Percorsi per la didattica della storia, della filosofia e delle scienze

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Percorsi per la didattica della storia, della filosofia e delle scienze
Edoardo Puglielli
Percorsi per la didattica della storia,
della filosofia e delle scienze umane
MARX E L’ETÀ MODERNA
Società Filosofica Italiana
Sezione di Sulmona ‘Giuseppe Capograssi’
2015
Società Filosofica Italiana
Sezione di Sulmona Giuseppe Capograssi [online]
ISSN 2281-6569
novembre 2015
Edoardo Puglielli (1977) è docente di filosofia e scienze umane
In copertina: Sulmona, sciopero ferroviario I maggio 1920
«Ogni cosa oggi sembra portare in se stessa la
sua contraddizione. Macchine, dotate del
meraviglioso potere di ridurre e potenziare il
lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo
ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale
incantesimo trasforma le nuove sorgenti della
ricchezza in fonti di miseria. Le conquiste della
tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro
stessa natura. Sembra che l’uomo, nella misura
in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri
uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura
luce della scienza sembra poter risplendere solo
sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le
nostre scoperte e i nostri progressi sembrano
infondere una vita spirituale alle forze materiali e
al tempo stesso istupidire la vita umana,
riducendola ad una forza materiale»:.
Karl Marx
Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper» [1856]
«La storia è sì una serie dolorosamente
interminabile di miserie; il lavoro, che è la nota
distintiva del vivere umano, è diventato il
tormento e la maledizione della maggioranza
degli uomini; il lavoro, che è la premessa di ogni
umana esistenza, è diventato il titolo alla
soggezione del più gran numero degli uomini; il
lavoro, che è la condizione di ogni progresso, ha
messo le sofferenze, le privazioni, i travagli e i
patimenti del maggior numero degli uomini in
servizio della comodità di pochi. Dunque la
storia è un inferno; anzi potrebb’essere
rappresentata, un lugubre dramma, come la
tragedia del lavoro!»
Antonio Labriola
Discorrendo di socialismo e di filosofia [1897]
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La «schiavitù del salario»
«Con ciò veniva tolta anche l’ultima base a
tutta l’ipocrita retorica delle classi
possidenti, che affermavano esservi
nell’attuale ordinamento sociale diritto e
giustizia, eguaglianza dei diritti e dei doveri
e una generale armonia degli interessi; e
l’attuale società borghese, non meno di
quelle precedenti, veniva smascherata come
una grandiosa istituzione per lo
sfruttamento dell’enorme maggioranza del
popolo a opera di una piccola minoranza
sempre decrescente».
Friedrich Engels, Karl Marx [1878]
«Se le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra», aveva
affermato Aristotele, «i capi artigiani non avrebbero davvero
bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi» 1. Nell’età moderna i
telai vanno da soli e le cetre suonano senza citaristi, eppure servi e
padroni esistono ancora. Già Rousseau aveva denunciato che
«l’uomo è nato libero e dappertutto è in catene»2. E mentre gli
intellettuali organici alla nuova classe dominante vanno
presentando la modernità come epoca finalmente in grado di
garantire agli uomini quella libertà che sempre gli è stata negata,
Marx, da parte sua, dimostra che quella stessa società è ancora
fondata sullo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e che in
essa la schiavitù non si è affatto estinta.
Quella che Marx scopre è la «schiavitù del salario»3, una forma di
asservimento che impedisce agli uomini di condurre un’esistenza
davvero libera e autonoma e che accomuna il lavoratore moderno
agli schiavi delle epoche passate: «lo schiavo romano era legato da
catene al suo proprietario, il salariato è legato al suo da fila
invisibili. L’apparenza della sua autonomia viene mantenuta dal
costante variare del padrone individuale e dalla fictio juris del
Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 9.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale [1762], in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 279.
3 K. Marx, Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper» [1856], in Id., L’alienazione, a cura
di M. Musto, Donzelli, Roma 2010, p. 41.
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contratto»4. Osserviamo le cose più da vicino. Nel mondo
capitalistico-borghese, il lavoro, trasformato in merce, viene
venduto dal suo possessore al proprietario dei mezzi di
produzione. A prima vista sembra trattarsi di un libero accordo tra
le due parti: da cittadino giuridicamente uguale a tutti gli altri il
lavoratore decide liberamente di scambiare la sua merce (forzalavoro) in cambio di altra merce (salario). In realtà, dietro
l’apparenza Marx scopre che quella che pesa sul salariato non è
tanto una coercizione politica o giuridica (come avveniva nella
schiavitù del mondo antico e nella servitù del sistema feudale)
quanto una costrizione di natura esclusivamente economica.
Per non morir letteralmente di fame, infatti, il lavoratore moderno
deve necessariamente alienare la propria capacità lavorativa. Il
«libero» salariato moderno è «schiavo completo del mercato del
lavoro, poiché la forza lavorativa da lui venduta è l’unica cosa che
in realtà egli possiede, e che deve alienare per poter esistere» 5. La
differenza tra lo schiavo dell’epoca antica e il salariato moderno
risiede nel fatto che «la continuità del rapporto fra schiavo e schiavista
era assicurata dalla costrizione diretta di cui lo schiavo era vittima.
Il lavoratore libero è invece costretto ad assicurarla egli stesso,
poiché l’esistenza sua e della sua famiglia dipende dal continuo
ripetersi della vendita ai capitalisti della propria capacità
lavorativa»6.
Il proprietario dei mezzi di produzione, inoltre, si appropria dei
prodotti del lavoro pagando l’operaio con un salario che non
corrisponde affatto al valore dell’intera attività da egli svolta. Il
tempo lavorativo da questi prestato «include una determinata
quantità di lavoro non retribuito» (pluslavoro) che per il capitalista
costituisce «la fonte normale del suo guadagno» (plusvalore)7. Il
prezzo pagato per la forza-lavoro, in altre parole, viene tenuto
«entro limiti giovevoli allo sfruttamento capitalistico» e non
K. Marx, Il capitale. Libro I [1867], Editori Riuniti, Roma 1967, p. 629.
K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo [1941],
Einaudi, Torino 1979, pp. 235-236.
6 K. Marx, Il capitale, Libro I, capitolo VI inedito [1863-1864], in Id., L’alienazione, cit., p. 95.
7 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 600.
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corrisponde al tempo lavorativo realmente svolto (se così non
fosse non ci sarebbe profitto per il capitalista). «La gran bellezza
della produzione capitalistica», spiega Marx, «consiste nel fatto
ch’essa non solo riproduce costantemente l’operaio salariato come
operaio salariato, ma inoltre produce sempre una sovrappopolazione relativa
di operai salariati in proporzione dell’accumulazione del capitale. Così la
legge della domanda e dell’offerta del lavoro viene tenuta sul
binario giusto, l’oscillazione dei salari viene tenuta entro limiti
giovevoli allo sfruttamento capitalistico, e infine è garantita la tanto
indispensabile dipendenza sociale dell’operaio dal capitalista»8.
Il costo del salario, dunque, essendo soggetto come tutte le altre
merci alle leggi della concorrenza, tende automaticamente a
comprimersi, fino a corrispondere al «valore dei mezzi di sussistenza
necessari per la conservazione del possessore della forza-lavoro»9,
ovverosia al valore dei costi degli alimenti indispensabili al
mantenimento in vita del salariato e alla riproduzione della sua
capacità lavorativa. «Quello dunque che l’operaio salariato si
appropria con la sua attività gli basta soltanto per riprodurre la sua
nuda esistenza»10 e per non interrompere il ciclo produttivo:
«Con ciò era stato dimostrato che l’arricchimento dei capitalisti odierni
consiste nell’appropriazione del lavoro altrui non pagato, esattamente come
avveniva con l’arricchimento dei proprietari di schiavi o dei signori feudali
che sfruttavano il lavoro servile, e che tutte queste forme di sfruttamento si
distinguono unicamente per la diversa maniera con cui avviene
l’appropriazione del lavoro non pagato. Ma con ciò veniva tolta anche
l’ultima base a tutta l’ipocrita retorica delle classi possidenti, che affermavano
esservi nell’attuale ordinamento sociale diritto e giustizia, eguaglianza dei
diritti e dei doveri e una generale armonia degli interessi; e l’attuale società
borghese, non meno di quelle precedenti, veniva smascherata come una
grandiosa istituzione per lo sfruttamento dell’enorme maggioranza del
popolo a opera di una piccola minoranza sempre decrescente»11.
Ivi, p. 831.
Ivi, p. 203.
10 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], in Id., Opere scelte, a cura di L.
Gruppi, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 307.
11 F. Engels, Karl Marx [1878], ora in K. Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, a
cura di E. Donaggio, P. Kammerer, Feltrinelli, Milano 2007, p. 23.
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Per il salariato moderno «tutta quanta la sua vita viene ad essere
trasformata in un mezzo per vivere, poiché il lavoro non impedisce
più che la perdita della pura esistenza»12. Egli «vende per un salario
la propria capacità lavorativa o forza-lavoro come suo unico
mezzo di sostentamento»13, vende cioè se stesso «per assicurarsi i
mezzi di sussistenza necessari»14 e non è affatto libero.
«Si è messo in chiaro che l’operaio salariato ha il permesso di lavorare per la
sua propria vita, cioè di vivere, solo in quanto lavora, per un certo tempo,
gratuitamente, per il capitalista (e quindi anche per quelli che insieme col
capitalista consumano il plusvalore); che tutto il sistema di produzione
capitalistico si aggira attorno al problema di prolungare questo lavoro
gratuito prolungando la giornata di lavoro o sviluppando la produttività cioè
con una maggiore tensione della forza-lavoro, ecc.; che dunque il sistema del
lavoro salariato è un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa
sempre più dura nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali
del lavoro»15.
K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo, cit., p.
410.
13 M. Dobb, La critica dell’economia politica, in Storia del marxismo, 4 voll., I, Il Marxismo ai
tempi di Marx, Einaudi, Torino 1978, p. 97.
14 «Il lavoro è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale.
Perché la vende? Per vivere. Il lavoro è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la
manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per
assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un
mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della
sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha
aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua
attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae
dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per se è il salario; e
seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di
sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E
l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre,
le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire
scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al
contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al
banco dell’osteria, nel letto»: K. Marx, Lavoro salariato e capitale [1849], Editori Riuniti,
Roma 2006, p. 19.
15 K. Marx, Critica al programma di Gotha [1875], in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p.
967.
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Attraverso il proprio lavoro, dunque, il salariato non crea ricchezza
per se stesso ma crea «il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il
lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di
generare nuovo lavoro salariato»16. Ciò che viene a determinarsi è
«un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale.
L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo
stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù,
ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo
opposto»17.
A ben vedere, la libertà conquistata con l’avvento della modernità
sembra corrispondere unicamente all’estensione alla forza-lavoro
(cioè agli uomini) della libertà delle merci di circolare senza vincoli
etici e senza restrizioni sul mercato. «Per libertà», spiega Marx, «si
intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il
commercio libero, la libera compra e vendita»18. Sicché il salariato,
per tutta la sua vita, «esiste soltanto per accrescere il capitale e vive
quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante»19.
In un tale assetto «cresce la massa dell’asservimento, della
degenerazione, dello sfruttamento»20, e «tutta la storia dell’industria
K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 306.
K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 706.
18 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 307. La classe borghese «ha
posto la sola libertà di commercio senza scrupoli» (Ivi, p. 295). Tutto ciò che il lavoratore
è al di fuori della compravendita lavoro-salario viene ignorato dall’economia politica.
«Essa abbandona questo residuo umano ai medici e ai tribunali, alla religione e alla
politica. I bisogni dei lavoratori si riducono per essa soltanto al bisogno di mantenerlo
atto al lavoro, affinché egli produca delle merci. Il salario fa quindi parte dei costi
necessari del capitale e non può superare il bisogno che questo ha di un certo lavoro.
L’economia politica, questa scienza della ricchezza, è al tempo stesso una scienza del
risparmio, o, per dirla in breve dell’economia. La sua massima ascetica fondamentale
consiste nel rinunziare a tutti i bisogni che non servano all’accrescimento del capitale» (K.
Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo, cit., p. 411).
19 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 307.
20 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 825. «Entro il sistema capitalistico tutti i metodi per
incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese dell’operaio
individuo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di
dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo
parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il
tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze
intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui a quest’ultimo la scienza
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moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni,
lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la
classe operaia a questo livello della più profonda degradazione» 21.
Questa classe sociale, infatti, altro non è che forza-lavoro
costantemente al servizio delle esigenze del capitale, la cui essenza
schiavistica e violenta è paragonata alla «voracità» di pluslavoro di
un «lupo mannaro»:
«Che cos’è una giornata lavorativa? Qual è la quantità del tempo durante il
quale il capitale può consumare la forza-lavoro della quale esso paga il valore
d’una giornata? Fino a che punto la giornata lavorativa può essere prolungata
al di là del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro
stessa? S’è visto che a queste domande il capitale risponde: la giornata
lavorativa conta ventiquattro ore complete al giorno, detratte le poche ore di
riposo senza le quali la forza-lavoro ricusa assolutamente di rinnovare il suo
servizio. In primo luogo è evidente che l’operaio, durante tutto il tempo della
sua vita, non è altro che forza-lavoro e perciò che tutto il suo tempo disponibile è, per
natura e per diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene alla autovalorizzazione
del capitale. Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo
intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per
il libero giuoco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo
domenicale e sia pure nella terra dei sabbatari –: fronzoli puri e semplici! Ma il
capitale, nel suo smisurato e cieco impulso, nella sua voracità da lupo
mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti massimi morali della
giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici. Usurpa il tempo necessario per
la crescita, lo sviluppo e la sana conservazione del corpo. Ruba il tempo che
è indispensabile per consumare aria libera e luce solare. Lesina sul tempo dei
viene incorporata come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli
lavora, durante il processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella
maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli
gettano moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale. Ma tutti i metodi per la
produzione di plusvalore sono al tempo stesso metodi dell’accumulazione e ogni estensione
dell’accumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di quei metodi. Ne consegue quindi, che
nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua
retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che equilibra costantemente
sovrappopolazione relativa, ossia l’esercito industriale di riserva da una parte e volume e energia
dell’accumulazione dall’altra, incatena l’operaio al capitale in maniera più salda che i cunei di
Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. Questa legge determina un’accumulazione di
miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza all’uno dei
poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù,
ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto» (Ivi, p. 706).
21 K. Marx, Salario, prezzo e profitto [1865], Editori Riuniti, Roma 2006, p. 82.
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pasti e lo incorpora, dove è possibile, nel processo produttivo stesso,
cosicché al lavoratore vien dato il cibo come a un puro e semplice mezzo di
produzione, come si dà carbone alla caldaia a vapore, come si dà sego e olio
alle macchine. Riduce il sonno sano che serve a raccogliere, rinnovare,
rinfrescare le energie vitali, a tante ore di torpore quante ne rende
indispensabili il ravvivamento di un organismo assolutamente esaurito. Qui
non è la normale conservazione della forza-lavoro a determinare il limite
della giornata lavorativa, ma, viceversa, è il massimo possibile dispendio
giornaliero di forza-lavoro, per quanto morbosamente coatto e penoso, a
determinare il limite del tempo di riposo dell’operaio. Il capitale non si
preoccupa della durata della vita della forza-lavoro. Quel che gli interessa è
unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida
in una giornata lavorativa»22.
Dunque, mentre gli intellettuali organici alla classe borghese
proclamano trionfalisticamente che con la transizione al
capitalismo la schiavitù è stata definitivamente spazzata via dalla
storia, Marx, al contrario, scopre all’interno di quella stessa società
l’esistenza di nuovi schiavi, di individui dichiarati formalmente
liberi ma in realtà costretti perennemente a vendersi per poter
sopravvivere23. Marx può così «riunire l’epoca storica
precapitalistica e quella capitalistica: in entrambe le epoche l’uomo
K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 300-301.
«Il lavoro non è sempre stato salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo
lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo
schiavo, insieme col suo lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è
una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è
una merce, ma il lavoro non è merce sua. Il servo della gleba vende una parte soltanto del
suo lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il
proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla
terra e porta frutti al signore della terra. L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a
pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al miglior offerente,
al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza,
cioè al capitalista. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10,
12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio
abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia
quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si
prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita del lavoro, non può abbandonare
l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria
esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma alla borghesia, alla classe borghese; ed è
affar suo disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe borghese un compratore»: K.
Marx, Lavoro salariato e capitale, cit., pp. 20-21.
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non è libero»24. Ai suoi occhi l’avvento della modernità non
rappresenta un momento di rottura con un violento e tetro passato
ma rappresenta un’epoca in cui, in forma diversa, continua a
dispiegarsi lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo25.
L’elemento schiavistico che dà continuità all’avvicendarsi dei modi
di produzione (antico, feudale, capitalistico) è definito da Marx
«pluslavoro». «Ovunque una parte della società possegga il
monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo,
deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo
sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di
sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia
questo proprietario bello e buono, cioè nobile ateniese, teocrate
etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano,
boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista»26. In
ogni epoca, quindi, la classe dominante vive del «pluslavoro»
estorto ai dominati. Cambia la forma (schiavitù, servitù, lavoro
salariato) ma non la sostanza: «solo la forma in cui viene spremuto
al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro,
distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la
società della schiavitù da quella del lavoro salariato»27.
Alla luce di tali scoperte, presente e passato costituiscono per Marx
l’uno la diretta continuazione dell’altro. Proprio come «le lingue
più sviluppate hanno in comune leggi e determinazioni con le
meno sviluppate»28, nei passaggi dal modo di produzione antico a
quello feudale e poi da questo a quello capitalistico vi sono degli
elementi che trapassano invariati da un assetto all’altro. «Tutte le
epoche della produzione hanno certi caratteri in comune»29 e
W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, Marietti,
Genova 1987, p. 132.
25 «Al posto dello sfruttamento celato dalle illusioni religiose e politiche», la classe
borghese «ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido»: K. Marx, F.
Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 295.
26 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 269-270.
27 Ivi, p. 250.
28 K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica [1857], a cura di M. Musto,
Quodlibet, Macerata 2010, p. 13.
29 Ibidem
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alcune determinazioni risultano essere «comuni all’epoca più
moderna e alla più antica»30. Tra queste vi è lo sfruttamento del
lavoro umano, nelle differenti forme di schiavitù, servitù e lavoro
salariato:
«La schiavitù è la prima forma dello sfruttamento, specifica del mondo
antico; ad essa seguono la servitù della gleba medievale e il lavoro salariato
dell’epoca moderna. Si tratta delle tre grandi forme del servaggio che
caratterizzano le tre grandi epoche della civiltà; la schiavitù, prima manifesta
poi occulta, le accompagna sempre»31.
L’età moderna, pertanto, si presenta agli occhi di Marx ancora
come «preistoria della società umana»32, come epoca ancora carica
di contraddizioni e di violenza, ancora macchiata dal dominio
dell’uomo sull’uomo e dall’oppressione. Questa preistoria potrà
dirsi conclusa quando «al posto della società borghese, con le sue
classi e coi suoi antagonismi di classe» subentrerà «un’associazione
nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il
libero sviluppo di tutti»33. Ciò sarà possibile solo attraverso
l’intervento dell’uomo: «la liberazione dell’uomo dalla schiavitù del
capitale avviene per l’uomo non dall’esterno, ma in quanto egli
capisce la situazione storica, riconoscendo il suo intollerabile
condizionamento. In tal modo egli viene sollecitato a mutare la
propria situazione e ad assumere con consapevolezza la sua stessa
storia. Che gli uomini divengano soggetti della storia, ossia
aboliscano l’alienazione, è dunque qualcosa di condizionato
dall’alienazione e, a questo riguardo, dal dato economico. Ma la
liberazione in quanto tale può essere soltanto opera propria
dell’uomo»34.
Ivi, pp. 13-14.
F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato [1884], Newton
Compton, Roma 2006, pp. 208-209.
32 K. Marx, Prefazione, in Per la critica dell’economia politica [1859], Editori Riuniti, Roma
1969, p. 6.
33 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 314.
34 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, cit., p. 136.
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Una «teoria dello sviluppo sociale di tipo dicotomico»
«La storia di ogni società sinora esistita è
storia di lotte di classi. Liberi e schiavi,
patrizi e plebei, baroni e servi della gleba,
membri delle corporazioni e garzoni, in
una parola oppressori e oppressi sono
sempre stati in contrasto fra di loro, hanno
sostenuto una lotta ininterrotta, a volte
nascosta, a volte palese: una lotta che finì
sempre o con una trasformazione
rivoluzionaria di tutta la società o con la
rovina comune delle classi in lotta».
Karl Marx, Friedrich Engels
Manifesto del partito comunista [1848]
Marx, come sappiamo, mostra che la scomparsa delle antiche
forme di schiavitù non implica l’estinzione dello sfruttamento
dell’uomo sull’uomo e che tutta la storia umana «procede in uno
stato di conflitto permanente»35. Fino ai giorni nostri la società si è
sviluppata «nel quadro di un antagonismo che presso gli antichi era
l’antagonismo tra liberi e schiavi, nel medioevo tra nobiltà e servi
della gleba, e nell’età moderna è l’antagonismo tra borghesia e
proletariato»36. In altre parole, se «per ben giudicare la produzione
feudale è necessario considerarla come un modo di produzione
fondato sull’antagonismo»37, allo stesso modo il capitalismo
costituisce una «forma antagonistica del processo di produzione
sociale»38.
Poiché «lo sfruttamento di una parte della società per opera di
un’altra è un fatto comune a tutti i secoli passati»39, in ogni epoca
storica presa in esame è possibile rintracciare una «guerra degli
F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, cit., p. 210.
K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi
rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti [1846],
Editori Riuniti, Roma 1969, p. 423.
37 K. Marx, Miseria della filosofia. Risposta alla ‘Filosofia della miseria’ del signor Proudhon [1847],
Rinascita, Roma 1949, p. 99.
38 K. Marx, Prefazione, in Per la critica dell’economia politica, cit., p. 6.
39 K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 312.
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schiavi contro i loro asservitori»40, un conflitto rivoluzionario
potenzialmente in grado di far avanzare la storia. In questo senso
«le rivoluzioni sono le locomotive della storia»41.
Queste battaglie «degli schiavi contro i loro asservitori», spesso
«lasciate nell’oscurità e passate sotto il silenzio degli storici
borghesi»42, vengono considerate da Marx come vere e proprie
«locomotive» in grado di far progredire la storia. «È il lato cattivo»
(costituito in ogni epoca dalle classi sottomesse) «a produrre il
movimento che fa la storia, determinando la lotta»43 che apre le
possibilità per il passaggio ad una nuova forma di organizzazione
sociale:
«Questa nuova interpretazione della storia fu della massima importanza.
Essa dimostrò che, fino ad oggi, tutta la storia si muove in contrasti e lotte di
classe, che sono sempre esistite classi dominanti e classi oppresse, classi
sfruttatrici e classi sfruttate, e che la grande maggioranza degli uomini è
sempre stata condannata a duro lavoro e scarso godimento. Perché tutto ciò?
Semplicemente perché, in tutte le precedenti fasi di sviluppo dell’umanità, la
produzione era ancora così poco sviluppata che lo sviluppo storico non
poteva avvenire se non in questa forma di contrasti; e il progresso storico era
in linea di massima affidato all’attività di una piccola minoranza privilegiata,
mentre le grandi masse erano condannate a procurare col lavoro i mezzi per
il loro misero sostentamento e inoltre quelli sempre più abbondanti per i
privilegiati. Ma la stessa analisi della storia – che spiega in modo ragionevole
e naturale il dominio di classe, mentre sinora era spiegabile soltanto con la
cattiveria umana – porta anche alla convinzione che, grazie ai mezzi di
produzione oggi aumentati in misura così colossale, è sparito fin l’ultimo
pretesto per una divisione degli uomini in dominatori e dominati, in
sfruttatori e sfruttati, per lo meno nei paesi più progrediti; e pure alla
convinzione che la grande borghesia dominante ha compiuto la sua missione
storica e non è più in grado di dirigere la società, ma è anzi diventata un
ostacolo per lo sviluppo della produzione, come provato dalle crisi
commerciali, particolarmente dall’ultimo grande crollo, e dalla depressione
industriale in tutti i paesi; essa porta inoltre alla convinzione che la direzione
storica è passata al proletariato, una classe che in virtù della sua posizione
K. Marx, La guerra civile in Francia [1871], in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p. 928.
K. Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 [1850], in K. Marx, F. Engels, Opere
scelte, cit., p. 458.
42 K. Marx, Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper», cit., p. 41.
43 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., pp. 98-99.
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sociale può liberarsi unicamente abolendo una volta per tutte qualsiasi
dominio di classe, qualsiasi servitù e sfruttamento; e che le forze produttive
della società, sfuggite al controllo della borghesia, attendono soltanto che il
proletariato unito se ne impadronisca per creare una situazione in cui ad ogni
membro della società sia possibile partecipare non solo alla produzione, ma
anche alla distribuzione e all’amministrazione delle ricchezze sociali, e in cui
le forze produttive sociali e il loro rendimento vengano talmente accresciute,
attraverso la pianificazione dell’intera produzione, da assicurare ad ognuno
in misura sempre crescente il soddisfacimento di tutti i bisogni
ragionevoli»44.
Quella di Marx è stata definita una «teoria dello sviluppo sociale di
tipo dicotomico»45 formulabile in questi termini: «nella ‘proprietà
antica’, la dicotomia tra chi possiede la proprietà e chi ne è privo
sussiste come polarità tra padroni e schiavi, mentre nella ‘proprietà
feudale’ essa si incarna nelle due classi contrapposte dei signori e
dei servi della gleba, che hanno in comune con la forma
precedente l’antagonismo e l’assoggettamento a cui la classe
dominante sottopone quella dominata, sfruttandone il lavoro.
Infine, nella società capitalistica la divisione si ripropone nella
forma di una dicotomia tra i capitalisti, che detengono i mezzi di
produzione, e gli operai, che non hanno null’altro all’infuori delle
loro braccia»46.
Nel ricostruire la transizione dal modo di produzione feudale a
quello capitalistico, Marx mostra come la borghesia, che fino ad
allora aveva rappresentato il «lato cattivo» nell’ambito della società
signorile, s’impose come nuova classe dominante sullo scenario
storico:
«Il regime feudale del medioevo si basava sull’economia autosufficiente di
piccole comunità contadine che producevano pressoché tutto ciò che ad esse
occorreva, facendo quasi a meno di ogni scambio, e a cui la nobiltà
agguerrita offriva protezione verso l’esterno e una coesione nazionale o per
lo meno politica; quando, ancora nel medioevo, sorsero le città – e con esse
una particolare industria artigiana e un traffico commerciale dapprima
F. Engels, Karl Marx, cit., pp. 21-22.
G. Bedeschi, Introduzione a Marx [1981], Laterza, Roma-Bari 2008, p. 100.
46 D. Fusaro, Marx e l’infuturamento della filosofia della storia di Hegel, in R. Mordacci (a cura
di), Prospettive di filosofia della storia, Bruno Mondadori, Milano 2009, p. 149.
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interno e poi internazionale – la borghesia cittadina si sviluppò e si
conquistò, lottando contro la nobiltà, ancora nel medioevo, l’immissione
nell’ordinamento feudale come stato anch’esso privilegiato. Ma con la
scoperta del mondo extraeuropeo, a partire dalla metà del XV secolo, questa
borghesia ebbe un territorio commerciale più esteso e con ciò un nuovo
impulso per la sua industria; nei suoi rami più importanti l’artigianato venne
soppiantato dalla manifattura che assumeva già carattere di fabbrica, e questa
a sua volta dalla grande industria, resa possibile con le invenzioni del secolo
passato, particolarmente con quella della macchina a vapore; la grande
industria ebbe a sua volta delle ripercussioni sul commercio soppiantando
nei paesi arretrati il lavoro manuale d’una volta e creando in quelli più
progrediti gli attuali mezzi di comunicazione: la macchina a vapore, le
ferrovie, il telegrafo elettrico. In tal modo la borghesia concentrò sempre più
nelle proprie mani le ricchezze sociali e il potere sociale, mentre per lungo
tempo ancora rimase esclusa dal potere politico, il quale si trovava in mano
alla nobiltà e alla monarchia che si appoggiava alla nobiltà. Ma arrivata a un
certo punto – in Francia dopo la grande rivoluzione – essa conquistò anche
il potere politico e divenne ora a sua volta classe dominante di fronte al
proletariato e ai piccoli contadini»47.
Svolta la sua «missione storica», dunque, «da classe rivoluzionaria»
la borghesia «diviene conservatrice»48, portando alla luce nuove
contraddizioni che costituiscono «altrettante mine per farla
saltare»49. Prima, tra queste, l’esistenza di «una classe che deve
sopportare tutti i pesi della società», una classe che «forma la
maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le
mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada a
fondo»50. Col tempo, infatti, diventa sempre più chiaro «che i
rapporti di produzione entro i quali si muove la borghesia non
F. Engels, Karl Marx, cit., pp. 20-21. La borghesia ha avuto nella storia «una funzione
sommamente rivoluzionaria»; unificando il globo e rendendo «cosmopolita la produzione
e il consumo di tutti i paesi» essa ha mostrato di cosa l’attività umana sia possibile,
realizzando «meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle
cattedrali gotiche» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 295). In
questo senso, «il Manifesto dei comunisti» è anche un «inno alla borghesia produttrice,
creatrice di scienza, di tecnica, di ricchezza» (A. Gramsci, Sotto la mole 1916-1920, Einaudi,
Torino 1975, p. 348).
48 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 99.
49 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [1857-1858], La Nuova
Italia, Firenze 1969, vol. I, p. 101.
50 K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., pp. 28-29.
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hanno un carattere unico, semplice, bensì un carattere duplice; che
negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza, si produce
altresì la miseria; che entro gli stessi rapporti nei quali si ha
sviluppo di forze produttive, si sviluppa anche una forza
produttrice di repressione; che questi rapporti producono
la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a
patto di annientare continuamente la ricchezza di alcuni membri di
questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato ognora
crescente»51. La borghesia, «che ha evocato come per incanto così
potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone
che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate» 52.
Le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione
diventano nel tempo sempre più ingovernabili, fino al punto da
aprire una fase rivoluzionaria e la possibilità di un passaggio ad un
modo diverso di produrre e di esistere. A questo evento, come
sappiamo, concorreranno due fattori: la spinta delle contraddizioni
materiali e la lotta dei moderni schiavi contro i moderni sfruttatori,
una lotta capace di «abbreviare e attenuare le doglie del parto»53 nel
passaggio ad una società definitivamente giusta.
In sintesi: lungi dal rappresentare il tempo storico della libertà
pienamente ottenuta, l’era del capitalismo «ha soltanto creato
nuove classi e con ciò nuove condizioni di sfruttamento e di
oppressione»54. Nell’ambito dell’antagonismo moderno il ruolo di
«lato cattivo» della storia passa dalla borghesia alla classe proletaria,
che in Marx «appare come l’ultima classe schiava, come la classe
vendicatrice, che porta a termine l’opera della liberazione in nome
di generazioni di vinti»55.
K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 100.
K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., p. 297.
53 K. Marx, Prefazione alla prima edizione, in Il capitale. Libro I, cit., p. 33.
54 K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia [1949], Il
Saggiatore, Milano 2010, p. 58.
55 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia [1940], in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti,
Einaudi, Torino 1962, p. 79.
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«Questa opera d’arte della storia moderna»
«Il movimento storico che trasforma i
produttori in operai salariati si presenta, da
un lato, come loro liberazione dalla servitù
e dalla coercizione corporativa; e per i
nostri storiografi borghesi esiste solo
questo lato. Ma dall’altro lato questi
neoaffrancati diventano venditori di se
stessi soltanto dopo essere stati spogliati di
tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le
garanzie per la loro esistenza offerte dalle
antiche istituzioni feudali. E la storia di
questa espropriazione degli operai è scritta
negli annali dell’umanità a tratti di sangue e
di fuoco».
Karl Marx, Il capitale. Libro I [1867]
Sulle cause storiche della nascita del capitalismo e della modernità
disponiamo di diverse teorie. Per Dobb, ad esempio, tali cause
sono ‘interne’, vale a dire che esse vanno ricercate nella progressiva
introduzione in Inghilterra di nuovi metodi di sfruttamento del
lavoro e delle risorse nel settore dell’agricoltura. Sweezy, invece,
mostra come a determinare la transizione dal feudalesimo al
capitalismo siano state soprattutto cause ‘esterne’, da lui
individuate nell’accumulazione di ricchezza scaturente dal
‘commercio triangolare’ tra Europa, Africa e America poggiante
sull’espropriazione colonialistica, lo schiavismo e il razzismo 56. Al
di là delle differenze, le diverse teorie collocano il sorgere del
nuovo modo di produzione tra la fine del XV e l’inizio del XVI
secolo: «se è vero che il capitalismo moderno, come noi lo
conosciamo oggi, è diventato visibile, per così dire, in modo
idealtipico e si è imposto come formazione economica dominante
Si vedano: P. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico [1942], Einaudi, Torino 1951; M.
Dobb, Problemi di storia del capitalismo [1946], Editori Riuniti, Roma 1958; L. Pellicani,
Saggio sulla genesi del capitalismo: alle origini della modernità, SugarCO, Milano 1988; J. Bidet,
Teoria della modernità: Marx e il mercato [1990], Editori Riuniti, Roma 1992; A.R. Calabrò (a
cura di), I caratteri della modernità: parlano i classici. Marx, Engels, Durkheim, Simmel, Weber,
Elias, Liguori, Napoli 2004; J. Goody, Capitalismo e modernità. Il grande dibattito, Raffaello
Cortina, Milano 2005.
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solo nel XIX secolo, è anche vero che esso è stato preparato nei
secoli XVI, XVII e XVIII»57.
Gli intellettuali organici alla classe borghese, spiega Marx, danno
del capitalismo spiegazioni ideologiche, presentandolo come modo
di produrre eterno e conforme a presunte leggi di natura razionali e
immutabili58. L’accumulazione capitalistica, secondo questi
pensatori, si sarebbe avviata a partire dal risparmio e dal sudore di
un virtuoso gruppo di individui parsimoniosi, proprio come
Robinson Crusoe, «il self-made-man» che «solo nella sua isola
tropicale» avrebbe intrapreso «una vera e propria accumulazione
originaria»59.
Contro queste spiegazioni ideologiche e destoricizzanti, Marx
ricostruisce la genesi del mondo moderno e mostra che, ben lungi
dall’essere «secondo natura» ed eterno, «il processo di produzione
capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di
produzione sociale»60. Il suo presupposto – l’esistenza dei due poli
opposti di capitale e masse lavoratrici prive di tutto fuorché delle
braccia per lavorare – è dunque un prodotto storico che deve
essere spiegato, perché «delle fantasie sentimentali, in accordo con
le quali il capitalista e l’operaio si associano, la storia non ne sa
nulla»61. Nel capitalismo «debbono trovarsi di fronte, e mettersi in
O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, Massari, Bolsena 2005, p. 89.
«Dicendo che i rapporti attuali – i rapporti della produzione borghese – sono naturali,
gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si
sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi
rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne che
debbono sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più. C’è
stata storia perché sono esistite istituzioni feudali e perché in queste istituzioni feudali si
trovano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese, che gli
economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni» (K. Marx, Miseria della filosofia,
cit., p. 98). «La legge dell’accumulazione capitalistica mistificata in legge di natura»
esprime solo il fatto che «la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento
del lavoro» tale da «esporre a un serio pericolo la costante riproduzione del rapporto
capitalistico e la sua riproduzione su scala sempre più allargata» (Karl Marx, Il capitale.
Libro I, cit., pp. 679-680).
59 L. Krader, Evoluzione, rivoluzione e Stato: Marx e il pensiero etnologico, in Storia del marxismo, 4
voll., I, Il Marxismo ai tempi di Marx, cit., p. 224.
60 K. Marx, Il capitale. Libro III, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 931.
61 K. Marx, Forme di produzione precapitalistiche [1857-1858], Bompiani, Milano 2009, p. 221.
57
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contatto due specie diversissime di possessori di merce, da una
parte proprietari di denaro e di mezzi di produzione e di sussistenza, ai quali
importa di valorizzare mediante l’acquisto di forza-lavoro altrui la
somma di valori posseduta; dall’altra parte operai liberi, venditori
della propria forza-lavoro e quindi venditori di lavoro. Operai
liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei
mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba, né ad essi
appartengono i mezzi di produzione, come al contadino
coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza. Con questa
polarizzazione del mercato delle merci si hanno le condizioni
fondamentali della produzione capitalistica» 62. Proletari e
proprietari, dunque, possono incontrarsi sul mercato e scambiare
senza apparenti costrizioni le loro merci (salario e lavoro) solo
dopo che il capitalismo si è affermato storicamente come modo di
produzione specifico. Per poter giungere a questo risultato
occorreva perciò creare una massa di individui formalmente liberi
ma nullatenenti costretti in quanto tali a vendere la propria forzalavoro per poter sopravvivere. «Finché il lavoratore può
accumulare per se stesso – e lo può finché rimane proprietario dei
suoi mezzi di produzione – sono impossibili l’accumulazione
capitalistica e il modo di produzione capitalistico»63. È quindi nella
separazione del «libero» lavoratore dalle condizioni del suo lavoro
e dai mezzi di sussistenza, nel distacco «fra le condizioni oggettive del
lavoro e la forza lavorativa soggettiva» che deve essere individuato il
«fondamento realmente dato, il punto di partenza del processo di
produzione capitalistico»64 da cui non è possibile fare astrazione. Si
tratta, com’è noto, di studiare il feroce processo di «accumulazione
originaria del capitale, cioè la sua genesi storica»65, la fase di inaudita
violenza esercitata contro i «produttori immediati», prima
Karl Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 778.
Ivi, p. 800.
64 Ivi, p. 625.
65 Ivi, p. 823. Si vedano anche: K. Marx, L’accumulazione originaria, Editori Riuniti, Roma
1991; J. Robinson, L’accumulazione del capitale [1958], Edizioni di comunità, Milano 1969;
D. Sacchetto, Massimiliano Tomba, La lunga accumulazione originaria: politica e lavoro nel
mercato mondiale, Ombre Corte, Verona 2008.
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espropriati dei mezzi di lavoro e di sussistenza e poi costretti in
massa a vendere la propria forza-lavoro. «Quel che chiedeva il
sistema capitalistico» nascente «era una condizione servile della
massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la
trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale»66.
Agli albori del XVI secolo Tommaso Moro scrisse: «le pecore, che
di solito sono così docili e si nutrono di così poco, cominciano ad
essere così voraci ed indomabili da mangiarsi financo gli uomini»67.
Ricorrendo ad una tale immagine, l’umanista inglese testimoniò un
fenomeno ben preciso. Quando nei mercati europei iniziò a
verificarsi un aumento della richiesta dei manufatti in lana
l’allevamento delle pecore divenne particolarmente redditizio. La
lana rendeva molto più del grano, ragion per cui, al fine di
introdurre l’allevamento, la nobiltà agraria inglese recintò
abusivamente le terre comuni (incolte o coltivate in comune,
demaniali, boschi, foreste, campi aperti per il pascolo, etc…) e
cacciò servi e contadini che sempre avevano vissuto usufruendo
dei terreni appartenenti alla comunità. Costoro si ritrovarono
espropriati dei mezzi di sostentamento e senza lavoro, perché un
solo guardiano era sufficiente per le terre tenute a pascolo che, se
invece coltivate, avrebbero richiesto più braccia e più denaro. In
Scozia, ad esempio, «per produrre la lana su vasta scala, era
necessario trasformare i campi coltivabili in pascoli; per effettuare
questa trasformazione, era necessario concentrare le proprietà; per
concentrare le proprietà era necessario abolire le piccole tenute,
cacciare migliaia di piccoli coltivatori dal loro paese natale e
mettere al loro posto qualche pastore che sorvegliasse milioni di
montoni»68. La «parola d’ordine fu: trasformare i campi in pascoli
da pecore», spiega Marx; «le abitazioni dei contadini e i cottages degli
operai agricoli vennero abbattuti con la violenza»; di «città e
villaggi distrutti per farne pasture per le pecore, e dove rimangono
solo ancora le case dei signori, potrei dire parecchio»69.
K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., pp. 783-784.
T. Moro, L’Utopia [1516], Armando, Roma 2005, p. 21.
68 K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 97.
69 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 782.
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Con l’espressione usata da Marx, «tantae molis erat il parto delle eterne
leggi di natura del modo di produzione capitalistico, il portare a
termine il processo di separazione fra lavoratori e condizioni di
lavoro, il trasformare a un polo i mezzi sociali di produzione e di
sussistenza in capitale, e il trasformare al polo opposto la massa
popolare in operai salariati, in liberi poveri che lavorano»70.
I due grandi presupposti necessari alla nascita del modo di
produzione capitalistico, dunque, furono: 1) l’imporsi di una nuova
prospettiva per cui il fine della produzione divenne la
«valorizzazione del valore» fine a se stessa; 2) la separazione del
lavoratore dalle condizioni oggettive di lavoro, «l’espropriazione della
gran massa della popolazione, che viene privata della terra, dei mezzi di
sussistenza e degli strumenti di lavoro [attraverso] tutt’una serie di
metodi violenti»71.
Separati brutalmente dalle terre e dalle proprietà comuni, i
lavoratori si ritrovarono gettati «sul mercato del lavoro come
proletariato eslege»72, ossia come uomini che, non disponendo di
altre risorse all’infuori delle proprie braccia, per poter sopravvivere
si ritrovarono costretti a vendersi ai nuovi proprietari dei mezzi di
produzione. Senza «l’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la
loro espulsione dalle terre»73, dunque, il nuovo modo di produzione
non sarebbe potuto nascere. «Il furto dei beni ecclesiastici,
l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della
proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un
terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà
dei clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici
dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo
all’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e
crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di
proletariato eslege»74.
Ivi, pp. 822-823.
Ivi, p. 824.
72 Ivi, p. 780.
73 Ivi, p. 780.
74 Ivi, p. 796.
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È in questo processo che deve essere colta storicamente la
liberazione dei servi della gleba e la loro trasformazione in liberi
individui che non potevano far nient’altro che vendersi a chi
disponeva dei mezzi di produzione. Tale liberazione, infatti,
implica non solo l’affrancamento dai vincoli feudali e dalla servitù
ma anche la perdita dei mezzi di produzione e sussistenza, nonché
l’abolizione delle garanzie per l’esistenza che al produttore feudale
erano assicurate per legge dal suo status («la proprietà che la legge
garantiva agli agricoltori impoveriti di una parte delle decime
ecclesiastiche», ad esempio, «venne tacitamente confiscata»75).
Pertanto, «il movimento storico che trasforma i produttori in
operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla
servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi
borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi
neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere
stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le
garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni
feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai è scritta
negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco»76.
Scacciati in massa dalla terra, espropriati dei mezzi di sussistenza e
di lavoro ed essendo numericamente superiori rispetto a quanto la
nascente manifattura poteva assorbire, molti individui si
trasformarono in mendicanti e vagabondi. «Non era possibile che
gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti
feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege,
fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa
rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo.
D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori
dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta
rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono
così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per
inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione
75
76
Ivi, p. 785.
Ivi, p. 779.
20
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delle circostanze»77. Al fenomeno della mendicità si rispose con
una «legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio»78. Ovunque non si
fece altro che emettere «leggi fra il grottesco e il terroristico»79 che
imponevano a chi era stato espropriato di tutto di sottomettersi «a
forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture»80, alla ferrea
disciplina della schiavitù salariata 81. La legislazione trattò i
Ivi, p. 797.
Ibidem
79 Ivi, p. 800.
80 Ibidem
81 In Inghilterra, sotto Enrico VIII (1491-1547), «i mendicanti vecchi e incapaci di lavorare
ricevono una licenza di mendicità. Ma per i vagabondi sani e robusti frusta invece e
prigione. Debbono esser legati dietro a un carro e frustati finché il sangue scorra dal loro
corpo; poi giurare solennemente di tornare al loro luogo di nascita oppure là dove hanno
abitato gli ultimi tre anni e ‘mettersi al lavoro’». Se «un vagabondo viene colto sul fatto
una seconda volta, la pena della frustata deve essere ripetuta e sarà reciso mezzo
orecchio; alla terza ricaduta invece il vagabondo dev’essere considerato criminale indurito
e nemico della comunità e giustiziato come tale» (Ivi, p. 798). Uno statuto di Edoardo VI
(1537-1553) «ordina che se qualcuno rifiuta di lavorare dev’essere aggiudicato come
schiavo alla persona che l’ha denunciato come fannullone. Il padrone deve nutrire il suo
schiavo a pane e acqua, bevande deboli e scarti di carne a suo arbitrio. Ha il diritto di
costringerlo a qualunque lavoro, anche al più ripugnante, con la frusta e con la catena. Se
lo schiavo si allontana per 15 giorni, viene condannato alla schiavitù a vita e dev’essere
bollato a fuoco sulla fronte o sulla guancia con la lettera S; se fugge per la terza volta,
dev’essere giustiziato come traditore dello Stato. Il padrone lo può vendere, lasciare in
eredità, affittarlo a terze persone come schiavo, alla stregua di ogni altro bene mobile o
capo di bestiame. Se gli schiavi intraprendono qualcosa contro il padrone, anche in tal
caso saranno giustiziati. I giudici di pace hanno il compito di far cercare e perseguire i
bricconi, su denuncia. Se si trova che un vagabondo ha oziato per tre giorni, sarà portato
al suo luogo di nascita, bollato a fuoco con ferro rovente con il segno V sul petto, e
adoprato quivi, in catene, a pulire la strada o ad altri servizi. Se il vagabondo dà un luogo
di nascita falso, rimarrà per punizione schiavo a vita di quel luogo, dei suoi abitanti o
della sua corporazione, e sarà marchiato con una S. Tutte le persone hanno il diritto di
togliere ai vagabondi i loro figlioli e di tenerli come apprendisti, i ragazzi fino ai 24 anni,
le ragazze fino ai 20. Se scappano, dovranno essere schiavi, fino a quell’età, dei maestri
artigiani che possono incatenarli, frustarli, ecc., ad arbitrio. Ogni padrone può metter al
collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo un anello di ferro per poterlo conoscere
meglio e per esserne più sicuro» (Ibidem). Con Elisabetta I (1533-1603) «i mendicanti
senza licenza e di più di 14 anni di età debbono essere frustati duramente e bollati a
fuoco al lobo dell’orecchio sinistro, se nessuno li vuol prendere a servizio per due anni; in caso di
recidiva e quando siano al di sopra dei diciotto anni debbono esser.., giustiziati, se nessuno
li vuol prendere a servizio per due anni; ma alla terza recidiva debbono essere giustiziati come
traditori dello Stato, senza grazia» (Ivi, p. 799). Sotto Giacomo I (1566-1625), «una
persona che va chiedendo in giro elemosina viene dichiarata briccone e vagabondo. I
77
78
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mendicanti «come delinquenti volontari e partì dal presupposto che
dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle
antiche condizioni non più esistenti»82. Contestualmente, il progressivo
sgretolamento delle antiche forme di assistenza (fino ad allora
prestate dalle parrocchie e dalle comunità) concorse a svuotare le
strade dalla massa di emarginati e a spingerli ad accettare il sistema
del lavoro salariato83.
In questa fase, a ben vedere, le masse lavoratrici sono in tutto e per
tutto schiave dirette del capitale. «Non basta», infatti, «che le
condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che
all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere
che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi
uomini a vendersi volontariamente»84. Occorre anche la violenza
diretta, ragion per cui «la borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del
potere dello Stato […]. È questo un momento essenziale della
cosiddetta accumulazione originaria»85. Solo successivamente il
giudici di pace nelle Petty sessions sono autorizzati a farla frustare in pubblico e a
incarcerarla, la prima volta per sei mesi, la seconda per due anni. Durante
l’incarceramento sarà frustata quante volte e nella misura che i giudici di pace riterranno
giusta... I vagabondi incorreggibili e pericolosi debbono essere bollati a fuoco con una R
sulla spalla sinistra e messi ai lavori forzati; se vengono sorpresi ancora a mendicare,
debbono essere giustiziati, senza grazia» (Ivi, pp. 799-800). «Leggi simili in Francia, dove
alla metà del secolo XVII si era stabilito a Parigi un reame dei vagabondi (royaume des
truands). Ancora nel primo periodo di Luigi XVI (ordinanza del 13 luglio 1777) ogni uomo
di sana costituzione dai sedici ai sessant’anni, se era senza mezzi per vivere e senza
esercizio di professione, doveva essere mandato in galera. Analogamente lo statuto di
Carlo V dell’ottobre 1537 per i Paesi Bassi, il primo editto degli stati e delle città d’Olanda
del 19 marzo 1614, il manifesto delle Province Unite del 25 giugno 1649, ecc. Così la
popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda,
veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di
marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro
salariato» (Ivi, p. 800).
82 Ivi, p. 797.
83 La Poor Law, ad esempio, approvata in Inghilterra nel 1834, abolì ogni sovvenzione ed
assistenza ai poveri imponendo condizioni di vita durissime. Il gran numero di
nullatenenti generato dallo sfaldamento delle forme economiche tradizionali andò così a
gonfiare quell’immenso «esercito industriale di riserva», un grande serbatoio cui gli
imprenditori potevano ricorre qualora i dipendenti avessero elevato le proprie pretese
salariali o si fossero coalizzati in una qualche forma di lotta.
84 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 800.
85 Ivi, pp. 800-801.
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capitalismo può iniziare a trasformare il mondo a propria
immagine e somiglianza, generando un modo di esistere
pienamente corrispondente alle sue esigenze. «Man mano che la
produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che
per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali
ovvie le esigenze di quel modo di produzione»86. Assuefatto dal
capitalismo, il salariato non è più in grado di opporgli resistenza,
vivendolo sempre più come destino inevitabile a cui non può
sottrarsi. Solo dopo può venirgli concessa la libertà formale, libertà
che gli intellettuali e gli storici organici alla classe borghese
pongono invece ideologicamente come aspetto che contraddistinse
il capitalismo fin dalle origini.
Per rafforzare la tesi per cui fu l’asservimento diretto e non la sua
dissoluzione alle origini del capitalismo, Marx ricostruisce anche la
diffusione di altri fenomeni, tra cui la «strage erodiana degli
innocenti». La cosiddetta «strage erodiana degli innocenti»
consisteva nel rapimento di numerosi ragazzi costretti a lavorare
nelle fabbriche in condizioni di schiavitù. «Molte e molte migliaia
di queste creaturine derelitte, dai sette ai tredici o quattordici anni,
vennero così spedite al nord. Era costume che il padrone (cioè il
ladro di ragazzi) vestisse e nutrisse i suoi apprendisti e li alloggiasse
in una casa degli apprendisti vicino alla fabbrica. Venivano
nominati dei guardiani per sorvegliare il loro lavoro. Era interesse di
questi aguzzini di far sgobbare i ragazzi fino all’estremo, perché la
loro paga era in proporzione della quantità di prodotto che si
poteva estorcere al ragazzo. La conseguenza di ciò fu naturalmente
la crudeltà... In molti distretti industriali, specialmente del
Lancashire, queste creature innocenti e prive d’amici, consegnate al
padrone della fabbrica, venivano sottoposte alle torture più
strazianti. Venivano affaticati a morte con gli eccessi di lavoro…
venivano frustati, incatenati e torturati coi più squisiti raffinamenti
di crudeltà; in molti casi venivano affamati fino a ridurli pelle e
ossa, mentre la frusta li manteneva al lavoro... E in alcuni casi
venivano perfino spinti al suicidio!... Le belle e romantiche vallate
86
Ivi, p. 800.
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del Derbyshire, del Nottinghamshire e del Lancashire, lontane
dall’occhio del pubblico, divennero raccapriccianti deserti di
tortura... e spesso di assassinio!... I profitti dei fabbricanti erano
enormi. Ma questo non faceva che acuire la loro fame da lupi
mannari, ed essi dettero inizio alla prassi del ‘lavoro notturno’, cioè
dopo aver paralizzato col lavoro diurno un gruppo di braccia, ne
tenevano pronto un altro gruppo per il lavoro notturno; il gruppo
diurno entrava nei letti che il gruppo notturno aveva appena
lasciato, e viceversa»87. «Gli inizi della fabbrica meccanizzata»,
dunque, «furono caratterizzati da atti tutt’altro che filantropici. I
fanciulli erano mantenuti al lavoro a colpi di frusta; se ne fece un
oggetto di traffico, e si stipularono contratti con gli orfanotrofi»88.
Per sottolineare in maniera efficace la base terroristica e dispotica
da cui sorse l’ordine moderno, Marx afferma che «il capitale viene al
mondo grondante di sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni
poro»89:
1. alle sue origini vi è «l’espropriazione della gran massa della
popolazione», compiuta «con il vandalismo più spietato e sotto la
spinta delle passioni più infami, più sordide e meschinamente
odiose»90; vi è l’asservimento diretto e brutale e non
l’abolizione della servitù, come invece si legge nelle pagine
degli storici borghesi, per i quali l’accumulazione originaria si
sarebbe avviata a partire dal risparmio e dal sudore di un
gruppo di individui virtuosi e parsimoniosi;
2. «man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa
una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine,
riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di
produzione. L’organizzazione del processo di produzione
capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante
produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge
dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario
lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di
Ivi, p. 821.
K. Marx, Miseria della filosofia, cit., p. 113.
89 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 823.
90 Ivi, pp. 824-825.
87
88
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valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti
economici appone il suggello al dominio del capitalista
sull’operaio»91;
3. una volta autonoma, infine, «la produzione capitalistica non
solo mantiene quella separazione» – tra lavoratori e proprietà
dei mezzi di produzione – «ma la riproduce su scala sempre
crescente»92.
Alla luce della sua genesi storica e del suo funzionamento logico si
comprende come il rapporto capitalistico ad altro non corrisponda
se non ad una continuazione dello sfruttamento del lavoro umano.
«Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio
salariato quanto il capitalista», afferma Marx, «è stata la servitù del
lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di
forma di tale asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in
sfruttamento capitalistico»93.
La teoria «al servizio della storia»
«Le forze produttive che si sviluppano nel
seno della società borghese creano in pari
tempo le condizioni materiali per la
soluzione di questo antagonismo. Con
questa formazione sociale si chiude dunque
la preistoria della società umana».
Karl Marx
Per la critica dell’economia politica [1859]
Intesa come critica radicale di una società che così com’è umilia
anziché sviluppare l’umanità dei suoi membri, in Marx la teoria è
«operante al servizio della storia»94. Essa non si limita ad
interpretare il corso degli eventi ma pretende soprattutto di
Ivi, p. 800.
Ivi, p. 778.
93 Ivi, p. 779.
94 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engels,
Opere scelte, cit., p. 58.
91
92
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cambiarlo («non solo interpretare il mondo, ma trasformarlo e
interpretarlo per trasformarlo»95), smascherando le forme
dell’alienazione dell’uomo moderno individuandone le cause
nell’attività produttiva della presente epoca della produzione.
Marx, è stato fatto notare, sembra concepire una «filosofia
universalistica della storia e della libertà»96. Telos della storia umana
è l’edificazione di una nuova era («il regno della libertà»), che avrà
inizio con la soppressione della proprietà privata (scopo esterno
estraniante cui il lavoro umano è assoggettato), con l’istante storico
in cui gli individui, fino a quel momento oggetti e prodotti della
storia, si porranno come soggetti e produttori coscienti:
«Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale
autoalienazione dell’uomo, e però, in quanto reale appropriazione dell’umana
essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo,
consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico,
dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo
è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto
umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo
con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza e
essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità,
fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale
soluzione. L’intero movimento della storia è, quindi, tanto il reale atto di
generazione del comunismo – l’atto di nascita della sua empirica esistenza –
quanto è, per la sua coscienza pensante, il movimento concepito e saputo del
proprio divenire»97.
In quanto stadio del compimento, il comunismo è per Marx «il
superamento della storia come si è svolta sino ad ora. Questa
appare ora la preistoria in rapporto alla vera storia che deve
cominciare con la società senza classi»98. Nel futuro viene quindi
proiettato il pieno senso della storia, il riscatto di passato e
M. Löwy, Il giovane Marx [1970], Massari, Bolsena 2001, p. 32.
C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra idealismo e materialismo, Il Prato,
Padova 2007, p. 29.
97 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, cit., p.
130.
98 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, cit., p. 138.
95
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presente letti in continuità come epoche in cui si è dispiegato
ininterrottamente lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Nel seguente brano Marx illustra la scansione dialettica dei «modi
di produzione»99 (antico, feudale, capitalistico) che nel corso della
storia si succedono caratterizzando le diverse formazioni
economico-sociali:
«Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro
forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale
si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono
forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita
materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale
della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è,
al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato
punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di
proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali
forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle
forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di
rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge
più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si
studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo
sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione,
che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme
giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme
ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di
combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se
stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla
coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza
con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le
forze produttive della società e i rapporti di produzione. Una formazione
Per «modo di produzione» si intende «un’entità periodica». Il modo di produzione «non
è la società nella sua totalità, ma la sua base economica, dove la base è collegata alla
sovrastruttura della società. Non ci sono inoltre più modi di produzione all’interno di una
data società, se non in periodi di transizione o di caos provocato dalla guerra, dalla
conquista, dalla rivoluzione; analogamente una società è un tutto unitario, se non quando
viene lacerata dagli stessi processi di trasformazione rivoluzionaria»: L. Krader, Evoluzione,
rivoluzione e Stato: Marx e il pensiero etnologico, cit., p. 218.
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sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a
cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano
mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni
materiali della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non
quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si
trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della
sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione. A grandi linee, i
modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono
essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima
forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non
nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga
dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si
sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le
condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa
formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana»100.
Il movimento della storia raffigurato da Marx è un processo
scandito dallo sviluppo delle forze produttive e dal conflitto tra
queste e i rapporti di produzione, per cui mutando le prime
mutano per via rivoluzionaria anche i secondi. Nella sua totalità, il
decorso storico è un dirigersi verso un fine rispetto a cui tutta la
storia fino a quel momento trascorsa assume l’aspetto di una lunga
«preistoria» costituita da tappe preparatorie e transeunti. Il
comunismo, a sua volta, sembra essere inteso non tanto quale
stazione d’arrivo della storia umana ma come un suo necessario
momento di rottura oltre il quale si pone l’ingresso nella vera
storia:
«Il comunismo è, in quanto negazione della negazione, affermazione; perciò
è il momento reale, e necessario per il prossimo svolgimento storico,
dell’emancipazione e della riconquista dell’uomo. Il comunismo è la struttura
necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro; ma il comunismo
non è come tale la meta dello svolgimento storico»101.
La concezione di Marx della storia, come sappiamo, si basa sulla
dimostrazione che la modernità non coincide con l’epoca della
100
101
K. Marx, Prefazione, in Per la critica dell’economia politica, cit., pp. 5-6.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 140.
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libertà finalmente ottenuta (in essa, infatti, continua a sussistere tra
gli uomini la massima disuguaglianza e dunque l’assenza di libertà)
e sull’idea che esista un soggetto (il proletariato) che tramite il suo
agire permette alla storia di poter avanzare. Più che un gruppo
caratterizzabile con precisione sociologica, in Marx il proletariato
rappresenta l’incarnazione dei dominati della modernità,
l’«emblema della ‘miseria oggettiva’ creata dal capitalismo, cioè
della separazione dei soggetti dalle condizioni materiali della
propria realizzazione»102. Il capitalismo, infatti, non costituisce una
totalità armonica ma un insieme dialettico che alberga al suo
interno insanabili contraddizioni. Prima, fra queste, l’esistenza del
proletariato, una classe sociale asservita e costretta a generare
ricchezza di cui non può fruire e che esiste solo in funzione della
logica di illimitata «valorizzazione del valore»103. Il lavoro, per
questa classe, equivale alla creazione di proprietà per il capitalista, e
la proprietà, per il capitalista, equivale al comando dispotico sul
lavoro della classe proletaria. In questa totalità oppositiva ognuno
dei due termini mantiene in vita il suo opposto ma mentre la classe
proprietaria aspira ad avvilire il proletariato per conservare la
proprietà privata il proletariato vuole distruggere la proprietà
privata e, con essa, la sua condizione di proletariato; la prima classe
mira a eliminare il conflitto conservando l’opposizione, la seconda
(il «partito della distruzione», il lato negativo dell’antitesi, il soggetto
in grado di far avanzare il processo storico ingaggiando la lotta)
aspira ad annientare, insieme al conflitto, anche l’opposizione104.
E. Donaggio, P. Kammerer, Introduzione, in K. Marx, Antologia. Capitalismo, istruzioni per
l’uso, cit., p. XIII.
103 K. Marx, Il capitale. Libro I, cit., p. 185.
104 «La proprietà privata, come proprietà privata, come ricchezze, è costretta a mantenere
in essere se stessa e con ciò il suo termine antitetico, il proletariato. Questo è il lato positivo
dell’antitesi; la proprietà privata che ha in sé il suo appagamento. Invece il proletariato,
come proletariato, è costretto a negare se stesso e con ciò il termine antitetico che lo
condiziona e lo fa proletariato, e cioè la proprietà privata. Esso è il lato negativo della
antitesi, la sua irrequietezza in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi. La classe
possidente e la classe del proletariato rappresentano la stessa autoestraniazione umana.
Ma la prima classe si sente completamente a suo agio in questa autoestraniazione, sa che
la estraniazione è la sua propria potenza ed ha in essa la parvenza di una esistenza umana; la
seconda si sente annientata nell’estraniazione, vede in essa la sua impotenza e la realtà di
102
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La classe proletaria, spiega Marx, è «nell’abiezione la ribellione
contro questa abiezione», ribellione cui è necessariamente spinta
dalla disumana condizione cui è costretta. «L’uomo nel proletariato
ha perduto se stesso, ma, contemporaneamente, non solo ha
acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è stato
spinto direttamente dalla necessità ormai incombente, ineluttabile,
assolutamente imperiosa – dall’espressione pratica della necessità –
alla ribellione contro questa inumanità; ecco per quali ragioni il
proletariato può e deve emanciparsi. Ma esso non può emanciparsi
senza sopprimere le proprie condizioni di vita. Esso non può
sopprimere le proprie condizioni di vita senza sopprimere tutte le
inumane condizioni di vita della società attuale, che si riassumono
nella sua situazione»105. Per emanciparsi dalla condizione di
proletariato, in altre parole, il proletariato non può che
intraprendere una lotta volta a sopprimere le cause che lo generano
in quanto classe che nell’epoca moderna rappresenta «la perdita
completa dell’uomo»106. In questa battaglia, pertanto, il proletariato
non può emancipare se stesso senza emancipare «completamente
l’uomo»107 cioè l’intera umanità: «nell’ora storica del mondo, che è la
sua ora, la classe proletaria rappresenta tutto il genere umano.
L’alienazione è divenuta totale, e quando la classe del proletariato
abolisce la propria alienazione, allora essa, in quanto
rappresentante dell’alienazione totale, abolisce l’alienazione in
generale e così la divisione in classi in quanto tale»108.
una esistenza non umana. Essa, per usare un’espressione di Hegel, è nell’abiezione la
ribellione contro questa abiezione, ribellione a cui essa è necessariamente spinta dalla
contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita e che è la negazione
aperta, decisa, assoluta di questa natura. In seno all’antitesi, dunque, il proprietario
privato è il partito della conservazione, ed il proletariato il partito della distruzione. Il primo
lavora alla conservazione dell’antitesi, il secondo alla sua distruzione»: K. Marx, F. Engels,
La sacra famiglia. Ovvero critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e consorti [1845], in Id.,
Opere scelte, cit., pp. 165-166.
105 Ivi, pp. 166-167.
106 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, cit., p. 70.
107 Ibidem
108 W. Schulz, Le nuove vie della filosofia contemporanea. Volume quarto. Storicità, Marietti, cit., p.
137.
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La modernità, come sappiamo, è letta da Marx come un’ulteriore
tappa di una lunga preistoria ancora macchiata dal dominio
dell’uomo sull’uomo, dall’oppressione sociale e dall’assenza di
libertà. A differenza di Hegel, è stato fatto notare, il movimento
storico in Marx è «aperto nelle sue conclusioni, e il suo intento di
fondo è sovversivo, non conciliativo» 109. Per Hegel «si trattava di
giustificare e di mantenere, per mezzo della sua dialettica, come in
ultima istanza razionali, i rapporti di potere e di proprietà
dominanti. Utilizzando la stessa dialettica, Marx voleva dimostrare
il carattere transitorio e fragile dello status quo, ma soprattutto la
necessità e l’inevitabilità di un futuro perfetto»110. Quella di Hegel,
com’è noto, è una metafisica della libertà: «la libertà ne è infatti il
filo conduttore, dalla libertà di uno solo (antico Oriente), alla
libertà di pochi (mondo antico greco-romano), fino alla libertà di
tutti (mondo moderno protestante caratterizzato dal libero esame
religioso e dallo stato etico)»111. La triade hegeliana, composta dalla
successione della libertà di uno, poi di pochi e infine di tutti, si
capovolge in triade marxiana, che «mette in scena sul palcoscenico
della storia prima la dipendenza personale (società variamente
precapitalistiche), poi l’indipendenza personale (società borghesecapitalistica), ed infine la libera individualità, che è la sua
connotazione antropologica della futura società comunista»112.
L’età del capitalismo, in questa triade, costituisce lo stadio
caratterizzato da una forma di «indipendenza personale fondata
sulla dipendenza materiale», una fase cioè in cui «il nesso sociale
degli individui si presenta come un nesso solo materiale, al quale
essi sono subordinati restando tra loro nella reciproca
indifferenza»113. Nel contesto di questa «indipendenza personale
fondata sulla dipendenza materiale» gli individui risultano «liberi»
I. Mészáros, Marx «filosofo», in Storia del marxismo, 4 voll., I, Il Marxismo ai tempi di Marx,
cit., p. 147.
110 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, cit., p. 24.
111 C. Preve, Una approssimazione al pensiero di Karl Marx. Tra idealismo e materialismo, cit., p.
26.
112 Ivi, pp. 27-28.
113 G.A. Di Marco, Dalla soggezione all’emancipazione umana. Proletariato, individuo sociale, libera
individualità in Karl Marx, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, p. 50.
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nel senso di reciprocamente indifferenti, ma in realtà sono
materialmente assoggettati ai meccanismi di una logica riproduttiva
che essi non governano affatto114. La libertà che si considera
conquistata nell’era del capitalismo (lo stadio storico caratterizzato
da una forma di «indipendenza personale fondata sulla dipendenza
materiale») è perciò illusoria, essendo gli uomini in balìa di
dinamiche impersonali ed autoreferenziali, di forze prodotte dagli
uomini stessi che «si sono staccate e oggettivate»115 ed hanno preso
a condurre un’esistenza autonoma:
«I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale)
sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa
soltanto in un ambiente ristretto e in punti isolati [modi di produzione antico
e feudale]. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la
seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio
sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di
universali capacità [modo di produzione capitalistico]. La libera individualità,
fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della
loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce
il terzo stadio [comunismo]. Il secondo crea le condizioni del terzo»116.
«Ogni cosa oggi sembra portare in se stessa la sua contraddizione. Macchine, dotate
del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di
fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove
sorgenti della ricchezza in fonti di miseria. Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a
prezzo della loro stessa natura. Sembra che l’uomo, nella misura in cui assoggetta la
natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della
scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le
nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze
materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola ad una forza materiale»:
K. Marx, Discorso per l’anniversario di «The People’s Paper», cit., p. 40.
115 L’età del capitalismo, da questo punto di vista, è «ancora preistoria umana, cioè, non è
una storia costruita in modo consapevole. Essa presenta la umana autoalienazione in
forme diverse e diversamente violente, è in gran parte ancora ‘natura’ nel significato
hegeliano, nel senso di un essere-esterno-a-se-stesso, in cui le forze prodotte dall’uomo,
ma non comprese come tali, si sono staccate e oggettivate. Per cui esse appaiono come
destino ineluttabile, e lo sono infatti nella storia sino ad ora trascorsa»: E. Bloch, Estratti
da «Subjekt-Objekt. Erläuterungen zu Hegel», in Id., Dialettica e speranza, a cura di L. Sichirollo,
Vallecchi, Firenze 1967, p. 163.
116 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit., vol. I, pp. 98-99.
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Il «terzo stadio», che emergerà dal superamento delle
contraddizioni che dilaniano il secondo, coincide con l’epoca del
pieno e libero sviluppo delle capacità umane. In questo senso, «la
filosofia della storia di Marx è la tendenza dell’umanità alla
realizzazione dell’uomo totale»117, risultato nei confronti del quale
passato e presente si configurano come forme transitorie e
strutturalmente in tensione verso l’avvenire. Per Marx, infatti, «il
processo storico è tutt’altro che una semplice concatenazione
causale che da un passato morto conduce a un oscuro futuro; la
storia dell’umanità gli sembra essere piuttosto una risoluta totalità
che racchiude passato e futuro in una unità vivente, in cui ogni
precedente stadio di sviluppo contiene già ‘organicamente’ in sé il
futuro»118. Il presente, da questa prospettiva, è inteso come «porta
verso il futuro» e il futuro, a sua volta, come «il compimento e il
completamento di tutto il passato»119.
Intesa quale luogo di emancipazione universalistica, la storia è in
Marx un processo orientato verso «un fine ultimo dotato di
senso»120: «il vero regno della libertà», dove cessa il lavoro
determinato dalla necessità e dalla finalità esterna e comincia lo
sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso. Questo
stadio, tuttavia, può fiorire solo sulle basi del «regno della
necessità», luogo ancora carico di contraddizioni e di violenza:
«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro
determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua
natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il
selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per
conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile e
lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di
produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità
naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si
espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in
L. Goldmann, Dibattito con Lucien Sebag (sui manoscritti del 1844), aprile 1962, ora in S.
Naïr, M. Lowy, Goldmann, Erre Emme, Roma 1990, p. 116.
118 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, cit., p. 25.
119 Ivi, p. 27.
120 K. Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, cit., p.
65.
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questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i
produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico
con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da
esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito
con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate
alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un
regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità
umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può
fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità»121.
Per questa ragione, anziché dipingere immagini astratte sul futuro
o prescrivere «ricette per l’osteria dell’avvenire»122, Marx si propone
soprattutto di «svelare la legge economica del movimento della società
moderna»123, nella convinzione che «solo lo studio paziente delle
fondamenta economiche del sistema di dominio borghese crea le
condizioni teoriche per poterlo rovesciare praticamente»124.
K. Marx, Il capitale. Libro III, cit., p. 933.
K. Marx, Poscritto alla seconda edizione, in Il capitale. Libro I, cit., p. 42.
123 K. Marx, Prefazione alla prima edizione, in Il capitale. Libro I, cit., p. 33.
124 O.K. Flechtheim, H.-M. Lohmann, Marx, cit., p. 88.
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