Calvino Poeta - Italo Calvino

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Calvino Poeta - Italo Calvino
Calvino Poeta
Qualche riflessione
Visitando necropoli con donne
viene l’ora del tè: già il pomeriggio
è andato. E s’avvicina l’ora
di cominciare un nuovo amore
e insieme l’ora di finirlo.
Così passa l’età. Chissà se un segno
lasceremo, magari senza accorgercene:
una pietra squadrata tra le pietre
dell’enorme piramide, o una spoglia
d’ossa in un loculo.
17.11.62
Noi conosciamo Italo Calvino per i suoi racconti e i suoi romanzi. Ma Calvino ha scritto
sporadicamente anche poesie che sono rimaste inedite. Ho trovato questo testo nel libro
Italo Calvino, romanzi e racconti, edizione diretta da Claudio Milanini, Arnoldo Mondadori
Editore, nella sezione Poesie e invenzioni oulipiennes (Il termine Oulipo è acronimo di
Ouvroir de Littérature Potentielle, traducibile in italiano con "officina di letteratura
potenziale". Si tratta di un gruppo di letterati fondato nel 1960 da François Le Lionnais e
Raymond Queneau e al quale Calvino partecipava. Questo gruppo ritiene che l'ispirazione di
un'opera letteraria debba essere strettamente vincolata da una serie di costrizioni
grammaticali, lessicali e di struttura). Nelle Note e notizie sui testi di questo libro è scritto in
merito a questa poesia: “Inedito. Fra le carte di Calvino sono conservate varie stesure
manoscritte; tutte recano in calce la data (11 novembre 1962), a volte preceduta da
un’indicazione di luogo (Parigi); alcune provvisorie, hanno anche un titolo (Turismo in Egitto,
vacanze in Egitto). Fra gli ultimi ritocchi, l’espunzione di un sintagma finale (“…o la spoglia /
d’ossa in un loculo, protetto / dalle intemperie)”.
Provo ad abbozzare una mia interpretazione che non si vuole esaustiva e completa, ma che
potrebbe essere arbitraria trattandosi di un testo poetico.
Si noti come nei versi manchi qualsiasi riferimento alla soggettività di chi scrive, non ci
sono pronomi personali, tutto è posto quindi su un piano oggettivo, come se l’autore stesse
parlando a nome di tutti, se si ponesse su un piano universale. In tal senso il verbo
gerundivo incipiente visitando ci pone nella più completa indeterminatezza. Si noti altresì
come il poeta passi dal gerundio (visitando), al presente (viene l’ora), al passato (già il
pomeriggio è andato) per passare alla fine del testo ad una dilatazione temporale che
abbraccia il futuro (chissà se un segno lasceremo). L’esperienza vitale e amorosa di un
pomeriggio sembra collocarsi in un piano di atemporalità dove passato, presente e futuro
convergono e si fondono nel medesimo istante con il risultato che il vissuto inesorabilmente
si perde e macina nell’oblio. Negli ultimi tre versi il poeta volge la sua attenzione allo spazio.
Le necropoli diventano un’ immensa piramide, le città si uniscono per diventare un’unica
grande città di cemento. Se il tempo è assenza di tempo, lo spazio diventa un pesante e
geometrico macigno che riempie il vuoto. In modo magistrale Calvino capovolge la nostra
consuetudinaria definizione delle dimensioni di spazio e tempo. L’esperienza vitale che
dovrebbe presupporre il movimento (visitando) e la percezione di una progressione
temporale, esprime qui il suo contrario, un senso di vuoto e di atemporalità. Lo spazio,
invece, che dovrebbe darsi come vuoto ed estensione utile al movimento, diventa un
macigno che riempie e satura il vuoto stesso. E’ forse l’inferno che l’autore descrive nelle
ultime pagine di Le città invisibili? Il poeta passa dalla vastità della metropoli (necropoli) ad
un interno domestico (l’ora del tè), dalla pietra squadrata o spoglia d’ossa all’enorme
piramide, dall’ora del tè all’ampiezza temporale del futuro. Passa dal particolare
all’universale come a dire che il destino e la vita di ogni uomo sono legati ineluttabilmente
alle dimensioni di tempo e spazio universali come in un abbraccio indissolubile. Certo che
se qui tempo e spazio diventano il loro perfetto contrario, possiamo comprendere la
pregnanza semantica del termine necropoli, della grande e unica necropoli del mondo, verso
la quale secondo Calvino ci stiamo approssimando. L’evocazione di queste immagini è poco
consolatoria e confortante ma di una profondità psicologica e poetica sconcertante. Cosa c’e’
di più desolante di un mondo pietrificato dove nulla si conserva nella memoria? In Le città
invisibili Calvino così descrive, con un esito claustrofobico, la città di Argia: “Ciò che fa
Argia diversa dalle altre città è che invece d’aria ha terra. Le vie sono completamente
interrate, le stanze sono piene d’argilla fino al soffitto, sulle scale si posa un’altra scala in
negativo, sopra i tetti delle case gravano strati di terreno roccioso come cieli con le nuvole.”
Sempre in questo testo, la città di Zirma ripete continuamente se stessa affinché qualcosa
arrivi a fissarsi nel vuoto della mente: “Torno anch’io da Zirma: il mio ricordo comprende
dirigibili che volano in tutti i sensi all’altezza delle finestre, vie di botteghe dove si disegnano
tatuaggi sulla pelle dei marinai, treni sotterranei stipati di donne obese in preda all’afa. I
compagni che erano con me nel viaggio invece giurano d’aver visto un solo dirigibile librarsi
tra le guglie della città, un solo tatuatore disporre sul suo panchetto aghi e inchiostri traforati,
una sola donna-cannone farsi vento sulla piattaforma di un vagone. La memoria è
ridondante: ripete i segni perché la città cominci a esistere”. Come non riconoscere qui anche
l’analogia con le città di De Chirico che Calvino tanto amava e a cui ha dedicato il bellissimo
saggio Viaggio nelle città di De Chirico? Sono città malinconiche quelle che De Chirico e
Calvino stanno descrivendo, città solo del pensiero, unidimensionali, sospese, città che
ricacciano nell’inconscio istinto, passioni, emozioni, ricordi, rapporti; città dove regna
l’astrazione geometrica (pietra squadrata tra le pietre), dove tutto diventa desiderio che
incontra il suo opposto, la paura, in un appiattimento della nostra umanità. Leggiamone una
parte: “Tutto ciò che il futuro può rivelare è poca cosa. Conta solo il ricordo, che è già presente
nel presente, l’incertezza di un attimo che resta uguale a se stesso e si ripete”. E ancora nello
stesso saggio: “Non so da quanto tempo sto vagando attraverso questa città; non so più chi ero
quando sono entrato tra le sue mura, né quanto sono cambiato da quando ho imparato a
considerare tutto ciò che vedo come spoglia che devo lasciare alle mie spalle, relitto d’un
mondo di cui la mente deve liberarsi per raggiungere l’esattezza, l’impassibilità, la
trasparenza”.
Ma perché il poeta dice che sta visitando necropoli con donne? Sta visitando le necropoli in
compagnia di donne o sono città-necropoli di donne? L’ambiguità sintattica che pone la
congiunzione con in relazione sia al verbo visitando che al sostantivo necropoli veicola a mio
avviso il seguente significato: è come se questa necropoli fosse abitata solo da donne (e il
poeta visita la città con loro) ed è come se dicesse anche il suo contrario, che queste donne
ne sono state espulse (o sepolte) per sempre. E’ la rimozione del femminile a cui il poeta fa
qui riferimento, è la contrapposizione tra maschile (pesantezza, piramide di cemento) e
femminile (leggerezza, acqua), è un attacco alla nostra cultura maschilista che ha relegato la
donna, vera depositaria dei sensi e della natura, in una posizione di solitudine? Mi viene in
mente la città di Armilla in Le città invisibili, una città leggera e aerea abitata solo da donne:
“Abbandonata prima o dopo esser stata abitata, Armilla non può dirsi deserta. A qualsiasi
ora, alzando gli occhi tra le tubature, non è raro scorgere una o molte giovani donne, snelle,
non alte di statura, che si crogiolano nelle vasche da bagno […]. La spiegazione a cui sono
arrivato è questa: dei corsi d’acqua incanalati nelle tubature d’Armilla sono rimaste padrone
ninfe e naiadi […]. Può darsi che la loro invasione abbia scacciato gli uomini, o può darsi che
Armilla sia stata costruita dagli uomini come un dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per
la manomissione delle acque. Comunque adesso sembrano contente, queste donnine: al
mattino si sentono cantare.” Spesso nell’opera di Calvino la descrizione della donna si
associa all’elemento dell’acqua e a quello della nudità nel mare. Ricordiamo il racconto
Avventura di un poeta, di cui voglio riportare un breve passo: “Ora era nuda. La pelle più
bianca sul seno e ai fianchi quasi non si distingueva, perché tutta la sua persona mandava
quel chiarore azzurrino, di medusa. Nuotava su di un fianco, con movimento pigro, la testa
(un’espressione ferma e quasi ironica, da statua) appena fuor dall’acqua, e a volte la curva di
una spalla e la linea morbida del braccio disteso. L’altro braccio, a movimenti carezzevoli,
copriva e scopriva il seno alto, teso ai vertici. Le gambe battevano appena l’acqua, sostenendo
il ventre liscio, segnato dall’ombelico come da un’impronta leggera sulla sabbia, e la stella
come d’un frutto marino. I raggi del sole riverberato sott’acqua la sfioravano, un po’ facendole
da veste, un po’ spogliandola da capo.” La stella come d’un frutto marino: la grazia e la forza
della donna in un afflato e vibrazione cosmica che uniscono terra e cielo, la donna come
depositaria del segreto inviolabile della natura, la donna come unico elemento salvifico e
veicolo di senso nell’ immensa e inesauribile complessità di forme e nella inconoscibilità del
mondo. In Avventura di una bagnante troviamo: “Emergeva solo col capo e inavvertitamente
abbassava il viso verso il pelo dell’acqua, non per frugarne il segreto, ormai dato per
inviolabile, ma con un gesto come chi strofina le palpebre e le tempie contro il lenzuolo o il
guanciale per ricacciare le lacrime chiamate da un pensiero notturno.” E concludo con
Avventura di uno sciatore: “L’aria era così nitida che il ragazzo dagli occhiali verdi
indovinava sulla neve il reticolo fitto delle orme di sci, dritte ed oblique, delle strisciate, delle
gobbe, delle buche, delle pestate di racchetta, e gli pareva che là nell’informe pasticcio della
vita fosse nascosta la linea segreta, l’armonia, solamente rintracciabile alla ragazza celestecielo, e questo fosse il miracolo di lei, di scegliere a ogni istante nel caos dei mille movimenti
possibili quello e quello solo che era giusto e limpido e lieve e necessario, quel gesto e quello
solo, tra mille gesti perduti, che contasse.” Nell’opera di Calvino la donna viene
psicologicamente tratteggiata attraverso l’utilizzo di metafore tratte dal registro del mondo
naturale e animale, a riconfermare l’identità tra sensi, istinto, natura e universo femminile.
Anche metafore tratte dal registro militare (appannaggio del mondo maschile) sono
frequenti, forse a voler significare che la donna-natura porta con sé anche ciò che più
solitamente contraddistingue il maschile, la forza (si pensi alla descrizione della madre di
Cosimo ne Il barone rampante, alla figura di Bradamante in Il cavaliere inesistente). In
Avventura di uno sciatore: “Lei tenne l’equilibrio anche per lui, finché non gli riuscì di mettersi
su bene, farfugliando recriminazioni, cui rispose una sommessa risata di lei come un glu-glu
di gallina faraona, soffocata dalla giacca a vento tirata su fin sopra la bocca. Ora il cappuccio
celeste-cielo, come un elmo d’armatura, le lasciava scoperto solo il naso […]”.
Credo quindi che il primo verso della nostra poesia voglia dire questo: la nostra cultura
maschilista ha determinato la propria autocondanna, perché ormai si è pietrificata nelle sue
convenzioni, nella volontà di sostituire la sua concezione di tempo e spazio al tempo e allo
spazio indefiniti della natura-donna, nel bisogno di opporre l’astrazione geometrica
dell’intelletto (pietra squadrata) a ciò che invece è sempre mutevole, insondabile e informe
(spoglia d’ossa), nel desiderio di riempire e saturare spazio e tempo pur di non accettare il
vuoto, l’elemento costitutivo della mente. Ecco quindi che la nostra necropoli può essere
abitata solo da donne, in quanto il maschio ha perso ogni legame con i sensi, con il corpo,
con la vita; è una necropoli dove il femminile e il maschile hanno perso la loro identità e si
parificano, ma sicuramente a discapito del secondo. E qui basta l’immagine tratta da Il
castello dei destini incrociati dove si descrive l’amplesso tra la regina e il re cadavere: “In
fondo alla tomba sta succedendo qualcosa di indecente: la strega s’è chinata sul cadavere come
una gallina che cova […]”. E’ una necropoli dove al mattino ci sembra poter udire il canto
sibilante di donnine contente, come una vocina che risale dall’ignoto …?
Voglio terminare questo mio articolo con le parole tratte dal saggio Dall’ opaco, parole che
non necessitano di ulteriori aggiunte: “D’int’ubagu”, dal fondo dell’opaco io scrivo,
ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della
memoria, il luogo geometrico dell’io, di un me stesso di cui il me stesso ha bisogno per sapersi
me stesso, l’io che serve solo perché il mondo riceva continuamente notizie dell’esistenza del
mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c’e’”.
Debbo confessare che mai ho letto poesia più bella. Grazie a queste parole ho potuto dare
una spiegazione al mio vuoto interiore nel grande vuoto che mi circonda, quel vuoto che
forse basterebbe accettare un po’ di più e non demonizzare. Ma proprio per questa
comprensione profonda si può intravedere uno spiraglio di luce, una salvezza. Il pessimismo
calviniano porta sempre con sé un barlume di speranza.
di Gianluca De Biaggi
Gianluca De Biaggi
Laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne
alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’ Università degli Studi di Padova
Le immagini in alto sono due ritratti femminili del "Fayum", una necropoli greca, in Egitto. In questa necropoli vi era
l’usanza di ritrarre i volti dei defunti. Sono ritratti di grande forza evocativa, vi si ritrova la grazia e la forza della "donna
di Calvino". Il periodo è I e II sec. d. C.