La sorellina 1 Valerio infilò la chiave nella serratura della porta, la

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La sorellina 1 Valerio infilò la chiave nella serratura della porta, la
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La sorellina
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Edizione a cura di
Silvia Roia
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Valerio infilò la chiave nella serratura della porta, la
girò, fece un passo e si trovò in quella casa che sembrava
abitata, palpitante di vita, piena di oggetti personali. Che
però non erano i suoi oggetti personali. Un vecchio tappeto
consumato copriva il pavimento del corridoio. A sinistra si
trovava uno specchio a figura intera che gli rimandò il suo
sguardo smarrito e a destra un attaccapanni, costituito da
supporti arrotolati in eleganti e antiquati riccioli. Alle pareti erano appesi due quadri, una natura morta e un paesaggio,
con le loro cornici pesanti e austere.
Valerio aprì una delle due porte alla fine del corridoio ed
entrò nella camera da letto. Lo accolsero un imponente letto
matrimoniale sovrastato da una testiera di legno scavato e
sbalzato, un grande armadio con le ante a specchio, un vecchio comò, una vecchia poltrona e un altro tappeto, consumato quanto quello del corridoio e, alle pareti, altri due
quadri. La seconda porta dava invece sulla cucina che serviva anche da sala da pranzo, con una grande credenza dai
molti sportelli e cassetti, un tavolo e alcune sedie.
In quella casa non abitava nessuno da molto tempo. Se
qualcuno avesse aperto uno dei cassetti o degli sportelli,
non avrebbe trovato nulla e nemmeno se avesse aperto l’armadio con le ante a specchio.
È vero che Valerio aveva con sé ben poco. Abitava in
quell’alloggio della periferia torinese da meno di un mese,
dopo che Fiora aveva pagato per lui tre mesi di affitto anti-
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e la proprietà esclusiva del marchio BdV
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cipato, come richiesto dal proprietario a titolo di deposito
cauzionale. Non gli era rimasto quasi nulla della sua precedente vita, avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo, ricostruire tutto dal nulla.
L’odore di chiuso indusse Valerio ad aprire la finestra.
L’edifico sorgeva all’angolo di una piccola piazza con alcune panchine, un chiosco di bibite e gelati e una piccola edicola, quasi sepolta dalle riviste e dalle videocassette che
faticava a ospitare. Due giovani erano in attesa alla fermata
del tram. Al di là della piazza erano ammassate molte carcasse d’auto circondate da un reticolato. Al centro del recinto era fragorosamente in funzione una gru che stava sollevando un’auto con il cofano sfondato. All’orizzonte, il
lungo profilo di cantieri edili e di fabbriche diroccate. Era
una zona di antica industrializzazione, che tra pochi anni
avrebbe avuto un aspetto completamente diverso, in sintonia con le Olimpiadi del 2006 e il Mercato Unico Europeo.
Valerio richiuse la finestra, entrò nel bagno e provò a
girare il rubinetto. Tentò, ma il rubinetto non si mosse. I tubi
in cattivo stato contrastavano con l’aspetto generale del
bagno, molto grande, una vasca incassata in uno zoccolo
rivestito da piastrelle azzurre, che formava un gradino.
Valerio impegnò più forza, riuscì a smuovere il rubinetto di
alcuni millimetri, i tubi iniziarono a gorgogliare, ma solo un
filo d’acqua cominciò a scorrere. Rinunciò, passò nella
camera, si lasciò cadere sul letto e tirò un sospiro.
Nella posizione in cui ora si trovava poteva vedere il
bambino sul soffitto. Lui lo chiamava così e a poco a poco
vi si era abituato. Si trattava di una costellazione di macchie
di diverse sfumature dal bruno al giallastro, grandi e piccole, che assomigliavano a un volto umano. Il volto di un
bambino. Non era così, lo sapeva bene. Quelle macchie
coprivano tutte le pareti ed erano frutto dell’umidità, della
sporcizia e di chissà cos’altro. Chiunque poteva isolare
alcune macchie dalle altre e dare loro un nome o una forma,
in modo del tutto arbitrario. Chiunque, se osserva un oggetto a lungo, ha l’impressione che si muova. Come tendere a
lungo l’orecchio nel più assoluto silenzio. Alla fine un
rumore lo senti, lontano e flebile, ma lo senti.
E allora Valerio, quando aveva deciso che quello era il
volto di un bambino, con la fantasia aveva riempito le lacune,
aveva unito i punti fino a formare il contorno, aveva aggiunto
i dettagli. Se si fosse sforzato, nei giorni seguenti sarebbe
riuscito anche a dargli un colore. Forse per sentirsi meno solo,
forse per pensare che qualcuno in casa lo aspettava.
Solo un mese prima era in un’altra stanza, su un altro
letto e quella stanza aveva una porta di metallo chiusa a
chiave dall’esterno e una finestra chiusa da sbarre. Era una
cella del carcere giudiziario di Ivrea, dove doveva finire di
scontare una pena di sette anni. La cella ospitava due brande affiancate, una delle quali era libera, ma non lo sarebbe
stata per molto, i nuovi arrivi erano quasi quotidiani. Presto
anche la branda di Valerio sarebbe stata libera, perché aveva
finito la pena. Sette anni meno lo sconto per “buona condotta”.
Solo da un anno era a Ivrea, perché aveva chiesto e ottenuto il riavvicinamento a Torino. Le finestre di Ivrea erano
grandi e lasciavano entrare molta aria e luce, ma in altre carceri le finestre erano piccole e collocate in alto, le chiamavano “bocche di lupo”. Valerio era stato in celle sotterranee
perennemente umide e umidi erano anche i materassi e le
coperte. Per non parlare delle estati in cui la cella era un
forno, l’aria immobile e incandescente.
Chi conosceva Valerio credeva che non ce l’avrebbe mai
fatta, gli mancavano tutte le caratteristiche indispensabili per
sopravvivere in carcere che poi si riassumono in due, essere
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un “duro” o avere conoscenze nella malavita. Ma poi un
detenuto gli aveva chiesto di scrivere una lettera per suo
figlio, un altro gli aveva chiesto di scrivere un’istanza per la
libertà provvisoria, un altro ancora gli aveva chiesto una lettera per la fidanzata. Tutti erano stati soddisfatti del risultato, soprattutto quello che aveva ottenuto la liberà provvisoria, un ragazzo condannato per furto d’auto che l’avvocato
aveva abbandonato dopo la sentenza di primo grado perché
non poteva pagarlo, e da quel momento Valerio non aveva
avuto più niente di cui preoccuparsi. All’ora di apertura mattutina delle celle, davanti alla sua c’era già la coda di coloro
che chiedevano la sua opera; caso mai ad arrabbiarsi era il
suo compagno di cella, un uomo con grossi baffi e grossi
tatuaggi, perché Valerio non chiedeva niente in cambio.
“A quest’ora dovremmo avere la cella strapiena di forme
di formaggio, lattine di birra, stecche di sigarette e ogni ben
di Dio!”
Ma poi si era calmato, rassegnato al fatto che Valerio era
“un bravo ragazzo” ma “non ci sapeva fare”.
Poi finalmente la guardia l’aveva chiamato, era sceso in
magazzino con i suoi pochi vestiti in un sacco di plastica,
aveva ritirato i suoi effetti personali, tra cui sessantamila e
cinquecento lire ormai fuori corso nell’epoca dell’euro,
aveva firmato un foglio in cui dichiarava di essere in buona
salute e si era trovato in piedi, sullo stradone, sotto il sole,
mentre il cancello si chiudeva alle sue spalle.
Il telefono squillò. Il problema era sapere dove si trovava. Valerio balzò dal letto e girò lo sguardo dappertutto.
Non vide l’apparecchio e nemmeno il filo, né la presa. Lo
squillo continuava. Si affacciò sul corridoio e infine vide la
presa. Solo che nessun telefono vi era attaccato. E allora si
ricordò del cellulare. Aprì il cassetto del comodino, lo prese
e disse “Pronto” in fretta.
“Finalmente, dov’eri?”
“Ciao, Fiora. Ero qui, a casa, sono appena arrivato.”
Sua sorella gli aveva regalato quel telefonino e gli aveva
pazientemente spiegato che ormai quei giocattoli sono di
uso corrente, ce li hanno tutti, non come sei anni prima
quando erano uno status symbol. Valerio era molto abitudinario e per questo lei lo aveva sempre preso in giro fin da
quando erano piccoli. Valerio aveva fatto fatica ad abituarsi
prima alle tessere telefoniche al posto dei gettoni, poi all’estensione dei prefissi telefonici a tutti i numeri e infine al
passaggio dalla lira all’euro. Fiora lo sapeva, per questo gli
aveva regalato un telefonino senza aspettare che se lo comprasse. Sua sorella gli aveva pagato l’avvocato ed era stata
l’unica ad andarlo a trovare in carcere, gli scriveva lunghe
lettere e gli portava pietanze cucinate da lei.
“Ti ho chiamato diverse volte, perché non rispondevi?”
“Diverse volte? Non so. Ah sì, avevo lasciato il telefonino a casa, sono rientrato poco fa.”
“Valerio, il telefonino devi portartelo sempre dietro,
altrimenti a cosa ti serve?” Risatina nell’apparecchio. “O
almeno, quando lo riprendi, guarda se qualcuno ti ha chiamato. Ti ho spiegato come si fa, no?”
Valerio disse di sì molte volte e lei lo interruppe per passare a un altro argomento.
“Allora domani ci vai? Guarda che mi sono data un
sacco da fare per trovarti quel lavoro.”
“Ci vado, ci vado.”
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Lo studio pubblicitario “Caleidoscopio” si trovava in un
salone all’ultimo piano di un palazzo vicino alla stazione di
Porta Susa, che Valerio aveva raggiunto in tram. Un lucer-
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nario inondava il locale di luce. Un uomo con un paio di
baffetti e un’enorme massa di capelli ricci e una donna con
capelli, blusa e pantaloni neri, entrambi giovani, erano
intenti a disegnare con pennarelli su lunghi ripiani poggiati
su cavalletti. Poi c’erano due computer di cui uno collegato
a uno scanner, un modem e una stampante, accanto a una
scatola piena di floppy e cd-rom. L’uomo e la donna sollevarono la testa dal lavoro, i pennarelli a mezz’aria, e guardarono incuriositi il nuovo arrivato. Sotto i loro sguardi
incrociati Valerio si bloccò, si guardò intorno e tentò un sorriso che, senza vederlo, gli sembrò insulso.
“Scusate...” riuscì a dire. “C’è il dottor Flavio Aglione?”
“Dottore?” chiese il giovane, tentando di trattenere una
risatina che fece ondeggiare la massa di riccioli. Erano
enormi anche i jeans, il cui cavallo si trovava quasi all’altezza delle ginocchia.
“Giorgio!” lo rimbrottò la ragazza e subito indicò una
porta di cui Valerio non aveva notato l’esistenza. “Il titolare, intendi... è là dentro.”
Valerio non si decideva a dirigersi verso la porta chiusa,
la ragazza si alzò forse per guidarlo, ma non fu necessario,
la porta si aprì e uscì un uomo basso e grasso. Oltre alla pancia, la prima cosa che si notava era la chioma, bianca ma
ancora folta, che quasi costituiva un caldo copricapo. I suoi
occhietti piccoli e rotondi saettarono per la stanza, come per
cercare di scoprire cosa avesse interrotto l’attività, e si fermarono su Valerio.
“Il signor Aglione? Sono Valerio Galvano... mia sorella
Fiora mi ha detto...”
La bocca di Flavio Aglione si distese in un sorriso e i
piedi si mossero rapidi verso di lui. Intanto strofinò la mano
sulla pancia per poi tenderla. Fiora era la segretaria amministrativa di uno studio di architetti e ingegneri associati,
che aveva commissionato allo studio “Caleidoscopio” i suoi
biglietti da visita e le sue lettere intestate, il che aveva permesso a Fiora di sapere che il ”Caleidoscopio” cercava un
copywriter.
“Valerio Galvano, ma certo!”
Valerio e Aglione si strinsero la mano, Aglione non la
mollò e la usò per trascinarlo nella sua tana.
Sedettero ai due lati di una piccola scrivania sovraccarica di fogli, con un telefono e un fax. L’uomo aveva un
pesante paio di occhiali appesi a un cordoncino rosso,
praticamente inutile poiché gli occhiali erano già sostenuti dalla pancia. Il colletto della camicia era allentato su
una cravattona cosparsa di Topolino, Paperino, Pippo e
Orazio.
“Mi ha detto Fiora che sai scrivere bene e questo a noi
serve molto.” Veniva subito al dunque e questo Valerio lo
apprezzò.
“Oggigiorno è facilissimo trovare esperti di computer, Internet, grafica, virus e antivirus, ma nessuno sa
più mettere giù una mezza pagina. Ecco qua, ad esempio...” e cominciò a frugare tra i fogli sparsi. Infine tirò
fuori una serie di fotografie, ognuna delle quali era
unita con un fermaglio a un rettangolo di carta con su
scritte le parole che avrebbero dovuto illustrarla e presentarla.
“Vedi queste foto? Sono articoli sanitari, dobbiamo fare
un catalogo. Le foto le abbiamo, ci mancano le didascalie,
le parole insomma. Ho provato a scriverle io, ma...” e si
chinò in avanti abbassando la voce e indicando i rettangoli
uniti alle foto, “sinceramente fanno pena. Già a scuola i
temi non li ho mai saputi fare.”
Aglione porse a Valerio il mazzo di foto e pezzi di carta
uniti dai fermagli.
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“Vedi cosa riesci a scrivere tu. Quello che ho scritto io ti
può servire per capire cosa è e a cosa serve ogni articolo.
Aggiungici un pezzo per l’introduzione.”
Il colpo di clacson bloccò Valerio già diretto alla fermata del tram, lo indusse a voltarsi e Fiora era lì. Prima anco-
ra di vederla, quando sentì lo squillo del clacson e riconobbe la Punto, capì che era lei. Aprì la portiera dalla parte del
passeggero, entrò, sedette e si trovò a guardare se stesso
negli occhiali a specchio con montatura di metallo della
sorella.
“Allora?” chiese lei. Il tailleur sartoriale, giacca bianca
con quattro bottoni e ampia gonna nera, unito agli eleganti
occhiali, formavano l’immagine della segretaria efficiente e
soprattutto seria.
“Allora cosa?”
Fiora si tolse gli occhiali e Valerio poté vedere l’espressione imbronciata di lei.
“Allora com’è andata? Devi sempre farti pregare?
Quando fai così ti prenderei a schiaffi.” Fiora era un tipo
pratico, preciso e razionale, certe cose la mandavano in
bestia e Valerio lo sapeva. Per questo si divertiva a stuzzicarla. Ma sapeva anche che sua sorella lo amava e lo coccolava fin da quando era piccolo.
Lei aveva fatto ragioneria alle superiori ed Economia e
Commercio all’università. Lui invece aveva fatto il liceo
classico, dove aveva sempre studiato il minimo indispensabile per andare avanti, magari dopo essere stato rimandato a
settembre. “È intelligente ma non si applica” sentenziavano
gli insegnanti ed era vero. Valerio alla Divina Commedia e
ai Promessi Sposi preferiva Emilio Salgari, non solo il ciclo
di Sandokan e dei Tigrotti della Malesia e quello del
Corsaro Nero e dei suoi numerosi parenti, ma anche tutti gli
altri romanzi che nessuno legge più, come Capitan
Tempesta, La città del re lebbroso o La perla sanguinosa.
Per non parlare dei fumetti.
Fiora lo rimproverava quando lui perdeva il suo tempo
immerso nei fumetti o al cinema a guardare “La cavalcata
dei resuscitati ciechi”, “Occhi bianchi sul pianeta Terra” o
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Uscirono insieme dall’ufficio e il capo gli presentò i suoi
nuovi colleghi. La brunetta dark si chiamava Simonetta, il
riccioluto Giorgio. Entrambi si alzarono per stringergli la
mano, lei aggiunse un “Ciao, Valerio.”
“Poi ci sono Tommaso, che è un fotografo, adesso è
fuori per un servizio e Carla che è in ferie, rientra tra una
settimana.”
Aglione gli indicò un computer libero su uno dei tavoli.
“Per scrivere puoi usare quel computer, c’è il programma
Word, è collegato alla stampante.”
“Veramente io pensavo di scrivere a casa e portarvi il
lavoro... lo discutiamo e se non va bene lo correggo...”
“A casa? Se hai il computer a casa non c’è problema.”
“No, non ho il computer a casa. Scriverei a mano.”
“A mano? Ma... ma...”
Si intromise Giorgio: “Scusa, Valerio, tu sai scrivere con
il computer, vero?”
“Giorgio!” lo rimbrottò la sua collega.
“Sì, l’ho visto fare, l’ho già fatto...”
“Se hai dei problemi,” disse Simonetta, “ti aiuto io.”
Valerio tornò a rivolgersi al capo: “Magari a casa butto
giù una bozza a mano, poi la rielaboro e la correggo qui con
il computer. Se a lei va bene...”
“Perfetto, perfetto.”
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“Il mondo dei robot”. Come se non bastasse, Valerio alla
televisione non perdeva un episodio di “Spazio 1999”, “Ai
confini della realtà” e “Agente speciale”, quella serie che
sembrava di spionaggio, ma era piena di humour e cose
buffe e strane. Valerio era riuscito a fare ammettere a Fiora
che i due protagonisti, un uomo vestito di nero con la bombetta e l’ombrello e una ragazza magrissima con i capelli
lunghi e la minigonna, erano simpatici anche a lei. Vera
Inghilterra anni ’60.
E poi c’era quella cosa che era cominciata quando
Valerio aveva quattordici anni ed era durata fino al giorno
in cui era entrato in carcere. Una cosa che gli faceva molta
paura, che le prime volte lo aveva lasciato tremante e piangente. Poi si era fatto forza, si era detto e ripetuto che quella cosa non era pericolosa, non poteva fargli male e allora
era riuscito a sopportarla. Ma sempre con un po’ d’ansia ed
era sempre un grande sollievo quando finiva. Fino alla volta
successiva.
Valerio vedeva delle persone che non c’erano. Sapeva di
essere sveglio, sapeva dove si trovava, riconosceva la sua
stanza, gli oggetti noti, capiva che ora era. Ma in mezzo agli
oggetti noti, in mezzo alla stanza, vedeva una persona che
non c’era, che non poteva esserci. Per un po’ di tempo aveva
pensato che fosse uno scherzo della sua fantasia, perché lui
aveva tanta, troppa fantasia. Ma la persona che vedeva non
assomigliava a nessuno dei personaggi dei romanzi di
Salgari e nemmeno dei fumetti. Poteva essere un uomo o
una donna, un giovane o un vecchio, che lo guardava, gli
faceva dei gesti, sembrava che volesse parlargli, apriva e
chiudeva la bocca, ma Valerio non sentiva niente. E all’improvviso quella persona non c’era più.
Fiora forse qualcosa aveva sospettato, ma lui non le
aveva mai detto niente. Ogni tanto lei gli chiedeva se anda-
va tutto bene, lui rispondeva di sì, che andava tutto bene, o
almeno tirava avanti. Sua sorella non gli credeva del tutto,
lo scrutava perplessa, ma lui non aggiungeva altro e lei si
arrendeva.
Valerio non sapeva perché quella cosa fosse cessata in
carcere. Forse il carcere non era il posto adatto per questo genere di fenomeni, forse la detenzione era la scossa,
lo choc di cui la sua mente aveva bisogno, chissà. Fatto
sta che non era più successo e lui se ne era quasi dimenticato, costretto a pensare a problemi più concreti e
impellenti.
Sua sorella sosteneva che dopo il liceo classico avrebbe
potuto insegnare, ma lui aveva cercato di spiegarle che non
era possibile, insegnare avrebbe voluto dire parlare, comunicare, stare molto in mezzo alla gente e lui in mezzo alla
gente non ci sapeva stare.
Lezioni di ripetizione sì, insegnare a una sola persona
per volta ci riusciva, anzi gli veniva bene e poi altri lavori
che si fanno da soli, come infilare volantini pubblicitari
nelle cassette delle lettere o consegnare cataloghi del
Postalmarket. Tutti lavori precari, a breve, brevissimo termine.
Era avvenuto proprio durante uno di quei lavori precari.
Fattorino, per la precisione. Gli davano un motorino e un
walkie talkie che restituiva la sera. L’agenzia di consegne
era fuori mano e Fiora lo portava di mattina in auto, mentre
di sera lui tornava a casa in pullman. Il titolare era un tipo
grande e grosso, che al momento dell’assunzione gli aveva
fatto firmare una specie di contratto con la cifra del compenso in bianco. Mentre firmava, Valerio l’aveva sentito
commentare con la segretaria: “Adesso che alla Fiat c’è di
nuovo cassa integrazione, ne vedremo arrivare tanti a pregarci di farli lavorare.”
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