Testi teatrali di Vincenzo Cerami Le disgrazie Due tempi (mai

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Testi teatrali di Vincenzo Cerami Le disgrazie Due tempi (mai
Testi teatrali di Vincenzo Cerami
Le disgrazie
Due tempi (mai rappresentato) (1973).
Il sipario ducale
Riduzione teatrale dell'omonimo romanzo di Paolo Volponi. Regia di Franco Enriquez.
Con Paolo Bonacelli, Pina Cei, Paolo Graziosi, Valeria Moriconi.
Teatro Argentina di Roma, 1975.
Ambientato a Urbino, Il sipario ducale si articola attraverso due storie parallele e alternative, nel clima
inquieto e torbido segnato dalla strage di piazza Fontana: la storia del conte Oddino Oddi-Semproni,
che sogna di ripristinare i suoi vecchi domini medioevali, e quella dell'anarchico Gaspare Subissoni e
della sua compagna Vivés, che destati dalla bomba esplosa nella Banca dell'Agricoltura, sognano di
reinserirsi nella politica attiva. Due sogni che si traducono, sia pure in termini diversi, nella stessa
frustrazione: nel primo caso perché la realtà è cambiata; nel secondo perché, purtroppo, non è cambiata
affatto.
L’amore delle tre melarance
Regia di Angelo Savelli.
Con Ivan De Paola, Roberto Vezzosi, Francesco di Francescantonio, Francesca Breschi, Fabienne
Pasquet, Gigio Morra, Antonella Cioli, Norma Martelli.
Musiche di Nicola Piovani, scene e costumi di Tobia Ercolino.
Prima rappresentazione a Fiesole il 18 luglio 1984. Una creazione della compagnia “Pupi e Fresedde”
per il Festival di Avignone.
Il Centro internazionale di Drammaturgia di Fiesole ha pubblicato il testo della commedia nel 1985.
L’enclave des Papes ou La nouvelle villégiature
Testo di Vincenzo Cerami, collaborazione di Fausta Garavini e Robert Lafont, regia di Jean-Claude
Penchenat.
Con Aziz Arbia, Catherine Bonafé, Marie-Hélène Bonafé, Marie-Berthe Bornens, Christian Coulomb
etc.
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Una creazione del Théâtre du Campagnol e del Théâtre de la Carriera, Francia 1984.
«La mia esperienza al Théâtre du Campagnol è stata fondamentale, e non soltanto all’approfondimento
del linguaggio teatrale. Infatti lo studio compiuto dagli attori di quella compagnia, sotto la guida di
Jean-Claude Penchenat, ha molte affinità con il lavoro del narratore, il quale, più spesso di quanto si
pensi, non costruisce una storia intorno a personaggi prestabiliti, ma, al contrario, cerca i personaggi
attraverso la storia. Impianta cioè la drammaturgia in modo da mettere in scena personaggi
riconoscibili, coerenti, autentici e per questo sorprendenti e originali.
Ho scritto per (ma sarebbe più corretto dire “con”) “Le Campagnol” una commedia dal titolo
L’Enclave des papes, era il 1984. Quattro mesi di prove a Parigi e quasi altri due a Arles, che avevano
come traguardo l’allestimento di una commedia completa e complessa, partendo da un canovaccio
appena abbozzato.
Il procedimento creativo per la messa in scena della commedia operato da Penchenat e dalla sua
équipe, non è dissimile da quello assunto da uno scrittore che inventa in solitudine. Si parte sempre da
un vuoto, da uno spazio vuoto, quindi tragico, che bisogna riempire di vita. La riproduzione artificiosa
della vita, sulla pagina scritta o sul palcoscenico, è un atto altrettanto tragico, perché ricostruisce e
mima, con le leggi del linguaggio e delle convenzioni linguistiche, una realtà presunta. L’artista si
convince di raccontare qualcosa che è veramente accaduto o sta accadendo in quel momento nella
realtà. Ma sa di costruire un feticcio.
Abbiamo lavorato con ventisette attori che andavano trasformati in ventisette personaggi, ognuno con
la propria personalità, la propria cultura, il proprio lessico. C’era un luogo preciso in cui dar vita ai
personaggi: era una grande pedana non più spessa di venti centimetri. Non si poteva salire là sopra con
gli abiti e gli atteggiamenti di ogni giorno, come su un marciapiede. Quello era il luogo “altro”, della
trasformazione, del vuoto carismatico da riempire. Se si doveva attraversare il plateau bisognava
almeno mettersi in testa un cappellaccio oppure infilare la giacca alla rovescia o camminare scalzi.
Un personaggio, in quanto tale, è persona molto lontana, con qualcosa di eccezionale, di letterario,
rispetto all’attore (e allo scrittore). Incarnarlo, nel paziente lavoro del Campagnol, è un viaggio di
avvicinamento progressivo, nel quale si cerca il background di ogni figura, un modo di essere che viene
dal passato, da una esistenza irripetibile. Anche nel modo di sfogliare un giornale si rivela un
temperamento. La maggior parte del tempo utilizzato da Penchenat e dai suoi attori si consumava nel
cercare di andare più “lontano” possibile nella ricerca dei personaggi. Jean-Claude li metteva ognuno di
fronte all’altro e poi ognuno di fronte a tutti. Ricordo con divertimento il giorno in cui l’attrice che
doveva interpretare il ruolo della governante ha eseguito l’“esercizio del caffè”. Il regista le ha messo
una tazzina in mano, lei doveva bere quel caffè in modi diversi, a seconda di chi aveva davanti. Ho
visto ventisei modi diversi di sorseggiare un caffè. Nella commedia l’attrice non prende mai il caffè,
però nella sua memoria quei momenti sono rimasti, sono stati uno scambio di segni muti, di sentimenti
che nella messa in scena finale hanno reso espressivo, teatrale ogni minimo gesto. I personaggi di
Penchenat sanno esattamente, nel momento in cui entrano in scena, che ora è, se fuori piove o c’è il
sole, se è giorno o se è notte. Anche il rapporto con i loro abiti e con gli oggetti, con le luci serve al
racconto. Anche l’ingresso di una mosca diventa teatro.» V. C.
Sua Maestà
Regia di Luca De Fusco.
Con Mario Scaccia, Edoardo Sala, Federico Pacifici, Franco Bisazza, Isabella Salvato.
Scenografia di Firouz Galdo, costumi di Firouz Galdo e Maria Pia Paolelli.
Primo Festival delle Ville Vesuviane, Ercolano, 1986.
Testo pubblicato da Theoria, Roma 1986.
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«Ogni racconto è sempre storia di un conflitto. Ma ci sono conflitti talmente antichi e codificati che si
presentano immobili come una categoria dello spirito. Il bene e il male, per esempio, il fato e il libero
arbitrio. Nel caso specifico di Sua Maestà: il servo e il padrone. Il contrasto tra questi due estremi ha da
sempre offerto spazi fertilissimi di fantasia agli inventori di storie. Tuttavia non bisogna lasciarsi
ingannare dall’apparenza. Spesso il conflitto più evidente è solo pretestuale e serve da copertina ad una
vicenda che mette in scena una fitta rete di altri conflitti nei quali vivono temi e sentimenti della
contemporaneità, dell’autore e dei suoi coevi. In questa commedia non c’è denuncia dell’ingiustizia di
un rapporto di potere ma di un esistere secondo linguaggi. Non si tratta di camaleonti che mutano
colore a seconda dell’ ambiente in cui si muovono, ma il camaleonte diventa lupo nella foresta e il lupo
pesce nell’acqua e così via. I mali sociali e anche culturali, i dati psicologici si trovano a dover
reinventare le proprie identità di volta in volta. E il teatro è il luogo dei travestimenti, delle
trasformazioni e dei comportamenti contrastanti. Il Re è sovrano nella Corte e si riconosce tale in
quanto ha sudditi. Se invece lo si abbandona su un’isola deserta e selvaggia diventa un’altra cosa. Il suo
problema è di sapere che cosa. L’uomo rinasce sempre, quindi, passando semplicemente da una stanza
a un’altra: la scenografia muta la sua identità e il suo linguaggio. Ho scritto questa commedia quasi di
getto mettendo insieme l’esperienza letteraria e quella teatrale, più tecnica, acquisita in alcuni anni di
lavoro proprio sopra il palcoscenico. Mi è infatti risultato molto utile aver lavorato in Francia e in Italia
con attori e compagnie diverse. La speranza è quella di essere riuscito ad armonizzare, nel massimo
della libertà creativa, l’esigenza di una poetica e ricerca letteraria personale con quella di una scrittura
teatrale specifica, recitabile.»
V. C.
«Un Re simpatico, non ottuso, un despota illuminato, finisce su un’isola selvaggia con il suo Buffone.
Li circonda una Natura potente, li circondano gli animali, l’odore dell’erba, il rumore della pioggia… E
allora il Re si chiede la ragione dei “ruoli”. Sua Maestà perché? Il Buffone di Sua Maestà perché? E
decide che, in fondo, questi ruoli potrebbero essere cambiati.» Da una intervista di Rita Sala, Buffone,
perché sei buffone?, “Il Messaggero”, 12/02/1986, sul testo edito.
Sa Majesté
Adattamento di Yves Rouquette, regia di Serge Martin.
Con Paul Crauchet, Miguel Angel Cienfuegos, Alain Berlioux, Chantal Grassineau, Jacques Folgado,
Christian Coulomb e Marie-Hélène Bonafé.
Musiche di Lucien Bertolina.
Tournée in Francia settembre-ottobre 1986.
«Bien loin au large de Sète ou des Saintes-Maries-de-la-Mer, un Roi et son Bouffon sont naufragés sur
une île déserte. Le Roi face à son double ricanant, dans une nature hostile redevient banalement,
comiquement, mortellement homme. Il sera question de leurs peurs et de leurs querelles, de leur regret
poignant du faste passé et de leur tentation de se perdre dans la liberté infinie de l’île…
Miraculeusement sauvés, ils retrouvent la cour: le Prince va être couronné roi, contre son gré et ses
penchants. Le Roi, incognito dans son ancien royaume tente d’exercer le métier de bouffon auprés de
son fils, le vrai bouffon le détrône. Personne au bout du compte n’étant plus Royal que le vrai Roi et
plus bouffon que le vrai bouffon, chacun retrouve sa place, dans un ordre revenu, que le Roi et son
bouffon savent maintenant fragile et illusoire. Dialogues incisifs, humour, comique de mots et de
situations à rebondissements, comique de l’absurde, tissent cette comédie de Vincenzo Cerami.» “De
Novelas la Carriera”, Journal du Théâtre de la Carriera, Arles, n° 24, sept. 1986.
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Imagine!
Saggio di drammaturgia scritto con gli studenti del Centro internazionale di drammaturgia di Fiesole,
1986.
Casa fondata nel 1878
Commedia in due tempi, regia di Marcello Bartoli.
Con Enrico Amprimo, Anna Chiara Caselli, Uliana Cevenini, Patrizia de Libero, Gabriele Duma,
Daniela Nicosia, Roberto Petruzzelli.
Scene di Andrè Benaim, costumi di Anne Marie Heinrich, musiche di Nicola Piovani, luci e direzione
tecnica di Guido Mariani.
Centro internazionale di drammaturgia, Fiesole, dal 6 luglio 1986 al “Chiostro delle Donne”.
Testo-esercizio scritto, sulla base di improvvisazioni teatrali, per gli allievi del Centro di Drammaturgia
di Fiesole. Una sorta di affresco storico: nel corso del primo tempo, ambientato nel 1878, si narra la
storia di una famiglia che fonda e gestisce una fabbrica di biscotti. Il secondo tempo ci porta
nell’attualità: la fabbrica è gestita dai pronipoti dei fondatori, alle prese con i problemi generati dal
capitalismo.
«Ho trovato il clima giusto per tentare una cosa importante, per scrivere un testo su misura, ma anche
per inventare degli attori su misura per un testo, ho trovato la possibilità di sperimentare tutto. Abbiamo
selezionato sette attori (giovani, già attori, ma per quanto possibile privi dei vizi e dei vezzi del
mestiere). Dato che erano sette ho pensato di dare loro in carico i vizi capitali, di cercare una
caratterizzazione per ogni vizio, cioè ho cercato di dare vita a sette persone caratterizzate da un vizio
dominante. Ho preso come luogo di riferimento teatrale una casa, quella in cui un contadino “inventa”
il biscotto dal quale nasceranno tutte le fortune e i misfatti di una dinastia, quella che parte appunto
dalla Casa fondata nel 1878 per crescere, prosperare e giungere fino ai più drammatici e complessi
giorni del nostro vivere contemporaneo. Con Marcello Bartoli mi sono inteso molto bene e anche lui ha
fatto uno sforzo di generosità per togliersi alcuni degli stereotipi più cari ed “aiutare” il testo. Gli attori
sono tutti di grandissima buona volontà, alcuni di grande talento. Il problema è forse quello che,
essendo loro alla prima esperienza, il tempo (che pure è straordinariamente lungo, quattro mesi, per i
tempi di prova italiani) è poco.» Dall’intervista di Sara Mamone, Un teatro senza Maestà, “l’Unità”, 1
luglio 1986.
Le statue di ghiaccio
Breve testo teatrale su S. Francesco, 1986.
Hello George!
Regia di Marcello Bartoli.
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Con Franco Spadavecchia, Angelica Dettori, Marco Pagani, Sergio Mussida, Alessandro Ferrara, Olga
Vinyals Martori, Riccardo Di Laura.
Invenzioni scenografiche di Lorenzo Ghiglia, consulenza musicale di Mario Pasi.
Cooperativa “Teatro del Buratto”, Teatro Verdi, Milano 1988.
«Mettere Gershwin in scena mi sembrava troppo didascalico e anche poco elegante. Così ho inventato
questa storia che nel contempo illustra la personalità artistica del musicista, attraverso un altro
personaggio, e racconta l’irraggiungibilità di un mito, che poi è il sogno americano.» V. C., da
Giampaolo Spinato, Quasi un musical alla ricerca del mito Gershwin, “la Repubblica”, 12 gennaio
1988.
«Ecco dunque il colpo di genio di Vincenzo Cerami, incaricato della drammaturgia di questo Gershwin
“come un compito in classe”: parlare d’altro, anzi raccontare esattamente il problema, come ci si mette
alla ricerca di George Gershwin. Gli ingredienti sono semplici: un altro immigrato, italiano questa
volta, che non guasta mai. E musicista naturalmente, un musicista povero che si imbatte nella musica di
Gershwin e fa fortuna facendo quello che faceva lui, cioè suonando per gli avventori di un locale. È
innamorato “del mio amico George”, sempre intento a parlare di lui, a seguirlo, a cercare di
raggiungerlo una buona volta, senza mai poterlo fare. Perché se il nostro piccolo italiano lo incontrasse,
Gershwin, dovremmo poterlo vedere anche noi, e il trucco drammaturgico sarebbe stato perfettamente
inutile.» Da Ugo Volli, Pianista italiano da Harlem a Parigi cercando Gershwin, “la Repubblica”, 16
gennaio 1988.
La Cantata del Fiore
Cantata per tre voci e dodici strumenti, musiche di Nicola Piovani, ottava edizione del Festival
Internazionale del Jazz “Rumori Mediterranei” di Roccella Jonica 1988 (testo pubblicato in un volume
antologico, intitolato Di fronte ai classici. A colloquio con i Greci e i Latini, a cura di Ivano Dionigi,
Bur Saggi 2002).
Le Cantate del Fiore e del Buffo
Con Lello Arena, Norma Martelli, Donatella Pandimiglio, Simona Patitucci.
Musiche di Nicola Piovani.
L’Aquila, febbraio 1996.
Lo spettacolo è diviso in due tempi. Nel primo tempo viene eseguita la Cantata del Fiore, composta nel
1988, nel secondo tempo la Cantata del Buffo, composta nel 1990.
In occasione della rappresentazione, nell’ottobre del 2003, delle Cantate del Fiore e del Buffo all’Aula
Magna dell’Ateneo romano (con Aisha Cerami in sostituzione di Simona Patitucci), la IUC ha
pubblicato nel programma il testo delle due Cantate.
La storia di Narciso, spirito ribelle e indipendente. In un’assoluta e pericolosa impennata d’orgoglio
sfida gli dei che, in cambio della libertà, gli chiedono di procreare. Ma Narciso si rifiuta di obbedire,
così gli dei lo tentano facendogli incontrare Eco, una giovinetta bellissima. Eco si innamora di Narciso,
si cancella in lui e ne ripete incantata ogni parola. Narciso, esasperato dalla continua ripetizione delle
sue stesse parole, al colmo della noia abbandona la ragazzina, che per il dolore svanisce, divenendo
pura voce. La vendetta divina non si fa attendere: Narciso si innamora del proprio volto riflesso in uno
specchio d’acqua e, nel tentativo di baciarlo, affoga.
Alla storia di Narciso si abbina quella di Caramella, uomo buffo, messo al mondo dagli dei allo scopo
di portare l’ilarità tra gli uomini afflitti dalle tragedie e dalle guerre. Anche Caramella si oppone al
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Fato, vuole sottrarsi al destino di buffone, così scappa e si nasconde alla corte del re Mida, di cui
diventa il barbiere di fiducia. Un giorno, facendo la barba al re, scopre che a questi sono cresciute due
ridicole orecchie d’asino: guai a lui se rivelerà ad alcuno questo segreto, verrà bruciato vivo avvolto in
una camicia di pece. Caramella scappa di nuovo, si rifugia in un deserto e lì scava una buca, ficcandoci
dentro la testa per poter urlare e seppellire il suo segreto. Ma da quella buca nascono delle canne che,
con il soffio del vento, diffondono la verità su re Mida. Gli dei riescono nella loro impresa: il Buffo,
senza volerlo, riesce a far ridere l’umanità.
La casa al mare
Regia di Luca De Filippo, 1990.
Con Luca De Filippo, Lello Arena, Tosca D’Aquino.
Compagnia "L’arte della commedia".
«La casa al mare racconta un’amicizia, un po’ scombinata in verità, tra due persone apparentemente
normali. Corrado e Luigi si conoscono da molti anni, da quando erano ancora ragazzi. I due amici si
trovano nella scomoda situazione di chi è diviso a metà tra gli scaduti valori di un tempo e le incertezze
di oggi: non sanno cancellare fino in fondo il ‘vecchio’ e non sanno entrare in perfetta sintonia col
‘nuovo’. Il loro modo di comportarsi, di parlare, di pensare, risulta così alquanto incongruo e talvolta
addirittura comico. Luigi piange perché la moglie se n’è andata di casa portandosi dietro i bambini.
Corrado se la ride, felice e contento, perché ha incontrato proprio quella mattina una ragazza bellissima
e amabile, degna di un grande investimento sentimentale. Il primo, insomma, vive il crepuscolo di una
lunga storia d’amore, mentre il secondo si trova all’alba di un futuro ricco di emozioni e di
straordinarie promesse. Da qui tutto il grottesco dei contrasti e la comicità delle situazioni. La stessa
antica amicizia si regge su un equilibrio sempre più instabile, perché uno vuole imporre all’altro la
propria visione del mondo.
Ma ecco che compare la misteriosa fanciulla di cui tanto favoleggia Corrado. È un incontro quasi
clandestino, in una casa al mare fuori stagione. Qui Corrado mette in scena il meglio di se stesso per
sedurre la sconosciuta. Sfoggia tutto il suo repertorio di uomo d’oggi, disinvolto, sicuro, aggressivo. E
lei, timida, incerta, si lascia incantare, anche perché la muove un inconsapevole desiderio d’amore e di
sicurezza. Alla fine Corrado e Luigi si ritrovano soli, si riscoprono gli amici di sempre: tanto diversi
uno dall’altro, eppure tanto simili, accomunati da un destino che non può offrire loro altro che
smarrimento e qualche speranza.» V. C.
Traduzione di La finta serva di Pierre Carlet de Chamblain de Marivaux.
Regia di Luca De Fusco.
Con Paola Pitagora, Leopoldo Mastelloni, Roberto Bisacco e Antonella Fattori.
Scenografie di Firouz Galdo, costumi di Giusi Giustino, musiche di Nicola Piovani.
Commedia andata in scena l’11 luglio 1991 a Villa Campolieto di Ercolano
L’assassino
Regia di Piovani e Cerami, musiche di Piovani.
Teatro “La Comunità”, Roma 1992.
Tratto da un racconto di Cerami che compare nella raccolta einaudiana, L’ipocrita, lo spettacolo è una
specie di dialogo tra un personaggio e quattro sassofoni.
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Un giro al Luna-park
Radiodramma pubblicato in “Cinecritica”, XV, 24-25, gennaio/giugno 1992, pp. 20-25.
Il signor Novecento
Racconto musicale. Regia di Cerami e Piovani.
Con Lello Arena, Norma Martelli, Francesca Breschi, Donatella Pandimiglio e i solisti dell’Orchestra
Aracoeli diretti da Nicola Piovani.
Musiche di Nicola Piovani.
Teatro Goldoni, Bagnacavallo 1992.
Pubblicato dalla casa editrice Grin, “I copioni”, 1994.
Il racconto del signor Novecento è un breve viaggio nelle stanze di una memoria privatissima, nella
confusione del ricordo deformato dall’emozione. Un racconto nel quale hanno un medesimo ruolo
narrativo le parole recitate, le parole cantate e la musica senza parole.
«È la storia di una vita, raccontata dal protagonista che ripercorre un intero secolo. Il padre,
bizzarramente, lo ha chiamato ‘Novecento’ perché è venuto alla luce proprio nel 1900.
Il signor Novecento ha trascorso l’adolescenza nell’Italia povera post-unitaria, è diventato adulto con la
prima guerra mondiale e nel fascismo. Ha attraversato la tragedia della seconda guerra mondiale. Si è
sentito rinascere con la ricostruzione, col miracolo economico. È tramontato nella società di massa,
dove, insieme con l’utopia di una palingenesi, si è cancellato lo zodiaco di riferimento che sempre ha
informato la sua esistenza: dell’uomo di campagna, ormai, non gli è rimasto quasi nulla, ma il signor
Novecento tutto questo non lo nota: la sua vita si svolge in un’apparente normalità. Non sospetta
neanche per un momento di essere stato talvolta determinato dalla storia. I calzoni corti, i pantaloni alla
zuava, i colletti inamidati, il girocollo della dolce-vita, gli abiti che il signor Novecento ha indossato
nella sua lunga esistenza, hanno rappresentato successivi stili che egli ha via via adottato con estrema
naturalezza.
Il racconto si incentra su quattro episodi, nei quali il protagonista cerca qualcosa che ha perso o che non
ha mai trovato: una volta è un paio di scarpe, un’altra un gruzzoletto di soldi che aveva ben nascosto da
qualche parte. E intanto trascorre il tempo. Gli è quasi sempre accanto la moglie Pandora. La loro storia
d’amore, per quanto controversa e tra alti e bassi, è l’unico punto fermo rimasto intatto durante così
lunghi anni. I grandi eventi rimangono nello sfondo. La conquista della luna non modifica nulla in casa
del signor Novecento, mentre la scoperta della penicillina salva la vita del primo dei figli.
La storia comincia nel giorno del compleanno del signor Novecento. Si sta vestendo per andare ad un
appuntamento importante. Ma non riesce a trovare una scarpa. La cerca e intanto racconta la sua vita.
Gli fa da spalla la moglie, che a quella vita è legata con tutta se stessa. Oggi anche lei è una vecchia
signora. Ma un tempo era bella e scontrosetta. D’incanto la narrazione comincia a fare balzi nel tempo.
Tutta un’esistenza scorre via come se fosse passata in un solo giorno.
La scena è semplice, i movimenti essenziali. Un’orchestra di tredici elementi stringe al centro gli attori:
il signor Novecento e sua moglie. I due coniugi parlano in versi. Monologhi e dialoghi si alternano
rapidamente, si contraddicono, battibeccano. I due protagonisti hanno la loro eco nelle due voci
cantanti che sono, di volta in volta, la voce della loro anima, la voce e la sonorità della storia, il tempo
che passa.
L’orchestra reagisce come se avesse una personalità sua, estranea, come fosse il cuore di un ipotetico,
segreto ascoltatore: si commuove, si diverte, si immedesima nelle trepidazioni del signor Novecento,
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racconta ciò che questo piccolo uomo non può raccontare perché non lo sa, perché è completamente
immerso nei soliti, quotidiani accidenti di una vita.» V. C.
Nella stagione 2006/2007 Il Signor Novecento è stato rappresentato al Teatro Ambra Jovinelli, con gli
attori Lello Arena e Norma Martelli, le cantanti Aisha Cerami e Raffaela Siniscalchi, i Solisti
dell’Orchestra Aracoeli diretti da Nicola Piovani. Lo spettacolo ha fatto una lunga tournée, che
riprenderà anche nella prossima stagione 2007/2008.
Teatro Excelsior
Regia di Maurizio Scaparro.
Con Massimo Ranieri.
Musiche di Antonio Sinagra.
“Compagnia italiana”, Teatro Eliseo, Roma 1993 e tournée.
Siamo nel 1943, in una cittadina fuori mano ai piedi dell'Appennino, tra l'Abruzzo e le Marche. Il
ventennio fascista è agli sgoccioli. Più di mezzo mondo è in guerra contro la grande Germania e contro
la piccola Italia. Nel glorioso Teatro Excelsior, diventato cinema varietà, la premiata compagnia dei
fratelli Ippolito sta provando lo spettacolo per il debutto della sera. È la prova di una delle tante
compagnie teatrali che, nel momento in cui l’Italia è divisa tra il Sud liberato dagli americani e il Nord
occupato dai tedeschi, si prepara ad affrontare il pubblico di sempre.
Canti di scena
Concerto di parole e musica di Vincenzo Cerami e Nicola Piovani. Messa in scena degli autori.
Con Vincenzo Cerami, Norma Martelli, i cantanti Donatella Pandimiglio, Pino Ingrosso e Simona
Patitucci, i Solisti dell’Orchestra Aracoeli, pianista e direttore Nicola Piovani.
Elementi pittorici di Emanuele Luzzati, luci di Sergio Rossi.
Teatro dei Satiri, Roma 1993.
Nel 1981 un primo abbozzo dello spettacolo Canti di scena è stato presentato al Festival di Eraklion a
Creta, su commissione del terzo programma di Radio Atene.
Lo spettacolo è andato in tournée ed è stato ripreso con continue varianti e novità fino al 2000.
Pubblicato da Einaudi, Stile libero, con compact disc, nel 1999.
Il sipario si apre sul poeta che si spreme le meningi: deve stendere le note di presentazione del suo
spettacolo per il programma di sala. Scrive, rilegge, cancella, corregge… e fra i silenzi dei suoi dubbi e
delle sue meditazioni Canti di scena prende corpo, si anima fra le quinte. Procedendo a balzi, per
segmenti, in un tragitto labile ed emotivo, nel suo rapporto non sempre lineare con la poesia e nella sua
passione amorosa per la teatralità, il poeta riesce infine a raggiungere il suo traguardo: il finale, la firma
e la consegna del pezzo, scritto un po’ en poète e un po’, come si dice, sul tamburo.
Ci sono musiche e poesie che si possono riascoltare all’infinito, perché sempre suscitano un’emozione
nuova. Canti di scena è sicuramente stata la svolta più vistosa del lavoro di Cerami e Piovani. Cerami,
autore delle parole, è entrato direttamente in scena. In questo modo si è aggiunta allo spettacolo una
nuova figura retorica: il pubblico può assistere all’atto creativo dei due artisti (scrittore e compositore)
che ogni sera si “affiatano” e improvvisano. Autore e attore sono realmente la stessa persona, così
come il compositore e il direttore d’orchestra. L’intesa artistica si crea davanti agli occhi del pubblico
cercando, hic et nunc, la giusta temperatura delle emozioni.
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Canti di scena è uno spettacolo che ha continuamente proposto varianti. Edizione dopo edizione, gli
autori non hanno fatto che apportare ritocchi, operare spostamenti, inventare nuovi inserti, sul respiro
delle diverse platee e per provare ad andare “più lontano” insieme con il pubblico. Più che un racconto
organico di fatti ordinati, Canti di scena è una drammaturgia orizzontale, giocata su contrasti emotivi e
anticlimax. Le sonorità, il lessico, le fughe nella memoria, il senso del tempo, i ritmi, interagiscono per
proporsi come sentimento della nostra epoca, dove l’alto e il basso convivono. Aforismi e divertimenti;
toni epici, satirici, lirici, infantili; calchi e spiazzamenti linguistici convivono contaminandosi e
modificando i propri segni fino al punto che si può ridere col dramma e commuoversi con la comicità.
Questo sentire le cose (insieme austero e scettico) con cuore leggero ma pensoso, è ciò che alla fine
resta dello spettacolo, è l’impercettibile tessuto connettivo di brani all’apparenza contraddittori e
inconciliabili.
Borderò
Regia di Cerami e Piovani. Musiche di Nicola Piovani.
Con Lello Arena, Nicola Di Pinto, Aisha Cerami e i solisti dell’Orchestra Aracoeli.
Teatro della Cometa, Roma 1994.
Nel gergo teatrale “fare borderò” significa andare in scena per raggiungere quel minimo di
rappresentazioni necessario a una compagnia per beneficiare del contributo governativo. Raffaello
Tarallo, il protagonista, è un attore che va alla deriva, costretto a mettere in piedi in quattro e quattr'otto
uno spettacolino per fare appunto “borderò”. Si presenta davanti al suo pubblico in accappatoio e
chiede pietà per la sua umiliante recita. Mette le mani avanti e confessa di aver rabberciato un copione
per ragioni burocratiche. La scenografia che utilizzerà è quella che sta già sul palcoscenico, montata
per un precedente spettacolo. Tarallo confessa di andare avanti a colpi di esibizioni provvisorie,
interlocutorie, aspettando una stagione nuova, un futuro sicuro. Ma mentre è lì che chiede perdono, le
sue paure prendono la forma di fantasmi teatrali. Il desiderio di vedere realizzati i suoi modesti sogni di
gloria e di liberarsi del suo presente, ricco di frustrazioni e privo di borderò, lo spinge a tentare il
grande viaggio fino a naufragare, per ritrovarsi poi su un’isola disabitata. È l’isola magica di Calibano.
E la magia è la stessa di Prospero, del Faust o delle sfere di cristallo. Con Tarallo ha naufragato anche il
suo Re, il suo unico pubblico in quell’isoletta deserta, e lui è un guitto, un buffone di corte e continua a
fare il suo mestiere, rallegra sua maestà con numeri comici e malinconici, che sempre più prendono i
colori e i suoni dei suoi incubi rimossi.
Un vero amico
farsa tragica in cinque puntate radiofoniche, novembre 1995.
L’ultimo addio
Breve testo teatrale.
Pubblicato in Addii. Testi di congedo/ Congedi nei testi, a cura di Mariella di Maio e Roberto Fedi,
Bulzoni, Roma 1996.
L’assassinio di Gonzago
Breve testo teatrale. Regia di Tonino Conte, musiche di Nicola Piovani.
Allestimento del Teatro della Tosse di Genova, 1996.
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Nell’ambito di un progetto biennale dedicato a Shakespeare, intitolato L’opera completa di William
Shakespeare, Tonino Conte ha chiesto a scrittori e a personalità della cultura italiana di ripensare e di
riscrivere alcuni dei capolavori shakespeariani.
In L’assassinio di Gonzago si prende lo spunto dalla recita dei comici dell’Amleto, per dare uno
sguardo dietro le quinte della compagnia girovaga e mettere in luce un intrigante contrasto, interpretato
anche con canzoni, sull’arte e il mestiere dell’attore: esagerazione, esasperazione, o naturalezza?
La casa al mare
Regia di Attilio Corsini.
Con Massimo Wertmüller, Angelo Orlando e Tosca D’Aquino.
Musiche di Nicola Piovani.
Teatro Vittoria, Roma, dal 2 dicembre 1997.
«Il copione nacque da un mio racconto che si intitolava Due scemi, ed era una storia piena di
disincanto, una vicenda divertente ma anche amara e aggressiva, la cui crudeltà si perse un po’ per
strada dando luogo a uno schietto e bel successo comico di pubblico. Il perno di tutto resta
l’ambientamento in un condominio di Ladispoli. Preferisco la fauna umana di un sesto piano al mare
con ascensore rotto, anziché i proprietari di villette. Mi interessa di più la gente straziata o resa buffa
dal tran tran delle cose quotidiane, dai sentimenti medi. […] C’è Corrado, con una separazione alle
spalle, che conosce in tribunale una ragazza entusiasmante e, per tentare un approccio s’affretta a
chiedere le chiavi di un appartamento estivo all’amico Luigi, afflitto invece dall’abbandono del tetto
coniugale della moglie, che s’è anche portata via i figli. Uno di loro ha la sensazione che gli si apra una
porta, l’altro la vede appena chiusa. A favore ottenuto, Corrado si fa sotto con la donna, che è benevola
e ben disposta, mentre lui non può fare a meno d’atteggiarsi, di far scena e rovina tutto, finché ai due
amici non rimane che progettare di mettere assieme le loro solitudini.» Da una dichiarazione di V. C. in
Rodolfo Di Giammarco, Le piccole umanità nei palazzi di Ladispoli, “la Repubblica”, 2 dicembre
1997.
Dormi ch'è ancora notte
Breve testo teatrale. Regia di Gigi dall’Aglio.
Con Ninetto Davoli, Paolo Bocelli, Veronica Barelli.
Teatro Stabile di Parma, 1998.
Uccellacci e uccellini, il film di Pier Paolo Pasolini, è del 1965. Vi si narravano le avventure di Totò e
Ninetto, alle prese con la caduta delle ideologie e l’affermazione definitiva della società di massa.
Padre e figlio camminano come in una favola popolare e intanto apprendono inconsapevolmente le
nuove regole del vivere comune. Qui sono vittime e là carnefici, ora innocenti creature francescane, ora
crudeli padroni di casa. Li accompagna un corvo pedante e meditabondo, che non si fa scrupoli a
stigmatizzare le loro azioni e i loro pensieri. La sua voce è quella dell’ideologia la quale, appunto, alla
fine verrà divorata dai due picari affamati. Dormi ch'è ancora notte è appena una luce che si accende,
per un momento, sul destino del personaggio di Ninetto a quasi trent’anni dal famoso film. Ninetto
incontra di nuovo il Corvo: sono cambiati tutti e due. Il primo ha quasi completamente perso la
memoria, il secondo fa fatica ad accettare il nuovo Ninetto, ormai uomo in questa nostra società
proteiforme e priva di qualsiasi zodiaco di riferimento pedagogico. Il figlio di Totò incontra anche
Luna, la sgualdrinella bruna che aveva accolto nel proprio grembo padre e figlio. L’eros ha cambiato di
segno.
L’assenza di ideologia mostra un Corvo totalmente spogliato dell’antica passione e dell’antica
razionalità. Appare pateticamente annodato su se stesso, spinto a rifiutare il presente solo perché
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incodificabile. L’emozione non nasce più da un cuore che spera ma da un cuore che malinconicamente
ricorda e ammette la sconfitta. La rappresentazione è, in fondo, il racconto di un’assenza, di un vuoto.
Non c’è più Totò, non c’è più Pasolini, non c’è più l’Italia delle passioni. C’è il corpo di Ninetto,
creaturalmente vivo e come allora vittima. Ma questa volta è preda di un modello di sviluppo che lo
utilizza come puro consumatore.
Romanzo musicale
Regia di Cerami e Piovani, musiche di Piovani.
Con Vincenzo Cerami, Ninetto Davoli, Norma Martelli. Cantanti: Pino Ingrosso, Donatella
Pandimiglio e Simona Patitucci. Orchestra Aracoeli.
Teatro Mancinelli, Orvieto 1998.
Il racconto si svolge nell’incanto della musica, delle suggestioni visive proposte da un grande maestro
come Milo Manara, delle luci evocative di Sergio Rossi. Parole e musica scorrono lungo un filo
narrativo che mette in scena alcuni personaggi della mitologia. Da una parte il personaggio di Libero,
tutto teso a vivere e a godere il presente, ambiguamente diviso tra edonismo brutale e sincere tentazioni
epicuree. Dall’altra parte gli eroi imbarcati sulla nave Argo per inseguire il sogno della palingenesi
incarnato nel mitico Vello d’Oro. Gli Argonauti remano verso l’utopia mentre il crudo, realistico
Libero li irride quasi con disperazione. Chiude il romanzo l’apparizione di Ulisse. L’eroe omerico salva
i suoi marinai che perdono la memoria mangiando il loto dell’Isola Felice, poi, alla fine delle sue
lunghe peregrinazioni, sfida anche lui l’ignoto, insegue il suo Vello d’Oro varcando le Colonne
d’Ercole, e soccombendo.
Durante il 1998, per il Teatro Stabile di Parma e a cura del regista Franco Però, Cerami legge, in
sinagoghe e chiese della Lombardia e dell’Emilia Romagna, L’Ecclesiaste, nella versione di Guido
Ceronetti. Al pianoforte Alessandro Roveri.
Nell’ambito del Festivaletteratura di Mantova del 1999, nel corso di tre pomeriggi Cerami, nella
sinagoga Norsa, ripresenta la sua lettura di L’Ecclesiaste.
«Qohélet è il testo più importante della mia vita. Lo conoscevo fin da bambino, nelle diverse versioni
della Bibbia. Poi ho incontrato la traduzione di Ceronetti, che mi ha fatto provare il bisogno di
pronunciare queste parole a voce alta, come se fossero la proiezione di un silenzio che decide di
misurarsi con la grandezza. La mia non è un’interpretazione da attore. Cerco piuttosto di prendere il
ritmo della scrittura, immedesimandomi in Qohélet e pronunciando il testo come se lo stessi scrivendo
di getto. Come se quelle parole nascessero dal nulla. Il pubblico è attento, suggestionato, addirittura
spaventato dalla durezza e dallo strazio poetico del testo. Anche se c’è anche una zona che mi piace
definire romantica, quando si dice “Meglio due di uno solo”, tutto il testo è multiforme, contraddittorio,
spiazza continuamente il lettore, negando ciò che ha appena affermato. Lì davvero il Cristo non c’è,
non c’è nessuna mediazione tra il lettore dell’Ecclesiaste e Dio. C’è soltanto un grande vuoto che
sbalordisce, crea fobia, fa tremare. Leggendo questo testo si intuisce che la presenza di Cristo è venuta
a medicare questo vuoto, a riempire questa condizione insopportabile. Dio ha fatto il mondo, si legge in
Qohélet, “perché l’uomo non trovi nessuna traccia di lui”, ed è una delle verità insopportabili enunciate
in quest’opera. Soltanto con Cristo l’immagine dell’assoluto diventa amica e l’uomo viene riscattato
dalla sua solitudine astrale. Del resto anche La vita è bella, che pure nasce dalla tragedia
dell’Olocausto, racconta una storia compresa nell’orizzonte della cultura cristiana. Al centro del film,
se ci si pensa bene, c’è una famiglia, che è poi la Sacra Famiglia. Per me risulta impossibile
immaginare la trascendenza senza riferirmi alla figura di Cristo.» V. C.
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Dal 16 al 20 marzo del 2005 è stata presentata una nuova versione di L’Ecclesiaste presso il Piccolo del
Teatro Ambra Jovinelli di Roma. La messa in scena si è avvalsa della partecipazione del musicista
Aidan Zammit; la lettura del testo sacro è continuata con diverse repliche. La sera del 24 marzo 2007
nell’aula I della Facoltà di Giurisprudenza dell’università “La Sapienza” di Roma, in occasione della
seconda edizione de «L’Università della notte. L’Europa dei saperi», Cerami ha ripresentato la sua
interpretazione di L’Ecclesiaste. Con questo testo è anche intervenuto a Castelbasso (Teramo).
La Pietà
Stabat Mater concertante per due voci femminili, voce recitante e orchestra.
Testi di Cerami, musiche di Piovani.
Con Gigi Proietti, Amii Stewart, Rita Cammarano e i solisti dell’orchestra Aracoeli.
Teatro Mancinelli, Orvieto 1998.
Due madri: ambedue piangono il proprio figlio morto. La prima madre, in un paese opulento e
consumista, ha visto suo figlio ucciso dalla droga, vittima di una società smarrita nei miti sbagliati del
benessere e nella perdita del sentimento della trascendenza. La seconda ha perso il figlio ucciso dalla
fame: la carestia di un paese del Terzo mondo non ha risparmiato il ragazzino che si è smagrito, ha
mangiato la terra e davanti agli occhi di lei si è spento. Due madri addolorate, due cause di morte
opposte, ma vittime dello stesso modello di sviluppo planetario. Ripercorrendo la forma dello Stabat
Mater classico, La Pietà canta, in versi liberi, il dolore archetipo della madre per la perdita del figlio, il
dolore di Maria sotto la croce, citando a tratti i versi rituali di Jacopone da Todi sia in traduzione
moderna, sia nell’originale latino.
«Lo stesso Cerami ricorda che questa Pietà è nata nell’intimo di un musicista e di uno scrittore armati
soltanto di una penna e un pianoforte. Il “libretto” è intensamente coinvolgente. Le madri sono due: una
bianca (piange il figlio ucciso dalla droga) e una nera (piange il figlio che non ha avuto nulla da
mangiare). Alle due madri si aggiungerà poi quella più antica, che piange il figlio morto sulla croce.
Intorno alle madri del nostro tempo c’è tutto un mondo che non s’accorge più di nulla. Il fantasma di
Brecht sembra, a volte, aggirarsi tra le tragedie spalancate da Cerami (“la metropolitana è un verme / è
un branco di iene la carovana/ di macchine e taxi”). E, almeno una volta, anche nella musica, incline
alla malinconia di Catalani, prima di sfociare nelle due ultime parti (quinta e sesta, nelle quali La Pietà
raggiunge, nel suo ambito, la soglia del capolavoro) il fantasma di Kurt Weil sembra aggirarsi tra suoni
nervosi e non pietosi, nel cui alone si è sempre tenuta la voce di Gigi Proietti, anche quando attraverso
il luminoso canto di Amii Stewart (madre nera), La Pietà accoglie i versi latini di Jacopone da Todi,
coinvolti nella cullante melodia della ninna-nanna.» Dalla recensione allo spettacolo (allestito al Teatro
Quirino di Roma) di Erasmo Valente, “La Pietà”, voci di donne a lutto, 13 aprile 2000.
Ring
Regia di Franco Però.
Con Elena Arvigò, Paolo Bocelli, Laura Cleri, Fabrizio Croci, Stefano Lescovelli, Francesco Stella,
Tania Rocchetta, Davide Rotoli.
Produzione “Teatro Stabile di Parma”, al Teatro Due di Parma dal 17 marzo al 2 aprile 2000.
«Ring non è solo un testo sulla boxe, anche se questo sport innerva indubbiamente tutto lo spettacolo.
L’idea mi è nata soprattutto per la voglia di scrivere una commedia dove gli attori in scena parlassero lo
stesso linguaggio degli spettatori in sala. Il linguaggio della vita, insomma, come succedeva a Goldoni,
Pirandello, Eduardo. Così ho pensato a un soggetto che ha al suo centro la storia di un ex pugile, di
poco più di cinquant’anni. Uno di quelli che cercano di vincere la nostalgia per il ring aprendo una
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palestra e allevando ragazzi. Ma intanto la boxe è cambiata: non ci sono più quegli artisti della velocità,
meravigliosi nel movimento delle gambe, che sono stati sostituiti dai devastatori da k.o. E i ragazzi che
il nostro istruttore si trova davanti sono stati tirati su con gli omogeneizzati e le fosfatine, non hanno
più tanta voglia di soffrire… le cose vanno male. […] Sta per chiudere la palestra quando un amico gli
porta un ragazzo tunisino che ha visto battersi, salito al nord dopo aver sbarcato il lunario a Mazara del
Vallo come tagliatore di teste di gamberetti. Il proprietario della palestra di dedica al giovane, che gli
ricorda il grande Ray Sugar Leonard, perché ne ha intuito le qualità di velocità e di leggerezza. Ma si
rende subito conto che gli manca la “castagna”, cioè quel pugno micidiale capace di stendere gli
avversari. […] Decide di insegnargli la cattiveria. […] Ma non può fare a meno di chiedersi dove
finisca la cattiveria e dove inizi la violenza vera. E decide di insegnargli la violenza.» Palco ring,
intervista di Maria Grazia Gregori, “l’Unità”, 15 marzo 2000.
Socrate
Liberamente tratto da Platone e Aristofane.
Regia di Gigi Proietti.
Con Gigi Proietti, Martina Carpi, Francesca Caratozzolo, Umberto Ceriani, Gianfranco Mauri ecc. In
scena un quintetto d’archi.
Scene di Quirino Conti, musiche di Nicola Piovani, movimenti mimici di Marise Flach, luci di Gerardo
Modica.
Piccolo Teatro di Milano, 2000.
Pubblicazione del testo a cura del teatro.
Per narrare gli ultimi giorni della vita di Socrate, Cerami si avvale di un accorto montaggio cronologico
includente il flash-back, evitando la vana impresa di riproporci una Grecia di cartapesta. E così quello
di Socrate diventa, con ritrovata attualità, il caso di un filosofo che introduce nell'Atene soddisfatta
dell’ “età dell'oro” l'arma rivoluzionaria del dubbio dialettico, che accetta la cicuta impostagli da una
“tirannide democratica” per affermare l'obbedienza alla legge morale e che rifiuta la fuga dal carcere
per non farsi complice della corruzione. Ai suoi discepoli, che lo scongiurano di salvarsi con la fuga,
alla moglie, al guardiano e al comandante del carcere il filosofo oppone il dovere della coerenza e il
rispetto della legge: beve la cicuta e muore. Nella seconda parte Cerami introduce la beffarda caricatura
che di Socrate fa Aristofane, nel tribunale trasformato in cavea delle Nuvole. Per poi farlo tornare a
essere il condannato a morte che si congeda da una società che lo accusa di corrompere i giovani per
averli spinti alla rivoluzione della libertà.
«Al di là dell’alta lezione di Socrate, del suo rigore e della sua fedeltà ai propri principi (che pure
disegnano i tratti fondamentali del personaggio) il testo teatrale che ho scritto vuole mettere in rilievo i
meccanismi attraverso i quali il grande filosofo ateniese smonta il comune sapere mostrandone
vuotaggini, pregiudizi e parassitarie ritualità. La sapienza di cui Socrate parla non è, come può
sembrare in prima lettura, valore in sé, ma mira a risposte tanto utili e concrete quanto impossibili. La
moralità quindi altro non è che ricerca di una verità non raggiungibile, nemmeno dopo la morte. La
moralità socratica si attua concretamente quando evidenzia i falsi convincimenti che fanno da vacuo
zodiaco di riferimento a una società, come quella ateniese ai tempi dell’amnistia generale del 403 (che
somigliano così brutalmente ai nostri), nella quale tutti credono di sapere e non sanno, in cui tutti sono
convinti di essere nel giusto e invece vivono nell’errore, conformisticamente. Una democrazia che si
costruisce su principi sbagliati e che ricava benefici dai pregiudizi del popolo, che addirittura fa della
corruzione, come ad Atene dopo la caduta dei Trenta e la ricostruzione della democrazia, una tacita
regola da tutti accettata, non si può definire tale. Per questo l’etica di Socrate, scardinando le effimere
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certezze del popolo, è pericolosamente eversiva. Egli difende le leggi in quanto tali e nello stesso
tempo toglie loro il punto d’appoggio, invalidandone i valori che ne ispirano l’applicazione. Tra le
accuse che il filosofo riceve dal tribunale e che hanno spinto i cinquecentouno giudici a condannarlo a
morte c’è quella che oggi chiameremmo di “plagio”. Socrate, solo attraverso il ragionamento,
spingendo semplicemente a ragionare, destabilizza i suoi interlocutori fino al punto di traumatizzarli, di
far perdere loro ogni certezza, prostrandoli, riducendoli a vittime di ciò che Ernesto de Martino
chiamava “presenza malata”, senso della perdita di sé.
Nello spettacolo che ho scritto nel 2000 per il “Piccolo” di Milano e per un attore di straordinaria
intensità e ironia come Gigi Proietti, ho tentato di “incollare” il personaggio teatrale alla retorica
socratica; di mettere in scena, accanto al dettato morale del filosofo, la stringente logica di un pensiero
che, appunto, mettesse a nudo la rete di ipocrisie e opportunismi che tesse l’immortalità, ormai
fisiologica e “normale” nel corpo dello Stato. Ma a parlare sul palcoscenico non può essere solo il
pensiero di un filosofo. Per quanto coerente e interessante possa essere ha bisogno di un corpo, di un
vissuto, di affetti, di tensioni contraddittorie e umane. Il Socrate teatrale agisce, è condizionato e messo
in difficoltà dalle circostanze. Il suo “sapere” viene raccontato (e sporcato) anche con la gestualità, con
i silenzi, con gli sguardi; il suo discorso ha, per peculiarità del linguaggio teatrale, molti sensi impliciti,
non espressi con le parole del protagonista.
Un’accurata griglia narrativa è necessaria per la mise en situation di un personaggio che prende
decisioni radicali come quella di rifiutare la libertà illegale per scegliere la morte. Tale è la ragione
dello sconvolgimento temporale dei fatti rispetto alla fabula degli ultimi giorni del filosofo. Lo
spettacolo evita la cronologia e modifica i tempi di alcuni passaggi presenti nei testi di Platone. Il
processo, ad esempio, è raccontato in flash-back e il momento in cui Socrate beve la cicuta non
corrisponde a quanto raccontato nel Fedone. Le modifiche hanno, appunto, il compito di introdurre
pathos là dove la serrata logica dei discorsi si fa pura dottrina.
Ho anche previsto, a un terzo del secondo tempo, un inserto liberamente tratto da Le nuvole di
Aristofane. La sua funzione è di mostrare, con una rappresentazione viva, il linciaggio cui è stata per
anni sottoposta la figura di Socrate e anche per restituire i sapori di una società reale che vive fuori
dall’aula del tribunale. La scena, oltretutto, fa da anticlimax alla severità del processo introducendo
nella tragedia una sciatta quanto cruda spettacolarizzazione dei principi socratici, ridicolizzandoli e
riducendoli a barzelletta. Ovviamente ogni riferimento all’oggi è del tutto casuale
Per quanto concerne l’obbligo di sintesi teatrale ho preferito concentrare la tragedia soprattutto intorno
a due punti, centrali tra l’altro nel pensiero socratico: la morale e la conoscenza. Li ho preferiti, ad
esempio, ai pur sublimi argomenti sull’eros, perché mi apparivano adeguati alla situazione
drammaturgia (la carcerazione e l’esecuzione capitale) e perché di evidentissima attualità. Lo spettatore
non potrà infatti evitare di accostare le problematiche del tempo di Socrate a quelle di oggi, benché
abbia accuratamente evitato ogni forma di attualizzazione. I discorsi del filosofo sono di fatto ancora
scottanti, e molto probabilmente rimarranno tali per chi sa quanti secoli.» V. C.
Francesco, il musical
Regia di Claudio Insegno e Fabrizio Angelini.
Con Antonello Angiolillo e Aisha Cerami.
Musiche di Benoit Jutras.
Lyrick Theatre, Assisi 2000.
La storia di San Francesco vista attraverso gli occhi di Leonardo, un giovane che, attratto dalla
“perfetta letizia” predicata dal fraticello di Assisi, deve sottomettersi a una serie di prove fino al suo
definitivo accoglimento nell’Ordine.
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«Mi faceva paura il carisma di San Francesco. Un santo che ho sempre visto come un personaggio della
mitologia greca, proteiforme. Una figura difficile da focalizzare. Così, ho spazzato via i sociologismi e
gli ideologismi che hanno spesso avvolto il Poverello di Assisi. Ho evitato la storia dell’uomo,
altrimenti sarebbe uscita la figura di un “pazzo”, di un invasato. Ho invece scelto di raccontare la storia
di un vero santo: uno che fa i miracoli e arriva all’essenzialità dell’esistenza. Non c’è nessun taglio
eversivo o rivoluzionario nel mio lavoro. Francesco più che un ribelle è un uomo e un santo. Forte e
semplice. Io volevo andare dritto all’animo del santo. Così, ho inventato un personaggio che mi facesse
da filtro: un fraticello che vive nel mito di San Francesco, che lo insegue e lo spia. Il santo è visto con
gli occhi di questo giovane, è lui il personaggio chiave, quello che mi ha permesso di comporre un
“mosaico” sul leggendario santo. Così, la struttura del musical è diventata leggera, senza bisogno di
calcare la mano in chiave moderna. San Francesco rappresenta comunque tutto quello che le società
organizzate reprimono: con le sue rinunce aveva già capito come liberarsi dei codici, dei
condizionamenti culturali, di tutti quei comportamenti che la società impone. Anche la lingua può
essere repressione della nostra libertà. Francesco insegna: nasciamo nudi, quindi ci rivestiamo con la
cultura, ma dobbiamo essere capaci anche di spogliarci di tutto per arrivare alla parte più profonda che
c’è in ogni creatura umana. In Francesco, il musical c’è in qualche modo una parabola di morte e
resurrezione, di rinascita ed ascesi mistica. Per il musical utilizzo il Cantico delle creature. Ma non
ripropongo la poesia aulica. La poesia viene in qualche modo “sporcata” dal ragazzino che ci racconta
del santo, si tratta di una poesia che non entra direttamente nello spettacolo se non in modo trasversale.
Così, si apprezza di più l’assoluta modernità di Francesco, un santo molto amato perché è lì, vivo nei
secoli. Altri santi si dimenticano, lui no.» V. C.
Lettere al metronomo
Coordinamento scenico di Norma Martelli.
Con Vincenzo Cerami, Aisha Cerami e il tastierista Aidan Zammit. Musica di Nicola Piovani.
Questa performance è andata in scena per cinque serate nel settembre del 2002 nell’ambito del Festival
della Letteratura di Mantova.
Un metronomo, come fosse un cuore che batte, scandisce il ritmo (qui rabbioso, lì ossessivo o
rassegnato) delle parole che compongono l’epistolario. Le luci si accendono su un musicista alla
consolle, Aidan Zammit e su una cantante, Aisha Cerami. Cerami è in proscenio, dietro al leggio.
«Lettere al metronomo è un epistolario in versi. Chi scrive vive da sempre nella metropoli, tra
mitologie disfatte e sogni lacerati. I destinatari sono pescati nella folla, riemergono da memorie
rumorose, dove si agitano appena passioni decadute, amori andati in fumo, progetti rimasti eterne
promesse. L’autore delle lettere scrive e si ascolta, con ironia, vuole che la propria voce fugga da un
silenzio interiore, metafisico e assordante. Vuole, per un momento, fare smorfie allo specchio. Sa che
quelle missive raggiungeranno persone ormai lontane e senza ricordi. Sono lettere vacue, messaggi
nella bottiglia lanciata in uno stadio urlante. Ma non importa, la vita è linguaggio. I panorami sono
appunto della città popolosa, e anche il tono di voce è di cemento e di polvere, e talvolta ha la
desolazione della discarica. Le parole sono scritte per essere ascoltate e non lette in solitudine. Hanno
un suono, che ha significati reconditi e imprevisti, e che dilata in canto. La musica riempie i vuoti creati
dall’emozione di chi sta parlando del proprio vivere.» V. C.
«E non perdonando amici, donne, colleghi e certa umanità in cui s’è imbattuto, Cerami elegge qui
l’invettiva a drammaturgia, ci fa pensare alle insolenze di Wilcock e di Flaiano, all’icasticità di
Manganelli, alla furia radicale di Bogosian, allo humour impietoso del “Signore e signori” dell’ultimo
Alan Bennett. Ma c’è anche proprio un marchio tutto suo di immoralismo, di svagatezza furiosa e di
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cantilena famelica in armonia sempre con le partiture dettate da Nicola Piovani. Al di là di un’oscura
pietà, l’acme è in una sequenza di maledizioni che neanche Artaud e Lenny Bruce messi insieme
avrebbero potuto concepire.» Dalla recensione di Rodolfo Di Giammarco, Cerami, lettere
immaginarie contro il mondo molesto, “la Repubblica”, 25 ottobre 2004, p. 39.
Una nuova versione dello spettacolo è stata rappresentata al Piccolo del Teatro Ambra Jovinelli di
Roma nel mese di ottobre del 2004, per poi proseguire con numerose repliche anche nel 2005 e nel
2006.
La vera storia di Alcmena
Microcommedia comica rappresentata al Mittelfest, a Cividale del Friuli, a luglio del 2003.
L’Isola della Luce
Cantata di Nicola Piovani per due voci cantanti, Noa e Pino Ingrosso, la voce recitante dell'attore greco
Nikitas Tsakiroglou, la chitarra di Gil Dor e l'orchestra Ara Coeli diretta dallo stesso Piovani.
I testi in poesia sono di Vincenzo Cerami. Sono state inserite dal maestro Piovani anche citazioni da
Sicilo (il suo epitaffio è il primo testo dell’antichità greca con una minima annotazione musicale),
dall’Ecclesiaste, da George Byron (il testo poetico Darkness), da Albert Einstein (che ha descritto
scientificamente e in maniera filosofica la natura della luce).
È andata in scena, in prima mondiale, il 14 settembre 2003 a Delos, la magica isola delle Cicladi
greche, un lembo di terra disabitato e bellissimo. Commissionata dal governo greco per le “Olimpiadi
della Cultura”, la serie di eventi che hanno accompagnato l’avvicinamento ai giochi olimpici del 2004,
l’opera del compositore italiano è il racconto in musica della paura dell’oscurità e della speranza che
trionfi la luce.
Fra i concerti della stagione 2004-2005, l’Istituzione Universitaria dei Concerti dell’Università “La
Sapienza” di Roma ha presentato in prima esecuzione italiana L’isola della Luce, cantata per voce
femminile, voce maschile, voce recitante e orchestra. La rappresentazione, che si è svolta presso l’Aula
Magna dell’università, ha avuto come interpreti Noa, Pino Ingrosso, Omero Antonutti e i Solisti
dell’Orchestra Aracoeli diretti da Nicola Piovani.
Gli amici di Salamanca (Die Freunde von Salamanka D.326)
Singspiel comico in due atti di Johann Mayrhofer, musica di Franz Schubert.
Edizione critica dell’Internationale Schubert-Gesellschaft a cura di Marco Beghelli.
Dialoghi parlati e proposta drammaturgica di Vincenzo Cerami.
Regia Franco Ripa di Meana. Maestro concertatore e direttore Rodolfo Bonucci.
Sei rappresentazioni nel maggio del 2004 al Teatro Comunale di Bologna.
Il comico e la spalla
Regia di Jean-Claude Penchenat.
Con Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina, Anna Malvica, Aisha Cerami e il fisarmonicista Fabio
Ceccarelli.
Commento musicale di Nicola Piovani, scenografia di Roberto Moscoso.
Sala Verga del Teatro Stabile di Catania, maggio-giugno 2004.
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Il copione, tradotto in francese, è stato pubblicato nella rivista “Auteurs en scène”, n° 6, nella rubrica
“Théâtres d’ailleurs”, 2004.
«Ho preso due figure classiche della comicità. Il ‘900 è pieno di prototipi di ditte famose, di gemellaggi
del palcoscenico, e basti fare tra i tanti i nomi dei fratelli De Rege, di Totò e Peppino, di Totò e
Castellani, di Tognazzi e Vianello. Andando indietro nel tempo, tutto si ritrova in Don Giovanni e
Sganarello, ma c’è anche una sequenza deliziosa dell’Inferno tra Dante e Virgilio all’insegna del “Vai
avanti tu”…[…] Io credo di sorprendere con una lente una giornata speciale in cui due amici uniti da
30 anni di spettacolo gomito a gomito si trovano di fronte a una scelta: infrangere la gabbia che li tiene
assieme e provare a camminare da soli, separatamente, oppure rinchiudersi di nuovo nella dimensione
in cui hanno vissuto tra sberleffi e facezie incarnando i ruoli fissi di carnefice e vittima. Qualcosa di
patetico, per la loro età, visto che hanno ognuno una sessantina d’anni. L’intrusione della ragazza opera
come una cartina al tornasole, ma il mestiere di tutti e due non può essere sconvolto.» Dall’intervista di
Rodolfo Di Giammarco, “Trasformo in dramma la coppia comica”, “la Repubblica”, 21 maggio
2004.
A partire da gennaio 2005 la tragicommedia di Cerami è andata in tournée nei più importanti teatri
italiani.
Concha Bonita
Opera musicale di Alfredo Arias e René de Ceccatty. La versione italiana del testo è firmata da
Vincenzo Cerami e Nicola Piovani.
Con Gennaro Cannavacciuolo, Mauro Gioia, Sandra Guido, Antonio Interlandi, Sibilla Malara,
Alejandra Radano, Gabriella Zanchi / Gennaro Cannavacciuolo, Raffaele La Tagliata, Sibilla Malara,
Alejandra Radano, Catherine Ringer, Gianfranco Vergoni, Gabriella Zanchi (2005/06); Sinan Bertrand,
Gennaro Cannavacciuolo, Mauro Gioia, Sibilla Malara, Alejandra Radano, Sandra Rumolino, Gabriella
Zanchi (2006/07).
Regia di Alfredo Arias.
Musiche di Nicola Piovani.
Scenografie di Francesco Bancheri.
Ideazione costumi di Françoise Tournafond.
Luci di Franco Ferrari.
Ideazione trucco e parrucche di Jean-Luc Don Vito.
Orchestra Aracoeli.
Pianista e direttore Enrico Arias.
Produzione Teatro Ambra Jovinelli - Compagnia della Luna.
A febbraio del 2005 è andato in scena all’Ambra Jovinelli il primo allestimento in italiano del musical
rappresentato in Francia nel 2002.
Nella stagione teatrale 2006/2007 lo spettacolo ha fatto una lunga tournée toccando nuovamente Roma,
dove è stato rappresentato con grande successo presso il teatro Brancaccio.
La Cantata dei Cent’anni
Opera musicale di Vincenzo Cerami e Nicola Piovani scritta per il Centenario della nascita della Cgil.
Cantanti: Pino Ingrosso, Alessandro Quarta, Raffaella Siniscalchi, Gabriella Zanchi. Voce recitante:
Massimo Wertmüller. Orchestra Roma Sinfonietta diretta da Nicola Piovani.
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La prima esecuzione è andata in scena nel maggio 2006 a Roma presso l’Auditorium Parco della
Musica, Sala Santa Cecilia, eccezionalmente con la partecipazione di Gigi Proietti come voce recitante.
«Devo confessare che in un primo momento mi sono spaventato. Come fare a restituire il senso di una
storia così lunga e importante, ricca di episodi esaltanti, strazianti e tragici come quella della Cgil?
Tutto in un’opera piena di musica? … L’idea drammaturgica mi è stata ispirata da una semplice frase
che recita l’Ecclesiaste nella Bibbia, là dove dice che “due sono meglio di uno, perché se uno cade
l’altro lo rialza”. In questa frase c’è tutto il senso della solidarietà, del primato dell’uomo,
dell’amicizia. L’ho messa al centro di tutto, in modo da inquadrare l’opera della Cgil in un contesto
antropologico, e quasi religioso.» V. C.
«Quando ho diretto l’orchestra e ho sentito dietro le spalle il respiro degli spettatori accorsi in teatro o
in piazza, da Trieste a Siracusa, raccolti a celebrare con noi questo compleanno centenario, quando ho
sentito che l’emozione saliva e ho avvertito che qualcuno riconosceva nascosto nei pentagrammi il giro
armonico dell’Internazionale, ho fatto fatica a restare lucido, a battere il tempo. Ho rischiato di perdere
il conto delle battute.» V. C.
Lo spettacolo è stato replicato come “evento speciale” nel corso dell’estate 2006 in molte tra le più
importanti città italiane. A luglio del 2007 è uscito il testo della cantata completo di cd, a cura della
casa editrice della Cgil, Ediesse.
Made in Italy
Pièce scritta da Vincenzo Cerami per festeggiare i dieci anni di «Festivaletteratura».
Regia, immagini, scene e luci di Giorgio Di Tullio.
Con Aisha Cerami e Vincenzo Cerami, alla tastiera Enrico Arias / Emiliano Begni.
Musiche curate da Nicola Piovani.
Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Ambra Jovinelli in collaborazione con il Festivaletteratura, è stato
presentato al Teatro Ariston di Mantova il 7 e l’8 settembre 2006 e replicato in varie occasioni.
Dal 17 al 22 aprile 2007 Made in Italy è andato in scena al Teatro Ambra Jovinelli di Roma.
Sola me ne vo
Monologo scritto da Vincenzo Cerami, Giampiero Solari, Riccardo Cassini e Mariangela Melato.
Regia di Giampiero Solari.
Con Mariangela Melato.
Musiche originali, arrangiamenti e orchestrazioni di Leonardo De Amicis.
Coreografie di Luca Tommassini.
Disegno luci di Marcello Jazzetti.
Prodotto dalla Ballandi Entertainment S.p.A., lo spettacolo ha debuttato a Genova il 16 gennaio 2007
per poi proseguire con una lunga tournée di almeno 140 repliche nei teatri più prestigiosi d’Italia fino a
dicembre 2007, toccando città come Milano, Catania, Bologna, Firenze, Napoli e Roma.
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