatria; i critici che ve ne fanno parte sostengono che le malattie mentali non sono malattie nel senso ordinario del termine, e che la psichiatria si sia rivelata un ottimo mezzo per la soppressione di persone ritenute scomode e le cui idee andassero a costituire una minaccia all’ordine sociale (i dissidenti venivano chiamati “malati” ed erano resi innocui tramite l’uso di farmaci e di terapie elettroconvulsive). Alcuni membri di questo movimento sono Laing e Szasz. Le posizioni di Szasz e Laing. • • Szasz ritiene priva di valore e fuorviante la definizione di psichiatria come “specializzazione medica che si occupa dello studio, della diagnosi e del trattamento di malattie mentali”; inoltre secondo lui gli psichiatri non hanno a che fare con vere e proprie malattie, bensì con “difficoltà di carattere personale,sociale ed etico”. Secondo Laing, invece, la schizofrenia non è una “condizione”, bensì “una etichetta che costituisce un fatto sociale” e l’individuo etichettato come schizofrenico “è privato dei pieni diritti umani e civili, non è più padrone delle sue azioni e non ne ha la responsabilità […]”. Il movimento antipsichiatrico ha trovato molti sostenitori fra gli psicologi, i sociologi e gli scrittori, mentre molti psichiatri hanno giudicato tali critiche troppo radicali e grezze. In ogni caso il dibattito ha avuto un effetto benefico, in quanto gli psichiatri sono stati obbligati a riflettere sulle basi filosofiche della loro disciplina. Hanno dovuto affrontare due livelli del discorso filosofico che per definizione sono difficilmente discriminabili: • la questione epistemologica; • la questione ontologica. Questione epistemologica: come si riconosce la malattia mentale? Secondo Boorse, la malattia rappresenta una deviazione dal progetto della specie: si dice che una persona è malata quando le funzioni del suo corpo sono al di sotto dei livelli tipici della specie. Alf Ross, filosofo danese del diritto, è arrivato alle stesse conclusioni di Boorse per quanto riguarda le malattie somatiche, ed ha tentato di estendere il discorso in modo analogo anche alle malattie mentali. La malattia mentale è una condizione che interferisce con la comunicazione. Ross presuppone un livello tipico della specie riguardante l’abilità umana di comunicare con gli altri, e considera “mentalmente malata” una persona nella quale codesta abilità risulta essere al di sotto del livello tipico della specie. Egli distingue due generi di disturbi della comunicazione: • disturbi cognitivi, quali allucinazioni o fissazioni; • disturbi emotivo-conativi, quali ansia, depressione o impulsività. Le persone portatrici di questi disturbi sono malate mentalmente in quanto la loro incapacità di comunicare le porta all’isolamento e all’alienazione; in casi gravi esse possono anche soccombere se non ricevono l’aiuto necessario. Tuttavia, molti psichiatri dissentirebbero da Ross quando afferma di aver stabilito un criterio oggettivo per la distinzione tra malattia mentale e salute mentale: il fatto che il criterio di Ross possa essere usato in pratica rimane dubbio. Sembra improbabile che si riesca ad ottenere un sufficiente consenso tra gli psichiatri sulla presenza e sull’assenza di un’abilità a comunicare nei singoli casi presi; si può addirittura arrivare a dire che la stessa idea di un’abilità specifica di comunicare con gli altri è un’illusione. La normalità delle funzioni biologiche dipende anche dalle norme personali e culturali, e il comportamento normale differisce da cultura a cultura. Alcuni psichiatri si dicono convenzionalisti, ovvero sostengono che la distinzione tra malattia mentale e salute mentale dipenda dalle convenzioni che caratterizzano una certa cultura. Esempio: l’omosessualità, vista ora come una variante sessuale, una volta era considerata una malattia mentale. Altri, come Ross, non ritengono che la pratica psichiatrica rifletta l’aspetto culturale della società e sostengono che in teoria non c’è alcuna differenza tra una diagnosi di malattia mentale e una diagnosi di malattia somatica. Emil Kraepelin, uno dei fondatori della psichiatria contemporanea, affermava che le malattie mentali sono caratterizzate da una causa specifica, una particolare patologia cerebrale, un particolare quadro clinico e una specifica terapia; tuttavia, questa visione semplicistica non è applicabile nemmeno alla medicina somatica. Quattro concezioni attuali della malattia mentale. 1. visione empiristica; 2. Malattia mentale come funzione biologica anormale; 3. Malattia mentale come comportamento inadeguato; 4. Malattia mentale come problema sociale. 1. Concezione empiristica. I seguaci della scuola clinica critica, strettamente collegata all’empirismo, sostengono la necessità di valutare l’efficacia delle differenti terapie per mezzo di esperimenti controllati ed evidenziano come l’applicazione dei risultati di tali esperimenti richieda che i medici formulino le loro diagnosi seguendo regole ben precise. I clinici critici non si occupano di questioni metafisiche come il significato dei termini salute e malattia, ma sottolineano l’importanza di definizioni precise delle singole entità patologiche. Per raffinare gli studi empirici della malattia mentale, gli psichiatri hanno tentato di quantificare la gravità dei sintomi attraverso scale graduate. L’approccio empiristico ha contribuito inoltre a chiarire alcuni punti del dibattito antipsichiatrico. La definizione delle entità patologiche ai fini della ricerca terapeutica controllata è una questione importante, ma la convinzione degli empiristi secondo la quale sarebbe possibile risolvere tutti i problemi della critica psichiatrica per mezzo della ricerca empirica sganciata dalla teoria è ingiustificata. È necessario controllare criticamente le nuove terapie, ma la scelta fra le diverse tipologie (terapia farmacologica, terapia comportamentale, e psicoanalisi) riflette non solo un fatto di efficacia dei metodi, ma anche la concezione che lo psichiatra in questione ha della malattia mentale. 2. Malattia mentale come funzione biologica anormale. La psichiatria è considerata una disciplina medica. Per giustificare ciò, si afferma che le malattie mentali possono essere analizzate secondo il concetto biologico (ossia il modello meccanico) di malattia: si assume che i sintomi delle malattie mentali siano scatenati da anomalie fisiologiche o biochimiche a livello del sistema nervoso centrale. La dipendenza dei fenomeni mentali dalla struttura e dalle funzioni cerebrali è un fatto talmente noto da rendere superflua una discussione dettagliata in questa sede. Il modello biologico non è sostenuto solo dagli studi clinici empirici, ma anche dalla nuova conoscenza teorica neurobiologica sulla trasmissione sinaptica e sull’azione dei farmaci a livello molecolare. Attualmente il concetto biologico di malattia risulta meglio fondato nelle condizioni psicotiche che nelle nevrosi e nei disturbi della personalità. Molti psichiatri concordano sul considerare le psicosi malattie in senso medico e nel ritenere che i pazienti psicotici debbano essere curati dai medici, ma alcuni ammettono che le nevrosi e i disturbi della personalità vengono forse trattati in modo più adeguato dagli psicologi. 3. Malattia mentale come comportamento inadeguato. Questa visione della malattia mentale è basata sulla teoria filosofica del comportamentismo logico, controparte del comportamentismo in psicologia. Gilbert Ryle, filosofo britannico, sostenne la tesi radicale che tutti gli asserti riguardanti fenomeni mentali possono essere analizzati in termini di asserti su disposizioni a differenti generi di comportamento. Esempio: la sensazione di fame non è altro che “comportamento da fame” e la sensazione di ansia non è altro che “comportamento ansioso”. Ivan Pavlov, psicologo, mostrò l’importanza del processo ora noto come condizionamento classico. Di solito, i cani reagiscono alla vista o all’odore del cibo con un aumento di salivazione; nei suoi esperimenti, egli stabilì un riflesso condizionato associando l’offerta di cibo al suono di un campanello. B.F. Skinner, psicologo, studiò il comportamento degli animali e lo estese poi a quello umano. Egli riteneva che i meccanisimi osservati in laboratorio avessero un ruolo importante anche nello sviluppo dei patterns (modelli) di comportamento complesso negli esseri umani. Un particolare tipo di comportamento può subire un rinforzo positivo se viene associato ad un premio, oppure un rinforzo negativo se viene associato ad un avvenimento spiacevole. Queste sono le teorie filosofiche e psicologiche che costituiscono lo sfondo dell’attuale psichiatria comportamentale. È difficile immaginare che uno psichiatra concordi sul fatto che la vita mentale degli esseri umani possa essere ignorata, ma ci sono alcuni psichiatri comportamentisti che sostengono che in teoria non vi sono alcune differenze tra le varie forme di comportamento acquisito e le patologie mentali. Sia i modelli di comportamento adeguati sia quelli inadeguati sono il risultato di un processo di apprendimento e la terapia comportamentale (ovvero il trattamento dei comportamenti inadeguati) deve essere basata sulle attuali teorie dell’apprendimento. La terapia comportamentale ha guadagnato terreno in psichiatria in questi ultimi anni particolarmente per il trattamento delle condizioni non psicotiche come le nevrosi, i problemi sessuali, l’alcolismo e la tossicodipendenza. Una persona con nevrosi ansiosa, per esempio, può essere curata con la desensibilizzazione sistematica: la persona è esposta a una serie di situazioni ansiogene adeguatamente graduate; in questo modo l’ansia condizionata si esaurisce e il paziente “guarisce”. Si possono usare altri principi terapeutici come la terapia aversiva (cioè l’estinzione di un comportamento indesiderabile mediante associazione dello stimolo che lo provoca a uno stimolo spiacevole), l’economia del gettone (il rinforzo positivo dei comportamenti desiderabili per mezzo di ricompense), il training sociale e il rilassamento muscolare progressivo. La terapia comportamentale viene usata dai comportamentisti convinti; ci sono anche coloro che affermano che essa serva solo a confondere le cose quando condizioni come la nevrosi o l’alcolismo sono considerate malattie in senso medico, ma gli stessi principi terapeutici posso essere usati anche dagli psichiatri che hanno fiducia nella loro efficacia pure non credendo nella teoria sottostante. 4. La malattia mentale come problema sociale. Gli antipsichiatri si spingono troppo avanti quando definiscono la malattia mentale come una reazione sana a una società malata, ma nella loro critica alla psichiatria biologica c’è un nucleo di verità, poiché non si può negare che i fattori sociali svolgano un ruolo importante nello sviluppo anche della malattia mentale. Alcuni psichiatri che insistono su questo punto studiano scientificamente l’influenza dell’ambiente sociale e considerano determinate condizioni mentali come veri e propri problemi sociali. Le tre tradizioni (biologica, psicologica o comportamentale e sociale) riflettono tre diverse concezioni della natura mentale, e la scelta tra esse ha differenti conseguenze pratiche: i seguaci delle prime due sosterranno la terapia farmacologica o comportamentale, mentre i seguaci dell’ultima preferiranno misure preventive. La scelta del concetto di malattia determina anche lo status della psichiatria stessa: se si accetta il modello biologico, la psichiatria è una disciplina medica, mentre se si accetta uno degli altri due modelli, essa può essere considerata una branca della psicologia o della sociologia. Tre problemi filosofici. Il dibattito in corso sullo status della psicologia è assai variegato: alcuni critici (come gli antipsichiatri) sostengono che la concezione biologica della malattia mentale è soltanto un’illusione, in quanto induce al trattamento con farmaci problemi esistenziali e maschera le disuguaglianze sociali e i problemi culturali; altri critici dicono che qualsiasi paziente psichiatrico è vittima di discriminazioni perché alle malattie mentali non è data la stessa importanza della malattie somatiche, e del resto molte persone pretenodono che il medico fornisca loro una prescrizione quando soffrono di sintomi nervosi. Il paradigma della psichiatria è molto meno definito di quello di molte altre parti della medicina e ciò comporta tre problemi filosofici. Primo problema filosofico. Riguarda la distinzione tra malattia mentale e salute mentale. Gli psichiatri influenzati dall’empirismo non si preoccupano della natura delle malattie mentali, ma ritengono la malattia mentale come quella cosa che viene curata dallo psichiatra, mentre gli psichiatri orientati in senso biologico ribattono che l’essere un paziente mentalmente malato oppure no è una verità oggettiva. Secondo problema filosofico. Concerne l’ambito teorico di riferimento. Molti psichiatri giudicano artificiale la distinzione tra i concetti biologico, psicologico o comportamentistico e sociale di malattia mentale; diranno che le tre “concezioni della malattia” sono solo tre aspetti di un unico concetto olistico di malattia mentale. Negli ultimi anni si dice che è necessario usare un modello bio-psico-sociale di malattia mentale, perché è necessario dare la stessa importanza a tutti e tre i fattori per arrivare a una caratterizzazione complessiva del caso. Molti psichiatri si sono però votati a una delle scuole di pensiero, e di conseguenza la psichiatria contemporanea è caratterizzata da tendenza sia riduzionistiche che eclettiche. • • I riduzionisti sono coloro che riducono la malattia mentale ad anomalie biologiche, disturbi del comportamento o problemi sociali; tengono conto soltanto di un aspetto del meccanismo della malattia, ma così facendo si garantiscono un quadro teorico di riferimento che consente loro di formulare teorie utili e indagini scientifiche che possono produrre un miglioramento nella cura dei pazienti psichiatrici; Gli eclettici adottano il modello bio-psico-sociale; possono avere successi pratici, ma il oro approccio non soddisfa dal punto di vista filosofico e scientifico. Terzo problema filosofico. La psichiatria è una scienza naturale o appartiene alle scienze umane? I seguaci degli orientamenti finora discussi danno per scontato che le malattie mentali possano essere osservate, descritte e classificate con metodi empirici. La malattia mentale può essere spiegata mostrandone le cause. Tutti i modelli di malattia mentale discussi rappresentano varianti della psichiatria naturalistica, cioè della psichiatria intesa come scienza naturale. PSICOANALISI: SCIENZA NATURALE O ERMENEUTICA? La psicoanalisi venne introdotta come metodo scientifico, ma suscitò in seguito aspre critiche sia da parte degli psichiatri orientati alla biologia sia da parte dei filosofi della scienza inseriti nella tradizione dell’empirismo. La psicoanalisi freudiana. La teoria psicoanalitica sviluppata da Sigmund Freud ha avuto un’influenza tale da essere ancora oggi parte della nostra cultura. Lo psicoanalista considera “sintomi” il risultato di una interazione complessa tra le funzioni mentali chiamate da Freud Super-Io, Es e Io. • il Super-Io è quella parte della personalità che riguarda il giudizio morale, rappresenta la coscienza della persona e contiene un sistema di norme, valori e ideali assorbiti dalla famiglia e dalla società; • l’Es rappresenta gli istinti primitivi innati nell’uomo, specialmente quelli legati alla sessualità e all’aggressività, ovvero quelli legati al conseguimento del piacere e alla riduzione del dolore; • l’Io è la parte direttiva della personalità, quella che regola sia gli impulsi dell’Es sia i vincoli del Super-Io. Freud introdusse molti altri concetti astratti nel tentativo di definire la struttura della personalità e spiegarne lo sviluppo, e lo psicoanalista usa questo insieme di concetti quando cerca di interpretare ciò che il paziente gli dice. Uno dei compiti dello psicoanalista consiste nello scoprire la struttura e il funzionamento della personalità del paziente in modo tale che alla fine i sintomi possano essere inseriti in un contesto significativo; a tale scopo può essere necessario analizzare non solo l’interazione tra analista e paziente, ma anche i sogni e i lapsus del secondo. Si ritiene che il processo di elaborazione dei conflitti inconsci e la comprensione che ne consegue possano indurre un durevole mutamento nella personalità del paziente, e ciò costituirebbe la guarigione. La psicoanalisi come scienza. La psicoanalisi differisce enormemente dal complesso di teorie scientifiche che caratterizzano la medicina biologica, ma non c’è dubbio che Freud si considerasse alla pari di uno scienziato. La psicoanalisi è una teoria scientifica riguardante i fenomeni mentali e gli analisti vanno alla ricerca delle spiegazioni causali: la teoria psicoanalitica è stata vista quindi come una teoria in cui la mente viene identificata come un modello funzionante secondo “principi idraulici” influenzati dall’Io, dall’Es e dal Super-Io. Coloro che considerano la psicoanalisi una scienza naturale si offrono però in pasto alla critica, che sostiene l’impossibilità di controllare se la teoria è vera o meno. È impossibile anche solo immaginare un esperimento che sia in grado di verificare o falsificare l’esistenza di una delle tre funzioni mentali o di una pulsione inconscia: è quindi impossibile verificare la validità delle interpretazioni psicoanalitiche dei singoli casi. Freud non ha riflettuto sul problema della controllabilità; ciò evidenzia la convinzione degli psicoanalisti che le loro teorie siano vere semplicemente perché confermate dai loro pazienti. La critica di Popper. Karl Popper sostiene che la semplice accumulazione di esempi confermanti non serve a dimostrare la verità di una teoria scientifica. Egli cita la psicoanalisi come un esempio particolarmente lampante di questo modo di pensare; sostiene che le teorie psicoanalitiche non soddisfino il criterio dello status scientifico di una teoria ovvero “la falsificabilità, o confutabilità, o controllabilità”. Secondo Popper, esse sono solo una pseudoscienza. La sua critica è particolarmente dura. La psicoanalisi come disciplina ermeneutica. Dall’inizio degli anni ’60 il collegamento tra psicoanalisi e filosofia ermeneutica ha attirato l’attenzione di filosofi e di psicoanalisti. Essi rifiutano il punto di vista naturalistico; l’oggetto della ricerca psicoanalitica non è “l’idraulica della mente” bensì le associazioni di significati formulate con il linguaggio, e il suo metodo non è l’esperimento scientifico, ma la comprensione, l’interpretazione e la riflessione. La parola “comprensione” ha vari significati. Consideriamo l’operazione mentale che viene chiamata “comprensione empatica”. Esempio: immaginiamo di vedere un uomo che cammina per la strada. Si ferma, si mette la pipa in bocca, cerca qualcosa nelle tasche, attraversa la strada, entra in una tabaccheria, esce con una scatola di tabacco in mano, accende la pipa e prosegue. Chiunque capirebbe il comportamento di quest’uomo. Aveva voglia di fumare e, poiché non aveva tabacco, ha deciso di comprarlo. L’interprete che arriva a questa conclusione ha interiorizzato il comportamento di quella persona mettendosi al suo posto ed è riuscito a collegare la sequenza degli eventi in modo razionale. Anche un non fumatore capisce il comportamento dell’uomo: lui stesso ha provato altri tipi di “fame” e riconoscerà la massima comportamentale secondo cui chi ha fame cerca di placare questa sensazione con un’azione appropriata. Il problema cruciale è l’impossibilità di dimostrare con certezza assoluta che un’interpretazione è corretta. 1) 2) 3) Si potrebbe chiedere agli altri passanti che cosa pensano del comportamento del fumatore di pipa e, se questi arrivano alla stessa conclusione, l’interpretazione ha almeno ottenuto lo status di “verità intersoggettiva”, ma non si può escludere che tutti gli osservatori si siano sbagliati. Il test definitivo consiste nel chiedere al fumatore stesso perché ha agito in quel modo e, se egli conferma la nostra interpretazione, possiamo essere sicuri di aver avuto ragione. Tuttavia, è ancora possibile che il fumatore non abbia detto la verità e che sia invece entrato nel negozio per evitare un incontro spiacevole per strada. Malgrado tutto questo, la comprensione empatica è una componente indispensabile della comunicazione quotidiana fra esseri umani e ha un ruolo importante anche nella comunicazione fra i medici e i loro pazienti. Questo esempio mostra che comprendere significa semplicemente “mettersi nei panni di un altro” e “condividere i sentimenti di una persona”, ma i filosofi dell’ermeneutica vanno oltre. Così si spiega il punto di vista di Heidegger e di Gadamer. • per Heidegger il processo di comprensione non è solo un tipo di attività mentale tra gli altri; la comprensione è l’interpretazione sono caratteri costituenti della natura umana. • un essere umano conscio stabilisce necessariamente un orizzonte di comprensione e, secondo Gadamer, due persone si comprendono pienamente soltanto se i loro orizzonti di comprensione si sono fusi. Queste idee sono importanti, ma non sono però applicabili in tutti i casi psichiatrici. Lo psichiatra non può comprendere direttamente il comportamento del paziente nevrotico o psicotico, ma ha bisogno di una chiave che gli consenta di vedere una logica e un significato al di là dei sintomi. Lorenzer, psicoanalista tedesco, dice che questa è la chiave fornita dalla psicoanalisi. Egli sostiene che la psicoanalisi sia una teoria critica sulla formazione della personalità dell’individuo, che serve a ricostruire la storia del paziente. La psicoanalisi si occupa di significati formulati con il linguaggio, perciò appartiene più alle scienze umanistiche che a quelle naturali. Per Lorenzer l’obiettivo della psicoanalisi non è liberare il paziente dai suoi sintomi, ma accrescere la sua autocomprensione e la sua competenza sociale, sviluppando così un atteggiamento critico rispetto le condizioni sociali che contribuiscono allo sviluppo della malattia mentale. Carl Lesche, psichiatra svedese, ha spiegato come la psicoanalisi contribuisca al processo ermeneutico: un’indagine psicoanalitica che tenti di esplorare la parte inconscia della mente è sempre ostacolata da lacune sia nell’intercomprensione, sia nell’autocomprensione; secondo Lesche la psicoanalisi serve a riempire queste lacune per mezzo di spiegazioni quasi-naturalistiche. Il prefisso “quasi” è usato perché esse non possono rappresentare il fine dell’indagine, ma solo mediarne la comprensione. Lesche descrive il processo psicoanalitico come un’alternanza di fasi ermeneutiche e fasi quasi-naturalistiche. All’inizio del dialogo l’analista e il paziente si capiscono direttamente e sulla base di tale precomprensione si tenta di tracciare a grandi linee la storia della vita del paziente. Prima o poi, però, scoppia una crisi: l’analista si impegna in un ragionamento quasi-naturalistico, considerando il comportamento del paziente come un “fenomeno naturale” del quale bisogna scoprire le cause; se il paziente accetta le cause suggerite dall’analista come vere, l’ipotesi viene considerata verità soggettiva e si conclude la fase quasi-naturalistica. Si riprende la comunicazione a livello ermeneutico fino all’instaurarsi della crisi successiva. In questa prospettiva, l’Es e il Super-Io non sono entità empiricamente date, ma sono le categorie per mezzo delle quali l’analista interpreta la personalità del paziente. Per usare la terminologia di Lorenzer e Lesche, i concetti psicoanalitici costituiscono un linguaggio meta-ermeneutico. Le interpretazioni che se ne danno risultano vere se il paziente le accetta come tali, ma eludono qualsiasi dimostrazione oggettiva. Una visione equilibrata. I filosofi empiristi del Circolo di Vienna miravano alla formulazione di un criterio di demarcazione che permettesse di distinguere gli asserti dotati di significato e gli asserti privi di significato. Essi scelsero il criterio di verificabilità. Ovviamente, è impossibile immaginare un’osservazione che possa verificare la verità oggettiva di un’interpretazione psicoanalitica e per questo motivo la psicoanalisi dovrebbe essere giudicata priva di significato. Analisti come Freud e Adler non avrebbero sicuramente accettato una conclusione simile, poiché sostenevano che le loro teorie erano costantemente verificate dalle loro osservazioni cliniche. Un’empirista avrebbe criticato l’uso che gli analisti facevano di tale osservazione. È vero che le teorie analitiche non possono essere verificate per mezzo dei nostri sensi, ma non è altrettanto vero che gli asserti non verificabili siano sempre privi di significato. Gli asserti riguardanti motivazioni, intenzioni, desideri e valori non sono verificabili con l’osservazione, ma non sono neppure destituiti di significato. Anche Popper ha proposto un criterio di demarcazione, ma Tra il suo modo di pensare e quello degli empiristi ci sono Due differenze: 1. Popper ha scelto il criterio di falsificabilità; 2. Egli non lo usa per distinguere tra asserti significanti e asserti non significanti, ma per separare gli asserti scientifici da quelli non scientifici. Prima critica alla psicoanalisi contemporanea. Le teorie psicoanalitiche sembrano formulate in modo da non essere logicamente confutabili. La teoria dei sogni di Freud ne è un esempio. Secondo questa teoria, tutti i sogni rappresentano tentativi di realizzazione dei desideri; ciò significa che noi sogniamo le cose che desideriamo. Sfortunatamente, la maggior parte di noi ricorda anche gli incubi, sogni estremamente spiacevoli: essi potrebbero essere considerati come una confutazione dell’ipotesi precedente, ma gli psicoanalisti sostengono che essi riflettano invece la nostra componente masochistica. Seconda critica alla psicoanalisi contemporanea. Gli psicoanalisti convalidano le loro teorie tramite la pubblicazione di alcuni casi clinici: la validità di queste generalizzazioni tratte da casi singoli sembra molto dubbia; sono necessari studi sistematici su gruppi di pazienti per esaminare nel modo più critico possibile la giustificazione delle teorie. Terza critica alla psicoanalisi contemporanea. Gli psicoanalisti respingono i tentativi di controllo empirico sugli effetti della psicoanalisi; essi, però, sostengono non solo che i loro pazienti imparino a conoscere se stessi, ma anche che guariscano dai loro sintomi. In altre parole, sostengono che il paziente cambi, e ciò implica un controllo empirico per confrontare l’efficacia della psicoanalisi con altre forme di psicoterapia e magari con la somministrazione di farmaci. Conclusioni. È necessario sforzarsi per cambiare l’attuale stato di cose. Bisogna raggiungere un accordo sullo status teorico della teoria psicoanalitica, e al momento l’approccio più promettente sembra quello di Lorenzer e di Lesche. LA MENTE E IL CORPO Le persone ammalate non sono soltanto organismi biologico con un “guasto meccanico”, ma esseri umani che pensano, agiscono, sperano e soffrono. La relazione tra corpo e mente è un problema filosofico che ha impegnato i maggiori pensatori, ma ha grande rilevanza anche dal punto di vista medico. I clinici usano la loro conoscenza biologica per alleviare le sofferenze dei loro pazienti, suddividono le malattie in mentali, somatiche e psicosomatiche, riconoscono di dover rispettare la dignità e l’autonomia dei pazienti. L’attività medica comprende sia la sfera fisica sia la sfera mentale e una filosofia della medicina che ignori la relazione tra le due sfere è di fatto incompleta. Anche una conoscenza ristretta degli argomenti pro e contro le varie teorie mente-corpo consente di inserire i problemi della pratica clinica in una prospettiva più ampia. Il dilemma fondamentale è stato formulato da Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pura. La questione è se la libertà umana sia un’illusione, e Kant formula questo problema per mezzo di un’antinomia, cioè di una tesi e di un’antitesi entrambe difendibili e criticabili al tempo stesso. • secondo la tesi di Kant, gli esseri umani sono liberi e le loro attività mentali non sono causate allo stesso modo dei fenomeni naturali. Questa affermazione rispecchia in pieno la concezione che noi abbiamo di essere liberi di prendere le nostre decisioni; i processi mentali non sono soggetti alla casualità della natura. • tuttavia noi riteniamo anche che ogni cosa abbia una causa naturale, e dobbiamo quindi considerare seriamente anche l’antitesi di Kant, che dice “non vi è alcuna libertà, e piuttosto, nel mondo tutto accade unicamente secondo le leggi della natura”. Uno dei problemi che ci troviamo ad affrontare è il carattere della parola “mentale”. Ci sono molti tipi di stati ed eventi mentali, ma è difficile definire chiaramente ciò che essi hanno in comune. Alcuni filosofi hanno insistito che gli stati mentali sono intenzionali, cioè sono sempre diretti a qualcosa; l’intenzionalità è un concetto chiave. Noi non speriamo in senso generico, bensì speriamo in qualcosa; non pensiamo, pensiamo a qualcosa; vediamo sempre qualcosa; decidiamo su qualcosa. Donald Davidson scrive: “La caratteristica distintiva del mentale non è l’essere privato, soggettivo o immateriale, bensì il fatto di esibire quel che Brentano chiamava intenzionalità”. La sua opinione può essere messa in discussione: • alcuni processi che sono di solito ritenuti mentali sono intenzionali; • alcuni stati che sono chiaramente mentali sono incontrovertibilmente intenzionali. Le sensazioni come il dolore o il prurito, che i filosofi chiamano “sensazioni primarie”, possono essere localizzate e descritte, ma non sono dirette verso qualcosa allo stesso modo in cui lo sono una speranza o un desiderio. Non siamo quindi d’accordo con Davidson quando dice che l’intenzionalità è la “caratteristica distintiva” del mentale. Gli stati mentali hanno proprietà fenomeniche ossia hanno qualità caratteristiche che sono soggettive e private. Esempio: io so che cosa intendo con la parola “rosso”, ma non riesco a spiegare che cosa sia questa qualità, così come non posso essere sicuri che altri concepiscano il “rosso” nello stesso identico modo in cui lo concepisco io. La mia esperienza soggettiva non può essere resa oggettiva, ma il fatto che essa esista per me è una prova del fatto che io sia un essere consapevole. Gli altri possono chiedermi che cosa significa per me ciò, e, nonostante io non possa rispondere in modo oggettivo, ponendomi questa domanda essi confermano che io sia un essere consapevole. • Thomas Nagel non arriva a dire che le verità soggettive sono la sola cosa che conta, ma ritiene che si debba essere realisti nei confronti del dominio del soggettivo, poiché è impossibile stabilire una teoria soddisfacente dei fenomeni mentali se non si tiene conto delle qualità soggettive dell’esperienza privata. • Kierkegaard esprime quest’idea con la frase seguente: “La via della riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa di accidentale, e quindi riduce l’esistenza a qualcosa di indifferente, di evanescente.” Le verità soggettive non possono essere rese oggettive; ogni tentativo di renderle tali è destinato a farle scomparire. La relazione fra mente e corpo. La relazione fra mente e corpo era considerata un problema filosofico centrale nel XVII secolo. Si riteneva che qualsiasi movimento fosse determinato da forze naturali; la natura nel suo complesso era considerata una macchina gigantesca composta da meccanismi descrivibili in termini quantitativi tramite espressioni matematiche, mentre l’esperienza qualitativa era riferita alla mente o all’anima. Il pensiero di Cartesio. Cartesio fu il primo scienziato e filosofo che analizzò il problema mente-corpo. Egli distingue tra due sostanze separate: • sostanza corporea, ovvero il corpo; • sostanza mentale, ovvero il res cogitans (la cosa pensante). Nell’uomo queste due sostanze sono unite e interagiscono tra di loro in modo estremamente complesso. Questa teoria costituisce una sorta di dualismo; il problema principale di ogni dualista è quello di spiegare come due sostanze di natura diversa possano interagire tra loro: Cartesio è molto vago su questo punto. Il pensiero di Spinoza. Spinoza respinse l’idea di Cartesio e sviluppò una teoria monistica. Egli non credeva possibile l’interazione tra mente e corpo proprio perché si tratta di sostanze di natura differente; concluse che esiste solo una sostanza, che chiamava Dio o Natura, e che il mondo fisico e quello mentale non fossero altro che due diversi aspetti o attribuiti di questa sostanza. I pensieri sono pensieri di certi oggetti; gli oggetti sono oggetti di certi pensieri, Egli deve però affrontare un problema: la sua teoria è incompatibile con l’idea di libertà umana. Comportamentismo logico. La soluzione degli empiristi al problema mente-corpo è facile da capire, ma non così facile da accettare. L’esponente di maggior rilievo fu Gilbert Ryle, filosofo britannico, che denuncia il dogma del “fantasma della macchina”. Egli crede che il problema mente-corpo derivi da fraintendimenti concettuali. Si assume che certi concetti mentali siano proprietà dello spirito di una persona, così come alcune caratteristiche fisiche lo sono del suo corpo. Per esempio: intelligenza, timidezza, ira, gelosia, ecc sono proprietà dello spirito; il colore azzurro è una proprietà degli occhi; l’obesità è una proprietà del corpo. Tuttavia, secondo Ryle, non vi è alcun oggetto caratterizzato dall’essere intelligente, in quanto intelligenza non è altro che una parola che indica certi tipi di comportamento. Una persona intelligente è colui/colei che riesce a risolvere problemi intellettuali più rapidamente di altri. Analogamente, non esiste alcun oggetto caratterizzato dalla qualità della timidezza. La timidezza può essere considerata una parola che indica la disposizione ad arrossire facilmente o a comportarsi in modo goffo. Ryle sottolinea che i termini mentalistici possono essere eliminati in blocco, in quanto ridondanti. Il comportamentismo di Ryle simboleggia un tentativo di allontanarsi dalle teorie precedenti, ma non è del tutto convincente. È vero che esiste una correlazione tra esperienza soggettiva e comportamento, ma i comportamenti si spingono troppo in là nel momento in cui trascurano l’esperienza soggettiva. La teoria comportamentista non lascia spazio all’idea che gli stati mentali possano essere causalmente attivi. La teoria causale della mente. Il punto di vista empiristico secondo il quale le teorie scientifiche devono essere basate sui fatti osservabili è gravemente insoddisfacente quando ci si occupa di fenomeni mentali, e la soluzione comportamentista era destinata al fallimento. Persino le attuali teorie scientifiche relative al solo mondo fisico si servono di entità teoriche che non sono direttamente osservabili. Esempio: energia, campo magnetico, particelle elementari, ecc. Dal punto di vista realistico ciò ha esattamente lo stesso senso dell’accettare l’esistenza di stati e processi mentali consci e inconsci, se questi concetti fanno parte di una teoria coerente del funzionamento mentale. Il punto di partenza è la nostra comprensione del modo in cui fenomeni mentali quali sentimenti, stati d’animo e desideri determinano le nostre azioni. Dobbiamo sostenere che i sentimenti svolgano un ruolo causale; analogamente, gli stati d’animo non sono solamente tipi di comportamento, ma stati mentali che causano modificazioni del nostro comportamento. Questa descrizione del funzionamento mentale non è però esaustiva. I fenomeni mentali non solo causano o cambiano le nostre azioni immediate; ma posso anche causare a loro volta ulteriori fenomeni mentali, oppure essere immagazzinati e andare a determinare il nostro comportamento in situazioni future. I fenomeni mentali costituiscono spesso le cause nascoste delle nostre azioni, ma quegli stati ed eventi mentali che hanno proprietà fenomeniche sono direttamente accessibili all’introspezione. I sentimenti non sono puramente teorici, ma possono essere sperimentati direttamente, ed è quindi assurdo escluderli dalle teorie sul funzionamento mentale. La teoria causale della mente non dipende da monismo o dualismo. Gli stati mentali svolgono un ruolo causale nelle nostre azioni e non possono essere ridotti al semplice comportamento; la loro vera natura deve essere ancora stabilita. Tre teorie compatibili con la teoria causale della mente. • La teoria dell’identità; • Il funzionalismo; • Il dualismo interazionistico. La teoria dell’identità. Detta anche monismo fisicalistico o materialismo dello stato centrale; è radicale alla pari del comportamentismo. Si assume che gli stati e i processi mentali siano identici agli stati e ai processi neurofisiologici del sistema nervoso centrale. Questa teoria solleva però tre gravi problemi. Primo problema della teoria dell’identità. Coloro che accettano la teoria dell’identità devono accettare anche l’antitesi di Kant. È ragionevole assumere che la natura sia un sistema causale chiuso in cui i fenomeni naturali sono completamente determinati dagli eventi antecedenti. Per questo motivo, la teoria dell’identità implica l’idea della predeterminazione delle nostre azioni. Si può salvare l’idea di libertà umana se si ridefinisce la libertà in modo da vedere l’uomo come “agente libero”. Secondo problema della teoria dell’identità. La teoria dell’identità si presta alla critica di Nagel in quanto non riesce a dare conto della nozione di esperienza soggettiva. Una teoria che riduce i fenomeni mentali alla neurofisiologia non coglie un problema di questo tipo. La teoria dell’identità rappresenta un buon esempio dell’affermazione di Kierkegaard secondo la quale le verità soggettive non possono essere rese oggettive, perché ogni tentativo in questo senso le fa scomparire. Terzo problema della teoria dell’identità. L’affermazione di un’identità fra stati mentali e stati neurofisiologici pone alcuni problemi logici. La legge di Leibniz dice che oggetti identici hanno proprietà identiche e, se la teoria dell’identità è vera, gli stati mentali e gli stati neurofisiologici con i quali essi si identificano devono soddisfare questa richiesta. Non sembra però che ciò accada. Per evitare questi problemi si è postulato che alcuni stati mentali abbiano la caratteristica di essere esperiti in un determinato modo. Questa teoria chiamata epifenomenismo è una sorta di dualismo, nel senso che si ammette che alcuni stati mentali abbiano proprietà sia materiali sia non materiali, ma si ammette anche che solo i processi neurofisiologici abbiano un ruolo causale. I fenomeni non materiali sono visti come prodotti collaterali (epifenomeni) del funzionamento cerebrale. Questa teoria tiene conto dell’esperienza soggettiva, ma non ci dice niente sulla natura degli epifenomeni. Il funzionalismo. Hilary Putnam ha sviluppato una teoria della relazione mente-corpo molto più sviluppata. Secondo questa teoria il sistema nervoso centrale possiede proprietà fisiche, ma ha anche altre proprietà di natura non fisica, definibili e specificabili senza fare riferimento all’anatomia e alla fisiologia del cervello. Quest’idea è ben semplificata dalle proprietà di un computer. Il computer è una macchina dotata di proprietà fisiche, in quanto composto di una quantità di circuiti elettronici, ma ha anche proprietà funzionali. Per esempio, può essere programmato per eseguire un test del ‘chi quadrato’, e questo programma può essere descritto in termini logici e matematici senza fare riferimento alla struttura fisica del computer. Altri computer, seppur costruiti fisicamente in modo differente, possono essere programmati per eseguire lo stesso test. L’esempio illustra l’approccio funzionalista al problema mente-corpo. Gli stati mentali non possono essere ridotti a stati fisici e la loro relazione con il cervello è identica a quella tra software e hardware in un computer. Il funzionalismo rappresenta la teoria mente-corpo più avanzata nella tradizione dell’empirismo. È molto più accettabile delle teorie monistiche e ha fornito un valido schema concettuale per la ricerca empirica nelle scienze cognitive. Esempio: psicologia cognitiva, psicolinguistica, teoria della percezione, cibernetica, intelligenza artificiale. Il funzionalismo è superiore al comportamentismo in quanto coglie il carattere intenzionale di alcuni stati mentali; tuttavia, come le teorie monistiche, non coglie la nozione di esperienza soggettiva. Alcuni funzionalisti riconoscono che l’autoriflessione è una caratteristica umana essenziale, ma i loro tentativi di dare una spiegazione alla sua natura non sono soddisfacenti. Il dualismo interazionistico. Karl Popper e J.C. Eccles scrissero un libro chiamato L’io e il suo cervello, nel quale presentarono una nuova versione del dualismo. La loro teoria va inclusa nella filosofia dei “tre mondi” di Popper. • Il Mondo 1 è il mondo materiale: esso contiene vari oggetti e strutture come metalli, alberi, cellule cerebrali, sedie e computer; secondo molti scienziati è l’unico mondo esistente. • Il Mondo 2 è il mondo dell’esperienza conscia, che comprende percezioni, pensieri, sentimenti, stati d’animo, memoria e autoconsapevolezza; è il mondo privato della mente e dell’io; i comportamenti e i teorici dell’identità negano l’esistenza di questo mondo. • Il Mondo 3 è il mondo di tutti i prodotti culturali, come i linguaggi, le opere d’arte e le teorie scientifiche. Molti oggetti del Mondo 3 sono incarnati in oggetti del Mondo 1 ma sono, in se stessi, oggetti reali. Esempio: le teorie scientifiche sono stampate sotto forma di libri e le sculture sono scolpite nella pietra. Secondo Popper il Mondo 2 (la mente) interagisce sia con il Mondo 1 (il mondo materiale) che con il Mondo 3 (il mondo dei prodotti culturali), mentre il Mondo 1 e il Mondo 3 interagiscono solo tramite la mediazione del Mondo 2. Esempio: gli esseri umani percepiscono i colori degli oggetti che li circondano (Mondo 1 Mondo 2), imparano a leggere e a scrivere (Mondo 3 Mondo 2), decidono di spostare gli oggetti da un luogo all’altro (Mondo 2 Mondo 1), producono opere d’arte (Mondo 2 Mondo 3). Popper ed Eccles hanno sviluppato una teoria che si concilia bene con l’idea di libertà umana, ma il problema fondamentale rimane insoluto. Essi reintroducono il “fantasma nella macchina” di Ryle; scrivono che gli esseri umani “leggono”, “scelgono” e “agiscono”, ma non ha molto senso attribuire queste facoltà a una mitica entità chiamata mente.