La bimba che aveva due mamme,Tutti per uno, matrimonio non per

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La bimba che aveva due mamme,Tutti per uno, matrimonio non per
La bimba che aveva due mamme
Per le persone omosessuali essere rispettate non è scontato.
Non lo è mai.
Come non lo è avere lo stesso trattamento, la stessa
considerazione, lo stesso sguardo, o – ancora meglio – la
stessa indifferenza.
Sono sicura che Maria, una tra le tante colleghe
psicoterapeute, donna riservata e poco affine al clamore e
alle riviste patinate, apprezzerebbe molto “la stessa
indifferenza”. Ma non può. O forse dovrei dire non poteva.
Maria sarà la mamma adottiva di una bambina di 7 anni che ha
messo al mondo sua moglie Ornella. Maria, infatti, è lesbica e
vive questa relazione da diversi anni e all’interno di questa
relazione, già convivendo da tempo, è maturata la decisione di
diventare genitrici.
Finalmente,
dopo
un
lungo
iter
giuridico
(o
giurisprudenziale?) difficile e doloroso (per i commenti e
discorsi penosi che le hanno rivolto gli avvocati della
controparte), dopo ben tre gradi di giudizio, Maria oggi può
festeggiare perché è (quasi) ufficialmente mamma della sua
bambina. Oggi può – unico e primo caso in Italia al momento –
adottarla. E’ il primo caso italiano di reale step-child
adoption.
Maria è una cara amica, ci conosciamo da quasi 18 anni.
Prima della bimba, prima di Ornella, prima di tutta questa
sofferenza e fatica nel credere fermamente che era giusto per
la bambina – in primis – che lei potesse prendersene cura
anche per la legge.
Maria è una professionista affermata, è una psicologa e
psicoterapeuta ed è un’iscritta Enpap. Ed è calabrese come me:
“capatosta”.
Sono stata io – subito dopo aver brindato alla splendida
notizia della sentenza della Cassazione – ad informarla della
opportunità del contributo alla genitorialità che come
AltraPsicologia abbiamo promosso e realizzato in ENPAP e a
suggerirle di fare domanda in qualità di psicologa iscritta
alla nostra cassa previdenziale.
Con delibera n. 10/14 del 31/05/2014 il Consiglio di Indirizzo
Enpap ha chiesto al CDA di integrare le forme di assistenza
inserendo un contributo alla genitorialità, indipendentemente
dal genere del/la partner.
E’ una proposta – una piccola postilla – che io stessa ho
voluto fosse inserita nella richiesta più ampia relativa alla
genitorialità di cui si stava discutendo.
Il CDA, dopo adeguata istruttoria per verificare che non ci
fossero vincoli normativi ostativi a questa estensione ha
deliberato (n. 41/14 del 18 luglio 2014) una proposta, poi
approvata dal CIG a settembre – rendendo operativo e
finalmente realizzabile – il contributo di genitorialità anche
per le donne lesbiche la cui compagna ha partorito/adottato e
per i papà (prima esclusi dal contributo alla genitorialità
che copriva solo la maternità delle iscritte gestanti).
Il contributo economico non cambia la vita, ma qualche soldo
in più fa comodo sempre. E’ il significato – al di là del
denaro – che ancora di più rende speciale questa possibilità.
La possibilità, prima ancora che per la legge italiana (il
decreto Cirinnà è stato approvato definitivamente solo l’11
maggio 2016; il CDA Enpap ha deliberato il contributo di
genitorialità due anni prima) di essere considerata uguale
alle altre colleghe eterosessuali, di essere vista, di essere
riconosciuta al pari delle altre, di essere considerata
madre/genitrice al pari di chi questa bimba l’ha portata in
grembo e in questo mondo.
La possibilità – per una volta – che la sua richiesta di un
servizio, che la maggior parte delle donne che fanno il suo
stesso lavoro ha, sia considerata identica (a pari condizioni)
alle altre e trattata con la stessa “indifferenza”.
Ps. So bene che chi lavora negli uffici Enpap non tratta le
persone con indifferenza, anzi l’esatto contrario. Il
riferimento – sottile e non chiaro ai più – è ad un video
bellissimo di Ilga Europe per “Il diritto all’indifferenza”
delle persone omosessuali.
Tutti per uno, matrimonio non
per tutti
E’ fresca fresca (23 aprile 2013) la notizia che anche la
Francia ha approvato nozze e adozione per coppie omoaffettive,
diventando il 14° paese (molti in Europa) a rendere effettiva
l’uguaglianza davanti alla legge dei cittadini e delle
cittadine.
Qualcuno sui social ha scritto che è la seconda rivoluzione
francese e in effetti sembra così, considerando che la Francia
è considerata un paese cattolico al pari dell’Italia o della
Spagna. E’ evidente la differenza che separa gli italioti
dagli altri paesi: oltre confine, nonostante le divergenze di
opinioni, idee e visioni della vita, si mette al primo posto
la civiltà e il rispetto delle persone e dei diritti civili,
qui invece ogni pretesto è buono per impedire ad altri
cittadini e cittadine di essere considerati/e uguali.
Ma a chi fanno paura gay e lesbiche?
Alla chiesa cattolica si penserà subito. Eppure pare che ne
conti molti, forse moltissimi al suo interno, consacrati e
non. Ai politici di destra allora. In molti paesi civili che
concedono diritti civili anche loro li hanno garantiti, senza
alcuna discriminazione per orientamento sessuale (e in alcuni
casi per identità di genere).
Forse il popolino etero-cattolico teme che dare un diritto
agli omosessuali significhi distruggere la famiglia, ma a ben
ragionare mi sembra che faccia già abbastanza da sè, tra
cornificazioni multigenerazionali, abusi su minori (non
necessariamente sessuali, ma anche si), femminicidi come se
piovesse e attività sessuali extra-matrimoniali con escort
(transessuali o meno). Si dice che anche molti politici
avversi al matrimonio paritario siano habituè di certi
ambienti e pratiche “zezzuali”. E ciò nonostante basta
proclamare che il matrimonio è solo tra uomo e donna e che i
bambini hanno bisogno di un padre e di una madre per essere
automaticamente ripuliti e riabilitati socialmente e
vaticanalmente (non è una parolaccia, anche se potrebbe
sembrare così). I buoni non stanno sempre e solo da una parte
e neanche i cattivi ovviamente.
E’ sconvolgente assistere a scene di una violenza inaudita da
parte di chi possiede già un diritto e protesta perchè altri
possano finalmente ottenerlo, in virtù di spiegazioni prive di
logica e scientificità, supportate solo dalla paura immotivata
di chi ama (e non scopa e basta) qualcun* del proprio sesso.
Ancora di più lo è se si pensa che passare da questo tipo di
violenza a crimini d’odio (omofobico) il passo è veramente
breve. Molto più breve di quanto possiamo immaginare.
Purtroppo.
Manuale di continenza
giovani omosessuali
per
Risale a pochi giorni fa la pubblicazione degli atti di un
seminario dell’associazione Agesci (l’associazione degli scout
cattolici) tenutosi nel novembre 2011: “Omosessualità: nodi da
sciogliere nelle comunità dei capi. L’educazione tra
orientamento sessuale ed identità di genere”.
Tali atti dovrebbero costituire le linee guida dell’Agesci nei
confronti dei capi scout omosessuali. Una specie di manuale di
bon ton per giovani omosessuali? una di quelle cose per
impedirgli di nuocere ai più piccoli?
Relatori dell’incontro sono un
morale all’Università Pontificia
interventi entra nel campo della
psicoterapeuti che si interrogano
capo gruppo e ragazzi scout.
prete docente di teologia
di Roma (ma che con i suoi
psicologia) e due psicologi
soprattutto sulla relazione
Il seminario dovrebbe essere un luogo di confronto e scambio
in cui gli psicologi, consapevoli della responsabilità sociale
attribuita loro dal codice deontologico, dovrebbero agire per
dare un’informazione scientificamente fondata al di là dei
pregiudizi, e finalizzata a promuovere il benessere delle
persone indipendentemente del loro orientamento sessuale.
E invece è stato invece il trionfo dell’autoreferenzialità e
dei pregiudizi che si trasformano in assunti teorici, buone
(secondo i relatori) prassi in campo educativo e allarme
clinico nei confronti di ragazzi che si scoprono o dichiarano
omosessuali. Il tutto ovviamente in un’ottica eterocentrista,
senza mai porsi nel punto di vista della persona omosessuale.
Le conclusioni del seminario sono talmente sconcertanti da
richiamare
l’attenzione
delle
principali
testate
giornalistiche nazionali, la Repubblica.it gli dedica
addirittura DUE ARTICOLI. (oppure scarica in .pdf: RepubblicaAGESCI e omosessualità)
Ecco alcune delle affermazioni del prete che non hanno
ricevuto nessuna rettifica da parte degli psicologi presenti
al seminario e co-autori degli atti dello stesso:
“Le persone omosessuali, in linea generale, hanno dei problemi
non solo sul piano sociale, ma anche con loro stesse”.
Ma ci chiediamo: vuol dire che le persone eterosessuali non
hanno problemi? Quando l’omosessualità è stata tolta dal
novero delle malattie mentali è stato statisticamente
dimostrato che la popolazione omosessuale non soffre di
disturbi o problemi psicologici in maniera differente (di più
o di meno) da quella eterosessuale. Gli esperti psicologi
intervenuti al seminario non lo sanno? Perché non l’hanno
detto?
Inoltre, come dimostrano gli studi contemporanei sul minority
stress e sulla resilienza (Meyer, 2003; Lingiardi, 2007;
Chiari, Borghi, 2009), le minoranze sociali non sono composte
da persone passive, prive di risorse o incapaci di reagire
allo stess dell’appartenere ad una minoranza.
Altra affermazione del prete che sorprende per la sua
componente pregiudiziale:
“Le persone omosessuali adulte nel ruolo di educatore
costituiscono per i ragazzi loro affidati un problema
educativo”.
Dunque gli omosessuali costituirebbero un problema educativo
per partito preso? A noi risulta che le moderne teorie
pedagogiche e di psicologia dell’educazione abbiano indicato
il peso di ben altre variabili nella valutazione della
capacità educative. L’orientamento sessuale dell’educatore non
c’entra proprio!
Ma seguiamo il ragionamento del docente che anche in questo
caso non muove nei due psicoterapeuti nessun bisogno di
controinformazione, precisazione, riferimento a modelli
scientifici contemporanei:
“Il capo trasmette dei modelli e i capi che praticano
l’omosessualità, o che la presentano come una possibilità
positiva dell’orientamento sessuale, costituiscono un problema
educativo.”
Ecco spuntare l’ennesimo pregiudizio: è di per sé problematico
se l’educatore omosessuale si accetta per quello che è e lo
dichiara ai ragazzi. Essendo un modello per i ragazzi si
lascia intendere che potrebbe avere dunque un’influenza sul
loro orientamento sessuale… peccato che nessuno studio
scientifico abbia mai dimostrato che i minori a contatto con
adulti omosessuali diventino con più probabilità essi stessi
omosessuali. Poi, uscendo da una prospettiva eterocentrista,
ci chiediamo allora perché i nostri fratelli, figli, amici
omosessuali non siano diventati eterosessuali visto il
contatto con i loro genitori e tanti eterosessuali nella loro
infanzia e adolescenza.
Ultimo punto: cosa fare dunque se un giovane scout si scopre
omosessuale? Qui c’è da preoccuparsi seriamente, secondo i
relatori. Il sacerdote afferma, infatti:
“Mi chiedo però, cosa fare se il ragazzo o la ragazza presenta
in diversi modi tendenze omosessuali in età rover/scolte?
Secondo me bisognerebbe parlare con i genitori e invitare un
esperto con cui consigliarsi. In linea generale uno psicologo
dell’età evolutiva o ancora meglio un pedagogista”.
Insomma un caldo invito a rivolgersi a uno psicologo o ad un
pedagogista (non c’è molta differenza secondo il sacerdote),
per il semplice fatto che un ragazzo scout si dichiari
omosessuale. Anche qui si dà per scontato che il ragazzo o la
famiglia non abbiano le risorse per far fronte e gestire un
orientamento sessuale non maggioritario visto come qualcosa in
sé di problematico.
Gli interventi dei due psicologi psicoterapeuti sono molto
densi, a tratti molto ambigui e difficili da interpretare.
Riconoscono che l’omosessualità non sia una malattia, ma allo
stesso tempo non mettono sullo stesso piano l’educatore
eterosessuale e quello omosessuale, sottolineando in maniera
eccessiva dal nostro punto di vista la necessità di una
prudenza nel dichiararsi ai ragazzi. Questo in contrasto con
gli orientamenti teorici e clinici più recenti (si veda, per
esempio, M. Graglia, Omofobia. Strumenti di analisi e di
intervento, 2012) che vedono nella visibilità in ambito
familiare, lavorativo ma anche educativo delle persone
omosessuali un fattore di protezione da problemi psicologici
e, quindi, una condizione di benessere, sia personale che
comunitario. Insomma, se non si lavora sulla visibilità, la
trasparenza, il contrasto all’omertà si rischia di generare
malessere, negli individui e nei gruppi.
A noi di AltraPsicologia piace metterci dall’altra parte,
ossia di quei preadolescenti e adolescenti che si scoprono
omosessuali e che possono ricevere un aiuto nel riconoscersi
in quello che sono (senza negarlo) proprio grazie allo
svelamento rispettoso di persone a loro vicine, come i capi
scout. Allo stesso modo il coming out dei capi insegna ai
ragazzi eterosessuali la legittimità ad essere lesbica o gay,
prevenendo forme di omofobia e bullismo omofobo.
Quindi non allarme clinico per i ragazzi che si dichiarano
omosessuali, ma prevenzione e contrasto dell’omofobia per
rendere la società più accogliente nei confronti di tutte le
differenti identità sessuali.
Eh sì, le nostre linee guida, sarebbero proprio diverse…
Ma ancora c'è da riparare?
Sì, gli omofobi!
Giusto qualche settimana fa, esattamente sabato 7 novembre, si
è tenuto a Roma un convegno internazionale su “Omosessualità e
Psicoterapie”, organizzato dalla II Scuola di specializzazione
in Psicologia clinica della Facoltà di Psicologia 1 de La
Sapienza.
Convegno straordinario, relazioni molto interessanti, domande
a volte provocatorie. Tanta tanta gente e molta di più quella
che è rimasta fuori perché i posti erano già esauriti.
Si parla di 1500 richieste. E questo significa che il tema
Omosessualità e Psicoterapia è molto caldo e fa gola.
Quasi esclusivamente psicologi (ha collaborato alla
preparazione anche l’Ordine degli Psicologi del Lazio),
educatori, qualche suora.
Tra i relatori nomi conosciuti come Rigliano, Drescher,
Bartlett, Lingiardi, Pietropolli Charmet e Cantelmi, quel
Cantelmi già tirato in ballo a dicembre 2007 per via
dell’articolo di Davide Varì pubblicato su Liberazione, in cui
il giornalista affermava di essersi finto gay per scoprire chi
(a Roma) propone terapie riparative.
Non mi interessa riparlare di quell’episodio, che tanto
clamore ha suscitato, quanto dello status quo ad oggi dei
cosiddetti SOCE (Sexual Orientation Change Efforts) che il mio
inglese non perfetto traduce in Tentativi di modifica
dell’orientamento sessuale. Termine che racchiude teorie e
pratiche più o meno scientifiche e non.
Bene, ad agosto di questo anno la “Task Force on Appropriate
Therapeutic Responses to Sexual Orientation” ha presentato
all’APA (American Psychological Association) un report sul
lavoro di analisi e studio di quanto finora pubblicato sulla
possibilità di modificare l’orientamento sessuale con
interventi di varia natura, psicoterapeutici certo, ma anche
inerenti la fede, credo esclusivamente cattolica o quanto meno
cristiana.
In questo papello di roba (130 pagine) questo gruppo interno
all’APA afferma che:
1.
Pochi studi condotti con rigore scientifico possono
essere usati per rispondere a domande in merito alla
sicurezza, efficacia, beneficio o danno dei SOCE.
2.
Solo 9 approcci “terapeutici” si basano su una
credibile teoria scientifica, le cui idee sono state
discreditate dall’evidenza o dall’obsolescenza. Ci sono
numerose evidenze scientifiche che l’omosessualità di per sé
non è un disturbo mentale e tante altre teorie alternative sul
genere e l’orientamento sessuale che concordano con questa
evidenza.
3.
Alcune forme di Soce sono religiose, non basate su
teorie valutate scientificamente.
4.
I SOCE possono ridurre l’attrazione sessuale
omodiretta o incrementare l’etero diretta. Non è possibile
cambiare l’orientamento sessuale, ma alcuni individui hanno
modificato la loro identità sessuale (Affiliazione a gruppi,
auto definizione) e altri aspetti della propria sessualità (ad
esempio valori e comportamento).
5.
Molti di coloro che pur avendo sperimentato un SOCE
non hanno avuto i risultati che si aspettavano (cambiamento
dell’orientamento sessuale) hanno riportato un abbassamento
dell’autostima, presenza di ansia, depressione, idee
suicidarie, vergogna, senso di colpa e perdita di speranza.
Consigli per gli acquisti
Il gruppo di lavoro evidenzia che:
a)
Un cambio duraturo dell’orientamento sessuale come
risultato di un SOCE è improbabile e alcuni partecipanti hanno
subito danni da questo tipo di interventi;
b)
L’identità sessuale (es. omosessuale) e non
l’orientamento sessuale possono cambiare con la psicoterapia o
gruppi di supporto o eventi della vita.
c)
I clienti hanno benefici da approcci che enfatizzano
l’accettazione, il supporto e il riconoscimento di importanti
valori e preoccupazioni.
Ora io mi chiedo come mai in Italia:
Alcuni terapeuti considerati “soft” continuano ad
effettuare terapie riparative anche se non esplicitate,
andando contro organizzazioni internazionali quali ad
es. l’OMS.
Non esistono linee guida per gli psicologi che lavorino
con clienti omosessuali, bisessuali o transgender. Sto
preparando io un corso in tal senso, ma io non sono
nessuno mentre sarebbe “carino” che fossero gli Ordini a
darsi una mossa, soprattutto il CNOP. Di fatto ad oggi
l’unico Ordine che ha un gruppo di ricerca e studio sul
genere e l’orientamento sessuale e ha già elaborato
delle linee guida è l’Ordine campano.
E gli altri ?
Dormono. Come hanno dormito finora tutti (Ordini, psicologi,
psicoterapeuti, psichiatri, Associazioni di psicologi,
sindacati di psicologi, ecc).
Molto grave è stato l’affossamento parlamentare del progetto
di legge dell’On. Concia generalmente conosciuto come “antiomofobia”.
Il decreto parlava di inserire tra le circostante aggravanti
comuni previste dall’art. 61 del codice penale le finalità
inerenti l’orientamento sessuale.
Qualcuno di voi saprebbe definire cos’è
sessuale? Immagino di si. Io sicuramente.
l’orientamento
Ebbene, il decreto è stato affossato per una pregiudiziale di
incostituzionalità che riconosce nel considerare un aggravante
di reato per finalità inerenti l’orientamento sessuale
addirittura una violazione del principio di uguaglianza
sancito dall’art. 3 della Costituzione.
Mi spiego meglio.
Se io gonfio di botte una persona omosessuale in quanto
omosessuale in realtà vìolo il principio di uguaglianza
perchè, poichè non possiamo sapere se io mentre gonfiavo di
botte quel gay lo facevo veramente perchè era gay o per altri
motivi, questo avrebbe determinato che lui/lei avrebbe avuto
(se la legge fosse stata approvata) una protezione
privilegiata rispetto a chi subisce violenza tout court.
E questo perché manca una definizione di orientamento sessuale
né è stato possibile rinvenirlo nell’ordinamento penale (e te
credo, non ci sono leggi che lo citano!) per cui
“l’espressione è estremamente generica in quanto può indicare
fenomeni specifici come l’omosessualità oppure, più in
generale ogni “tendenza sessuale” comprendendo l’incesto,
pedofilia, zoofilia, sadismo, necrofilia, masochismo,
eccetera.”[Tratto testualmente dal documento originale].
Eccetera? Ma stiamo scherzando?
Si
gioca
sull’ignoranza
per
equiparare
l’omosessualità
(variante naturale dell’orientamento sessuale umano e animale)
con parafilie di ben altra natura?
Dov’era il CNOP? Dov’erano gli altri Ordini? Dov’erano tutti
gli psicologi e psicoterapeuti che si riempiono la bocca di
paroloni
quali
gay-friendly,
omofobia,
omofobia
interiorizzata, e poi non prendono mai posizione in situazioni
gravissime come questa?
O peggio ancora gli psicologi o gli psichiatri habituè di
salotti televisivi che spesso fanno solo confusione e
raramente dissipano la nebbia che tutti hanno sulle tematiche
LGBT.
Magari confondendo orientamento sessuale con identità di
genere!
E menomale che siamo psicologi e non il panettiere sotto casa…
Eppure i nostri clienti omosessuali si chiedono come mai
nessun “esperto” sia intervenuto a chiarire la posizione della
comunità scientifica, a dichiarare pubblicamente una volta per
tutte che le persone omosessuali NON sono malate, non sono
pericolose, non sono infettive, non devono essere curate, né
dalla loro omosessualità né dalla loro omofobia
interiorizzata, ma gli unici veri malati da curare restano
ancora una volta gli omofobi.
Dr. Paola Biondi
Psicologa psicoterapeuta
Psicologiagay.com
A proposito di Omosessualità,
Credenze Religiose, Modello
Gay e Psicoterapia
Intervista a Tonino Cantelmi
(Psichiatra; Presidente della Associazione degli Psicologi e
Psichiatri Cattolici)
Orientamento sessuale e patologia
L’orientamento sessuale ha una componente più genetica che
culturale?
Sfortunatamente su questo abbiamo pochi dati; abbiamo un certo
numero di studi, un paio molto interessanti che riguardano
coppie di gemelli omozigoti adottati e che sono vissuti in
situazioni familiari diverse, e il tasso di concordanza in
questi studi è interessante perché sembrerebbe attribuire un
certo rilievo genetico al tema della omosessualità. Però sono
davvero pochi questi studi. Immaginiamo che sulla schizofrenia
non sappiamo quanto pesi realmente il dato genetico
costituzionale e abbiamo migliaia e migliaia di studi, e non
siamo in grado di definirlo. Per quanto riguarda
l’omosessualità il peso della genetica con 4 o 5 studi – per
quanto un paio ben fatti – è improvvisato. E su questo ci
sarebbe da discutere. Per quanto riguarda l’omosessualità mi
sembra che il contributo degli studi che evidenziano un
aspetto psicogenetico nello sviluppo dell’orientamento
omosessuale siano un po’ più consistenti in questo momento.
Tuttavia, come tutti possiamo sapere, direi che su questo non
abbiamo idee chiare. Nessuno oggi può dire “l’orientamento
omosessuale è legato a questo o a quest’altro”.
Quale posizione assumeresti verso genitori che, venendo a
sapere dell’omosessualità della propria figlia o del proprio
figlio, ne sono spaventati e angosciati e le chiedono una
terapia? Come sarebbe più corretto rispondere loro?
Credo che i genitori possano interrogarsi su questo, o debbano
interrogarsi su questo. Anche qui non può esistere una
risposta preconfezionata e ideologica che dia una definizione.
Ancora spetta ai genitori la competenza della educazione,
dello sviluppo, dell’accoglienza del figlio, della capacità di
farlo crescere. Probabilmente ai genitori va demandata una
analisi più attenta delle dinamiche familiari per cercare di
capire bene da un lato le loro difficoltà, ma dall’altro anche
se c’è una qualche possibilità di aiutare le persone a
crescere nel modo migliore possibile. Voglio dire che non può
esistere una risposta preconfezionata. Mi lascia molto
perplesso che ci siano risposte preconfezionate. Credo che la
psicoterapia non possa non fare una decodifica della domanda.
L’omosessualità è un comportamento sessuale patologico? Per
quali ragioni si diventa omosessuali?
Credo che la comunità scientifica in qualche modo abbia
definito l’orientamento omosessuale, non tanto i comportamenti
(anche i comportamenti eterosessuali potrebbero essere
patologici – non ha nessun senso questo discorso), non
espressivo di psicopatologia di per sé. L’ICD-10
(International Classification of Diseases, 10th Revision[1],
ndr) specifica che l’orientamento sessuale in genere di per sé
non costituisce una condizione che richiede una attenzione di
tipo terapeutico. Su questo c’è un sostanziale accordo.
E perché si diventa omosessuali?
Ci sono studi genetici interessanti, ma che al momento non
sono in grado di definire il peso della genetica. Ci sono
studi sulla psicogenetica, sullo sviluppo e sulla influenza
dell’ambiente, di alcune dinamiche, ma sostanzialmente credo
che nessuno sia in grado oggi di dire perché si sviluppa un
orientamento omosessuale.
Terapia riparativa
Ha senso impostare una terapia specifica per persone
omosessuali e in cosa consisterebbe la sua specificità?
Credo che non abbia nessun senso. Non esistono terapie
specifiche per gli omosessuali, per eterosessuali o
bisessuali.
Esistono dei pazienti, esistono delle domande di terapia,
esistono delle attività del terapeuta che deve decodificare
questa domanda, esiste una sofferenza, ed esiste la
possibilità di aiutare questa sofferenza tenendo conto,
ovviamente, e per me è il dato più importante, del codice
valoriale dei pazienti. È su questo che secondo me occorre
aprire il dibattito.
Cosa pensi delle teorie di Joseph Nicolosi (del Narth[2], o di
organizzazioni che a queste si ispirano come Obiettivo
Chaire[3]) e della sua proposta di terapia riparativa?
Il termine “riparativa” ha una lunghissima tradizione in
ambito psicoanalitico, (c’è una grossa letteratura sul termine
“riparativo”), però sento il termine “riparativo” come il
termine “affermativo” di per sé ideologici.
Esistono dei modelli di psicoterapia che sono convalidati, che
sono molto pochi, come per esempio le terapie cognitive o
quelle interpersonali. Sarebbe interessante che l’Ordine degli
Psicologi affrontasse in maniera forte e scientifica il
concetto di validazione della psicoterapia. Credo che
pochissimi approcci psicoterapeutici abbiano una sufficiente
validazione. Non esiste una psicoterapia né affermativa né
riparativa, esiste la psicoterapia, la domanda di
psicoterapia, il lavoro del terapeuta, la sofferenza del
paziente. Le sento così ideologiche così lontane, così
antiche. Anche così noiose.
Al di là del giudizio sul termine “riparativa”, come ti poni
rispetto a Nicolosi?
Nicolosi è uno psicoanalista, e sviluppa il suo lavoro
all’interno della psicoanalisi. Pubblica con molta onestà
quello che lui fa; lo dice con chiarezza. Negli Stati Uniti ci
sono stati lunghi dibattiti. Oggi è un interlocutore molto
riconosciuto; io sento due differenze rispetto alla sua
posizione.
Intanto l’approccio psicoanalitico, essendo io cognitivista. E
poi credo che lui soffra di alcuni aspetti della
americanizzazione della psicopatologia, quindi di una sorta di
semplificazione, di una causalità molto semplificata.
Probabilmente in Italia sono arrivati i lavori più
divulgativi, quindi forse abbiamo avuto un accesso ridotto;
sostanzialmente lo sento molto debole come contributo. Di cui
tener conto, ma debole, sia come impostazione psicopatologica,
che come trattamento psicoterapeutico. Però ne capisco alcuni
aspetti: la tradizione psicoanalitica ha molto lavorato sul
concetto di “riparativo” e lui probabilmente risponde a questa
tradizione.
Psicoterapia e scienza
La psicoterapia è più vicina alla scienza o ad una disciplina
umanistica?
La psicoterapia dovrebbe essere una tecnica validata di
intervento terapeutico. E quindi dovrebbe rispondere a criteri
di validazione. Io sfido tutti coloro che in Italia si
occupano di psicoterapia a dimostrare come lavorano, se hanno
pubblicato studi sul loro lavoro, se ci sono studi di
validazione, se hanno seguito studi secondo le Good Clinical
Practice (linee guida etiche e scientifiche accettate a
livello internazionale, ndr), se il loro modello di
riferimento, in qualche modo, ha delle prove di efficacia.
Scommetto che gran parte dei quasi 500 modelli di psicoterapia
che attualmente vengono proposti non supererebbero oggi quello
che si richiede per la medicina basata sulle evidenze (e che
trasportato in psicoterapia dovrebbe essere una psicoterapia
basata sulle evidenze).
Quindi la psicoterapia è una scienza o dovrebbe aspirare alla
metodologia scientifica?
Credo che affondi ancora le radici in un aspetto umanistico,
un po’ filosofico. Che però dietro alla prassi terapeutica ci
sia una visione antropologica è inevitabile, e sarebbe sciocco
non pensarlo. Ci vogliono due tipi di riflessione. Una sulla
metodologia che deve rispondere alle esigenze di una scienza
moderna. Cosa che la maggior parte della psicoterapia non fa,
né in Italia né all’estero. E come diceva Hillman[4], “cento
anni di psicoterapia e l’uomo è sempre più infelice”. La
psicoterapia dovrebbe fare uno sforzo di riflessione su se
stessa. Uno sforzo di riflessione metodologica imponente.
In questo senso credo che tutta l’area del cognitivismo sia
un’area molto evoluta da questo punto di vista. Ma credo che
tutta la psicoterapia debba fare questo passaggio. E andare
verso il concetto di psicoterapia,
psicoterapia X, Y o Z.
piuttosto
che
di
Un’altra riflessione riguarda l’esplicitazione dei modelli
antropologici di riferimento.
Psichiatria e cattolicesimo
Sei presidente della Associazione Italiana Psicologi e
Psichiatri Cattolici (AIPPC[5]). Che senso ha definire la
psichiatria “cattolica”? Che differenza ci sarebbe tra uno
psichiatra cattolico e uno psichiatra ateo (o appartenente ad
altre religioni: indù o buddista)? C’è incompatibilità di
cura? Se la psichiatria è scienza (è una o tende ad essere una
– la fisica cattolica sarebbe una disciplina ben strana…) come
si concilia con una connotazione religiosa (che è più di una,
oppure esiste una sola Religione)?
Nessuna differenza. Non esiste né una psichiatria cattolica,
né una psicologia cattolica, né una psicoterapia cattolica. Lo
abbiamo affermato scritto e pubblicato. Come al solito le
persone che non hanno voglia di leggere e approfondire
banalizzano in questo modo. Esistono gli psichiatri cattolici,
ma non esiste una psichiatria cattolica. La psichiatria è
quella che è. È una scienza con i propri statuti, con una
propria epistemologia, un proprio dibattito interno.
Non è allora superfluo definire cattolico uno psichiatra?
Usando le parole di Leonardo Ancona (Cattolici e psiche.
Polemiche. Parla lo Psichiatra Leonardo Ancona, “la Repubblica
R2”, 14 gennaio 2008): “Perché qualificare degli operatori
psicologici o psichiatrici come cattolici?”. E, a proposito di
valori religiosi (non solo cattolici): “Se si rispetta
l’inconscio, la verità viene sempre fuori”. Ancona afferma di
essere stato sempre laico come terapeuta.
L’Associazione è nata con un obiettivo ben preciso che è
quello di contribuire al dibattito tra scienze, in questo caso
tra due scienze: la teologia (che è una scienza, non è la
fede), la teologia è una scienza con un proprio statuto
epistemologico molto preciso, e la psicologia. Dopo il
Concilio Vaticano II nella Chiesa cattolica si è sviluppato un
dibattito tra scienze, e l’Associazione è nata con l’obiettivo
di favorire questo dibattito, un dibattito che vanta qualcosa
come circa 70-80mila pubblicazioni, quindi un dibattito serio.
Che non ci azzecca con tutto il discorso banalizzante di una
psichiatria cattolica. Io sono contro ogni sincretismo. Uno
degli obiettivi dell’Associazione è anche di fermare i
sincretismi nascenti, persone che mettono insieme in modo
sbagliato dimensioni che sono assolutamente distinte. Allora
noi abbiamo criticato duramente quella che è stata chiamata la
Cristoterapia, che è una psicoterapia che invece autodefinisce
cristiana. Noi sentiamo che non è corretto. Sosteniamo che
ogni scienza abbia il proprio statuto epistemologico, ma
immaginiamo un dibattito tra scienze diverse. Per esempio, tra
psicologia, antropologia, antropologia filosofica, e teologia.
La teologia è la scienza più antica, una delle scienze più
antiche, con aspetti epistemologici molto interessanti. Questo
è l’obiettivo dell’Associazione, non fornire una psicoterapia
cattolica. Rimango stupito che questo non si capisca al volo!
Ancona è uno psichiatra di grande intelligenza e di grandi
capacità, ma anche lui cade nel tranello della giornalista
(Luciana Sica, ndr) che gli fa delle domande piuttosto
inappropriate. Ci ho parlato e mi ha detto: “io ho fatto una
intervista telefonica, quindi non potendo specificare bene,
non si è capito tutto benissimo”.
In caso di conflitto tra il Magistero e il codice
deontologico, quale dei due seguire? A proposito di
omosessualità, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:
“La sua genesi psichica [della omosessualità] rimane in gran
parte inspiegabile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che
presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la
Tradizione ha sempre dichiarato che «gli atti di omosessualità
sono intrinsecamente disordinati». Sono contrari alla legge
naturale. Precludono
sono il frutto di
sessuale. In nessun
persona è educata a
proprio orientamento
lo viva male. Quanto
all’atto sessuale il dono della vita. Non
una vera complementarità affettiva e
caso possono essere approvati.” Se una
questo Magistero, quando si accorge del
sessuale omosessuale è comprensibile che
può pesare questa condanna del Magistero?
Se dovessimo entrare nel Magistero della Chiesa cattolica
scopriremmo delle cose interessanti, anche qui ci sono grandi
banalizzazioni. Forse non è l’ambito adatto. Però esiste un
documento del Magistero che si chiama “Persona humana” che
credo possa superare tutte queste contrapposizioni e questi
dibattiti. Il Magistero della Chiesa cattolica regola il
comportamento e l’aspetto morale di persone che si riconoscono
come credenti. Lasciamo la liberà ai credenti di potersi
confrontare con il Magistero della Chiesa cattolica; di
poterlo accettare oppure no.
La teologia, che non è un tema di fede ma è una scienza, sulla
omosessualità ha 30-35 posizioni diverse, da quelle più
“restrittive” a quelle più ampie. Ci sono contributi enormi
proprio perché è una scienza. La scienza ha un compito. Il
Magistero, la fede, ha un altro compito. Allora io credo che i
credenti debbano essere liberi di scegliere i propri codici
valoriali e di improntare i propri comportamenti a questi
codici e che nessun terapeuta, e neanche l’Ordine degli
Psicologi, debba permettersi di criticare questo.
Conflitto tra omosessualità e credenze religiose
Rispetto al conflitto tra essere credente e omosessuale (come
causa di un senso di colpa e un profondo disagio implicato
dalla condanna verso l’omosessualità): quanto l’essere
cattolico può essere responsabile del conflitto?
L’essere credente non è un dato scontato. La fede può essere
uno strumento che viene usato in modo improprio. Qui sta
l’abilità dello psicoterapeuta. Noi chiediamo che gli
psicoterapeuti italiani (in altri Paesi è molto più chiaro, in
Italia paradossalmente molto meno, e lo si vede da quanto
dichiarato dall’Ordine degli Psicologi in più riprese)
rispettino fino in fondo i valori dei nostri pazienti
credenti. E questo non avviene. Riceviamo decine di denunce di
pazienti che aderiscono a dei movimenti ecclesiali e vivono
una dinamica di fede molto profonda che si intreccia
profondamente con la loro vita, che questa dinamica di fede ha
un senso e un significato, e che non può essere semplicemente
liquidata come psicopatologica o irrisa o trascurata. Questi
pazienti non vengono rispettati. Questo è doloroso e ingiusto.
Diceva Risè[6], in un articolo molto bello secondo me, che
l’ideologia determina quali sono le sofferenze da ascoltare e
quali no. Allora la sofferenza di un credente che ha delle
difficoltà non deve essere ascoltata, la sofferenza di un
altro tipo invece deve essere ascoltata? Questo è veramente
ingiusto. Io credo che gli psicologi siano chiamati a fare un
passo avanti: non si può più trascurare la dimensione
valoriale dei nostri pazienti.
Questo vale per tutte le religioni, non solo per il
Cattolicesimo? Si può creare un conflitto tra terapeuta
cattolico e paziente induista o protestante (appartenente a
una religione diversa)?
Credo di no. Al contrario: un terapeuta che abbia anche una
dimensione di fede, che sia in qualche modo capace di
comprendere questo (a me è capitato di avere pazienti di altre
religioni, un musulmano, persino un paziente cinese con tutta
la sua religiosità; molti pazienti ebrei).
Allora l’importante è il valore religioso, non la religione?
Tutti i codici valoriali devono essere rispettati. Anche un
paziente ateo ha la sua struttura valoriale di riferimento.
Ma allora un terapeuta laico (nell’esercizio della
professione, poi nella sua vita privata sono affari suoi),
quindi rispettoso di tutte le religioni, che accogliesse tutti
senza discriminazione, funzionerebbe bene o addirittura
meglio?
Quello che noi chiediamo infatti (come Associazione) è che
tutti gli psicoterapeutici siano laici. Il problema è che ci
sono terapeuti che sono sacerdoti di ideologie, che è molto
diverso. Ci sono degli studi molto interessanti che dimostrano
come (negli Stati Uniti, per esempio, Browning[7] ha condotto
degli studi sul rapporto tra codici valoriali e pazienti e
terapeuti) si sviluppino le psicosette. Perché pazienti anche
intelligenti, capaci e che hanno risorse e potrebbero accedere
a trattamenti adeguati, invece ricorrono a psicosantoni? Uno
studio interessante dimostra che la maggior parte dei pazienti
ha una credenza religiosa (negli Stati Uniti parliamo di varie
credenze religiose, non solo il cattolicesimo) e la maggior
parte dei terapeuti, nella propria prassi, irride la credenza
religiosa nei pazienti. Tant’è che negli Stati Uniti un lavoro
evidenzia come questo determini un senso di incomprensione e
scoraggiamento dei pazienti, e la conseguente ricerca di
psicosantoni. Come Associazione contestiamo proprio questo:
non vogliamo psicosantoni, vogliamo che un paziente possa
andare da un qualunque terapeuta e che nessun terapeuta sia
sacerdote di nessuna ideologia, tantomeno di quella cattolica.
Noi chiediamo una laicità assoluta, che credo invece non ci
sia.
“Modello gay”
In una delle tue risposte alla inchiesta di Davide Varì, Gli
ho detto: sono gay. Mi hanno risposto: la sua è una malattia
leggera, possiamo curarla, “Liberazione”, 23 dicembre 2007
(Dichiarazioni di Tonino Cantelmi, “DIRE”, 29 dicembre 2007; o
anche in Se gli psicoterapeuti non rispettano i valori
religiosi, “Avvenire”, 6 gennaio 2008) hai parlato di “modello
gay”. In cosa consiste? Non è riduttivo parlare di “modello
gay” (il dominio è troppo ampio, complesso ed eterogeneo)?
Quale sarebbe possibile definire, d’altra parte, il “modello
eterosessuale”? Che differenza c’è tra orientamento e
comportamenti sessuali?
Un conto è l’orientamento sessuale omosessuale, che per noi è
l’attrazione verso persone dello stesso sesso (questa è la
definizione di orientamento omosessuale). Un conto è che
questo modello possa essere vissuto ed esplicato all’interno
di un altro contenitore che è più socioideologico, che
possiamo dire che oggi corrisponde a quello che chiamiamo
“modello gay”. Non è detto che tutti i pazienti omosessuali
(con un orientamento omosessuale) si riconoscano in un modello
di espressione sociale della omosessualità che corrisponde
all’attuale modello gay.
La distinzione tra orientamento e comportamenti sessuali è
questa: la coincidenza tra orientamento omosessuale e modalità
gay di viversi l’orientamento omosessuale non è così scontata
come sembra. Benché l’aspetto gay sia quello che oggi prevale,
di fatto la maggior parte delle persone omosessuali non si
riconosce in quel modello. È chiaro che tra l’orientamento
sessuale e la modalità di esplicazione dell’orientamento ci
sono dei passaggi e che non tutti si riconoscono esattamente
in quel solo modo di essere omosessuali. Così come per gli
eterosessuali. Quando uno dice “orientamento eterosessuale”
non ha detto nulla.
Per questo ho domandato il significato di “modello gay”, non
riuscendo a capire cosa denotasse.
Sulla “neutralità” del terapeuta hai dichiarato (Il presidente
dell’Arcigay ascolti i miei pazienti, “Avvenire”, 10 gennaio
2008): “Non è forse più etico (ma direi semplicemente onesto)
dichiarare le premesse antropologiche ed i presupposti
epistemologici che sono dietro ogni modello terapeutico?”. Una
volta esplicitate le premesse, quanto e come incidono sulla
terapia e sul rapporto terapeutico?
Forse è un ragionamento più complesso di come è stato posto
adesso. Tutto l’apporto costruttivista dimostra che parlare di
neutralità del terapeuta (come asettico e neutro) è veramente
ingenuo. Inutile, perché il terapeuta porta inevitabilmente se
stesso nella terapia. Un terapeuta che abbia vissuto
esperienze drammatiche da un punto di vista affettivo, tenderà
necessariamente a selezionare le informazioni che vengono dal
paziente alla luce di una griglia, di una modalità di
osservazione che è la sua. D’altro canto quando noi osserviamo
qualcuno mettiamo a fuoco un punto. Gerarchicamente si
costruiscono nuove ipotesi. Se il terapeuta è comunque un
costruttore di conoscenza, è evidente che parlare di
neutralità tout court è ridicolo. È chiaro che esiste una
neutralità del terapeuta; ma la neutralità di cui parla Ancona
nell’intervista a “la Repubblica” è tutta un’altra cosa,
stiamo parlando di ben altro qui. Il terapeuta è dentro la
terapia, non è fuori, non è un osservatore ininfluente. Il
silenzio o la parola creano nuovi ordini. Questo significa che
non è tanto che io debba esplicitare le mie premesse
antropologiche o epistemologiche al paziente, che deve essere
trattato e curato, ma a me stesso. Devo essere in grado io di
maneggiare bene me stesso; debbo essere in grado di maneggiare
me stesso per poter in qualche modo aiutare un’altra persona.
Allora il problema non è tanto mettere dei cartelli e avvisare
il paziente che sta entrando in uno studio marxista-leninista
o in uno studio antropofisico o uno studio cattolico. Non è
questo il punto. È una responsabilità mia, a me stesso, in cui
più maneggio bene ciò che sono i presupposti antropologici,
filosofici, epistemologici che orientano il mio agire, più io
sono in grado di agire nel rispetto del paziente. Quelli che
agitano la neutralità sono quelli più inconsapevoli in
assoluto, sono quelli più pericolosi, quelli che fanno più
danno ai nostri pazienti.
Esiste un orientamento sessuale “naturale”? E qual è? E in che
senso “naturale”?
Quando si usa il termine “naturale” si usa già una dimensione
antropologica. Allora se vogliamo parlare di antropologia…
Un orientamento sessuale “sano”?
Quando diciamo che l’orientamento sessuale è naturale abbiamo
dato una connotazione su un piano antropologico (sulla quale
possiamo poi discutere). Non credo che questo sia l’obiettivo
della scienza. Per quanto riguarda ciò che è normale, sano (e
ciò che è patologico) c’è tanto da discutere. Per esempio
l’infedeltà di un eterosessuale, è patologica o non lo è?
Probabilmente non lo è, ma questo non implica il fatto che il
paziente non possa viversi male l’infedeltà. E che abbia il
diritto di decodificare il tema dell’infedeltà. Sulla
normalità e sulla patologia lo lasciamo a chi discute di
massimi sistemi. Oggi il problema che noi ci poniamo è un
altro, ed è la sofferenza delle persone. Come rispondiamo a
questa sofferenza? Speriamo di avere terapeuti intelligenti,
consapevoli, preparati che in qualche modo riescano a
rispondere alla sofferenza del loro paziente, nella misura in
cui hanno gestito bene la propria sofferenza. Tutto questo
tema dovrebbe rimandare ad un altro discorso, che è quello
della formazione degli psicologi e del psicoterapeuti quando
abbiamo a che fare con una incredibile percentuale (questo è
abbastanza scontato) di persone che si avvicinano alla
psicologia e alla psicoterapia in maniera inconsapevole, piene
di problemi e per risolvere eventuali loro problemi. Anche gli
psichiatri soffrono di questo: il tasso suicidario nella
categoria degli psichiatri, insieme a quello degli
anestesisti, è quello più alto di tutte le categorie dei
medici. Questo esprime varie cose: difficoltà, comunque tutti
ci portiamo dietro una serie di problematicità. Io credo che
sia importante che gli psicoterapeuti sappiano gestire le loro
problematicità, prima di mettere mano alla problematicità dei
pazienti.
A proposito del “rispettare il desiderio del paziente”: fino a
che punto è corretto rispettarlo e quando è giusto
contrastarlo? Esempio: una ragazza normopeso è afflitta perché
si sente grassa, magari soffre al punto da non uscire di casa;
chiede di essere aiutata a dimagrire, il suo desiderio è
dimagrire ancora (questo è il suo più grande desiderio).
Questa domanda merita un’analisi (e magari un rifiuto sul
contenuto)?
Se entriamo nella logica della discussione razionalista,
probabilmente ha bisogno di un filosofo. Non di uno psicologo.
Lo psicologo cosa fa? Aiuta la persona a recuperare un senso
di significato alla percezione di se stessa. Cosa significa
sentirsi grassa? A cosa rimanda il sentirsi grassa? Questo è
il punto, altrimenti non ha bisogno di uno psicologo. Va da
una amica che le dirà: “sei una imbecille perché ti vedi
grassa e non lo sei”, ma non le cambia la vita. Di cosa ha
bisogno? Non di una persona che si metta lì a discutere cosa è
giusto e cosa non è giusto, ma di una persona che sappia
decodificare questo in termini di significato e senso per la
persona. In fondo tutta la psicologia si sposta verso una
psicopatologia del significato oggi, se pensiamo,per esempi,
al costruttivismo ermeneutico. Altrimenti sarebbe come pensare
che lo psicologo possa avere dei criteri di normalità e di
giustizia e di saggezza che poi applica al paziente.
Lasciamolo fare ai filosofi, che stanno facendo tutti i
colloqui (consulenza filosofica, ndr), non certo agli
psicologi. La filosofia si propone alla sofferenza dell’uomo
d’oggi. Gli psicologi devono usare gli strumenti tecnici,
perlopiù validati, devono maneggiare bene se stessi e aiutare
il paziente a cogliere che cosa significa (nel caso specifico)
sentirsi grassa e questo che cosa determina in lei, ma secondo
percorsi di sviluppo e di viabilità che sono propri e che
appartengono alla struttura organizzativa della persona.
Lasciamo che la persona si sviluppi secondo le modalità
proprie.
Omofobia e matrimonio omosessuale
Quanto pesa l’omofobia e in che misura contribuisce al
malessere delle persone omosessuali?
Il termine “omofobia” è un termine che sento improprio. La non
accettazione e il non riconoscimento dell’omosessualità:
quanto questo aspetto possa essere problematico oppure fonte
di problemi? Ovviamente può essere fonte di grandissimi
problemi, il terapeuta deve saperlo e deve saperlo gestire.
Però non tutto ciò che è distonico può essere spiegabile in
termini di omofobia.
Qui abbiamo un sacco di studi che lo dimostrano (soprattutto
danesi e del nord Europa, società del tutto decattolicizzate,
quindi studi non influenzati da un aspetto di questo tipo).
Potrebbe essere improprio trascurare la problematicità
derivante dall’omofobia, ma potrebbe essere del tutto
ideologico e altrettanto improprio trascurare il fatto che
esiste una egodistonia che non necessariamente attinge la
propria costruzione sulla omofobia. Anche qui abbiamo bisogno
di terapeuti preparati, che non sposino necessariamente come
pregiudizio una delle due ipotesi, ma sia in grado di muoversi
all’interno delle due ipotesi. Che in qualche modo si
sovrappongono.
Che ne pensi del matrimonio omosessuale? Una richiesta giusta,
un capriccio oppure una manifestazione di malessere? Un non
riconoscimento giuridico potrebbe avere una ricaduta dal punto
di vista psichico (e il riconoscimento, viceversa, avrebbe un
effetto psichico positivo)?
Il tema del matrimonio omosessuale appartiene ai diritti,
all’aspetto giuridico. Se vengo sentito come psichiatra non ne
penso nulla. Quanto all’effetto di un riconoscimento giuridico
vedremo. Vedremo che ricadute in quelle società che ammettono
le varie forme di unioni omosessuali. Attiene al dibattito
politico e giuridico delle società. Non attiene a noi. Noi
come psicologi e psichiatri osserveremo, vedremo. Ci vorranno
molti anni per vedere questo. Vedremo se è fonte di problemi.
[1] http://www.who.int/classifications/apps/icd/icd10online
[2] www.narth.com
[3] www.obiettivo-chaire.it
[4]
James
Hillman
(http://en.wikipedia.org/wiki/James_Hillman).
[5] www.aippc.net
[6] Claudio Risè (http://claudiorise.blogsome.com).
[7]
Don
S.
Browning
(http://divinity.uchicago.edu/faculty/browning.shtml).