Ingrid Pussich biografia - Associazione Tori e Motori International

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Ingrid Pussich biografia - Associazione Tori e Motori International
Ingrid Pussich, 21.1 2014
Nel dicembre del 1967, per motivi molto personali che non desidero approfondire,
decisi di cambiare posto di lavoro.
Mi consultai con mio padre e decidemmo di porre un’inserzione sul “Resto del Carlino”
come traduttrice e interprete per tedesco, inglese e francese. In quegli anni l’Italia era
ancora in espansione, le industrie floride ed il mercato del lavoro molto vivace.
Mi risposero innumerevoli ditte, fra cui molte veramente molto note ed importanti. Fra
tutte le lettere c’era una piccola busta con un biglietto da visita su cui c’era scritto:
“ho letto la Sua inserzione e sono interessato. Mi telefoni pure per un incontro.
Intanto Le auguro un Felice Natale e Anno Nuovo” firmato Ferruccio Lamborghini.
La cosa mi colpì, ma, messo il biglietto nel mucchio, cominciai a contattare quasi tutti
quelli che mi avevano scritto e andai a vederli.
Tutti mi volevano assumere, ma a me era rimasto impresso il nome di Lamborghini
perché alcuni mesi prima, una sera molto sul tardi, facendo un giro per via
Indipendenza con degli inglesi concessionari ed il proprietario della ditta in cui allora
lavoravo, all’altezza del “Baglioni” ci eravamo fermati a guardare incantati una vettura
che brillava sotto la luce dei lampioni. Io non sapevo che cosa fosse e, quando lo
chiesi, il mio capo disse con aria di rimprovero: “ma Ingrid, è una Lamborghini Miura!”
Così collegai poi subito il biglietto con quel fenomenale veicolo che brillava, in un bel
blu elettrico metallizzato nella notte e decisi che sarei andata a lavorare lì.
Telefonai in via Calda a Casalecchio, dove Lamborghini abitava allora, e fissammo
l’incontro.
Con la mia vecchia macchina arrivai in via Calda, salìì qualche rampa di scale e mi
trovai di fronte alla porta di Lamborghini. Devo premettere che io Lamborghini me lo
ero immaginato sul tipo di Gianni Agnelli, un signore sul distinto-sportivo, altino, con
una giacca in tweed.
Suonai, la porta si aprì e comparve sull’uscio un ometto sul tondo, un poco più alto di
me, tutto vestito in blu, camicia bianca, cravatta blu. Pensai: “dev’essere il
maggiordomo, questo” e dissi con una certa aria di superiorità che mi chiamavo così w
così e che avevo per quell’ora un appuntamento con il signor Lamborghini.
Lui mi guardò e incrociando le braccia e battendosele sul petto disse” Lamburghein, a
somme!” Restai senza parole e pensieri, e lui: ”Dai dai, vieni dentro”. Mi portò in un
vasto salone tutto circondato su tre lati da sofà blu, ci sedemmo e lui cominciò a
pormi delle domande su me stessa e su quello che sapevo fare, ed io rispondevo
dandomi un’aria di grande sicurezza. Parlammo a lungo e ad un certo punto lui disse:
“A me, mi vai bene” e poi aggiunse: ”Sai, un tempo comandavo soltanto io nelle mie
fabbriche, ma poi, essendo diventate troppo grandi, ho dovuto assumere dei direttori.
Devi andare a vedere anche loro”. Dissi “va bene” e lui telefonò subito a Stanzani alle
Automobili e a Bettocchi ai trattori.
Qualche giorno dopo, mancavano pochi giorni a Natale, era nevicato e c’era la nebbia,
arrivai per la prima volta a Sant’Agata, incontrai Stanzani, e poi partii per Cento.
Nella fabbrica dei trattori mi accompagnarono in una grande sala, dove, attorno ad un
tavolo ovale, sedevano almeno una decina di persone.
Cominciò un fuoco di fila di domande, ed io rispondevo con grande tranquillità e
dicevo di saper fare tutte le cose che loro consideravano indispensabili, imbrogliandoli
non poche volte, e consolandomi pensando che tanto poi avrei imparato. Poi tacemmo
tutti e Bettocchi disse: Allora, signorina, quando vuole incominciare all’Automobili?
Dissi che lasciavo ogni decisione a lui che mi disse di presentarmi in fabbrica l’8
gennaio, un lunedì dopo le vacanze di natale, all’ufficio vendite.
Ebbi così tempo di comprarmi un libro sul funzionamento dei motori, di imparare tutti i
termini tecnici anche in tedesco, inglese e francese, e credo che nessuno mai si
accorse che in realtà imparavo di giorno in giorno.
Ferruccio Lamborghini nel ’68 non era più assiduo in fabbrica come nei primi anni
d’attività. Compariva a giorni, facendo rapide puntate nei vari uffici. Ero quasi
intimidita dai suoi modi veloci, senza fronzoli, che andavano al cuore dei problemi e li
risolvevano senza tanti giri di parole.
Lui non era un uomo colto, ma non ne aveva bisogno, perché era nato naturalmente
intelligente, come altri nascono musicisti o pittori, ecc. Credo che fosse, nel suo
campo, una specie di genio perché è veramente fuori dal comune decidere così, di
punto in bianco, di costruire automobili, e che automobili!
Credo che gran parte della sua genialità consistesse nel trovare e utilizzare le persone
di cui aveva bisogno. Così Gandini creò per lui le più fantastiche carrozzerie, degli
ingegneri di grande talento le parti meccaniche e poi, via via i tecnici, gli specialisti nei
loro rispettivi settori. Lui era quello che dava la a tutti questi. Io, quando cominciai a
lavorare per lui, ero una signorina di buona famiglia, un’apostola con degli alti ideali, e
mi trovai catapultata in un mondo di gente ruspante, molto viva e vivace, senza tante
finezze, pratica e che credeva in quello che faceva. Erano anche gli anni delle
contestazioni politiche, degli operai, per cui l’unico colore possibile era il rosso e che
pertanto non gli erano grati che avesse creato lavoro per tanta gente. Ricordo quella
volta in cui, nell’autunno caldo, gli operai invasero l’atrio che portava su agli uffici e
quando lui comparve appoggiandosi alla ringhiera e cercando di calmarli, loro presero
ad insultarlo e lui dopo un po’ disse: “Ragazii, fe’ mo qual c’a vli” (ragazzi, fate mò
quello che volete), io intanto me ne vado al mare a Milano Marittima e fece proprio
bene.
Era anche un uomo di spirito. In un’intervista, alla domanda di quale fosse la sua
canzone preferita, rispose:” lo straniero di Moustaki, perché aveva appena venduto
parte della fabbrica allo svizzero Rossetti. Quando gli chiesero per chi votasse, disse di
essersi fatto una lista dei partiti e che ogni volta votava un partito dal primo e
proseguendo poi per gli altri. “Voto anche per i comunisti”. “Certo, ogni volta che
arriva il loro turno”.
A Leopoldo Pirelli, che aveva appena costruito il Pirellone, disse: ”Bravo, t’è fat un bel
lavourir” (hai fatto un bel lavoto). Diceva anche ai suoi direttori: “le impiegate, belle o
brutte, costano lo stesso. Allora prendiamo le belle”.
Quando andammo in amministrazione controllata, lui che già da tanti anni era “fuori”,
sognò di ritornare. Quella volta la sua sicurezza, la sua rapidità di decisione, il suo
“essere Lamborghini” andarono oltre la realtà dei fatti e così gli preferirono un altro
offerente.
Quando la volta precedente, la fabbrica e la sua sopravvivenza erano di nuovo in
pericolo, lui venne nel nostro ufficio, si sedette di fronte a me e disse: “Tu Ingrid, non
ti devi preoccupare di niente. Qui stanno per chiudere, ma tu vieni a lavorare con me,
dove vuoi.”
Fu un gesto magnifico, ma io gli dissi: “Signor Lamborghini, io La ringrazio, ma sento
che questa fabbrica non chiuderà”. E lui: “come fai a saperlo? Io:” non lo so, però lo
sento”. “Sei sicura?” - “Sì, resto qui”. “Va bene, ma se succede qualcosa, ricordati di
quello che ti ho detto”.
Quando eravamo della Chrysler ed al 20° Anniversario c’erano tutti gli alti dirigenti
americani incluso Iacocca, tutti i clienti e i giornalisti erano interessati soltanto a
Ferruccio Lamborghini, che era solo un invitato ma che tutti consideravano come il
vero Padrone. Lui comunicava con tutti questi stranieri, parlando loro anche in dialetto
e gli trasmetteva il suo entusiasmo rendendoli felici.
Potrei scrivere su di lui infinite altre cose ma voglio concludere con un’osservazione
soltanto.
Sono passati cinquant’anni, i tempi, la gente, la mentalità sono cambiati ma la nostra
vita è stata migliore per il fatto che lui è esistito e noi abbiamo approfittato di quanto
è stato lui a creare.
Come ho già detto, fisicamente lui non era granchè. Però un dettaglio che mi aveva
colpito fin dall’inizio erano i suoi occhi, non celesti slavati, né azzurri, ma di un blu
profondo, brillanti, vivi, intelligenti, di uno che andava diritto al cuore delle cose.
Quando morì, ci ritrovammo tutti a Renazzo. C’erano di quelli che lavoravano ancora
in fabbrica, c’erano di quelli che da tempo erano andati via, di quelli rossi che
l’avevano stupidamente contestato perché costruiva le macchine per i ricchi, ed una
marea di altra gente a noi sconosciuta.
Si capiva che quasi tutti erano lì non per ipocrisia, ma perché l’ammirazione, l’affetto e
una certa presa di coscienza aveva no avuto il sopravvento. Io piangevo senza
ritegno perché mi rendevo conto che si stava chiudendo un’epoca e che dopo tutto
sarebbe stato più globalmente sbiadito.
Le vetture di adesso sono molto belline, ma non si possono comparare, tranne la
Diablo, con quelle dei tempi di Lamborghini, dalla 350 GT che attrasse subito i più
grandi nomi di allora, al fenomenale Miura, all’Espada matronale, al bambino Urraco,
al Countach degno figlio della Miura, a quelli che, ad un livello più modesto, erano i
cugini di campagna, l’Islero e la Jarama.
Ora le vetture sono come le attrici attuali, che si confondono le une con le altre
nonostante la loro perfezione ma non saranno mai delle Marilyn!