kafka, il postino delle bambole

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kafka, il postino delle bambole
kafka, il postino delle bambole
Di fronte al pianto disperato di mia figlia, alla quale avevo
strappato via da mano, per punirla di un capriccio, il libro
appena regalatole – quel pianto struggente, catastrofico, indifeso, che solo i bambini sono capaci di produrre, come se
tutto il dolore del mondo sgorgasse dalle loro lacrime – mi
tornò in mente una volta una delle storie più bizzarre e commoventi che conosca. La storia di un altro disperato pianto di
bambina, nel quale s’imbatté per caso in un parco berlinese,
nel 1923, Franz Kafka. Lo scrittore si era appena trasferito a
Berlino, dove viveva con la giovane polacca Dora Diamant,
ebrea come lui, conosciuta quell’estate in una stazione balneare sul Baltico. Con lei – forse il suo unico, vero amore – Kafka
avrebbe trascorso, a quanto pare serenamente, l’ultimo anno
della sua vita, facendo progetti comuni, come quello di emigrare insieme in Palestina e di aprire un ristorante (suppongo
vegetariano) a Tel Aviv.
Anche quel giorno Kafka e Dora erano insieme, al parco
di Steglitz, dove passeggiavano spesso, quando incontrarono la
bambina che piangeva. I due le si accostarono e cominciarono a
parlare con la piccola, cercando di rassicurarla. Lui le domandò
cos’era che la faceva tanto soffrire, e se si fosse persa.
“Non io, la mia bambola si è persa”, gli rispose lei, tra i
singhiozzi.
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Sorpreso dalla risposta, Kafka s’inventò lì per lì una scusa
per spiegare quella sparizione e cercare di lenire il dolore della
bambina.
“La tua bambola non si è persa – le disse – È solo partita per
un viaggio”.
La bambina lo guardò diffidente.
“E tu che ne sai?”, gli chiese, smettendo di piangere.
“Lo so. Mi ha mandato una lettera”, le rispose Kafka, fingendo di essere un postino delle bambole.
“Ce l’hai qui con te?”, gli chiese ancora la piccola.
“No, mi dispiace, l’ho lasciata a casa. Però domani te la porterò”.
Era bastata quella promessa a far dimenticare alla bambina il
dolore della scomparsa. Incerta se credere o no a quel signore
dal sorriso gentile, alto e snello, elegante e dalla pelle olivastra
come quella di un principe indiano, e sempre più incuriosita, la
bimba decise di fidarsi.
“Allora ti aspetto qui, domani”.
Kafka tornò subito a casa e si mise a scrivere la lettera della
bambola. Dora, che per fortuna ci ha raccontato nelle sue memorie questo stupefacente aneddoto, dirà che quel giorno lo
vide entrare “nella stessa condizione di tensione in cui si trovava non appena si sedeva alla scrivania”.
Il giorno dopo Kafka ritorna al parco con la lettera e trova
la bambina che lo sta aspettando, seduta su una panchina. E
lui, con voce serissima e mansueta, le legge il messaggio della
bambola. È molto dispiaciuta di averla lasciata, le dice, ma aveva bisogno di cambiare aria, di conoscere il mondo. Non è che
non vuole più bene alla bambina: ha solo voglia di viaggiare,
incontrare altra gente, fare nuove esperienze. E a questo punto
succede qualcosa di sensazionale: Kafka, l’autore di capolavori
che hanno cambiato il nostro modo di vedere la realtà, l’uomo
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che già sapeva di avere i giorni contati perché ammalato – morirà di lì a poco di tisi in un sanatorio nei pressi di Vienna, a 41
anni – si impegna a scrivere ogni giorno una lettera alla bambina, per aggiornarla su come sta e su quello che sta facendo la
sua bambola. Glielo fa promettere dalla bambola stessa, nella
lettera, e manterrà la promessa per le successive tre settimane.
Venti lettere per venti giorni, scritte con la massima dedizione,
con ascetico impegno, al solo scopo di rendere accettabile per
la bambina l’angoscia dell’abbandono, il trauma della separazione. Un gioco serissimo, spinto fino al limite del possibile. Ogni
giorno Kafka si reca al parco, si siede sulla panchina accanto
alla bambina e le legge una lettera. La bambola cresce, comincia
ad andare a scuola, a fare nuove amicizie, continua a ripetere
alla bambina che le vuole bene, ma ogni volta si frappone qualche ostacolo, qualche complicazione che non le permette di
tornare. Kafka ritarda il momento dell’addio definitivo, costruisce divagazioni, sotterfugi, rallentamenti. Dora ricorda addirittura che aveva una “paura terribile” di non essere all’altezza di
scrivere un finale autentico. In realtà ha paura che la scrittura
possa non reggere l’urto della verità, che si riveli inefficace, incapace di creare un ordine che sostituisca “il disordine causato
dalla perdita del giocattolo”. Guarire il dolore della bambina è
l’unico obiettivo che Kafka si pone in quei venti giorni, continuando a intrecciare quella implacabile, rigorosa menzogna
che è la letteratura, nella quale il genio di Praga ha identificato
tutto il suo essere e tutta la sua vita (“Non posso né voglio
essere altro che letteratura”, scrisse nei suoi Diari). È come se
di fronte a quel pianto di bambina – e alla possibile capacità di
compensazione, di risanamento della parola – si giocasse la sua
intera esistenza di scrittore.
Dopo molte riflessioni e incertezze, Kafka decise infine di far
sposare la bambola. Nella sua ultima lettera descrisse il futuro
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marito, la festa di fidanzamento, i preparativi del matrimonio in
tutti i dettagli, e perfino la casa dove i novelli sposi sarebbero
andati a vivere. Alla fine, le ultime parole che la bambola
scrive alla bambina sono queste: “Vedi tu stessa che dovremo
rinunciare a rivederci in futuro”.
Quel che mi sorprende, in questa storia di Kafka e della bambina nel parco, è il fatto che non abbia in fondo proprio nulla di
kafkiano. È una storia piena di tenerezza e di umanità, con tratti perfino patetici. Per non parlare del finale immaginato nelle
lettere, così consolatorio e convenzionale, col matrimonio della
bambola. Niente di più lontano dall’arcano e crudele mondo
di Kafka, fatto di punizioni efferate e condanne inesplicabili,
metamorfosi orrende e strani incroci, esecuzioni e macchine di
torture, messaggi mai arrivati e divieti incomprensibili. Eppure, quanta profonda saggezza si nasconde in questo episodio
di vita tardivo! Forse, a pensarci bene, l’aspetto più kafkiano
dell’intera vicenda è proprio la sua imprevedibilità, e la capacità di rivelarci una verità nascosta, che il pianto disperato di
mia figlia mi aveva fatto appena intravedere, tutta consegnata
nell’ultima frase dell’ultima lettera scritta dalla bambola e portata dal postino Kafka: “Vedi tu stessa che dovremo rinunciare
a rivederci in futuro”.
Alla fine, dunque, il miracolo della scrittura si compie. I venti
giorni non sono passati invano e le lettere – che la Gestapo
sequestrerà a Dora Diamant, privandoci per sempre di un tesoro inestimabile – hanno adempiuto al loro scopo, preparando
il distacco. La piccola, infatti, accetta finalmente la sparizione
della bambola, la rinuncia. E accetta l’ineluttabile necessità che
ci spinge avanti, ci provoca strappi, abbandoni, conflitti, paure.
Perché nel pianto della bambina nel parco che ha perso la
sua bambola preferita – così come nel pianto di mia figlia che
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si è vista portar via da suo padre il libro illustrato che lui stesso
le aveva appena donato – c’è in fondo l’infelicità di chi si affaccia alla vita. Un’infelicità che va presa molto sul serio, e che va
condivisa, cercando un accomodamento, un varco, una transazione possibile: “Vedi tu stessa”, scrive, non a caso, la bambola.
Come a dire che non può esserci alternativa al riconoscimento
della necessità del dolore. La bambola persa, il libro negato non
sono infatti che le prime prefigurazioni di ciò che ci verrà tolto.
È per questo che Franz Kafka, tra gli autori più impenetrabili
della cultura occidentale, dedicò gli ultimi giorni della sua vita di
scrittore a inventarsi semplici lettere di una immaginaria bambola per consolare una bimba sconosciuta. Perché sapeva che
la scrittura nasce sempre da una perdita, da una complicazione
del vivere e dal desiderio di compensare il dolore che essa provoca. E sapeva che quel dolore, quel vuoto, ci riguarda tutti. Ci
interroga tutti.