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Dipartimento di Lettere, Arti, Storia e Società
Corso di Laurea Magistrale in Psicologia dell’intervento clinico e sociale
Dimensioni per una buona genitorialità nell’affido
familiare. Una ricerca qualitativa.
Relatore:
Chiar.ma Prof.ssa Luisa Molinari
Correlatore:
Chiar.ma Prof.ssa Paola Corsano
Laureanda:
Valentina Ceriali
Anno Accademico 2014/2015
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1
Indice
Ringraziamenti ………………………………………………………………..... 4
1.
Teoria e intervento nell’affidamento familiare ………………………………… 5
1.1
L’ affidamento familiare: contesto, storia e attualità ……………….………...... 5
1.1.1 Finalità e professionalità coinvolte nell’affidamento familiare .……...... 9
1.2
Cura e deprivazione nell’infanzia…. ……………..………….……………...... 14
1.2.1
Tipi di maltrattamento infantile …………………………………........ 18
1.2.2 Effetti a breve e lungo termine della carenza di cure genitoriali ……... 20
1.2.3 Fattori di rischio e di protezione nello sviluppo infantile ………...…... 21
1.3
Tipologie di affidamento familiare ………...…………………………………. 24
1.4
Motivazioni, disponibilità e sostegno del genitore affidatario ………...……... 26
1.5
L’importanza del gruppo ………...………………………………………...…. 30
1.5.1 Il gruppo come sostegno ……………………………………………… 31
1.5.2 Il gruppo come occasione di formazione permanente e impegno
sociale …………………………………………………………………. 31
1.5.3 Il gruppo come osservatorio per gli operatori ……………………........ 32
2.
La ricerca scientifica sull’affidamento familiare ……………………………... 33
2.1
Ricerche sulle tematiche connesse all’affidamento familiare .……………….. 33
2.1.1
Sicurezza e stabilità per i bambini in affidamento ….………...………. 34
2.1.2
Impegno e caratteristiche temperamentali: i predittori della relazione
caregiver-bambino nell’affidamento familiare ….………...………….. 40
2.1.3
2.2
Presupposti sui temi della ricerca nell’affidamento familiare .…...…... 42
Modelli di genitorialità positiva .…………..…………………………….……. 44
2.2.1
Le dimensioni fondamentali del caregiving …………...….....….…..… 45
2.2.2
Una visione amplificata delle funzioni genitoriali: il Parenting plus ..... 51
2.2.3
Prospettive a confronto: i punti d’incontro tra le ricerche ………….… 57
2
3.
La ricerca ………….………………………………………………………….. 59
3.1
Premesse………………………….…………………………………………… 59
3.2
Obiettivi …………………………………………………..…….…………….. 59
3.3
Metodologia ………………………………………………………………..…. 60
3.3.1 Le interviste ……………………………………………..…………….. 62
3.4
I partecipanti …………………………………………………………...…..…. 63
3.5
I risultati………………………………………………………………..……… 64
3.5.1 Cosa vi ha spinto a pensare all’affido? ……………………………….. 64
3.5.2 In che modo il minore mantiene il legame con la sua famiglia d’origine?
E come questo si ripercuote nelle relazioni con voi? ..………………... 68
3.5.3 Come avete percepito la vostra scelta vista dagli occhi degli altri? ..…. 75
3.5.4 Le dimensioni della genitorialità …………………………..………….. 77
3.6
Discussione ………………………………………………………………..… 103
Conclusione …………………………………………………………………. 108
Bibliografia ………………………………………………………………….. 111
Allegato 1 ……………………………………………………………………. 121
3
Ringraziamenti
A conclusione di questo percorso, rivolgo il mio più sentito grazie alle famiglie
affidatarie e alle persone che si sono adoperate affinché riuscissi a portare avanti
la presente ricerca: in particolare, l’Associazione Famiglie Affidatarie “Il
Girasole” di Cremona, l’Associazione familiare “Il Canguro” di Crema (CR), le
famiglie dell’Associazione “Solidarietà Educativa” e la comunità familiare “Le tre
civette” di Pegognaga (MN), il Centro Promozione Affidi Familiari CEPAF di
Brescia. Senza la disponibilità delle famiglie e dei referenti che mi hanno messo
in contatto con le stesse, questo lavoro non sarebbe stato possibile.
Un ringraziamento particolare va alla Professoressa Molinari, che mi ha seguita
con precisione e interesse, dandomi forti stimoli, nonché preziosi suggerimenti,
certamente utili anche per il mio futuro. L’impegno e la costanza richiesti mi
hanno insegnato molto e hanno aumentato ulteriormente il mio interesse verso la
ricerca, un mondo che voglio esplorare spinta dalla mia curiosità, e fare mio
desiderosa di crescere intellettualmente e professionalmente.
Ringrazio la Professoressa Corsano che ha saputo comprendere le incertezze e le
difficoltà che talvolta s’insinuano nella vita dello studente, e ha contribuito con
grande disponibilità a fornirmi l’incoraggiamento e le indicazioni per proseguire
nella strada giusta per me.
In questo percorso ho avuto la possibilità di maturare consapevolezze e capire
meglio me stessa, arrivando a vedere con chiarezza la strada che voglio
intraprendere. Nei tempi del “vale tutto, purché d’effetto”, delle vite vissute
freneticamente imitando le curve del gradimento e del successo, senza il quale ci
si sente una nullità, ringrazio tutte le persone che, incontrate sulla mia strada, mi
hanno sostenuta nell’idea secondo cui ciò che conta è quello che custodiamo
dentro noi stessi, convinti che questo frutto nascosto vada curato e alimentato con
passione, senza soffermarsi alle semplici costruzioni apparenti.
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Capitolo I
TEORIA E INTERVENTO NELL’AFFIDAMENTO
FAMILIARE
1.1 L’Affidamento familiare: contesto, storia e attualità
Ambienti sociali, affettivi e relazionali intensi hanno un indiscutibile influsso
sulla formazione del Sé e sullo sviluppo psicomotorio infantile. Risulta molto
importante per ogni bambino farne esperienza all’interno di un sistema educativo
accudente, che caratterizzi una genitorialità sufficientemente buona. Data la natura
relazionale insita in ogni essere vivente, dopo la nascita si instaura un legame di
attaccamento che riguarda la necessità del piccolo di assicurarsi la protezione da
parte di almeno un adulto privilegiato che ha funzioni stabili di accudimento
(Bowlby, 1969). L’essere umano manifesta una predisposizione innata a
sviluppare legami significativi con figure genitoriali primarie. Tali relazioni di
attaccamento esistono in forma organizzata dalla fine del primo anno di vita e
sono finalizzate a garantire sicurezza e tutela in circostanze pericolose e di
necessità. Secondo Bowlby (1969), la disposizione all’attaccamento è una
componente basilare della natura umana, parte del patrimonio genetico, che ci
spinge entro un dato periodo sensibile al raggiungimento di un traguardo
evolutivo. Il processo di formazione dell’attaccamento inizia, infatti, dalla nascita,
dal momento in cui i neonati ricercano cure e protezione attraverso la prossimità
con la figura primaria, e sono attenti ai messaggi che riguardano loro stessi e
l’ambiente circostante. Tali messaggi sono evidenti sul volto del caregiver e le
informazioni contenute vengono elaborate dai bambini con lo scopo di dare un
senso al mondo che li circonda (Schofield & Beek, 2013). Le rappresentazioni
mentali sulla relazione di attaccamento, che dai 18 mesi vengono costruite nella
mente del bambino, emergono sulla base delle risposte ottenute dalla sua figura di
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attaccamento sulla disponibilità e la responsività manifestate nell’evoluzione delle
interazioni intessute. In funzione di ciò, il bambino trova risposta circa la
possibilità di contare sulla diponibilità del caregiver e l’essere meritevole di tale
disponibilità, formando così dei modelli operativi interni (MOI) (Bowlby, 1969),
che rappresentano gli schemi mentali di se stesso e della figura di attaccamento:
questi modelli sono utilizzati per rapportarsi con il mondo e consentono lo
sviluppo delle competenze simboliche, mnestiche e linguistiche. Tuttavia, queste
rappresentazioni mentali delle esperienze di relazione primarie con le figure di
attaccamento non possono soppiantare la vicinanza e il contatto, né possono
portare più di tanto sollievo per una perdita improvvisa e permanente di una figura
di attaccamento. I MOI possono essere d’aiuto, per una durata contenuta, nel
perseguimento di altri interessi e attività, ma la maggior parte del tempo, in questa
fase, deve essere trascorsa con le figure di attaccamento, ovvero, in prossimità e in
interazione con loro (Ainsworth, Blehar, Waters & Wall, 1978). I vissuti e gli agiti
del bambino e del genitore, all’interno della loro relazione si intrecciano in
un’interazione
sinergica,
in
un’influenza
immancabile
e
reciproca,
scambievolmente condizionata dal comportamento altrui e dal proprio mondo
interiore. La capacità di creare e mantenere la sintonia tra i poli in relazione
determina la qualità del legame e quindi delle opportunità di uno sviluppo sano e
armonioso del bambino. Le funzioni genitoriali fondamentali sono quindi legate
alla capacità del caregiver di leggere e dare risposta ai segnali del bambino,
osservare il suo stato mentale e attuare comportamenti contingenti, creando una
sintonizzazione affettiva (Stern, 1985). Questo tipo di relazione si sviluppa via via
che entrambi imparano ad adattarsi ai reciproci caratteri, ai rispettivi modi di
richiedere e rispondere, di manifestare e contenere, di ricercare e fornire
protezione e sicurezza. In questo modo, il bambino potrà esprimere se stesso,
sentirsi compreso e sperimentare l’intera gamma dei propri sentimenti (Harris,
1999). Nello svolgimento dei compiti genitoriali è contenuta una sfida che
consiste nel provvedere a garantire un porto sicuro (Bowlby, 1960), affidabile,
stabile, partecipando attivamente alla costruzione delle risorse utili per affacciarsi
verso un’autonomia esplorativa, essenziale per l’evoluzione di ogni individuo
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inserito in un sistema1. Connessione e autonomia sono nodi centrali nella vita
di ogni genitore e di ogni figlio (Ingoglia, Lo Coco, Pace, Zappulla,
Liga & Inguglia, 2005), garantirli anche in situazioni di svantaggio e difficoltà è
un bisogno sociale e un dovere istituzionale. Tra le varie soluzioni che i servizi
preposti offrono, l’affido familiare rappresenta una forma di contenimento sicuro
della vita, in cui vissuti, esperienze, obiettivi, meditazioni e sfide si intrecciano, al
fine di assicurare le opportunità evolutive in una delicata fase della vita. Per
realizzare questo servizio, è necessaria la compartecipazione di più attori sociali
che operano insieme unendo professionalità e contributi solidali. L’affido
familiare è una risorsa pensata per minori in difficoltà, che non fanno esperienza
di ambienti sociali, affettivi e relazionali adeguati e sicuri, minori che per varie
ragioni non possono vivere con le loro famiglie biologiche, protetti dal loro affetto
e inseriti in un contesto di relazioni tale da consentire una crescita armoniosa.
Questo istituto si fonda su una visione positiva delle possibilità di cambiamento e
delle risorse delle persone, in particolare dei bambini.
L’affidamento familiare, inteso come strumento d’aiuto all’infanzia abbandonata e
come allevamento di un bambino da una famiglia diversa da quella di origine è
stato praticato fin dall’antichità con forme e modalità diverse a seconda dei
momenti storici e dell’organizzazione sociale e istituzionale del periodo. La
ricostruzione della storia dell’affidamento familiare è strettamente connessa con la
più generale evoluzione dei percorsi assistenziali in senso sociale e giuridico, con
esordio nel Medioevo, specificamente con i fenomeni della mortalità infantile,
dell’abbandono, degli esposti e del baliatico. È la Chiesa a costruire i primi luoghi
di ricovero per infermi e poveri, e i brefotrofi per i bambini abbandonati, e dal
‘600 amplia gradualmente la propria sfera d’azione nel sociale, divenendo l’attore
fondamentale dell’assistenza e della cura dei fanciulli (Baglioni et al., 2002).
1
“Sistema” inteso come relazione di interdipendenze e di complementarietà fra i diversi attori
coinvolti nello lo scambio. Come esseri umani non siamo isolati in una identità psico-fisica, ma
siamo parte di una serie di ulteriori sistemi via via più ampi e complessi che si condizionano
reciprocamente, quali la famiglia, il territorio, la storia, lo spazio e il tempo in cui si muove la
nostra vita. In questo insieme di interconnessioni è essenziale tener conto dell’influenza che
ciascuno degli attori ha sullo sviluppo e le trasformazioni degli altri. In psicologia l'approccio
sistemico si occupa di esplorare quella dimensione della coscienza in cui ogni fenomeno è parte di
un sistema a cui è interconnesso e da cui dipende.
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Nelle classi sociali più abbienti cresce l’attenzione nei confronti dei minori che
non vengono più allontanati dalla famiglia. Nelle classi sociali meno facoltose e
fra gli emarginati si ha, al contrario, un consolidamento delle strutture di
assistenza per bambini e ragazzi trascurati e abbandonati. Le forme
progettualmente più vicine al concetto di affido odierno, sono contenute nelle
pratiche del baliatico e del collocamento. Col baliatico, il minore veniva collocato
presso un balia per motivi pratici legati alla sua tutela fisica (nutrizione e
protezione dalle malattie fisiche). Non venivano presi in considerazione tutti gli
altri legami d’attaccamento che si potevano instaurare tra il neonato e la balia,
infatti, per le capacità di fornire risposte affettive adeguate non fu prevista alcuna
valutazione. Tale fenomeno era regolamentato dal decreto luogotenenziale del 4
agosto 1918 n.1395, che definiva i criteri per l’esercizio del baliatico, per mezzo
del quale un ente o una persona privata collocava il minore presso una balia che
poteva essere autorizzata a tale esercizio se aveva sempre mantenuto una buona
condotta e non aveva contratto in precedenza malattie infettive, come la sifilide. Il
collocamento, invece, trae le sue origini storiche nella pratica di affidare bambini,
adolescenti e ragazzi a famiglie artigiane o contadine, perché imparassero un
mestiere e, col lavoro, contribuissero al proprio mantenimento (Anfaa, 2015).
Dal ‘900 si apre la strada alla regolamentazione di tutte le pratiche di ospitalismo
e accoglienza privata dei minori, vengono istituiti anche gli organi preposti a
regolamentare tali esercizi: gli istituti si trasformano lentamente in comunità
(Fiorillo, 2011), il regio decreto dell’8 maggio 1927 n. 798 sulle Norme
sull’assistenza degli illegittimi, abbandonati o esposti all’abbandono, istituisce il
servizio di assistenza ai fanciulli illegittimi, abbandonati o esposti all’abbandono,
attribuendone la competenza alle amministrazioni provinciali. È in seguito a
questo provvedimento che nascono gli istituti provinciali per l’infanzia che
svolgono l’assistenza per i minori abbandonati alla nascita e per gli illegittimi
bisognosi. Questa normativa prevede il collocamento dei fanciulli ricoverati nei
brefotrofi o in case di ricezione, presso nutrici o famiglie dei rispettivi territori
comunali (Baglioni et al., 2002). Nel 1935 con la Legge n. 839 viene istituito il
Tribunale dei minorenni, nel 1967 viene approvata dal Parlamento la Legge n. 431
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in cui viene giuridicamente sancito il rivoluzionario principio secondo cui il
bambino/ragazzo non può essere considerato di proprietà dei genitori, non è un
oggetto giuridico, ma è soggetto e titolare di diritti; con questa legge, tra gli
interessi del minore e quelli dell’adulto, viene chiarito che prevalgono quelli del
cittadino in formazione, pertanto, nel conflitto tra gli interessi viene tutelato, in
principio, il minore. Nel 1983, la Legge n. 184 disciplina l'adozione e
l'affidamento dei minori. Il 20 novembre 1989 la Convenzione sui diritti del
fanciullo di New York (ratificata dall’Italia con Legge 27 maggio 1991)
rappresenta il primo documento internazionale a cui fa risalire l’avvio
dell’interesse e dell’attenzione verso la titolarità di diritti del minore. Segue la
Legge n. 149/2001 che introduce alcune modifiche alla 184/1983, in cui si
specifica che le condizioni di indigenza dei genitori, o del genitore esercente la
potestà genitoriale non possono essere di ostacolo al diritto del minore alla propria
famiglia. A tal fine viene disposto che lo Stato, le regioni e gli enti locali,
sostengano i nuclei familiari a rischio con lo scopo di prevenire l'abbandono e di
consentire al minore di essere educato nell'ambito della propria famiglia. (Fiorillo,
2011). Ripercorrendo, così, la storia degli interventi a favore dell’accoglienza dei
minori consegnati o abbandonati nell’Italia dell’800 e del 900, si possono
ricostruire tutte le tappe che hanno dato origine all’istituto dell’affido com’è
regolamentato oggi, e si può riscontrare un parallelo aumento di attenzione e di
acquisizione di diritti per il minore, nonché di una maggiore dignità personale.
1.1.1. Finalità e professionalità coinvolte nell’affidamento familiare
L’affido non intende sostanziarsi in un processo sostitutivo, quanto piuttosto in un
intervento volto a sostenere temporaneamente i genitori nelle loro difficoltà dei
genitori per giungere al loro superamento, e quindi al recupero con un rientro
tendenzialmente più stabile dei figli nel contesto d’origine (Grimaldi, 2007). Lo si
intende e ce ne si avvale, in quanto strumento privilegiato per contenere e
recuperare la situazione che ha causato la necessità di allontanamento di un
minore dalla propria famiglia. Il progetto racchiuso in ogni esperienza di affido
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dovrebbe sempre basarsi su una prognosi di possibile recupero della situazione e
quindi fondarsi su un ritrovamento dell’equilibrio nella famiglia d’origine e nel
suo rapporto col figlio. Il periodo di vita trascorso nella famiglia affidataria è
caratterizzato da una forma di genitorialità supportiva, a compensazione
temporanea della famiglia d’origine. L’affido familiare può essere concepito come
un sistema umano complesso che coinvolge bambino, famiglia di origine e
affidataria. La struttura che connette i componenti di questo sistema è costituita
dai servizi: attraverso la rete di operatori e professionisti che collaborano insieme
si costruiscono le relazioni tra i protagonisti dell’affido. La fiducia reciproca è
fondamentale per raggiungere quella necessaria integrazione che permette di
instaurare buoni affidamenti (Colombari, 2012).
In accordo con Beria d’Argentine (1983, p. 9), nella presentazione della ricerca
Cam-19832, “Quello dell’affido familiare è un terreno interessante di intreccio tra
responsabilità private e pubbliche, è un terreno di incontro tra Istituzioni e Società
civile dove si sperimentano modelli integrati di intervento della politica sociale
probabilmente più adeguati a rispondere ai bisogni di una società post-industriale
e complessa”. Non è soltanto una strategia economica per ridurre i costi della
spesa sociale, ma un patrimonio dell’umanità da valorizzare, promuovere e
supportare. Può essere letto come un modo con cui si esprime fedeltà alla propria
comunità, quindi all’umanità intera (Colognesi, 2011). L’affido di un minore può
essere visto come “risorsa” oltre che per il minore stesso, per l’intero sistema
sociale. Inteso come veicolo di transizioni complesse, nel presente momento
storico più che mai, l’affido rappresenta una forma di solidarietà tra le famiglie,
pertanto racchiude un grande valore sociale e civile che consente di co-costruire
una rete di legami significativi e supportivi tra il bambino, la famiglia di origine e
2
Il Cam è una Associazione del privato-sociale fondata nel 1975 a Milano, che svolge per soli fini
di solidarietà sociale le attività richiestegli dal Tribunale per i Minorenni, dai Giudici Tutelari e da
Pubbliche Amministrazioni. Il Centro Ausiliario per i problemi Minorili-ONLUS è attivo
principalmente nei settori dell’affidamento familiare, dell’avviamento al lavoro e allo studio, della
consulenza legale, della formazione e nel servizio di ascolto e orientamento. Nel tempo sono state
fortemente alimentate anche attività di studio e ricerca che hanno portato a numerosi convegni e
pubblicazioni come quella sopra citata, che descrive una ricerca per il CSERDE di Milano (Centro
studi e ricerche devianza ed emarginazione), a cura dell’avvocato Francesca Ichino Pellizzi.
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la famiglia affidataria. Tali legami rappresentano una serie di relazioni positive
che consolidano la dimensione dell’appartenenza, promuovendo lo sviluppo del
potenziale relazionale, dell’autonomia personale e della consapevolezza di sé,
nonché della percezione di una rete sociale di sostegno. Nel percorso di affido è
altresì importante, per il bambino, mantenere la dimensione della continuità
(Maccioni, 2007), perché, oltre al distacco effettivo dal suo ambiente familiare, ha
già iniziato precedentemente a percepire momenti di instabilità e incoerenza nel
progredire poco lineare del percorso della famiglia, che attraversa momenti di
difficoltà dovuti anche ai nuovi rischi sociali che estendono le forme di
vulnerabilità delle famiglia (Vitale, 2011). Ciò che i bambini, o i ragazzi si
trovano a perdere è la sicurezza, la continuità garantita da una famiglia, senza la
quale non ci si sente più in comunità. L’affido diventa allora un luogo e un tempo
di sperimentazione di nuove relazioni di vasta portata e ingloba nelle sue
fondamenta, come nel suo esercizio, un valore comunitario, dato dallo stringersi
di una vasta rete intorno alla protezione e alla valorizzazione dei bambini, con il
loro comportamento talvolta curioso, talvolta problematico, oltre al quale è bello
andare alla ricerca di qualcosa in più. Anche questo è un requisito importante
affinché gli affidi in quanto tali abbiano successo (Chitti, 2005).
La continuità è vista come prosecuzione al processo di crescita che non deve
essere ulteriormente ostacolato da deprivazioni e traumi, una continuità anche con
il proprio territorio e con i legami preesistenti. È importante identificare una
cornice necessaria a comprendere i sentimenti legati ai luoghi o alle persone: una
famiglia si inserisce in uno spazio e un luogo in cui si svolge la sua vita sociale e
domestica. Tutto questo deve essere tenuto presente, perché, insieme alla
continuità, favorisce una memorizzazione tangibile (Montagano & Pazzagli,
2015). Solo considerando questi aspetti l’affido permette al bambino o
all’adolescente di essere effettivamente inserito per un certo periodo di tempo (da
qualche mese ad alcuni anni), in un altro nucleo familiare, idoneo ad offrire
adeguate risposte alle sue necessità affettive oltre che di educazione, istruzione,
accudimento e tutela. In questo senso, è una soluzione pensata per i casi in cui il
bambino non può ricevere le necessarie cure e non può vedere soddisfatti i propri
11
bisogni specifici, perché la sua famiglia ne è impossibilitata temporaneamente, per
limitazioni economiche, fragilità e instabilità personali, difficoltà lavorative e
organizzative, o talvolta è soggetta a restrizioni giudiziarie. A causa della
situazione presente nella famiglia d’origine, il minore può avere sviluppato
svariate tipologie di difficoltà personali come problemi psichici, problemi sociorelazionali, difficoltà nell’apprendimento. È per questo che tra gli scopi principali
dell’affido familiare si ritrova certamente quello di una progettualità educativa,
perché i giovani assolvano l’obbligo scolastico, non subiscano svantaggi a causa
del loro contesto di provenienza per ciò che riguarda le possibilità della loro
formazione scolastica e professionale, acquisiscano e conservino un’autonomia
personale e mantengano relazioni con la famiglia originaria in modalità non
dannose per la loro crescita. Si tratta pertanto di un’accoglienza che può
permettere di costruire legami forti a livello affettivo ed educativo, che aiutino il
minore a crescere, affinché sia in grado, nel separarsi, di percorrere la sua strada
nella vita. Costruire la possibilità di contesti familiari accoglienti, come anticipato,
è sia un mandato istituzionale, sia una necessità sociale, sia il diritto di ogni
giovane, di ogni essere in evoluzione che, per la sua particolare condizione,
necessita dell’appoggio sicuro che nell’ambito delle cura primaria gli dev’essere
garantito. Quando un figlio viene allontanato dalla famiglia, sono diverse le
istituzioni coinvolte nella presa in carico complessiva volta alla protezione del
minore e all’intervento terapeutico e riabilitativo dell’intero sistema familiare. In
questi casi la funzione educativa, di tutela e cura che normalmente viene esercitata
solo da un unico soggetto (la famiglia), viene “distribuita” a istituzioni e
professionisti (Tribunale per i minorenni, servizio sociale, psicologi, famiglie
affidatarie,
comunità
residenziali)
chiamati
a
collaborare
in
quanto
vicendevolmente detentori di una parte di soluzione del problema (Bastianoni,
Taurino & Zullo, 2011). Chi si trova in questo sistema d’intervento, collabora sia
alla protezione dei minori sia al sostegno delle funzioni genitoriali attraverso una
molteplicità d’interventi orientati a promuovere competenze, risorse e benessere
della famiglia d’origine.
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L’intervento dei Servizi Sociali, in tale contesto, è orientato allo scopo di
collocare i minori presso persone disponibili, nei momenti in cui si riscontrano
carenze nelle funzioni genitoriali. La qualità dell’intervento degli affidatari è di
centrale importanza, sia per un fine terapeutico, ma anche per i vantaggi evolutivi
che questo comporta, legati allo sviluppo di una profonda fiducia verso il suo
ambiente, grazie a un senso di appartenenza al nucleo familiare. La qualità
dell’intervento è inoltre legata all’acquisizione della capacità di padroneggiare i
propri vissuti, alla costruzione di sentimento di autoefficacia, di fiducia, e affinché
ciò avvenga si rivelano essenziali la cooperazione con il minore e la promozione
di una sua autostima (Schofield & Beek, 2013). Il nuovo ambiente preparato per il
minore, dev’essere in grado di fornire un contesto sicuro, non intrusivo, che crei la
situazione migliore per affrontare le questioni legate all’attaccamento, per evitare
l'esposizione ai traumi connessi all'abuso e alla trascuratezza subiti, o sospettati.
La letteratura, sul lavoro con le famiglie “a rischio”, supporta gli interventi che
collocano i minori in contesti diversi da quello originario, come l’ambiente
domestico protettivo di una famiglia affidataria, o una comunità locale (LindbladGoldberg, Dore & Stern, 1998; Boyd-Franklin & Bry 2001; Schofield & Beek,
2005a; Scarborough, Taylor & Tuttle, 2013).
La famiglia affidataria deve essere in grado di interiorizzare il mondo del figlio
che le viene affidato, il quale è portatore di una storia, di pratiche, di vissuti
differenti da quelle degli stessi genitori affidatari e, se presenti, dei loro figli
naturali. La famiglia, come rete di rapporti affettivi, fornisce un contesto in cui
sperimentare l’espressione e il confronto delle differenze come condizioni
essenziali delle dinamiche interpersonali e sociali in cui si attivano i processi di
cambiamento, senza giungere a negatività e distruzione (Fruggeri, 2009).
L’affidamento alle famiglie rappresenta una risposta alle esigenze di protezione e
ai bisogni educativi del minore accolto e dovrebbe stimolare una fertilità mentale,
una genitorialità più ricca, che non vada a soddisfare il bisogno di conferme di
essere un genitore ideale, bensì che operi allo scopo di co-costruire gli strumenti
affinché il minore sia in grado di affrontare e superare positivamente i compiti
evolutivi connessi alla sua fase di sviluppo. I bambini che entrano nell’assistenza
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pubblica sono tra i soggetti più vulnerabili della società. Per prevenire la necessità
di inserire i bambini nei percorsi assistenziali pubblici è essenziale una particolare
attenzione alle difficoltà della famiglia, oltre che alla condizione del minore;
questo tipo di intervento si qualifica come priorità di sanità pubblica (Simkiss,
Stallard & Thorogood, 2012). L’affido familiare si apre quindi nelle direzioni di
vari campi d’indagine: dal piano psicosociale, a quello giuridico, fino al livello
civile morale (Iafrate, 1989).
1.2 Cura e deprivazione nell’infanzia
Nelle prime fasi dopo la sua nascita, il bambino impara a esprimere le sue
emozioni coerentemente alle esigenze contestuali. Questa capacità si sviluppa e si
adegua in primo luogo in base al rapporto con il suo caregiver. Il contatto con le
figure di riferimento nel suo ambiente è determinante nella sua crescita,
diversamente, con le parole di Winnicot (1986) il bambino piccolo, da solo non
esiste, non si può cioè pensare a un bambino se non in relazione agli altri esseri
umani e al suo ambiente, intendendo per ambiente innanzitutto “la madre” e il
sostegno alla diade madre-bambino proveniente dal padre (Baldoni, 2005). Si può
definire il rapporto tra caregiver e bambino come una danza condivisa, in cui il
contributo all’interazione da parte di ciascun partner è però diverso: nelle relazioni
sintoniche il bambino riceve amore, compagnia, ma anche cura e protezione; il
caregiver ricava a sua volta amore, compagnie, soddisfazione e ricompense dai
progressi e dalla gioia del bambino (Schofield & Beek, 2013). Le ricerche in
ambito psicologico e neuropsicologico confermano che il bambino è favorito in un
sano sviluppo del sistema nervoso centrale, in funzione della qualità
dell’esperienza emotiva nelle relazioni affettive. Come ricordano Brazelton e
Greenspan (2001), lo scambio di gesti dal significato emotivo è una modalità che
aiuta i bambini ad apprendere, a percepire, a rispondere ai segnali emotivi e a
formare un senso di sé.
14
Il bambino non è una tabula rasa, ma dotato di caratteristiche genetiche e con
esperienze prenatali che gli consentono già di poter sperimentare (vivere ed
esprimere) emozioni, sensazioni e sentimenti riflessi, aggiustati e attenuati dal
volto, dal tono e dal ritmo della voce del caregiver. Non è più possibile, infatti,
sostenere la prospettiva filosofica di Locke, secondo cui i bambini, alla nascita,
fossero come tavolette raschiate sulle quali era possibile imprimere qualunque
cosa, per determinare le caratteristiche della persona adulta (Santrock, 2013).
Anche il disagio è una manifestazione del bambino, una richiesta di aiuto espressa
in codice: è comportamento, ovvero messaggio senza pensiero che invia agli
adulti per lui importanti, i quali devono integrare il pensiero mancante dal
comportamento di disagio del bambino. Soprattutto nella prima infanzia, il
bambino si aspetta che sia l’adulto di riferimento ad accogliere ogni suo problema,
a fornirgli gli strumenti. Non avrà, per esempio, esito positivo per il bambino la
semplice esortazione all’autocontrollo, all’autoregolazione, o il rimproverare di
non averne: è l’adulto a doverli fornire al bambino attraverso un’offerta psichica
totale e gratuita (Nicolodi, 2011).
Crescendo, la capacità di mentalizzare da parte del bambino è il risultato di una
catena interattiva con la sua figura di riferimento primaria: egli impara a
riconoscersi come dotato di intenzionalità nella misura in cui l’adulto è in grado di
cogliere i suoi segnali, restituendoglieli come atti dei quali è stata colta
l’intenzione e a cui è stato attribuito un significato sociale. In questo senso il
bambino può sentirsi esistente nella mente altrui, accolto e connotato da
un’immagine di sé, come dotato di pensiero. Comprendere e farsi carico del fatto
che il bambino sente, è dotato di pensiero e capacita di percepire le emozioni è
talvolta così pesante da rendere alcune madri insensibili, nei primi giorni dopo la
nascita. Assumersene la responsabilità comporta un grande sforzo di amore e
anche di fantasia, che porta il caregiver a “sentire come un bambino” (Harris,
1999).
Quando l’adulto non è in grado di farsi carico di tali istanze, dei pensieri e delle
necessità del bambino, la garanzia di uno sviluppo sano vacilla. I vissuti di
perdita, di abbandono, di trascuratezza causati da esperienze in cui nessuna figura
15
di riferimento sia pronta ad accogliere e far sentire contenuto e protetto il piccolo,
aumentano la probabilità di difficoltà nello sviluppo, di mancanza di fiducia verso
sé e gli altri, la tendenza a controllare tutto l’ambiente circostante e le persone che
ne fanno parte, l’impossibilità di entrare in un contatto reale con l’Altro. Le
dinamiche relazionali familiari nei contesti trascuranti sono documentate come
fattori altamente disfunzionali allo sviluppo del bambino, il quale, sperimentando
il rifiutare del genitore e l’essere rifiutato, è indotto a costruire un modello
operativo interno di Sé come non amabile e privo di valore, e un modello
operativo interno dell’Altro come distanziante e inaccessibile (Arace & Giani
Gallino, 2003).
La deprivazione affettiva, che non corrisponde necessariamente alla mancanza di
cure parentali, consiste nella frustrazione del bisogno di un intimo scambio
affettivo con una figura di attaccamento stabile ed è la prima importante fonte di
disagio per il bambino. I disturbi che ne derivano incidono negativamente sullo
sviluppo del linguaggio, sullo sviluppo fisico, intellettivo ed emotivo. Ainsworth e
collaboratori (1978) hanno evidenziato che esistono vari tipi di attaccamento nella
relazione madre-bambino e il suo lavoro ha potenziato il collegamento con la
teoria dell’attaccamento di Bowlby per chiarire le differenze individuali nella
sicurezza e insicurezza in questo tipo di legame.
Se la mamma si dimostra disponibile con risposte puntuali ad ogni richiesta del
bimbo, questo dimostra un attaccamento sicuro, ovvero è certo dell'affetto del
genitore che lo accudisce con sensibilità e flessibilità, esplora attivamente gli altri
ambienti riuscendo ad adattarsi facilmente ai nuovi contesti. È socievole nel
gioco, sopporta meglio l’assenza della mamma e la presenza di un estraneo. Dal
punto di vista cognitivo, il bambino è capace di effettuare un monitoraggio
metacognitivo, quindi riflettere liberamente sui propri processi di pensiero e
costruisce una teoria della mente con buone capacità linguistiche e atteggiamenti
collaborativi e costruttivi (Ongari, Tomasi & Zoccatelli, 2007). L’autostima e
l’autoefficacia sono forti e la spinta all’autonomia porta a realizzarsi anche
all’esterno del contesto familiare (Schofield & Beek, 2013).
16
Al contrario, si osserva un attaccamento insicuro-ambivalente quando la figura
primaria di attaccamento, nei primi mesi di vita del lattante si mostra
imprevedibile nelle risposte ai bisogni del piccolo; in alcuni casi, la madre rifiuta
le sue richieste di contatto fisico; in altri casi la mamma lo stringe a sé in un
momento inopportuno, nell’attimo in cui il lattante sta facendo qualche altra cosa.
In generale, la qualità del caregiving è incerta e inefficace. Questo tipo di
atteggiamento rende il bambino insicuro nell'esplorare gli ambienti esterni, e
tendente a manifestare comportamenti che orientino l’attenzione su di lui.
Crescendo avrà probabilmente problemi nell'adattarsi a nuovi ambienti come
l'asilo nido, diventando esigente, diffidente, oppositivo e preoccupato.
Se i caregiver mostrano un rifiuto sistematico del contatto fisico, e difficoltà nel
rispondere in modo sensibile ai bisogni del bambino è possibile riscontare un
attaccamento insicuro-evitante in cui il bambino vede respinte le proprie richieste,
svalutati i propri vissuti e percepisce una tendenza invadente al controllo, da parte
del genitore (Schofield & Beek, 2013). Egli sembra adattarsi senza difficoltà ai
nuovi ambienti, ma si dimostra aggressivo ed imprevedibile nelle relazioni con i
pari. Sembra indifferente all'assenza della madre, non mostra espressioni affettive,
difendendosi dalle emozioni con atteggiamento distaccato: crescendo non cerca il
contatto fisico e sviluppa autosufficienza che rende più probabile la presenza del
caregiver. La competenza linguistica sembra adeguata all’età, tuttavia
l’atteggiamento è teso e spesso sono presenti espressioni stereotipate. Il piccolo
non riesce a fidarsi di una madre imprevedibile e sperimenta vissuti di abbandono:
da questo derivano gravi problemi di tipo affettivo e seri ritardi in varie aree dello
sviluppo. È l’effetto della disattivazione del sistema di attaccamento
(Ongari et al., 2007) che dalla tarda adolescenza porta alla minimizzazione
dell’importanza delle relazioni affettive e un modello di attaccamento
distanziante.
Nei casi in cui i genitori abdicano al loro ruolo, divenendo ostili e impotenti
nell’assicurare protezione al bambino, questi sviluppa emozioni di paura e vissuti
fortemente ansiosi. Crescendo, mancherà una strategia comportamentale
17
organizzata e nei momenti di stress, i vissuti di paura e ansia riemergeranno,
senza mai dissolversi definitivamente.
Sono molteplici i fattori che portano ad agire od omettere comportamenti, con la
conseguenza di causare possibili problemi comportamentali, emotivi, cognitivi al
bambino; tra i principali fattori troviamo la famiglia (l’interazione tra tutti i
membri, e non solo chi mette in atto determinate azioni), la cultura (la storia e le
convinzioni dei membri della famiglia) e le caratteristiche evolutive del bambino
(Appleton & Stanley, 2009; Cicchetti, 2011). A tale proposito, di seguito verranno
descritti dettagliatamente i comportamenti che caratterizzano i tipi di
maltrattamento operati a danno dei minori.
1.2.1. Tipi di maltrattamento infantile
Le principali tipologie di maltrattamento sui bambini sono quattro:
-
l’abuso fisico: inflizione di ferite fisiche attraverso azioni dannose per il
bambino. Le lesioni possono essere conseguenza di un’eccessiva
punizione fisica e non necessariamente frutto dell’intenzionalità del
caregiver (Milot, Éthier, St-Laurent & Provost, 2010).
-
la trascuratezza: può essere di tipo fisico, emotivo ed educativo. Il primo
concerne un’inadeguata supervisione del bambino, messo così in serio
rischio, riguarda il sottrarsi o il ritardare la ricerca e l’attuazione di cure
mediche e interventi assistenziali, infine comprende l’abbandono,
l’espulsione da casa, nonché il rifiuto a riaccogliere il minore; il secondo
tipo considera tutte quelle situazioni in cui la persona tenuta a occuparsi
dei bisogni educativi del minore non iscrive il bambino a scuola, o ne
consente assenze ripetute, senza alcuna preoccupazione verso il suo
diritto/dovere all’istruzione; la trascuratezza di tipo emotivo, include
azioni di marcato disinteresse verso i bisogni affettivi e di cure
psicologiche del bambino, e una non opposizione verso il bambino al
consumare alcool, droghe e ad assistere a scene di abusi (Santrock, 2013).
La trascuratezza è associato ad una serie di difficoltà di sviluppo durante
18
l'infanzia, tra cui quelle di tipo cognitivo, linguistico, difficoltà scolastiche,
carenza di relazioni tra pari, disturbi di ansia, depressione, aggressività,
impulsività (Bolger & Patterson, 2001).
-
l’abuso sessuale: si sostanzia attraverso il contatto sessuale con un
bambino, conseguente a una sua costrizione, o all’interno di un rapporto in
cui si qualifica come sfruttamento per la differenza con il minore, o per la
responsabilità di tutela e custodia dell’adulto nei suoi confronti (Finkelhor,
1991). Alcune forme sono l’incesto, lo stupro, lo sfruttamento
commerciale della prostituzione. Oltre alle sue conseguenze sulla salute
fisica, questo tipo di abuso è stato collegato a ritardi cognitivi,
comportamento aggressivo, difficoltà relazionali tra i pari, disturbo da
stress post-traumatico, depressione, dissociazione, comportamenti sessuali
inappropriati e altre problematiche comportamentali, oltre alle scarse
prestazioni scolastiche (Crittenden, 1998).
-
l’abuso emotivo o maltrattamento psicologico: l'esperienza di grave
indisponibilità emotiva dei genitori porta a gravi ritardi di crescita e
difficoltà psicologiche nei bambini e consiste in atti od omissioni di atti
che causano gravi problemi comportamentali, emotivi e cognitivi, come ad
esempio rinchiudere a lungo il bambino in luoghi inospitali e isolati,
sminuirlo o rifiutarlo costantemente (Santrock, 2013). Questa forma
d’abuso porta a decrementi nel funzionamento cognitivo e scolastico, così
come a una varietà di diagnosi di problemi comportamentali (Moeller,
Bachmann & Moeller, 1993).
I bambini in affido e adozione possono aver vissuto maltrattamenti nella famiglia,
spostamenti da un contesto di vita ad altri, perdite, separazioni. Tutto ciò
contribuisce ad aumentare la mancanza di fiducia in sé, una scarsa autostima,
rabbia e necessità di mantenere il controllo sull’ambiente esterno. I bambini
esprimono rabbia, bisogno di essere amati, che ansie legate alla prossimità
(Schofield & Beek, 2013). È necessario che il bambino mantenga il suo diritto ad
avere una famiglia, a ricevere le cure primarie da qualcuno che si trovi in
19
condizioni di possibilità. Una risposta può essere trovata, appunto, nell’affido
familiare in cui le relazioni con le persone che si occupano del bambino insegnano
quali comportamenti sono appropriati e quali no, attribuendo uno specifico
significato a ogni situazione e migliorando il potenziale relazionale, l’autonomia e
la consapevolezza di sé. Questo strumento consente, inoltre, di ridurre il rischio di
vissuti di trascuratezza, perdita e maltrattamento che in questi casi connotano il
mondo
emotivo
del
minore,
evitando
che
tali
vissuti
si
traducano
nell’impossibilità di superare il trauma e affrontare positivamente le successive
sfide e gli immancabili compiti evolutivi.
1.2.2. Effetti a breve e lungo termine della carenza di cure genitoriali
Le conseguenze “a breve termine” riguardano la risposta immediata di un
bambino a un’esperienza di privazione che si manifesta attraverso un dato
comportamento mostrato nei mesi successivi l’evento. Le esperienze sperimentate
da un bambino durante una separazione, o un periodo trascorso in un ambito
istituzionale, determinano consistenti differenze nelle sue risposte emotive
(Rutter, 1973). Gli individui differiscono fra loro, nelle reazioni e nel
comportamento, fin dalla prima infanzia: sono riscontrabili infatti varie
caratteristiche psicofisiologiche, tipi di risposte agli stimoli e alle situazioni
nuove, e diversi stili comportamentali. I processi che determinano queste
differenze sono legati a fattori genetici, traumi perinatali, influenze ambientali,
tipo di relazioni instaurate prima della separazione (Mead, 1962). Nella genesi di
disturbi e ritardi nello sviluppo infantile, come conseguenza a breve termine della
deprivazione, opera una varietà di meccanismi psicologici: il ritardo appare
spiegabile in termini di privazione (ovvero, una mancanza piuttosto che una
perdita definitiva) di stimoli sociali, percettivi e linguistici.
Per quanto riguarda la carenza di cure materne e la comparsa di disturbi a lungo
termine, è possibile rilevare un collegamento comprovato da lungo tempo, da vari
studi clinici (Bakwin, 1949; Pringle & Tanner, 1958; Provence & Lipton, 1962;
Patton & Gardner, 1963). La mancanza di serenità e continuità nel clima familiare
20
è stata associata anche a manifestazioni di depressione nei bambini (Caplan &
Douglas, 1969; Stark, 1995; Monheit, Stephan, Pandolfo, & Levi, 1997). Il peso
che la qualità delle esperienze infantili ha nello sviluppo individuale consente di
comprendere quanto alcuni effetti della privazione precoce siano estremamente
persistenti e resistenti alle influenze posteriori. Si può affermare, tuttavia, che la
carenza di cure materne nella prima infanzia può portare conseguenze negative,
ma l’affermazione non è assoluta: tanto può essere fatto dalle esperienze che si
verificano nella seconda infanzia, potenzialmente riparatrici e riequilibranti
(Rutter, 1973). La qualità delle cure fornite al bambino si è dimostrata un fattore
cruciale in un’ampia casistica di studi. Nelle famiglie che offrono contesti crescita
svantaggiati, la qualità delle cure è stata ritenuta la variabile chiave riguardo allo
sviluppo del comportamento. La qualità della relazione genitori-figli è ritenuta
fattore protettivo da rischi psicosociali (Cigoli, Marta, & Regalia, 1998). Dagli
studi presi in considerazione emerge che la volontà di indagare i fattori che
determinano le conseguenze negative di un’esperienza di separazione, o di
privazione fa sorgere vari problemi di ordine metodologico, primo tra tutti, la
difficoltà di isolare ogni singolo elemento coinvolto e determinarne l’incidenza e
le ripercussioni lungo il ciclo di vita dell’individuo.
1.2.3.
Fattori di rischio e di protezione nello sviluppo infantile
Lo stress è uno dei fattori che accresce il rischio di uno sviluppo problematico
e riguarda la situazione in cui le capacità adattive dell’individuo non sono
sufficienti a rispondere alle richieste provenienti dall’ambiente circostante che
attivano risposte di tipo comportamentale, fisiologico, emotivo e cognitivo
(Bonichini & Moscardino, 2013). Un elenco di vasta portata di eventi e situazioni
che possono portare peggioramenti delle condizioni di salute e del benessere nella
vita del soggetto è definito con il termine di life scales events; differenti
valutazioni del peso che vari stressor hanno sulla salute, riflettono una diversa
teoria che spiega le modalità in cui l’esposizione a una fonte di stress influisca sul
benessere (Galardi, 2004). In generale, un aumento nella percezione dello stress si
21
associa a un peggiore funzionamento psicologico, nonché a una maggiore
vulnerabilità verso le malattie. Una motivazione è riscontrabile nel fatto che
un’elevata produzione di ormoni dello stress (catecolamine) può alterare alcune
funzioni del sistema immunitario (Kiecolt-Glaser, McGuire, Robles & Glaser,
2002). È possibile interpretare lo stress secondo una dimensione oggettiva,
caratterizzante la prospettiva contestuale-ambientale (Galardi, 2004) che si
focalizza sulle caratteristiche dell’evento, oppure secondo una dimensione
soggettiva, approccio, quest’ultimo, tipico di una visione psicologica che mette in
relazione l’evento stressante e la percezione dell’individuo relativa all’impatto
dello stesso evento (Bonichini & Moscardino, 2013). Secondo la prospettiva
ambientale, l’evento, per la sua misurabile portata stressante, sarebbe in grado di
modificare l’assetto di vita e la situazione interna del soggetto richiedendogli un
importante sforzo di riadattamento sul piano psicologico, sociale e fisico
(Wethington, 2000). Le caratteristiche ambientali più considerate per la loro
influenza sulla salute riguardano sia la quantità di cambiamento provocato dallo
stressor, sia quanto pesa la minaccia della perdita e quanto lo stressor è posto
sotto il controllo della persona (Holmes & Rahe, 1967). Questi aspetti risultano
molto importanti nell’età pediatrica, quando il bambino è sottoposto a vari
cambiamenti, come quelli ambientali (un ambiente diverso da quello del contesto
domestico conosciuto), quelli legati alla gestione della quotidianità (presenza di
persone nuove, routine diverse), quelli che prevedono perdite (allontanamenti più
o meno brevi dalla famiglia, o altre figure di riferimento). Numerosi studi hanno
documentato le difficoltà nello sviluppo motorio in contesti di crescita carenti di
contatto fisico e possibilità di giocare; la mancanza di stimoli sensoriali, sociali e
linguistici rappresenta un elemento a sfavore dello sviluppo che rallenta e ostacola
il sano sviluppo del bambino e, se protratto, porta a immancabili ritardi e carenze
nelle competenze intellettive, sociali, linguistiche.
Vari sono i fattori protettivi o predisponenti analizzati, per i quali sono stati
riscontrati conseguenze negative nello sviluppo. Se da un lato è comprovato che la
qualità della relazione genitori-figli è un fattore protettivo rispetto ai rischi psicosociali (Cigoli, Marta & Regalia, 1998), dall’altro vi è l’evidenza speculare
22
sostenuta in più studi (Fuhrman & Holmbeck, 1995; Ingoglia, Lo Coco, Pace,
Zappulla, Liga & Inguglia, 2005), secondo cui esperienze familiari fallimentari
aumentano la probabilità di risvolti evolutivi negativi. Un contesto poco intimo e
supportivo porterebbe infatti un distacco che comporta alti livelli di autonomia
emotiva con due esiti opposti: sono state osservate condizioni multiproblematiche
a livello psicologico e relazionale, con disordini di natura internalizzante ed
esternalizzante che caratterizzano giovani distaccati internalizzanti, distaccati
esternalizzanti, e con co-occorrenza di disturbi i quali si allontanano
emotivamente, mantenendo una bassa intimità con i genitori e sviluppando
comportamenti aggressivi, e/o vissuti di solitudine, ansia e depressione; lo stesso
distacco può essere però funzionale, se adottato come strategia di difesa da
relazioni stressanti e disfunzionali con i genitori, da parte di giovani definiti per
questo distaccati adattati, con alti livelli di autonomia emotiva, bassa intimità con
i genitori, scarsi livelli di comportamento internalizzante e medi di
comportamento esternalizzante, quindi non rilevanti difficoltà comportamentali
(Ingoglia et al., 2005).
Tra i fattori protettivi per la crescita, è risultato particolarmente importante il
ritirarsi in contesti fisici e psichici al di fuori della famiglia, con adulti (nonni,
zii…) vissuti come meno negligenti e più protettivi, che mitigano gli effetti
traumatici delle relazioni abusanti, fornendo al bambino una relazione affettiva
sostitutiva e compensatoria. Figure educative esterne al nucleo familiare, che
canalizzano l’energia inquieta di un bambino e ne costruiscono l’autostima,
rappresentano una funzione protettiva (Moyers, Farmer & Lipscombe, 2008;
Schofield & Beek, 2013). Oltre il supporto di qualche adulto di riferimento
esterno alla famiglia, sono diverse le caratteristiche dei bambini e dei loro
ambienti che possono compensare le situazioni ad alto rischio con cui devono
misurarsi nel corso della loro crescita. Questi fattori di protezione comprendono il
quoziente intellettivo del bambino, il suo temperamento, lo stato di salute, il fatto
di avere creato relazione affettiva, ma anche l'impegno scolastico e in altre attività
ricreative (Jones Harden, 2004). Anche se la ricerca sulla resilienza nei bambini
adottivi specificamente è piuttosto carente, studi su bambini maltrattati (Schofield
23
& Beek, 2005a; Jones Harden, 2004; Roy, Rutter, & Pickles, 2000). suggeriscono
che i bambini maltrattati che mostrano doti di resilienza hanno elevate
competenze al livello cognitivo, buona autostima e controllo dell'Io (con
riferimento ad aspetti caratteriali da cui emerge flessibilità, determinazione
costanza e capacità di dedicare momenti alla riflessione, alla pianificazione). La
resilienza viene solitamente definita come la capacità di funzionare con
competenza, nonostante si viva o si abbia vissuto in circostanze avverse e
comprende una serie di caratteristiche di protezione, come l'autostima,
l’autoefficacia, un senso di sicurezza e fiducia nel proprio avvenire, la capacità
riflessiva, e lo sviluppo di strategie di coping (Rutter, 1985; Sroufe, 1997). Lo
studio delle strategie di coping nei bambini è ancora in corso e sempre più si sta
facendo per identificare strumenti che permettano di rilevare i vari comportamenti
attuati. Continuare in questa ricerca è molto importante in quanto può aiutare a
comprendere le differenze individuali nei pazienti in risposta a diverse modalità di
reazione a situazioni difficili.
1.3. Tipologie di affidamento familiare
Oggi, l’istituto dell’affido è regolato dalla legge 4.5.1983 n. 184, recante
“Disciplina dell’adozione e affidamento dei minori”, modificata con la legge 28
marzo 2001, n. 149, e risponde al problema di minori inseriti in famiglie
inadeguate alla cura, espulsive, o abbandoniche. Possono diventare “famiglie
affidatarie” persone singole o coppie, con o senza figli, sposate o conviventi. Non
ci sono vincoli di età, di istruzione, di reddito, di nazionalità o di religione.
Piuttosto, ciò che viene esplorato e preso in considerazione riguarda la capacità di
rendere i bambini più fiduciosi e resilienti, attraverso un’indagine delle capacità
genitoriali a vari livelli (Fiorillo, 2011). Le tipologie di affido familiare rientrano
nelle seguenti categorie:
- Consensuale, quando i genitori, o le persone che esercitano la potestà genitoriale
(Servizi Sociali degli Enti titolari o delegati ), sono concordi con l’intervento e ne
24
danno disposizione attraverso un atto amministrativo, reso esecutivo dal Giudice
Tutelare.
- Giudiziale, quando non vi è consenso e l’affidamento è disposto con
provvedimento del Tribunale per i Minori, prescindendo dal consenso dei genitori.
Come quello consensuale, l’affidamento giudiziale non può durare più di due
anni, ma è prorogabile dal tribunale per i minorenni qualora la sospensione
dell’affidamento rechi pregiudizio al minore. Può essere disposto, in caso di
gravità della situazione della famiglia d’origine, anche senza porre in essere gli
interventi di aiuto e sostegno.
Le modalità in cui si concretizza l’affido possono essere diverse:
- Affidamento familiare: il bambino viene accolto nella casa della famiglia
affidataria, quando la famiglia d’origine si trova in temporanea difficoltà. Il
bambino resta dalla famiglia affidataria per un periodo che varia da qualche
mese a qualche anno e mantiene rapporti regolari (visite stabilite
periodicamente) con la sua famiglia di origine.
- Affidamento part-time: il bambino gode del clima familiare e condivide la casa
con la famiglia affidataria per alcune ore del giorno, con rientro per il
pernottamento presso la famiglia di origine, oppure per i fine settimana, o i
periodi di vacanza.
Alcune realtà territoriali hanno sperimentato negli ultimi anni altre forme di
affidamento familiare sia a favore dei minori che del loro contesto d’origine:
vediamoli qui di seguito.
- Affidamenti educativi diurni: l’affidatario si reca a casa del minore per svolgere
con lui attività di socializzazione e di sostegno scolastico.
- Affidamenti di una famiglia ad un’altra famiglia: una famiglia solidale si
impegna a sostenere l’intero nucleo familiare del minore in difficoltà.
- Pronto intervento in famiglia affidataria: accoglienza temporanea (10-15
giorni) per i bambini più piccoli in situazione di improvviso abbandono, di
solitudine o in circostanze d’emergenza.
25
- Affidamento post 18: momenti non rigidamente scanditi in cui si dedicano
tempo ed esperienza a ragazzi in affido che raggiungono la maggiore età.
- Affidamento intra-familiare: in questi casi i minori sono affidati stabilmente a
parenti entro il quarto grado.
- Affidamento in comunità: si offre un ambiente di vita alternativo al nucleo
familiare di origine garantendo il rispetto dei bisogni dei ragazzi, della loro
individualità, della cultura e dei vissuti di ciascuno di essi, avvalendosi del
supporto di figure professionalmente qualificate quali pedagogisti, psicologi,
educatori (Fiorillo, 2011). La comunità offre accoglienza con funzioni di
ospitalità in specifiche situazioni di svantaggio e di necessità di supporto
scolastico; questo tipo di risorsa mantiene rapporti più occasionali con i servizi
sociali. Le fasce di età cui si rivolgono le comunità familiari ed educative
coprono possibilmente l’intero arco di vita dell’uomo, offrendo risposta a
specifiche esigenze dettate da condizioni di disabilità, fragilità e difficoltà
temporanea, permanente o di necessità d’assistenza (Gregorio & Tomisich,
2007).
L’affido familiare, in ogni sua forma, dà origine a differenti vissuti, a seconda
della diversa prospettiva degli attori coinvolti, delle risorse messe in gioco e dei
limiti di volta in volta posti e ridefiniti.
1.4. Motivazioni, disponibilità e sostegno del genitore affidatario
Nei termini della psicologia psicoanalitica, la rappresentazione denominata
“metafamiglia” comprende sia i nuovi nuclei che quello originario, o, a seconda
delle composizioni familiari, sia persone presenti nel contesto familiare attuale
che persone assenti o lontane, ma comunque percepite nell’area familiare: la
rappresentazione del confine familiare, cioè di chi fa parte della famiglia e chi ne
è escluso, si rivela dunque cruciale (Greco, 2006). Inoltre, la struttura e
l’organizzazione familiare tendono a mutare nel corso del tempo, la ricerca in
psicologia e in sociologia tende oggi a privilegiare una definizione estesa di
26
famiglia, intesa come insieme di persone legate da vincoli non solo matrimoniali e
biologici, ma anche semplicemente affettivi, di adozione, di affidamento, di tutela,
supporto e di coabitazione (Vitale, 2011). È definibile “famiglia”, una
combinazione unica di persone che si prendono cura l’una dell’altra, condividendo
sentimenti positivi, indipendentemente dalle modalità con cui si è costituito tale
nucleo (Meese, 2012). Tale concezione trova conferme anche nella comprovata
prevalenza di un’area valoriale di tipo affettivo, rispetto a una di tipo normativo
(Maggiolini & Pietropolli Charmet, 2004), secondo cui nei nuclei familiari attuali,
il clima è dato principalmente dai valori materni e fraterni, di protezione e
uguaglianza, dall’empatia e dalla comprensione. Ciò aumenta in un certo senso le
possibilità di accoglienza solidale, l’offerta di cure, senza deformare
eccessivamente la rappresentazione che il bambino ha di sé in relazione agli altri,
e del concetto di appartenenza personale, con risvolti positivi sui vissuti di
sicurezza e protezione. Riflettere sul concetto di cura, nei contesti di affido, porta
a riflettere sugli attori che concretamente si adoperano per tale funzione, chi si
assume il ruolo di caregiver (Scabini & Donati, 1995). Come afferma lo
psicoterapeuta Scaparro in una sua riflessione (1997)3, “Fin dalle origini della
lingua italiana “affidare” è stato uno dei verbi più carichi di significato dal punto
di vista affettivo e, quando non si raffredda entrando nell’uso burocratico, indica
una delle più antiche ed emotivamente ricche esperienze umane, quella di chi, non
potendo, per un tempo determinato o per sempre, provvedere a ciò che gli è caro,
lo consegna alla cura, alla custodia, alle capacità di persone di fiducia”. Una
riflessione che ne può conseguire è che per i genitori affidatari si gioca una doppia
sfida: fornire ciò che è stato carente nella vita del bambino prima del suo affido e
riuscire a sintonizzarsi con la famiglia d’origine, alla quale non ci si sostituisce,
ma ci si affianca per offrire supporto.
3 Relazione tenuta durante la prima Conferenza nazionale sull’affidamento familiare, organizzata
dalla Presidenza del consiglio dei ministri - Dipartimento Affari sociali a Reggio Calabria, 12-13
dicembre 1997.
27
Il rapporto tra la famiglia d’origine e la famiglia affidataria si gioca sul
riconoscimento del bisogno, sulla fiducia e sul rispetto. La famiglia affidataria non
può svolgere il proprio compito se non ha presente la famiglia naturale e se non la
riconosce come origine del figlio. Allo stesso modo, la famiglia affidataria può
esercitare le sue funzioni se c’è da parte della famiglia d’origine la
consapevolezza di non potere farcela da sola e quindi la disponibilità ad affidare il
proprio figlio senza fare opposizione. Il dialogo nasce da queste posizioni: la
famiglia d’origine può vedere nella famiglia affidataria una risorsa se non viene
messa in discussione la propria genitorialità. Un limite a questo dialogo può
essere un vissuto di deprivazione per cui i genitori biologici del bambino possono
vivere gli affidatari come immagine dei propri genitori, percependoli deprivanti o
onnipotenti, a seconda di quella che è stata la loro esperienza come figli. Anche
per gli affidatari i genitori naturali del bambino possono evocare la figura dei
propri genitori, e loro stessi identificarsi con il bambino trascurato, rimandando
antichi vissuti personali (Maccioni, 2007). Diventare consapevoli dei propri
vissuti, non far prendere loro il sopravvento e collocarsi all’interno della relazione
triadica (bambino-famiglia biologica-famiglia affidataria) come una base sicura,
diviene l’obiettivo da perseguire. Instaurando il dialogo avviato è possibile
comprendere le reciproche rappresentazioni di chi si è e di chi si vuole essere per
il bambino, senza sentirsi deprivati. Ciò consente inoltre di gestire, da parte di
entrambe le famiglie, le periodiche separazioni dal minore (Marta et al., 2012).
Garantire lo svolgimento di funzioni genitoriali di alta qualità è un concetto
complesso e articolato che si sostanzia in una serie di risposte affettive e
comportamentali ad ampio spettro che caratterizzano un contesto protettivo. Un
ambiente sufficientemente buono deve prevedere la disponibilità, il contenimento,
la stimolazione cognitiva e affettiva, una presenza adulta non intrusiva
caratterizzata da affidabilità, coerenza e continuità, una promozione realistica
delle capacità peculiari, flessibilità, empatia, ascolto, rispetto, tempo per
interiorizzare i modelli positivi e la gratuità degli affetti (Scaparro, 2003). Tutto
ciò è dato da capacità e impegno messi a frutto quotidianamente e con fatica, tra i
percorsi contraddittori e oscillanti della crescita di chi si trova a vivere tra due
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realtà contrastanti: nella misura in cui i genitori forniscono supporto al figlio
affidato, saranno per lui l’aiuto a trovare il proprio modo originale e irripetibile di
operare una sintesi, nella complessità della sua esperienza e nella molteplicità
delle diverse appartenenze familiari e affettive (Greco, 2013). È da considerare,
inoltre, la difficoltà che emerge nel corso dell’affido, quando le esperienze
pregresse e le responsabilità coinvolte, fanno riaffiorare vissuti che hanno fatto
parte della vita dell’affidatario, e fanno rivivere in parte la sua adolescenza.
Questi, benché non viva la stessa difficoltà della famiglia naturale, impossibilitata
a provvedere alla cura, deve comunque affrontare le conflittualità del figlio
affidato e confrontarsi con i propri bisogni di dipendenza e indipendenza. Infatti,
la necessità che gli affidatari tengano sempre in considerazione i punti di forza e
le difficoltà del singolo bambino o adolescente è centrale quanto il peso delle
esperienze
personali
dei
caregiver
stessi
nell’esercizio
quotidiano
dell’accudimento del minore (Scabini & Donati, 1995). L’impegno è anche legato
alla scelta di costruire un lessico che sia sensibile nei confronti del bambino, nella
selezione delle parole giuste da utilizzare per facilitare una visione positiva di sé,
e di sé rispetto agli altri. La preferenza per termini più rispettosi si sottrae, per
esempio, all’uso di aggettivi come vero, reale (riferiti alla madre, al padre, alla
famiglia d’origine), di locuzioni quali “lasciato/messo in affido”; tutto ciò
consente la condivisione di un linguaggio sensibile (Meese, 2012) che facilita
l’esperienza del bambino e lo rassicura rispetto alle domande indelicate che
talvolta, tra i pari, possono farlo sentire stigmatizzato, soverchiato, incompreso. Il
sostegno che merita il genitore affidatario è previsto nel confronto con un gruppo
di altri genitori e con un esperto che può aiutare ogni genitore a esaminare le
proprie esperienze di accudimento, scoprendo i propri vissuti di capacità e di
impotenza. Questo è molto utile nella relazione con il bambino, per la creazione di
una stabilità emotiva e delle competenze cognitive e sociali (Schofield & Beek,
2013).
Il dialogo con gli affidatari è un percorso che non si esaurisce nel confronto e nel
conforto nei momenti critici e di frustrazione, bensì è un dialogo che comincia già
prima, dall’iniziale contatto con i Servizi Sociali. Una persona che decida di
29
rendersi disponibile per l’affido, dopo aver ricevuto le prime informazioni deve
frequentare un corso di preparazione all’affido. Tali corsi hanno l’obiettivo di
preparare i futuri affidatari sugli aspetti più importanti del percorso che
decideranno di intraprendere. Ricevono pertanto una formazione specifica sugli
aspetti giuridici relativi all’affido familiare, sui principi, le prassi operative, l’iter
dell’affido e gli interventi del Servizio Sociale; sui problemi delle famiglie di
origine e i vissuti dei bambini; sulla molteplicità delle aspettative naturalmente
emergenti, sui bisogni educativi dei bambini e degli adolescenti in un percorso di
affido; sull’affido come esperienza di co-genitorialità, quindi, sulla possibilità di
costruire una rete di famiglie di supporto; talvolta, la possibilità di sentire il
racconto fatto da una famiglia affidataria sulla propria esperienza è utilizzato
come elemento a completamento del percorso di preparazione, un elemento che
tocca le motivazioni e i vissuti di chi si sta avvicinando all’affido.
1.5. L’importanza del gruppo
Durante il percorso dell’affido, vengono organizzati incontri di gruppi di famiglie
affidatarie, che stanno vivendo, vivranno o hanno vissuto lo stesso tipo di
esperienza.
Accanto quindi al sostegno individuale, è importante che le famiglie affidatarie
usufruiscano del sostegno derivante dalla partecipazione sistematica e periodica a
tali gruppi. La partecipazione al gruppo rappresenta sia occasione di formazione,
che impegno da mantenere lungo tutto il percorso dell’affido. Il gruppo ha
molteplici funzioni
all’interno dell’esperienza quotidiana della famiglia
affidataria:
-
il gruppo come sostegno
-
il gruppo come occasione di formazione permanente e impegno sociale
-
il gruppo come osservatorio per gli operatori
30
1.5.1. Il gruppo come sostegno
Il gruppo è uno spazio per il confronto di esperienze, della condivisione delle
difficoltà e delle conquiste, della riflessione, dell’elaborazione di ansie, incertezze,
ripensamenti, frustrazioni, conflitti. Negli incontri periodici di gruppo si portano i
problemi concreti che si incontrano nella relazione educativa quotidiana con il
minore e l’esperienza della singola famiglia viene messa in comune con quella
delle altre famiglie affidatarie. Questo ha come risvolto un’importante valenza
consolatoria in cui gli affidatari traggono rassicurazioni, comprendendo che la
loro esperienza e le loro emozioni sono condivise e accettabili. Inoltre, la funzione
espressiva del gruppo condotto dagli operatori (psicologo formatore o assistente
sociale) mira a favorire una comunicazione efficace, chiara, centrata sulle
esperienze e una partecipazione attiva dei componenti del gruppo, creando un
clima di reciproca comprensione, un atteggiamento non giudicante, ma facilitante
per chi è in difficoltà ad esprimere i propri vissuti (Ceriali, Coppa, Corrieri,
Scarani, Serenelli, 2013). Confrontarsi per comprendere come gestire le emozioni
e i momenti di sconforto derivanti dal percorso dell’affido è una fase molto
importante nel sostegno alle coppie genitoriali.
1.5.2. Il gruppo come occasione di formazione permanente e
impegno sociale
La partecipazione a gruppi formativi è di fondamentale importanza per gli
affidatari e i candidati all’affido (Chistolini, 2010). Nella fase di preparazione dei
candidati il gruppo rappresenta il contesto prediletto per promuovere l’affido e
reperire le famiglie interessate; il momento del “gruppo” ha un obiettivo
informativo per spiegare ai genitori l’affido, i suoi scopi e le sue complessità; ha
inoltre un obiettivo formativo in quanto, attraverso esercitazioni esperienziali, i
partecipanti possono lavorare sulla propria consapevolezza d’identità genitoriale;
di grande importanza è anche l’affiancamento post-abbinamento. Durante gli
incontri si affrontano temi di carattere giuridico, psicologico, sociale ed
31
educativo. Il gruppo si trasforma così in uno spazio per la formazione permanente
degli affidatari, portando agli stessi un arricchimento delle conoscenze e un
aggiornamento socioculturale.
1.5.3. Il gruppo come osservatorio per gli operatori
Il gruppo delle famiglie affidatarie rappresenta, inoltre, un osservatorio
privilegiato per gli operatori che quotidianamente svolgono il proprio lavoro con i
singoli casi di affido familiare. Infatti, dal lavoro col gruppo si possono trarre
informazioni preziose in merito agli affidamenti, e spunti di riflessione per
migliorare il proprio operato e i contesti formativi e informativi su questo istituto.
Talvolta, le famiglie affidatarie condividono con il gruppo i propri vissuti di
insoddisfazione che non erano emersi negli incontri di formazione, sostegno e
verifica individuale. Incontri periodici tra il coordinatore del gruppo e gli
operatori che seguono gli affidi
risultano molto utili, perché attraverso
uno scambio di informazioni si può realizzare un’interazione sinergica tra le
diverse figure e i diversi contributi messi a disposizione da ognuno.
32
Capitolo II
LA RICERCA SCIENTIFICA
SULL’AFFIDAMENTO FAMILIARE
2.1 Ricerche sulle tematiche connesse all’affidamento familiare
Sono molti i contributi offerti per approfondire i temi legati all’affido familiare,
varie le aree indagate al fine di circoscrivere e dettagliare ogni aspetto implicato
dal punto di vista psicologico, giuridico, sociale: tra i contributi più significativi,
particolare attenzione viene data a ciò che riguarda le condizioni dei bambini
collocati in affido, i fattori motivanti le decisioni ad intervenire dei Servizi
Sociali, le necessità dei minori per un sano sviluppo (Jones Harden, 2004),
l’incidenza della sensibilità individuale alla qualità della cura fornita sullo
sviluppo, i diversi livelli di coinvolgimento nell’esperienza di affido, secondo vari
punti di vista (Dozier & Lindhiem, 2006). Altri studi si sono concentrati su quanto
le caratteristiche temperamentali interagiscano con le cure esperite fin dalla
nascita (Pluess & Belsky, 2010), altri ancora su quanto è importante mantenere i
contatti con la famiglia di origine nei vari casi di affidamento familiare (Moyers,
Farmer, Lipscombe, 2008). Ma potrebbero essere ancora molte le tematiche
d’interesse nello studio dell’affido familiare, delle cause e delle conseguenze che
ruotano intorno al suo avvio e ai suoi esiti. Tuttavia, in letteratura, appare forte, al
di là della prospettiva da cui si intende esaminare l’argomento, la volontà di
ampliare il sapere, di continuare a studiare e cercare tutti i fattori coinvolti in
questo delicato percorso. Appare sempre evidente lo sguardo interessato
all’aspetto politico dello sviluppo delle condizioni positive per la crescita dei
bambini: viene riconosciuta centralità alle pratiche volte alla promozione del
benessere, intese come forme di costante monitoraggio, valutazione e
coordinazione dei Servizi Sociali che si occupano della tutela dei bambini nei
33
contesti di affido, dando grande importanza al futuro dei minori che si trovano in
condizioni familiari sfavorite. Ogni analisi svolta sottolinea l’importanza di
proseguire nella ricerca, senza trascurare alcun elemento: è importante individuare
tutto ciò che può essere utile ai fini di una più ampia comprensione delle pratiche
che favoriscono un sano progresso; è fondamentale avere consapevolezza degli
aspetti che possono rappresentare un fattore protettivo e una spinta evolutiva per i
bambini che non possono godere, anche se temporaneamente, della protezione e
della sicurezza che la base del contesto familiare di nascita tradizionalmente offre.
2.1.1. Sicurezza e stabilità per i bambini in affidamento
Recentemente, Jones Harden (2004) ha realizzato una ricerca nell’intento di
chiarire alcuni concetti che riguardano gli elementi necessari a uno sviluppo sano,
partendo dai risultati di vari interventi svolti, finalizzati al benessere di bambini
collocati presso famiglie affidatarie. Interessante la prospettiva in chiave evolutiva
con cui vengono interpretati i fattori di rischio e di protezione per una crescita
sana e armoniosa. A tal proposito, Jones Harden definisce lo sviluppo infantile
come la maturazione fisica, cognitiva, emotiva e sociale che dal concepimento
accompagna l’individuo fino all’età adulta. Le influenze interagenti con tale
sviluppo sono sia di tipo biologico che ambientale e tra quelle ambientali, la
famiglia è quella che maggiormente impatta sullo sviluppo. Tale sviluppo, in
particolare nei contesti in cui il minore deve essere affidato esternamente al
nucleo originale, può essere supportato grazie ad ambienti sani, stabili e sicuri. In
assenza di questi presupposti, il benessere è messo a rischio, soprattutto in
situazioni in cui sia presente una vulnerabilità biologica già alla nascita. Questa
condizione frequentemente riscontrata nei bambini messi in affidamento, può
essere dovuta a un'esposizione prenatale a sostanze assunte dal genitore, a vari tipi
di patologie, a traumi sperimentati prima dell’affido, ma soprattutto ai
maltrattamenti di cui i bambini fanno precocemente esperienza. Anche la
vulnerabilità psicosociale del bambino e della famiglia viene presa in
considerazione e acutamente argomentata come il più predittivo fattore di rischio
34
per il bambino, rispetto a qualunque altro. In questo senso, il collocamento in
famiglie affidatarie può rappresentare un fattore protettivo contro le conseguenze
negative del maltrattamento.
Rifacendosi alla teoria ecologica di Bronfenbrenner (1979), Jones Harden parla
della molteplicità di sistemi e di ambienti di cui il bambino entra a far parte e in
cui avvia la sua crescita entrando in relazione con gli adulti che gli forniscono le
cure. Prende in considerazione l’importanza di alcuni fattori, nello specifico la
sicurezza e la stabilità, con particolare riferimento alle conseguenze che l’assenza
di queste ha sulla vita dei figli in affido. Passando in rassegna i risultati di molti
studi, l’autrice si concentra sul concetto di stabilità familiare, dandone una
definizione che amplifica altre prospettive più riduttive, presenti in letteratura:
Jones Harden la definisce come l’insieme delle pratiche assistenziali che facilitano
il percorso di quei bambini provenienti da condizioni disagiate, accrescendo le
loro risorse in termini di resilienza. Tali pratiche hanno anche l’obiettivo di
attenuare il forte impatto dei maltrattamenti subiti che portano a minacce multiple
per lo sviluppo, tra cui problemi fisici, ritardi cognitivi, inadeguate abilità sociali e
di relazione. In questa ricerca, la definizione di stabilità familiare si estende a
quelle caratteristiche possedute dalla famiglia, quali la salute mentale dei genitori,
ma anche alle relazioni stabili tra tutte le figure che ruotano attorno al bambino,
per garantirne il suo benessere. Altri marcatori di stabilità vengono riconosciuti
negli aspetti legati alle caratteristiche dell’ambiente domestico (calore dimostrato,
disponibilità emotiva, attività quotidiane svolte). In definitiva, garantire la stabilità
significherebbe avere caregiver mentalmente sani che assicurino un ambiente
domestico stimolante e siano impegnati in adeguate pratiche genitoriali al fine di
creare un sistema coeso, solidale, e flessibile in relazione con gli assistenti sociali.
La stabilità risulta così un complesso più ampio e articolato di elementi che oltre
ad accompagnare il minore, ne favoriscono la scoperta delle risorse che ha a
disposizione e che possono permettergli di per massimizzare il potenziale
personale e riconoscere i punti di riferimento stabili in se e negli altri, su cui
contare durante il suo percorso di vita. Quasi con un monito verso le istituzioni,
l’autrice afferma che i bambini in affido affrontano già molte esperienze
35
impegnative nel corso della loro infanzia, a partire dalle preoccupanti condizioni
familiari: nuove difficoltà all'interno del sistema di tutela dei minori non
dovrebbero ulteriormente compromettere il loro sviluppo, pertanto maggiori sforzi
sono necessari per evitare che i soggetti attorno a cui tutto questo lavoro ruota,
non diventino poi invisibili fra le varie burocrazie e le vie legali, come intrappolati
nelle reti predisposte per la loro protezione.
All’interno del suo lavoro, l’autrice affronta anche un'altra questione, quella dei
contatti con la famiglia d’origine: riesaminando le varie evidenze già presenti in
letteratura, viene confermato che i bambini che mantengono rapporti costanti e
positivi con i loro genitori agiscono, con più probabilità, comportamenti positivi e
presentano condizioni di salute migliori.
Non dello stesso parere sono, tuttavia, Moyers, Farmer, Lipscombe (2008) che
hanno condotto uno studio sull’affidamento degli adolescenti e, in particolare, sui
rapporti con i loro genitori naturali, i fratelli e gli altri familiari. L’intento di
queste autrici è quello di dimostrare l’assenza di evidenze assolute circa i benefici
ottenibili dal rapporto fra minori affidati e genitori biologici, supportate dal
pensiero di ricercatori che più di recente hanno messo in discussione la certezza
degli effetti positivi del mantenimento di questi contatti. Secondo le autrici è di
primaria importanza considerare le relazioni esistenti e la situazione concreta della
singola famiglia, avanzando sospetti sulla possibilità di estendere a qualunque
situazione il bisogno di mantenere rapporti familiari. L’ipotesi è che, spesso, il
semplice tenersi in contatto sia insufficiente a promuovere un miglioramento della
situazione di tutti gli attori coinvolti e un ritorno a casa del minore. Questa ricerca
è di particolare importanza anche per le risonanze rilevabili nel lavoro dei Servizi
Sociali: chiarezza viene fatta rispetto ai modi in cui sarebbe opportuno
organizzare e gestire questi rapporti, con le relative implicazioni per il lavoro di
tutte le figure professionali coinvolte.
Vengono a tal proposito citati studi in cui sembrano essere maggiori le
conseguenze negative rispetto ai benefici di un rapporto tra genitori e figli
biologici che sia stabilito da terzi, un contatto forzato e non monitorato,
disinteressato al tipo di situazione pregressa. Le autrici hanno intervistato 68
36
adolescenti (collocati di recente in affido), i loro affidatari e gli operatori sociali
che li seguivano; le interviste sono avvenute in due tempi: dopo tre mesi
dall’inizio dell’affido e dopo un anno. L’articolo descrive i rapporti che i giovani
avevano con le loro famiglie di origine, l’influenza di queste relazioni sui genitori
affidatari e sull’evoluzione del progetto di affido; il lavoro è finalizzato a
esplorare il tema dei contatti con le famiglie di origine, esaminando anche il ruolo
degli operatori preposti, nell’organizzare questi contatti. La maggior parte dei
minori presi in considerazione in questo studio, prima di essere collocata in affido,
come spesso accade aveva sperimentato molte difficoltà: sullo sfondo vi erano
conflitti e forme di maltrattamento che rappresentavano il contesto nel quale
sarebbero avvenuti i contatti con la famiglia di origine. Questi giovani avevano
assistito ad atti di violenza tra i genitori, o provenivano da esperienze di violenza
fisica subita dai genitori, avevano avuto numerosi cambi d’abitazione, o venivano
trascurati dai genitori, abusati sessualmente, trattati da capri espiatori dalle loro
famiglie, oppure i genitori abusavano di alcol o droga, o erano responsabili di atti
delinquenziali. I risultati mostrano la problematicità di questi contatti per la
maggioranza degli adolescenti e il loro significativo impatto sugli esiti
dell’affidamento. Come sostenuto anche in altri studi, conflitti o fallimenti
nell’interazione fra il bambino e il caregiver possono causare stress e generare
emozioni negative. Di conseguenza, scambi interattivi meno adattivi, caratterizzati
da modalità di cura incoerenti, instabili o scarsamente sensibili, possono avere una
serie conseguenze per lo sviluppo (Norton, 1990; Halpern, 1993; Ammaniti,
Speranza, Tambelli, Odorisio & Vismara, 2007). Partendo dalla convinzione
diffusa da molti autori circa il fatto che sia necessario mantenere i rapporti tra
familiari e minori allontanati, gli autori concludono portando evidenze contrarie
secondo cui contatti con la famiglia d’origine fanno emergere talvolta sentimenti
latenti e dolorosi legati a quei vissuti negativi che le modalità interattive instabili o
insensibili hanno scaturito. Tali sentimenti hanno un forte impatto sul minore, sui
genitori biologici e sui membri della famiglia affidataria. Come la ricerca
dimostra, i contatti in alcuni casi hanno rappresentato la causa dell’interruzione
dell’affidamento, o comunque della sua stabile prosecuzione. Anche in situazioni
37
in cui i bambini possono iniziare a fare progressi, affiancati da caregiver sensibili,
le pressioni della famiglia di nascita, invischiante o fusionale, potrebbero rivelarsi
disastrose per i collocamenti in affido (Schofield & Beek, 2005a).
Solo in cinque di questi casi i rapporti con i familiari non presentavano alcuna
difficoltà. Nello studio vengono evidenziati i fattori che maggiormente
contribuiscono a rendere talvolta controproducenti gli incontri con i genitori
biologici: l’inaffidabilità del rapporto, i tempi inadeguati e la sicurezza durante
gli incontri, l’influenza dei genitori affidatari, l’impatto sulla famiglia affidataria,
il ripetersi di esperienze negative. Per ciò che concerne il primo fattore, è stata
rilevata un’elevata percentuale di giovani piuttosto scossi da vissuti negativi
dovuti ai casi in cui un genitore non veniva a trovarli, o arrivava molto in ritardo. I
rapporti difficili tra affidato e famiglia di origine avevano delle conseguenze
anche sugli altri componenti della famiglia affidataria. Nella ricerca, quasi la metà
dei genitori affidatari percepiva questo effetto negativo su di sé, o riferiva
ripercussioni negative sugli altri loro figli, che erano turbati dalla sofferenza del
fratello in affido. Lo sperimentatore documenta che molti, nella loro sofferenza,
ritornavano a compiere comportamenti infantili. La frequenza e la durata dei
contatti, secondo il parere degli affidatari, erano inadeguate. Mentre alcuni minori
soffrivano perché il genitore non aveva con loro dei contatti frequenti come
avrebbero voluto, altri ne lamentavano troppi e mal gestivano le ore a
disposizione. In vari casi, la questione della sicurezza non fu considerata rilevante,
dagli operatori: alcuni ragazzi venivano lasciati liberi di organizzare i contatti
come preferivano, anche se molti di loro erano a rischio di abuso. Un’altra fonte
di preoccupazione era legata al fatto che l’influenza educativa degli affidatari
risultasse indebolita dalle azioni dei familiari, che talvolta incoraggiavano
comportamenti antisociali o rischiosi. Varie conseguenze furono riscontrate,
inoltre, nel consolidarsi di insicurezze e nell’accumulo di frustrazioni negli
adolescenti: molte esperienze, proprio perché ripetute, sono parse distruttive
quando, per esempio, questi andavano con insistenza alla ricerca di genitori che li
rifiutavano, li trascuravano o erano violenti verso di loro.
38
Dall’intervista dopo un anno è emerso che il rapporto tra alcuni genitori biologici
e relativi figli era peggiorato, pertanto vennero proposte variazioni agli incontri.
Dai risultati ottenuti le autrici affermano che quando non ci sono miglioramenti
nel rapporto con i genitori, per alcuni ragazzi può essere di aiuto avere contatti
positivi con qualche altro familiare. Talvolta, però, i rapporti peggioravano
proprio perché era cambiata l’organizzazione degli incontri: ciò evidenzia la
necessità di regolari verifiche sull’andamento dei contatti genitore-figlio.
Analizzando i dati delle interviste sui rapporti con la famiglia di origine e gli esiti
dell’affido è emerso che le difficoltà di rapporto con i familiari riscontrate al
momento della prima intervista sono risultate predittive di un successivo
fallimento dell’affido. I rapporti difficili con i familiari sono risultati direttamente
correlati a esiti negativi dell’affidamento, ma non vale lo stesso nei casi di assenza
di rapporti, che non hanno anticipato conseguenze critiche.
Questi risultati sembrano indicare che il bisogno di relazioni familiari degli
adolescenti in affido è un ambito notevolmente delicato e che gli operatori sociali
dovrebbero aver cura di chiarire bene, per ogni situazione, quali siano le finalità
(riunificazione, mantenimento del senso d’identità, rassicurazione…) sottese agli
incontri con la famiglia d’origine, in quanto la mediazione di un operatore sociale,
finalizzata a realizzare incontri significativi tra genitori naturali e ragazzi, è una
funzione importantissima (Moyers et al., 2008). La ricerca ha messo in evidenza
anche il ruolo del rapporto con altri familiari, come nonni, zie, zii e cugini. Tali
parenti possono essere una fonte determinante di stabilità e continuità e
rappresentare un contrappeso a difficili relazioni con i genitori. È stato verificato
che quando gli adolescenti riescono a parlare con un adulto delle loro esperienze
passate e delle difficili relazioni familiari, l’affidamento ha degli esiti più positivi.
Anche quando il ragazzo può avere accesso ad almeno una persona di fiducia vi
sono meno probabilità di fallimento. Quando persistono relazioni negative, gli
adolescenti hanno bisogno di aiuto per farsi una ragione del comportamento dei
loro genitori e per affrontare il rifiuto, la perdita e soprattutto l’ambivalenza, in
modo da costruirsi un senso di autostima e aprirsi ad altre relazioni, più proficue
per loro. La capacità di costruire e mantenere delle relazioni sane, da adulti, può
39
essere gravemente messa a rischio, se non vengono aiutati ad affrontare queste
problematiche (Ammaniti et al., 2007; Moyers et al., 2008). L’ipotesi iniziale per
cui l’organizzazione dei contatti familiari va accuratamente pianificata e
monitorata, viene così confermata, sottolineando la necessità di tener conto dei
bisogni in evoluzione degli adolescenti e delle effettive risorse dei loro familiari.
2.1.2. Impegno e caratteristiche temperamentali: i predittori della
relazione caregiver-bambino nell’affidamento familiare.
Nello studio presentato in precedenza è stato affrontato principalmente il tema
legato al ruolo che giocano i contatti con la famiglia di origine, le decisioni dei
servizi sociali e il loro coinvolgimento nei vari progetti di affido, ma poco rilievo
è stato dato alle caratteristiche degli attori coinvolti nell’affido. A occuparsi di
questo vi è, fra gli altri, lo stimolante lavoro di Dozier e Lindhiem (2006), che
esamina le variabili associate al livello di coinvolgimento di madri affidatarie
verso figli dai 5 mesi ai 5 anni di età a loro affidati. Rilevanti sono i risvolti della
ricerca, che potrebbero influire fortemente sull’orientamento delle scelte di
abbinamento bambino-famiglia affidataria in base alle possibilità, alle risorse e
alle esigenze di questi ultimi, nonché della famiglia di origine. Il livello di
coinvolgimento che hanno indagato Dozier e Lindhiem è satato ricavato tramite
un’intervista semistrutturata chiamata “This Is My Baby”. Gli autori danno una
definizione del termine impegno, descrivendolo come l’insieme degli sforzi che
un caregiver è motivato a portare avanti nei confronti di un minore. Nei caregiver
definiti “altamente impegnati” l’interesse verso la cura per i propri figli in affido è
evidente ed è volta ad assicurare il benessere per il bambino ad ogni costo.
L’ipotesi di partenza è che sia le caratteristiche del bambino che quelle del
caregiver siano reciprocamente influenti nel determinare il livello di impegno
profuso dal caregiver nel percorso dell’affido. In particolare, le rispettive
caratteristiche sono l’età del bambino al momento del collocamento e il suo
passato prima dell’affidamento. Sempre secondo l’ipotesi degli autori, queste
potrebbero contribuire ad aumentare l’investimento nell’esercizio delle funzioni
40
genitoriali a favore del minore, soprattutto se il rapporto bambino-genitore è
duraturo. Lo studio, svolto negli Stati Uniti ha considerato 84 diadi genitorebambino e le interviste hanno mostrato che i genitori affidatari più altamente
impegnati nel percorso di affido sono quelli con meno esperienze di affido alle
spalle e dove il figlio era stato collocate a un’età molto precoce. Il coinvolgimento
maggiore si associa a una stabilità del rapporto nel tempo, con affidi a lungo
termine, e ciò risulta un dato di indubbio valore per indirizzare i collocamenti di
bambini nelle famiglie affidatarie. Dai risultati ottenuti con questa ricerca
consegue che l’impegno del genitore può essere compromesso quando questi si è
preso cura di molti bambini precedentemente, avendo un’esperienza tale da
portare lo stesso a non investire le energie iniziali, mantenendo un’attenzione
inferiore verso l’esperienza di affido. Si afferma, tuttavia, che l'esperienza e
l'impegno nell’affido non si escludono a vicenda, ma che sono due fattori
inversamente correlati. Pertanto, la conclusione del lavoro dei ricercatori
suggerisce che i bambini più piccoli possono essere più opportunamente collocati
presso genitori affidatari che con maggiori probabilità si dedicheranno
profondamente al percorso, ossia presso genitori con una minore esperienza come
affidatari. La riflessione condurrebbe pertanto a ritenere che chi ha poca
esperienza e meno possibilità di fare riferimento a precedenti storie di affido
vissute, può avere nella sua pratica genitoriale maggiori energie e curiosità da
concentrare sul singolo bambino in affidamento. Questa riflessione è più
correttamente applicabile ai casi in cui i bambini da collocare in affido non
presentino molti problemi comportamentali, mentre potrebbe rivelarsi inadeguata
nel caso di bambini con molte problematiche, in quanto genitori poco esperti
potrebbero non avere le competenze idonee, o potrebbero non essere in grado di
dosare le energie per fronteggiare una vasta mole di problematiche fisiche,
comportamentali, relazionali più evidenti in una fase della crescita più avanzata.
Lo studio si concentra anche sulle caratteristiche degli affidatari, come importanti
nella gestione dell’affido da parte del servizio affidi, ovvero nella fase di
abbinamento del bambino alla famiglia più idonea. Infatti, assecondando la
tendenza degli ultimi dieci anni, si consiglia di collocare i minori in case valutate
41
come potenzialmente adottive, così da evitare ulteriori interruzioni e perdite non
necessarie nella vita del bambino. L’intenzione è quella di sottolineare la necessità
di valutazioni più approfondite da svolgere nella fase iniziale: pensando al futuro
del bambino sarebbe auspicabile, infatti, creare la situazione ottimale affinché,
creato un rapporto stabile e profondo con gli affidatari, ci siano i presupposti per
trasformarlo nella sua ultima collocazione e, nei casi consentiti, in adozione.
Collegato a queste caratteristiche degli affidatari e del loro ambiente domestico, è
la presenza/assenza di diritti che il genitore biologico può ancora avere sul
minore: solo se è evidente che la situazione di disagio della famiglia di origine
non è temporanea e che la potestà genitoriale è decaduta, o seriamente messa in
discussione, è bene prendere in considerazione la possibilità che i genitori
affidatari possano diventare anche genitori adottivi. Se, al contrario, l’affido
terminasse e il bambino dovesse rientrare nella famiglia originaria dopo essere
stato in una affidataria ma anche potenzialmente adottiva, i genitori affidatari
potrebbero rimanere troppo coinvolti e anche il bambino potrebbe vivere ulteriori
separazioni dolorose evitabili.
2.1.3 Propositi della ricerca sui temi dell’affidamento familiare
A livello concettuale, alla base di ogni ricerca in questa direzione, vi è
l’intenzione di ridurre al minimo le separazioni e le sofferenze dei bambini che,
trovandosi in condizioni di instabilità, hanno più di ogni altro, la necessità di
riavere quella protezione che un ambiente stabile e le amorevoli cure genitoriali
possono regalare. A livello empirico si vogliono rintracciare e analizzare tutti
quegli elementi personali e ambientali coinvolti in questo percorso così denso di
significati e attese, per comprendere come intervenire e migliorare l’esperienza
umana dell’affido familiare da ogni prospettiva. A tale proposito, un’importante
ricerca sperimentale che tratta propriamente la qualità delle cure genitoriali è
quella di Pluess e Belsky, (2010). Il focus è sugli effetti che un dato modello di
genitorialità ha sullo sviluppo del bambino, studiando come le caratteristiche
temperamentali individuali interagiscano con le cure esperite fin dalla nascita. La
42
ricerca focalizza l’attenzione sulla sensibilità differenziale dei bambini
nell’accudimento, e porta ad affermare che i bambini con temperamenti difficili
sono maggiormente influenzati dalla qualità delle cure che i genitori forniscono,
rispetto ai bambini con temperamento moderato. Vengono analizzati i risultati
ottenuti precedentemente dagli autori Belsky, Vandell, Burchinal, Clarke-Stewart,
McCartney & Owen (2007) sulle conseguenze a lungo termine del tipo di cure
offerte fin dai primi momenti dopo la nascita, cercando di valutare elementi fino a
quel
momento
trascurati
e aumentare la
conoscenza sull’implicazione
temperamentale nello sviluppo. Secondo Pluess e Belsky, la mancata
considerazione da parte di Belsky et al. (2007) della differenza tra un
temperamento moderato e uno problematico nelle cure offerte all'infante, ignora i
possibili effetti a lungo termine sulla formazione del sistema di funzionamento
individuale, quindi sull’adattamento sociale del bambino. Tale ipotesi di partenza
è supportata da osservazioni effettuate precedentemente da Belsky (1997), su
neonati e bambini piccoli con un’emotività negativa, e bambini che
raggiungevano punteggi alti su misure temperamento “difficile", per i quali è
stata riscontrata una sensibilità sproporzionata alle cure per la crescita rispetto a
bambino con temperamento moderato ed emotività nella norma.
Sono stati seguiti 1364 bambini americani di diversa estrazione, da 1 mese a 11
anni di età, attraverso osservazioni ripetute per valutare la qualità delle cure
ricevute. Il temperamento è stata valutato attraverso una versione adattata del
Temperament
Infant
Questionnaire
(Carey
&
McDevitt,
1978).
Le madri hanno indicato su una scala a sei punti che va da “quasi
mai” a “quasi sempre” la frequenza del comportamento descritto in ognuno dei 55
item. La qualità delle funzioni genitoriali è stata valutata mediante sessioni di
gioco e osservazione a casa con la figura materna. Le interazioni madre-bambino
sono state videoregistrate in osservazioni semistrutturate di 15 min a 6, 15, 24, 36,
e 54 mesi. Ciò ha permesso di valutare la qualità del comportamento materno in
relazione all'età del figlio. Tali osservazioni sono state messe in relazione con i
resoconti dei loro insegnanti, per stabilire se le persone con storie di
temperamento difficile manifestassero effetti a livello cognitivo-scolastico e di
43
socializzazione negli anni successivi. La prova della percettività differenziale di
cui parlano gli autori emerge sia in conseguenza alle cure ricevute dai bambini,
che al modello di genitorialità che ispira lo stile educativo dei caregiver,
riflettendosi sul funzionamento cognitivo-scolastico e sociale. Questa distinta
sensibilità dei figli alle funzioni genitoriali e alla qualità delle cure si estende fino
alla tarda infanzia (tra i dieci e gli undici anni). Indipendentemente dai limiti del
campione, questo lavoro svolto sul campo estende le conoscenze acquisite dalle
indagini pregresse, fornendo prove del fatto che la sensibilità differenziale non è
presente solo fino alla prima infanzia, o fino ai primi anni delle scuole primarie.
Una maggiore sensibilità dei bambini con difficoltà temperamentali ai benefici di
una genitorialità positiva si estenderebbe, allora, fino agli undici anni. I risultati
derivanti dall’analisi di due termini di interazione, ovvero le cure genitoriali e il
temperamento del bambino, sono generalmente in accordo con i risultati di altri
studi che sostengono che l’interazione tra i fattori genetici e i fattori ambientali
(come esperienze di maltrattamento nell’infanzia) rappresenti la determinante dei
comportamenti antisociali in età adulta. In linea anche con il lavoro
precedentemente citato di Jones Harden (2004), parlando della vulnerabilità
psicosociale della famiglia e del minore, l’interazione che si stabilisce tra le
caratteristiche innate del bambino e le esperienze fatte nell’infanzia, preannuncia
gli esiti dello sviluppo più di ogni altro fattore, soprattutto quando il livello
temperamentale presenta delle difficoltà.
2.2 Modelli di genitorialità positiva
L’affido può essere considerato un intervento attuato a livello internazionale, in
cui persone disponibili a fornire cure e assistenza, si assumono le responsabilità
connesse al ruolo genitoriale verso minori provenienti da situazioni svantaggiate,
che non possono godere temporaneamente di un contesto sicuro e una protezione
da parte della propria famiglia di origine. È ancora attiva la ricerca per definire
effettivamente quali siano le caratteristiche che una genitorialità di alto livello
44
debba contenere per poter fronteggiare le varie sfide che l’affido familiare pone
costantemente. Molti studi sono ancora in corso, nell’intento di formulare modelli
di riferimento che diano risposte su come impostare un intervento al livello
affettivo e comportamentale nei vari contesti di affidamento familiare (Berrick &
Skivenes, 2012). Ciò su cui non sembrano esserci dubbi è che la qualità
dell’intervento è data dalla capacità di modificare le rappresentazioni di sé e degli
altri che il bambino ha costruito fino a quel momento, sulla base delle sue
esperienze (Schofield & Beek, 2013). I timori che queste, se non considerate come
terreno su cui agire in senso trasformativo, non permettano esiti positivi nello
sviluppo del bambino, rendendolo inconsapevole delle proprie risorse, è il
fondamento alla base del lavoro degli operatori sociali e dei ricercatori del settore.
Recentemente sono stati condotti interessanti studi che si concentrano sulle
capacità genitoriali e sui modelli di genitorialità da assumere per orientare le
pratiche e gli stili coinvolti nel processo educativo, riabilitativo, terapeutico,
evolutivo e formativo insito nell’affidamento familiare. Di seguito ne verranno
presentate le caratteristiche e i risultati.
2.2.1. Le dimensioni fondamentali del caregiving
È possibile osservare la competenza di un genitore rispetto alla sua capacità di
occuparsi, preoccuparsi del benessere del figlio, identificarsi con lui, “vederlo
empaticamente”, pur tenendolo distinto da sé. Questa capacità di tenere dentro,
per poi lasciare andare è di difficile esplicazione, non essendoci una lista finita di
precisi comportamenti corrispondenti. Per fare chiarezza in merito, sono stati
analizzati alcuni studi che tentano di chiarire il significato di competenza
genitoriale nei contesti di affido familiare. Una ricerca presa in considerazione per
il presente lavoro, è quella condotta da Schofield & Beek (2005b) che descrive un
modello di genitorialità che utilizza cinque dimensioni di caregiving coerenti con
la teoria dell'attaccamento e la ricerca in tema di affidamento familiare. Il lavoro
si concentra sul significato dell’offrire una base sicura, cercando di sostanziare e
descrivere i comportamenti e i percorsi riflessivi implicati in questo processo da
45
parte del bambino e del genitore affidatario. Vengono a tal proposito argomentate
le dimensioni della genitorialità necessarie ad offrire la stabilità e la protezione a
garanzia di una crescita sana e della formazione di un’autonomia nel fanciullo:
parliamo nello specifico di promuovere la fiducia nella disponibilità dell’Altro,
promuovere la funzione riflessiva, promuovere la costruzione dell’autostima,
promuovere l'autonomia, promuovere il senso di appartenenza familiare.
Quest’ultima, aggiunta in seguito, rispecchia la necessità per i bambini in “affido
a lungo termine” di sperimentare la sicurezza che viene da un senso di identità e
appartenenza a un sistema. I dati qualitativi dello studio mostrano l'utilità del
modello emergente come quadro di riferimento per l'analisi, ma suggeriscono
anche l'uso potenziale di un tale quadro per collaborare e sostenere genitori
affidatari (Schofield & Beek, 2005b). Lo studio longitudinale evidenzia le
difficoltà che i genitori affidatari affrontano per fornire una base sicura soprattutto
ai bambini negli anni dalla seconda infanzia alla prima adolescenza, con trascorsi
di abusi, maltrattamento, e disagio psicosociale. La stabilità e la protezione offerte
da una base sicura, vista come obiettivo della pratica di genitorialità auspicata,
sono date dalla qualità dell’intervento da parte degli affidatari, che devono
diventare genitori terapeutici (Schofield & Beek, 2005b; 2013), mettendo in atto
ruoli che dimostrino con gesti sia impliciti, sia espliciti, che i bambini possono
fidarsi di loro. Il lavoro delle autrici sviluppa le dimensioni che qualificano una
genitorialità di alto livello, fra le quali compare inizialmente la necessità di
promuovere la fiducia nella disponibilità altrui. Questo avviene concentrandosi sui
bisogni del minore, “tenendo in mente” il bambino e considerare centrale il suo
benessere. Per un sano sviluppo emotivo, tutti i bambini hanno bisogno di
confidare nella disponibilità di un caregiver accessibile, ma non invadente,
affidabile e pronto a fornire qualsiasi risposta necessaria. L’effetto sarà che i
bambini possono esplorare, imparare, crescere, e gestire l'ansia. A livello
comportamentale, ciò consiste nella disponibilità fisica, mentale ed emotiva del
genitore, che si manifesta vicino e disponibile con mezzi adatti a rispondere alle
esigenze a seconda delle varie età del bambino, riducendo ansia e stress. Mettere
in atto segnali costanti di affidabilità e prevedibilità rassicura il bambino: segnali
46
affettivi di questo tipo hanno un significato più importante per minori provenienti
da contesti deprivati, disorientanti, di abusi e maltrattamento, perché creano la
fiducia nella stabilità di presenze protettive e attività stimolanti. In questo senso il
bambino può sentirsi al sicuro, protetto, sostenuto dal suo caregiver. Così, i suoi
comportamenti potranno manifestarsi nella volontà esplorativa degli ambienti e
delle attività, nella volontà di assumere dei rischi con la sicurezza che in ogni caso
il genitore è presente, pronto a consolare, proteggere, nonché ad alleviare e
contenere paure e stress.
La funzione riflessiva descritta inerisce i concetti di sensibilità ed empatia. Il fatto
di reagire con sensibilità rinvia alla capacità del caregiver di mettersi nei panni del
bambino, comprenderne i vissuti, le sensazioni e riflettere in modo flessibile su di
essi. Rispecchiare e rimandare a lui i vissuti, rivisti e riadattati in una forma più
accettabile, consente al bambino di imparare a riflettere a sua volta sulle proprie
idee, ma anche su quelle altrui, padroneggiare i propri vissuti e i comportamenti.
Così il bambino imparerà a regolare le proprie emozioni, i propri comportamenti e
manifestare verbalmente la sua interiorità. Ciò è possibile se il genitore riflette
sulle esperienze pregresse del bambino e sull’impatto che queste hanno o
potrebbero avere avuto su di lui, collegando gli accadimenti presenti, con quelli
che hanno caratterizzato il suo passato. E’ anche la capacità dei caregiver di
riflettere sull’attuale stato mentale del bambino tanto quanto sul proprio stato
mentale perché esso influenza gli stati mentali del bambino e la relazione
genitore-bambino. Il genitore affidatario deve, allora, guardare dentro di sé, deve
generare teorie, ipotesi sul perché di certe reazioni e dell’impatto di certi eventi
sul bambino nell’intento di percepire a fondo le emozioni, e restituirle come
affrontabili e giuste. Per fare questo e rispondere empaticamente è fondamentale
un ascolto e un’osservazione costanti del bambino, un affiancamento cognitivo di
supporto e un aiuto per dare senso all’esperienza in corso, e a quelle precedenti,
così da rassicurare il bambino e permettergli di capire meglio se stesso, gli altri e
il mondo che lo circonda, avere attese, pianificare, esprimere le proprie riflessioni
(Schofield &Beek, 2005b; 2013). La dimensione che riguarda la costruzione
dell’autostima tocca il concetto dell’accettazione, una mutua accettazione vissuta
47
nella certezza di essere compresi e accolti dall’Altro con un gesto di totale
gratuità. L'autostima ha un ruolo importante nel gestire le nuove sfide ed è un
concetto chiave per riflettere sulle conseguenze comportamentali. Fin dalle prime
interazioni con i bambini, i genitori iniziano il processo di attribuzione di un senso
positivo di sé. Essi elargiscono una piena e incondizionata accettazione, gesti e
toni di voce che fanno percepire di essere creature amate e amabili, fonte
d’interesse, gioia e preoccupazione per gli altri. Come i bambini crescono e si
sviluppano, i genitori continueranno a generare ambienti in cui i bambini possono
sentirsi un senso di realizzazione, compiere attività, ricevere la lode, e
sperimentare se stessi come preziosi e speciali.
A livello genitoriale, la costruzione di un’autostima non può che iniziare
comprendendo il bisogno di credere in se, sentire il proprio potenziale, come
messo che consente di raggiungere traguardi dentro e fuori il contesto familiare
(Schofield &Beek, 2005b). Il bisogno di sentirsi riconosciuti, ottenere che l’altro
ci rispetti, ci riconosca e ci consideri degni e meritevoli rientra tra quelle necessità
così forti di stima e considerazione che ognuno esperisce, da tempo studiate e
collocate vicino al vertice della piramide dei bisogni dell’uomo (Maslow, 1954).
Solo così il bambino si sentirà accettato, valutato equamente, comprenderà che
egli, come tutte le altre persone, ha doti e difetti e che se questi si rendono
evidenti non sono motivo di vergogna o rimprovero. Il bambino impara ad
acquisire fiducia in sé, a mostrarsi, assumersi il rischio che ogni nuova esperienza
porta con sé. Capisce come superare le sconfitte, superare le difficoltà che
inevitabilmente sono presenti nella vita di ognuno e che queste non dipendono dal
fatto di non avere risorse o di dover rimanere ai margini, ma solo dal fatto che è
necessario accettare realisticamente che la realtà è costituita sia da eventi positivi
che negativi, che vanno interpretati come affrontabili con le proprie risorse, e non
temibili. Ciò porterà il giovane ad accettare di avvicinarsi a nuove attività,
conoscere nuove persone, creare relazioni profonde e mantenere rapporti saldi nei
quali esporsi per ciò che si è realmente, nella convinzione che si può essere stimati
incondizionatamente. Ciò rappresenta il fondamento dell’autostima, strettamente
connessa con il concetto di autonomia: il bambino che percepisce di essere degno
48
di amore e aiuto, si sente forte e capace di affrontare le situazioni difficili, si sente
in grado di affrontare le avversità”. Per questo, autonomia e autoefficacia vanno di
pari passo. La promozione di un’autonomia da parte del genitore non può che
iniziare col riconoscimento del bambino come individuo a se stante, con delle
capacità decisionali, risorse e valori, un essere con un potenziale in cui credere. I
comportamenti devono, quindi, manifestare tale fiducia nel suo potenziale,
lasciando libertà all’esplorazione del bambino, sostenendo la sua autonomia,
predisponendo la possibilità che si allontani in sicurezza e senza intrusioni
eccessive. Perché il bambino manifesti ciò che è e si convinca che il suo modo di
essere non è erroneo, inaccettabile, gli devono essere date le possibilità par
manifestarsi e ottenere consensi: a livello comportamentale il genitore dovrà
pertanto offrire delle scelte, far capire al bambino che può decidere e che la sua
decisione è degna di essere riconosciuta come importante e accettabile. Negoziare
e cooperare sono elementi imprescindibili per far sentire il bambino in possesso di
idee e sentimenti validi e dotati di significato, percepirsi efficace e competente, e
altresì fiducioso di potersi rivolgere all’altro, nel momento del bisogno. Così il
bambino agirà comportamenti proattivi e collaborativi.
La dimensione dell’appartenenza familiare può essere promossa condividendo
quei valori, quei rituali e quelle pratiche familiari che non devono però diventare
barriere insormontabili, bensì confini flessibili nei quali includere il prossimo,
lasciando sempre lo spazio per la condivisione del suo bagaglio culturale ed
esistenziale.
Le autrici sintetizzano nel seguente modello (Figura 1) la multidimensionalità
della funzione genitoriale di alta qualità, volta alla garanzia di una base sicura.
49
Fig. 1 Fornire una base sicura (Schofield & Beek, 2005b)
La riflessione sul fatto che non siano necessari vincoli legali o di sangue per dirsi
appartenenti a una famiglia è la base per far sì che gli intrecci di vite proseguano e
si rafforzino nell’aiuto e nella collaborazione reciproca, accettando e includendo il
bambino senza giudizi preconcetti sul suo vissuto, la sua cultura, la sua famiglia
di origine. Queste valutazioni, che non possono provenire unicamente dal
caregiver affidatario, ma vanno estese alla rete sociale del bambino, sono di certo
importanti non solo per lo stabilirsi di rapporti positivi all’interno del nucleo
affidatario, ma anche per lo stimolare la capacità di gestione dei rapporti da parte
del bambino, tra la famiglia affidataria e quella di origine, evitando conflitti di
lealtà, di appartenenza, o l’innescarsi di ostilità e rancori tra gli attori coinvolti
nell’affido. In questo modello di famiglia, la natura della flessibilità dei confini è
di matrice dinamico-relazionale e prevede una costante comunicazione di tipo
circolare tra i tre diversi interlocutori (Fruggeri, 2005). La caratteristica di
plurinuclearità è la risultante quindi degli sforzi e delle azioni congiunte di
famiglia naturale, affidataria e operatori dei servizi, che si sostanzia nel concetto
di genitorialità diffusa, che prevede una dinamica relazionale di forma poliedrica
(Fruggeri, 2005). L’appartenenza alla famiglia deve essere un vissuto che si
proietta anche nel futuro, rendendo il bambino componente della famiglia con
diritti e responsabilità alla stregua degli altri membri. Il bambino si potrà così
50
impegnare come membro effettivo di quella famiglia che includerà nella sua
rappresentazione identitaria, in armonia con tutte le altre appartenenze sociali e
affettive.
2.2.2 Una visione amplificata delle funzioni genitoriali: il Parenting plus
Fornire una base sicura in contesti di affido familiare, come sostengono Schofield
e Beek (2005), coinvolge una serie di compiti da assolvere, da parte del caregiver,
che vanno ben oltre le classiche funzioni genitoriali. Questo perché il bambino che
viene accolto nel nuovo nucleo, inizia questo viaggio da una condizione di
svantaggio in cui la vulnerabilità ai rischi psicosociali è accresciuta. Per questo
motivo c’è chi, considerando potenziate le capacità degli affidatari, parla di una
genitorialità aumentata, ovvero di “Parenting plus” (Berrick & Skivenes, 2012).
Secondo gli autori, non esiste una definizione sintetica di ciò in cui si sostanzia
l’essere buoni genitori: più significati e accezioni sono coinvolti in questa pratica.
Una genitorialità sensibile suggerisce che i genitori dovrebbero trattare i loro figli
con amore e rispetto e che dovrebbero essere consapevoli del loro temperamento e
delle esigenze di sviluppo. Una genitorialità proattiva implica lo sviluppo di
ambienti che riducano i rischi e incentivino lo sviluppo, attraverso la definizione
di norme e limiti per una sana esplorazione. Una genitorialità attivamente
impegnata si riscontra in presenza di operatori sanitari interessati e impegnati
nella gestione dei bambini e nel controllo di come questi interagiscono col mondo
circostante. E ancora, genitorialità intenzionale suggerisce che i genitori spieghino
ai bambini le ragioni delle regole e delle decisioni, e che definiscano le attese
verso il loro comportamento. Lo studio qualitativo di Berrick e Skivenes è stato
svolto mediante interviste di persona con 141 genitori adottivi statunitensi e
norvegesi. Al fine di individuare criteri comuni di selezione, agli assistenti sociali
non è stato chiesto di individuare i genitori “migliori”, perché ciò avrebbe
introdotto un elemento di potenziale soggettività dell’operatore. Un tale approccio
avrebbe potuto suscitare strategie di selezione sulla base della valutazioni dei
genitori che si erano dimostrati più flessibili e facili da gestire, o che avevano
51
avuto in passato numerosi bambini affidati. Quindi, durante la selezione, gli
assistenti sociali hanno chiesto a ciascuno a chi avrebbe lasciato il proprio
bambino, nel caso di una crisi familiare che avrebbe impedito per un lungo
periodo di prendersene cura. I risultati di questo studio suggeriscono che l'affido
di alta qualità è caratterizzato non solo da capacità genitoriali efficaci in generale,
ma che le sfide poste dalla affido richiedono una serie di risposte che vanno oltre.
Queste caratteristiche definite come "Parenting plus" fanno riferimento a tre aree:
partecipazione
all'esperienza
di
integrazione
in
una
nuova
famiglia;
considerazione del rapporto tra il bambino, la famiglia di nascita, e la famiglia
affidataria; le risposte alle particolari esigenze di sviluppo del bambino. In
ciascuna di queste aree, sono state raccolte sia risposte affettive che
comportamentali che dettagliavano ogni contenuto. Le risposte alle interviste
hanno raccolto molti commenti che descrivevano l’offerta delle cure ai bambini
come gratuitamente amorevole e coerentemente strutturata. Per ciò che concerne
la risposta affettiva fornita dagli intervistati rispetto all’integrazione del bambino
nel nuovo nucleo, la grande maggioranza dei genitori affidatari ha parlato dei
bambini come altri membri della famiglia, equivalenti a un figlio naturale, con
necessità assistenziali di pari importanza rispetto agli altri membri della famiglia.
A livello comportamentale i genitori hanno affermato di aver realizzato delle
attività per agevolare l’ingresso e l’integrazione: per esempio, sono state descritte
strategie pratiche come la preparazione della cameretta, l’acquisto di indumenti,
cibi e giocattoli per accogliere il nuovo arrivato; o strategie che miravano a far
sentire sempre più importante il bambino, creando momenti in cui far scegliere a
lui cosa fare, come arredare e decorare la sua stanza, per scoprire insieme i suoi
gusti e le sue preferenze. Le attività per partecipare ai bisogni di integrazione del
bambino sono state affiancate a quelle abituali per i membri della famiglia
naturale. Altro metodo utilizzato è stato quello di preparare i membri della
famiglia allargata, avvisandoli dell'arrivo imminente di un di un nuovo bambino;
limitare per i primi tempi l’esposizione indiscriminata a nuove conoscenze,
rimanere a lungo affianco al bambino, posticipando l’ingresso a scuola per
consentirgli di famigliarizzare meglio con il nuovo contesto d’inserimento,
52
abituarsi alle routine, favorendo la percezione di prevedibilità. Alcuni affidatari
hanno utilizzato anche altre tecniche per far sentire il bambino parte del nuovo
nucleo, come ad esempio mettere in casa le fotografie del bambino, vicino a
quelle degli altri famigliari, o organizzare una festa di benvenuto per il bambino.
Dalle interviste è emersa una particolare sensibilità verso alcuni momenti
particolari, come le festività natalizie: includere il bambino nell’organizzazione
degli eventi in queste ricorrenze ha rafforzato il vissuto di partecipazione del
bambino alla famiglia affidataria.
Per quanto riguarda la considerazione della relazione tra il bambino, la famiglia
d’origine e quella affidataria non c’è una conoscenza così chiara di questo
triangolo relazionale, come invece c’è in altri tipi di rapporti quali quello di
adozione. Non si parla di considerare i lati del triangolo come rapporti
impenetrabili, diretti, senza influenze, ma piuttosto di rapporti “porosi”, filtranti,
influenti l’uno sull’altro senza nette separazioni. A livello affettivo, i genitori si
sono dimostrati attivi in quest’area, cercando di attenuare i colpi derivati dalle
delusioni che le azioni della famiglia di origine causavano. Molti bambini in
affido sperimentano spesso una serie di delusioni emotive che possono derivare da
promesse non mantenute, appuntamenti mancati, ricongiungimenti che non si
verificano. In queste situazioni, mediare significa fungere da “paracolpi emotivo”,
tutelando i bambini dalla portata delle disillusioni. Soprattutto per i bambini più
piccoli, notare la distanza tra le intenzioni e le azioni dei genitori biologici, può
essere destabilizzante e necessitare di un contenimento e un’attenuazione da parte
dell’affidatario. Questi, è infatti chiamato ad assorbire l’impatto emotivo, evento
che invece non avviene in famiglie con figli biologici, in quanto episodi con un
certo impatto emotivo possono essere formativi e appropriati per favorire lo
sviluppo. L’esperienza di “paracolpi emotivo” caratterizza l’affidamento familiare
e lo differenzia dalla genitorialità tradizionale tra genitori e figli biologici: è un
elemento chiave in cui riconoscere uno di quei “plus”, di una genitorialità
amplificata, di alta qualità. Sempre a livello affettivo, molti dei genitori affidatari
hanno parlato dell'importanza di mostrarsi rispettosi verso i genitori biologici, sia
53
parlando positivamente di loro, sia mostrandosi umili, comprensivi e rispettosi nei
loro confronti.
A livello comportamentale, nella considerazione della relazione che il bambino ha
con i due nuclei familiari, sono state raccolte risposte in cui è evidente la presenza
di intenzionalità che caratterizza le azioni degli affidatari verso i genitori
biologici. Considerando che nei contesti di affido non è facile riscontrare il
coinvolgimento intenzionale dei genitori naturali nelle esperienze positive del
bambino, e nella sua gestione in generale, la genitorialità condivisa tra affidatari e
naturali comporta allora la creazione intenzionale di un collegamento e un invito a
condividere la cura dei bambini con il presupposto che l'esperienza sarà
fondamentalmente a beneficio del bambino. Per questo, renderli presenti nella vita
del bambino è parsa una strategia positiva, qualificante un modello genitoriale che
facilita l’armonia nei rapporti che il bambino instaura e mantiene con le varie
figure genitoriali. In particolare, nominare i genitori biologici in loro assenza,
sottolinearne i punti di forza, rintracciare vantaggi nel poter avere due madri/padri
cui rivolgersi.
La terza area legata alla necessità di provvedere ai bisogni speciali del bambino
vede, inizialmente, la capacità degli affidatari di riconoscere i bisogni di salute,
educativi e di sviluppo individuali. Un orientamento centrato sul bambino è
emerso dalle interviste, attraverso alle descrizioni dei casi in cui i bisogni del
bambino erano anteposti ai propri, il cui soddisfacimento veniva minimizzato e
procrastinato.
I comportamenti messi in atto al fine di rispondere ai bisogni specifici, si sono
rivolti principalmente ad azioni atte a sostenere il bambino nelle varie aree dello
sviluppo. In vari casi le difficoltà erano a livello scolastico, o legate a
problematiche comportamentali che peggioravano il rapporto con i pari, o dovute
a problemi di salute. Ciò che è apparso chiaro sia nei genitori statunitensi che in
quelli norvegesi è stato un atteggiamento combattivo, diretto a supportare il
minore e dargli gli strumenti per ottenere successi nel suo futuro: nella pratica i
genitori hanno affermato di aver coinvolto ripetutamente più specialisti
(insegnanti, giudici, psicologi, medici) per ottenere visite, pareri e chiarimenti che
54
non trascurassero nessun aspetto della sua vita e fossero diretti a scoprire e
potenziare tutte le risorse possibili.
Nel modello genitoriale rappresentato in questo studio i genitori affidatari hanno
ampiamente affermato di sentire che il loro ruolo era quello di offrire opportunità
alternative ai bambini, in assenza delle quali, probabilmente, la loro vita avrebbe
preso delle strade pericolose. Il loro ruolo non è stato inoltre solo quello di fornire
cure, ma di crescerli secondo nuovi modelli, avvicinarli ad altre forme di
assistenza, far conoscere una nuova realtà genitoriale che avrebbe consentito loro
di partecipare al mondo in modo diverso. A livello comportamentale sono state
garantite prevedibilità e organizzazione, ai bambini con vite scandite dalla
disorganizzazione, attraverso varie modalità: alcuni genitori hanno utilizzato la
realizzazione di disegni o storie per rappresentare ciò che sarebbe successo il
giorno successivo, o la settimana successiva. Altri genitori hanno programmato le
giornate dei figli con attività per loro gradevoli, che li tenessero impegnati
quotidianamente con effetto routinario.
Un'altra questione affrontata dagli affidatari è stata quella di trovare modalità
comportamentali che consentissero ai bambini di gestire al meglio la loro
condizione di minori in affidamento. La risposta a questa necessità ha visto una
molteplicità
di
strategie
comportamentali
utilizzate:
dal
parlare
del
comportamento del genitore naturale alleggerendo eventuali responsabilità, al
descrivere una temporanea impossibilità dovuta a difficoltà lavorative, o di salute.
Alcuni genitori si sono affidati all'assistente sociale o altri professionisti, al fine di
non raffigurarsi agli occhi dei bambini come coloro i quali avevano preso la
decisione di separare il figlio dalla sua famiglia naturale.
55
Le risposte riguardanti le domande nelle tre aree sopradescritte vengono
rappresentate dagli autori mediante il seguente schema che mostra le strategie
positive di genitorialità sociale risultanti dalla ricerca.
FORNIRE CURE DI
ALTA QUALITÀ
RISPOSTE
AFFETTIVE
RISPOSTE
COMPORTAMENTALI
1) PARTECIPARE
ALL’ESPERIENZA
DI INTEGRAZIONE IN UNA NUOVA
FAMIGLIA
Essere genitori come lo
si è con i propri figli
Proporre attività per
facilitare la transizione
2) CONSIDERARE LA
RELAZIONE TRA
IL BAMBINO,
LA FAMIGLIA
D’ORIGINE E
QUELLA
AFFIDATARIA
Attutire i colpi emotivi
delle esperienze
dolorose
Essere genitori
considerando l’influsso
reciproco di ogni
relazione sull’altra, tra i
vari attori coinvolti
3) RISPONDERE
AI BISOGNI
SPECIALI E DI
SVILUPPO DEL
BAMBINO
Mantenere un approccio
centrato sul bambino
Essere rispettosi e umili
Sostenere il bambino
Avvicinare il bambino al
nuovo modello di
genitorialità
Predisporre il bambino
alle cure
Tab.1 Le dimensioni del Parenting plus (Berrick & Skivenes, 2012).
I genitori affidatari intervistati in questo studio hanno messo in atto
strategie
considerati
efficaci,
tipiche
di
genitori
esperti,
evidenziando
comportamenti propositivi, dai quali emerge un elevato coinvolgimento verso il
minore. Tali strategie hanno anche evidenziato l’intenzionalità nell’impegnarsi e
dirigere le proprie forze in favore del bambino. Questo impegno è risultato da
comportamenti pro sociali, adeguati alle varie fasce d’età, volti a promuovere la
crescita e lo sviluppo dei bambini. Molta enfasi è stata data alla stimolazione di un
senso di appartenenza, all’equità e la parità fra tutti i bambini. Berrick e Skivenes
56
espandono le conoscenze esistenti sul tema, identificando le sfide che i bambini
affidatari affrontano e le strategie affettive e comportamentali che i genitori
affidatari mettono in atto.
2.2.3. Prospettive a confronto: i punti d’incontro tra le ricerche
Varie similitudini possono essere riscontrate nei lavori sopradescritti, ottenendone
un modello condiviso di genitorialità di alta qualità: la dimensione legata alla
promozione della disponibilità in cui fondamentale risulta il fatto di tenere il
bambino e il suo benessere in mente, trova eco nell’orientamento centrato sul
bambino descritto come efficace risposta affettiva ai bisogni speciali del
Parenting plus. E ancora, la disponibilità dei genitori ad attuare pratiche rituali per
rendersi prevedibili, trova accordo nel bisogno speciale di stabilità offerto dai
genitori statunitensi e norvegesi attraverso l’organizzazione di attività che
facessero percepire prevedibilità, stabilità e rassicurassero i bambini sul futuro.
Come specificato nella prima ricerca sulla dimensione della capacità riflessiva, un
compito fondamentale per i genitori, dall'infanzia in poi, è quello di aiutare i loro
figli a dare un senso a se stessi, agli altri e al mondo che li circonda; per questo è
necessario aiutare i bambini a riflettere anche partendo da idee e teorie sul loro
passato per spiegare il loro presente. Allo stesso modo, la ricerca seguente
descrive il ruolo del genitore come colui in grado di ricevere contenere e
rielaborare il colpo emotivo causato dal riemergere di emozioni negative, dalle
delusioni dei contatti con i genitori biologici, o dal fare i conti con il proprio
passato. Questa capacità concretizza la risposta affettiva nella considerazione
della relazione triangolare del minore tra il suo presente (la famiglia affidataria) e
il suo passato (la famiglia biologica). Comprendere, tollerare e affrontare questi
vissuti risulta centrale per tutti gli autori. La dimensione della genitorialità legata
allo sviluppo dell’autonomia descrive come i genitori competenti inizino fin dalla
nascita del figlio a creare situazioni in cui questi si sentano capaci e in possesso di
risorse. Anche nel modello di Berrick e Skivenes il sostegno offerto caratterizza
un comportamento combattivo degli affidatari, diretto a scoprire e potenziare tutte
57
le risorse possibili per il suo futuro, quindi sviluppare la sua autonomia.
Un’ulteriore affinità è riscontrabile nelle altre aree descritte: se nel modello
multidimensionale la formazione dell’autostima è promossa attraverso una piena
accettazione del bambino, attraverso gesti che lo fanno sentire amato, nel modello
di genitorialità amplificata dai plus, la medesima offerta garantita dalla nascita a
un figlio biologico, viene attuata come strategia che mette al centro la parità tra
tutti i membri. Secondo quanto evidenziato da Berrick e Skivenes il figlio affidato
viene considerato in modo equivalente a un figlio naturale, con necessità
assistenziali di pari importanza rispetto agli altri membri della famiglia, attraverso
la creazione di contesti e ambienti in cui possa sentirsi realizzato e prezioso,
considerato nelle sue preferenze, nelle sue difficoltà e nelle sue doti.
Similmente al lavoro di Schofield e Beek molto importante è risultata per Berrick
e Skivenes la dimensione concernente l'integrazione dei bambini come membri a
pieno titolo della famiglia, nell’intento di sviluppare un senso di appartenenza
privo di conflitti, in cui poter gestire il fatto di essere parte di più sistemi,
identificandosi serenamente in un contesto plurinucleare. Anche la considerazione
dei rapporti “porosi”, filtranti, influenti l’uno sull’altro di cui parlano Berrick e
Skivenes trova conferme negli studi di Schofield e Beek, secondo cui è necessario
essere genitori nella considerazione che ciò che il bambino porta con sé influisce
inequivocabilmente sugli altri rapporti. E questo, nell’ottica delle autrici non è un
punto a sfavore per la crescita del bambino, ma una possibilità in più che consente
di diluire la genitorialità, e aprirla condividendo quei valori, quei rituali e quelle
pratiche familiari che non condannino trascorsi esistenziali pregressi e rapporti
con le altre figure genitoriali.
La conclusione raggiunta da entrambe le ricerche è che l’impegno dei genitori
affidatari caratterizzante una genitorialità di alto livello costituisce una nuova
opportunità per i bambini in affido, per conoscere e sperimentare il mondo
attraverso percorsi alternativi ai modelli presenti nel loro passato.
Emerge, inoltre, l’intento di sensibilizzare a percorsi di formazione per la
conoscenza delle varie risposte riflessive, affettive, comportamentali descritte
nelle ricerche.
58
Capitolo III
LA RICERCA
3.1 Premesse
In questa ricerca si è voluto indagare i vissuti e le rappresentazioni legati all’affido
familiare da parte delle famiglie affidatarie, alla luce dei modelli di genitorialità
positiva presenti in letteratura, che si concentrano sulle risposte affettive e
comportamentali appropriate in dati momenti della relazione (Berrick & Skivenes,
2012) e gli aspetti da promuovere attraverso scelte genitoriali specifiche, per un
sano sviluppo del bambino (Schofield & Beek, 2005). Come verrà discusso più
avanti, è stato utilizzato un approccio qualitativo, la cui caratteristica è
un'esplorazione delle realtà narrate che porti a descrivere le relazioni
individuabili, nonché le competenze e i processi che consentono di giungere a una
nuova interpretazione, più arricchita e complessa (Zappalà, 2002) di ciò che
definisce una competenza genitoriale di alto livello. In seguito verranno
evidenziati le similarità, i punti di divergenza, nonché i processi emergenti e gli
elementi di novità riscontrati, rispetto ai modelli di partenza.
3.2 Obiettivi
Per questo studio è stata strutturata una serie di domande che ha permesso di
conoscere diverse esperienze di affido familiare. L’obiettivo è stato quello di
comprendere quali siano le specifiche capacità di intervento che qualificano una
competenza genitoriale di alto livello nei contesti di affido familiare. In
conseguenza a questo, l’obiettivo secondario è stato quello di realizzare un
59
modello integrativo sia degli approcci multidimensionali presi a riferimento, che
delle categorie emergenti dalla personale esperienza di ricerca.
Nel corso delle interviste condotte è stata posta particolare attenzione ad alcuni
momenti: la partecipazione alla fase d’integrazione del minore nel nuovo nucleo,
la relazione tra il bambino, la famiglia d’origine e la famiglia affidataria, e la
necessità di rispondere ai bisogni di sviluppo e speciali del bambino. Sono stati
rievocati i vissuti legati a particolari momenti, per poter conoscere le risposte
comportamentali e affettive messe in gioco nei diversi percorsi di affidamento e
comprenderne la validità e l’efficacia.
Per raggiungere l’obiettivo della ricerca, è stato necessario, inoltre, indagare le
modalità educative, di intervento dei genitori affidatari, in modo da comprendere
quali percorsi avessero messo in atto, al fine di promuovere nel minore la fiducia
verso gli altri, favorirne l’autonomia, il senso di appartenenza alla famiglia,
l’autostima e di sostenere la capacità di padroneggiare le proprie emozioni e,
quindi, i propri comportamenti.
3.3 Metodologia
In questo studio è stato utilizzato un approccio qualitativo con cui sono state
indagate le esperienze di affido di varie famiglie, attraverso una serie di domande
volte a rilevare le diverse dimensioni della competenza genitoriale. La ricerca
qualitativa, intesa come “impresa conoscitiva” è costruita su dati di natura verbale
e deve trovare una coerenza in relazione ai propri criteri interni (metodologici),
ma anche ai criteri esterni, metateorici (Scabini & Donati, 1995). Considerando
che la natura specifica delle indagini di tipo qualitativo, mette in evidenza
principalmente le dinamiche e gli intrecci delle relazioni umane, più che fornire
dati statisticamente significativi (Iafrate, 1989) si è voluto entrare nella profondità
delle
questioni
psicologiche,
sottolineando
le
relazioni
e
le
diverse
rappresentazioni che le famiglie hanno. La presente ricerca parte dalla
concettualizzazione dell’oggetto “famiglia” come sistema di relazioni che mutano
60
attraverso processi interpersonali e sociali, così che attraverso specifiche
dinamiche relazionali si giunga a nuove configurazioni e nuove prospettive per
tutti gli attori coinvolti. Per esigenze metodologiche, anche nella ricerca
qualitativa, risulta necessario costruire griglie concettuali e modelli; è importante
ricordare sempre, però, che la comprensione delle esperienze umane non può
essere ridotta a schemi rigidi di lettura, ed esaurirsi in semplificazioni teoriche.
Nella presente ricerca si è partiti dai modelli che definiscono la genitorialità un
costrutto multidimensionale. Specifiche aree e capacità vengono messe in risalto
come elementi che definiscono la bontà e la particolare efficacia delle pratiche
genitoriali, consentendo di fornire una base sicura al bambino. In particolare,
secondo il modello “a stella” di Schofield e Beek, per essere buoni genitori in
contesti di affido familiare è necessario promuovere la fiducia nella disponibilità
altrui, favorire la funzione riflessiva, e anche l’autostima, importante è inoltre
sostenere il senso di appartenenza alla famiglia e l’autonomia del bambino.
Queste cinque dimensioni sono quelle ritenute indispensabili dalle autrici per
garantire una base sicura, quindi un sano sviluppo. Dagli studi di Berrick e
Skivenes, invece, sono tre le aree importanti, per le quali mettersi in gioco come
buoni caregivers, attraverso risposte affettive e comportamentali. Gli autori
parlano della partecipazione all’esperienza di integrazione in una nuova famiglia;
della considerazione del rapporto tra il bambino, la famiglia d’origine e quella
affidataria; della necessità di rispondere ai bisogni speciali e di sviluppo dei
bambini.
Attraverso
particolari
scelte
a
livello
affettivo
e
pratiche
comportamentali da parte del genitore è possibile migliorare la condizione del
minore che, al contrario, potrebbe degenerare e avvicinarsi a percorsi più
rischiosi. Tutti questi aspetti sono stati presi in considerazione per determinare le
scelte metodologiche e su di essi sono state costruite le interviste.
61
3.3.1
Le interviste
Il metodo utilizzato è quello dell’intervista, o interrogazione qualitativa (Colucci,
2012), in cui lo sperimentatore affronta in modo flessibile i temi legati alle aree di
contenuto, oggetto della ricerca. Ogni intervista è stata una conversazione
provocata dall’intervistatore, rivolta a soggetti scelti sulla base di un piano di
rilevazione, con finalità conoscitiva, guidata da uno schema non standardizzato di
interrogazione (Corbetta, 1999). Le interviste sono state condotte per la
maggioranza dei casi (13/18), in un ambiente familiare agli affidatari (casa,
contesto lavorativo), o in una sede di competenza del centro di affidamenti
familiari di riferimento. I colloqui si sono svolti per la maggioranza dei casi alla
presenza di entrambi i genitori (14/18). In un solo caso, la famiglia era formata da
un genitore (la madre affidataria) e il bambino in affidamento; nei casi rimanenti,
soltanto uno dei due coniugi è riuscito a partecipare (in due casi l’intervista è stata
condotta con la madre; in un caso, con il padre). Il tempo medio impiegato per
ogni intervista è stato di sessantaquattro minuti.
Le interviste (vedi allegato 1) sono state registrate, trascritte e sottoposte ad analisi
di contenuto. All’interno del materiale raccolto è stato possibile identificare i temi
salienti che hanno delineato diverse aree tematiche: l’integrazione del bambino
nel nuovo nucleo e il senso di appartenenza alla famiglia, la relazione tra il
bambino, la famiglia d’origine e la famiglia affidataria e la capacità di
padroneggiare i propri vissuti e comportamenti, i bisogni speciali del bambino e le
scelte compiute per promuovere nel minore la fiducia verso gli altri e favorirne
l’autonomia, l’accettazione totale del bambino e lo sviluppo della sua autostima,
l’importanza di vivere modelli positivi per stimolare una prospettiva fiduciosa
verso il proprio avvenire.
62
3.4 I partecipanti
I partecipanti al presente studio erano genitori affidatari con almeno un’esperienza
di affido alle spalle, o in corso. Le unità osservazionali dello studio sono state
selezionate in base alla disponibilità manifestata per prendere parte al progetto.
Gli aspetti legati all’età, alla presenza di altri figli, o alla specifica tipologia di
affidi per i quali erano stati individuati dal servizio affidi, non sono stati elementi
deterrenti. Per la selezione dei partecipanti alla ricerca è stato necessario mettersi
in contatto con vari centri di affidamento familiare nel territorio della regione
Lombardia. Nello specifico, ci si è rivolti all’Associazione Famiglie Affidatarie
“Il Girasole” di Cremona, all’Associazione familiare “Il Canguro” di Crema (CR),
all’Associazione “Solidarietà Educativa” e alla comunità familiare “Le tre civette”
di Pegognaga (MN), e al Centro Promozione Affidi Familiari (CEPAF) di
Brescia. Ognuna di queste realtà ha esplicitato alle famiglie associate l’oggetto
della presente ricerca, chiedendo disponibilità a rispondere alle interviste. In
relazione alle adesioni raccolte è stato possibile intervistare un totale di
diciannove famiglie: diciotto già affidatarie e una in attesa di affido.
Soltanto le famiglie affidatarie verranno prese in considerazione nel presente
studio.
Le famiglie intervistate hanno portato l’esperienza di diverse tipologie di affidi, e
quindi di vari contesti familiari da cui partire: affidamenti giudiziali, consensuali,
part-time, di emergenza. Alcune famiglie sono state coinvolte in esperienze di
affido anche molto diverse tra loro, nel corso degli anni; in alcune delle loro
storie, sono emerse le difficoltà a proseguire l’affido che, in taluni casi, è stato
interrotto.
Tra le famiglie intervistate, quattordici avevano in corso degli affidi, quattro
l’avevano già concluso (alcune di queste erano in attesa di un nuovo affido).
Nove famiglie avevano già avuto altri affidi in precedenza, anche concomitanti,
pertanto le loro narrazioni hanno riportato vissuti multiforme e intrecci di
relazioni più complessi. Per le altre nove famiglie, l’affido oggetto dell’intervista
è stato l’unico ad essere intrapreso fino a quel momento.
63
Undici famiglie hanno anche figli naturali, cinque hanno avuto solo i figli in
affido; due famiglie hanno trasformato l’affido in adozione, e una di queste ha
intrapreso un altro affido in seguito all’adozione.
3.5 Risultati
Le tematiche salienti affrontate nel corso dell’intervista, verranno di seguito
presentate e approfondite in ogni paragrafo, riportando le risposte, quindi le
rappresentazioni emergenti.
3.5.1
Cosa vi ha spinto a pensare all’affido?
Dai primi momenti delle conversazioni si è cercato di comprendere i motivi che
hanno avvicinato queste persone all’affido familiare. La motivazione è infatti
l’inizio di tutta la storia dell’affidamento e da quella è stato possibile comprendere
molto su quale fosse il desiderio dei genitori affidatari, quali i loro presupposti e
le loro modalità per mettesi a disposizione (Miliotti, 2003).
È stato possibile rintracciare quattro categorie principali di analisi, che
ricorsivamente si sono presentate nei racconti dei percorsi famigliari, attraverso
cui è possibile leggere le risposte ottenute e comprendere le motivazioni che
hanno spinto all’affido. Le suddette vengono sintetizzate nello schema sottostante.
FAMIGLIA COME RETE DI AFFETTI
Andare oltre i confini biologici della famiglia
vedendo nell’affido una risorsa per tutti
MOTIVAZIONI
ALL’ AFFIDAMENTO
FAMILIARE
DOVERE SOCIALE
Leggere la possibilità di aiutare un bambino, un
dovere come membro della comunità da sostenere
PERCEPIRSI BUONI GENITORI
Soddisfare contemporaneamente i bisogni di
genitorialità dell’adulto e di accudimento del minore
FEDE RELIGIOSA
Interpretare gli eventi secondo i personali
orientamenti religiosi e spirituali
64
I percorsi decisionali sono giunti spesso a una scelta in linea con gli orientamenti
del proprio credo religioso, accompagnata da una particolare attenzione e
inclinazione all’accoglienza come strumento di intervento, nonché da una
concezione di “famiglia” che va al di là di ciò che il modello nucleare tradizionale
presenta, anteponendo il concetto di una genitorialità diffusa come fonte di
maggiori risorse, per sé e per la società, e un vissuto di genitori “nella comunità”.
“Noi abbiamo sempre creduto a una ‘genitorialità condivisa, sociale’, abbiamo
sempre pensato che nostro figlio fosse figlio un po’ figlio anche di tutte le persone
che gli vivono intorno. C’è anche un proverbio africano che dice che per crescere
un bambino ci vuole un villaggio, e questo è molto vero. Ritorna un po’ l’idea del
passato, di quando si viveva tante famiglie in corte. Per cui se la mamma
lavorava, c’era la zia, la nonna […]. Abbiamo sempre un po’ rifiutato il discorso
della famiglia chiusa nella villetta, con la macchina, la piscina [...]. E’ un tipo
famiglia molto sola, egoisticamente anche con meno risorse […]. Riteniamo che
così le cose potrebbero funzionare un po’ meglio.”
“Il mio pensiero sull’affido, sull’essere una mamma affidataria, nasce all’inizio
dell’età adulta, quando all’interno di percorsi che ho fatto, percorsi di cammino
spirituale e religioso, sentivo parlare di affido. E quindi nel proiettarmi nel futuro
come genitore non mi sono mai vista come un genitore solo con figli naturali, mi
sarebbe piaciuto allargare la mia maternità e aprire la mia famiglia anche a
bimbi più in difficoltà.”
“Da quando ci siamo sposati, dall’inizio, avevamo in mente l’idea di famiglia
accogliente, di famiglia aperta… pensando, all’inizio, a dare la disponibilità per
l’affido e pensavamo anche per l’adozione. Abbiamo iniziato ad approfondire,
interessarci e quindi dare la disponibilità per l’affido quando ancora non
avevamo figli nostri.”
65
L’interpretazione delle proposte di affidamento come aventi in sé anche un
messaggio superiore a quello della solidarietà tra famiglie, una valenza ulteriore,
che trascendere il semplice compimento di una buona azione, è un altro degli
elementi che ha caratterizzato i vissuti degli intervistati.
“Credo che aiutare loro voglia dire tenere in piedi il mondo… non so come
meglio spiegarmi. E sicuramente… non è che uno lo faccia per avere la medaglia,
o perché si sente un eroe, perché non è così…ma anche sicuramente per riempire
i miei bisogni. Questo è scontato.”
“Noi, questa esperienza la leggiamo sempre in una chiave di fede. I nostri
progetti erano altri, invece, a un certo punto del nostro cammino di sposi,
abbiamo pensato a questa opportunità. Quest’idea ce l’avevamo in mente anche
prima, da fidanzati, però pensavamo prima di crescere dei figli nostri e, a quel
punto, di approcciarci all’affido o all’adozione… quello che ci sarebbe capitato…
Nel frattempo, figli nostri non sono arrivati, abbiamo iniziato ad avvicinarci a
questo tipo di disponibilità verso i bambini in difficoltà.”
“Non ci eravamo posti il problema di fare l’affido. Poi degli amici ci hanno
proposto di entrare in quest’associazione che si stava creando, però la nostra
disponibilità, allora, era limitata… quindi fare la famiglia di supporto […]
avevamo anche delle grosse difficoltà, noi non abbiamo neanche una struttura
familiare che ci può aiutare […]. Entrati nell’associazione abbiamo avuto la
possibilità di fare un corso molto utile perché ci ha messo nella condizione di
capire fin dove era giusto arrivare. Poi è arrivata una proposta dal centro
affidi… è stata un po’ come una doccia fredda, ma ci abbiam pensato sopra e
siam partiti, con un po’ di difficoltà, ma alla fine, tutto sommato si riesce a gestire
[…]. Comunque l’accoglienza ce l’abbiamo dentro! Questa pulsione nel non
essere chiusi, nell’accogliere, ce l’abbiamo come tendenza famigliare […]. Non
ultimo il fatto che noi partiamo da un’esperienza di fede, per cui, quando ci è
stata fatta la proposta ci siamo interrogati anche sul perché era arrivata.”
66
La possibilità di vedersi realizzati come figure genitoriali ha rappresentato un altro
tema addotto per motivare la propria propensione all’affidamento familiare, e agli
interventi a sostegno di minori in difficoltà.
“Per noi, alla fine per colpa dell’età, era tardi per avere figli naturali. Per cui,
d’accordo con mio marito, ne abbiam parlato subito, ci siam trovati d’accordo
per l’adozione. Noi siamo andati ad informarci, solo che la porta dell’adozione
era chiusa in quel momento […]. Nel fascicolo che mi avevano dato per
informarmi sull’adozione c’era una parte che parlava dell’affido. Dopo ci abbiam
pensato qualche mese, perché è un po’ una cosa col punto di domanda, nel senso
che ti metti a disposizione per aiutare dei bambini che hanno bisogno e poi non
sai come va, ti ci affezioni… e non sai come va a finire. Avevamo un po’ contro
tutti per questa cosa […]. Però a un certo punto mi son detta ‘almeno colmo il
mio bisogno di maternità, di fare la mamma, e poi… sarà quello che sarà.
L’unica porta aperta è questa e io seguo il mio cuore che mi dice di seguire
questa strada… e ho fatto bene a seguire questa strada.”
“In realtà siamo arrivati a un punto, dopo tanti anni di ricerca di un bambino, di
un figlio, dove abbiamo messo in discussione questo bisogno di genitorialità.
Quindi, accantonata per altre motivazioni nostre l’dea dell’adozione, è uscita
quest’idea, quasi per caso, che ci ha fatto ragionare sul fatto che avremmo potuto
metterci alla prova facendo qualcosa di utile… semplicemente.”
Nelle interviste è emerso, inoltre, l’elemento altruistico, del sostegno del prossimo
quale dovere morale e sociale di ogni membro della comunità. Molte le famiglie
che hanno parlato del fatto di sentire come anche loro la responsabilità di
contribuire come genitori nella società, con le loro risorse, con le possibilità a
disposizione.
“Mi sembrava che si doveva far qualcosa per ‘sti bambini, ‘sti ragazzi. Era un
po’ un crescendo di notizie di abbandoni, di difficoltà. E allora ho detto: ‘Cosa
67
dici, ci mettiamo in gioco?’ [...] ‘Mettiamoci in gioco. Proviamo quest’esperienza, apriamo la nostra casa ’.”
“Non abbiam fatto una scelta in particolare di affido, come famiglia, con percorsi
in preparazione, però ci siamo trovati per la seconda volta a intrecciare la vita di
un bambino che aveva bisogno di aiuto. Io per lavoro conosco l’equipe della
tutela minori per cui ci hanno presentato questa situazione che abbiamo valutato
e abbiamo ritenuto che potesse dirci qualcosa… e che la nostra vita poteva
intrecciarsi con questa vita e avere un senso per entrambi, insomma. Quindi è
stata un po’ una scelta non cercata, però nel momento in cui si è presentata
questa situazione abbiamo detto ‘ possiamo scommetterci, possiamo metterci un
po’ del nostro ’.”
Partendo dalle motivazioni che stanno alla base di una scelta così importante,
l’intervista è proseguita approfondendo con ogni famiglia le caratteristiche
specifiche del tipo di affido in corso. Quindi, è stato approfondito il rapporto del
bambino con i genitori della famiglia d’origine e il riflesso di questo nella vita del
bambino e del nucleo affidatario.
3.5.2
In che modo il minore mantiene il legame con la sua famiglia
d’origine? E come questo si ripercuote nelle relazioni con voi?
Durante le conversazioni con i genitori affidatari è stato considerato il peso che,
nelle vite dei bambini, ha il dolore dovuto all’entrare regolarmente in contatto con
le problematiche dei genitori biologici: da una parte c’è il desiderio di vederli e
passare del tempo con loro, dall’altra i bambini non capiscono perché questi non
dedichino le attenzioni e le cure che gli affidatari, invece, rivolgono loro. I
genitori biologici, dal canto loro, vivono l’affido, soprattutto nei momenti iniziali,
come procedimento con il quale vengono defraudati del loro ruolo genitoriale
rispetto ai figli e a volte manifestano rivalità e comportamenti ostili nei confronti
degli affidatari. Le descrizioni delle dinamiche che si susseguono nella grande
68
maggioranza delle esperienze in cui i bambini hanno contatti con i genitori
naturali, narrano di scenari in cui il conflitto di lealtà prende il sopravvento,
perpetrando la disfunzionalità nelle dinamiche relazionali (Fruggeri, 2009).
“Perché tutte le volte che entrano in contatto con la famiglia d’origine,
ovviamente si riapre. Perché se l’affido dura da un certo tempo anche i ragazzini
con più difficoltà e con pochi strumenti percepiscono la differenza tra dove sono
adesso e dove erano prima. Anche se non con lucidità hanno l’idea che qui ci
sono delle cose positive, ma ammettere questo significa ammettere che… ‘la mia
mamma e il mio papà’… e questo penso che sia la cosa più lacerante, in
assoluto…”
“Vedo ultimamente che quando è molto felice, ammette ‘Sì, è stato bellissimo, sì,
sono felice”, rimane lì un attimo e poi diventa un pianto disperato. Quindi…
questa fatica di accettare di poter essere felice. Di essere felice qui e non altrove
con altre persone.”
“Quando di là hai qualcuno che invece non ha accettato quello che è successo e ti
rema contro, è un’altra cosa.”
“All’inizio è stato veramente pesante. La bambina ce l’avevo io, cioè era
attaccata me, con la mamma non ci voleva andare. La mamma mi guardava con
una faccia che se poteva mi ammazzava. Da gestire era… Ho la fortuna di avere
caratterialmente questa capacità di empatia, cioè di mettermi al posto delle altre
persone, per cui io me ne stavo buona. Io nel momento in cui entravo lì mi
annullavo, tenevo la bambina, però anzi, cercavo di aiutare la bambina ad
andare verso la mamma e questo è il compito dell’affidatario… e mi sentivo a
disagio io, perché sembra quasi di essere io quella che le ha portato via la
bambina. Per cui anch’io con i servizi sociali, con lo psicologo, dicevo ‘Chiarite
bene la situazione alla mamma, perché… io sono qui per aiutare, le sto allevando
la figlia, ma io non ho nessuna intenzione di portargliela via! Se poi la decisione
sarà quella che deve rientrare, fategli ben capire che io non ho né pregiudizi nei
loro confronti’… per quanto all’inizio sia stato difficile… per quello che hanno
69
fatto. Perché cercare di non avere giudizi su quello che hanno fatto a questa
bambina… andare lì neutrali nei loro confronti, non è stato facile.”
Altre volte, le risposte sono approdate a narrazioni di comportamenti messi in atto
deliberatamente per suscitare risposte negative, al fine di ricreare mondi
prevedibili e rischiare però, anche, di restare intrappolati in spirali negative in cui
ci si comporta in modo da andare incontro a fallimenti, rifiuti, allontanamenti
(Schofield & Beek, 2013).
“Era soprattutto il bambino più grande che sembrava comportarsi in maniera
tale da ricreare la situazione maltrattante di casa”. ”Era in quei casi che
abbiamo imparato presto a riconoscere proprio questa sua esigenza di rivivere un
po’ nel passato […]. Era anche la necessità di rompere la situazione nei momenti
in cui questa andava per la meglio, per dimostrare che non poteva essere questa
la sua vita ideale, altrimenti avrebbe messo in seria discussione la sua vita
d’origine.”
“A tavola per mesi e mesi non siamo riusciti a parlare normalmente, e questa è
stata forse la cosa più pesante di tutte. Perché comunque il suo umore, o i suoi
discorsi, o le sue invasioni di campo nei discorsi, riusciva sempre a far franare i
discorsi, e a far parlare solo con lui, o di una cosa bella sua, o a litigare con lui,
o a sgridare lui, o a brontolare con lui. Spesso, cose negative, cioè, molto spesso
l’umore e i toni negativi, quindi poi voglia di andare a tavola, zero, e si scendeva
da tavola con l’umore pessimo. Perché ha un potere di far girare le cose in
negativo che è spaventoso. A livello psicologico, mio, la cosa che a me ha fatto
più soffrire, che mi ha messo più in difficoltà è stata proprio questa sua capacità
di farsi maltrattare. Proprio il bambino maltrattato che non sai come e non sai
perché, ha bisogno di tutt’altro, eppure quello che riesce a ottenere è di farsi
maltrattare. Alla fine, però, ti avviluppa in queste situazioni…”
70
Le ripercussioni dell’incontro con il genitore naturale, sono sempre state descritte
come molto influenti sulle giornate dei bambini, sia nei momenti precedenti che
successivi. Grandi attese, forti emozioni, spesso negative, che si propagano poi
negli eventi della vita del giovane, influenzando i suoi stati d’animo e i
comportamenti.
“Gli ultimi arrivati sono fratelli e hanno un contatto solo con la mamma. L’altro
ragazzo, con la mamma e con il papà in modi molto diversi. Comunque, in linea
generale, sono le telefonate periodiche e un incontro in spazio protetto, quindi
alla presenza dell’assistente sociale, con cadenze o quindicinali, o mensili, a
seconda della situazione.[…]” “Qual è una bella immagine? Ecco, hai presente
le palle con dentro la neve e Babbo Natale? Tu scuoti la palla e la incasini tutta…
e poi pian piano la neve si abbassa… Poi c’è l’altro incontro che riscuote… e poi,
pian piano, tutto si rideposita.[…] Noi siamo un po’ il Babbo Natale che sta
fermo dentro alla boccia.”
“Gli incontri, che all’inizio erano protetti sia con la mamma che col papà, erano
sempre destabilizzanti per lui.”
“La bambina, ogni volta inizia gli incontri volentieri, però chiaramente ogni volta
è molto scossa sia prima che dopo. Si vede anche a scuola proprio che in quei
momenti rende di meno, è meno concentrata, per poi riprendere fino ad aspettare
altre tre settimane. È una cosa che fa con piacere, ma che sicuramente,
emotivamente, la segna mica male.”
“Lui li vede adesso il sabato… e la domenica a lui serve per recuperare…
emotivamente e fisicamente questo stress che vive.[…] Però, poi lui aggredisce,
me ovviamente, perchè io sono il suo pungiball, quindi qualsiasi piccola cosa tu
dica, scatta il finimondo. Quindi il rientro in casa è molto difficile, piange
moltissimo… piange in modo particolare, che è di quel momento lì, che è di
sofferenza, per lui e per me di conseguenza.”
71
Talvolta è emersa in modo evidente la freddezza dei confini prestabilititi dal
Servizio Affidi, l’impossibilità di entrare in contatto profondo tra i genitori
naturali e gli affidatari, e talvolta anche tra i genitori naturali e i loro figli. Un
“doversi incontrare” perché qualcun altro decide sia giusto farlo.
“Si è reso conto sempre di più della distanza e dell’estraneità sempre più grande
con la sua famiglia d’origine, che poi, alla fine, non l’ha più cercato,
effettivamente. Al di la della telefonata standard.”
“Sono telefonate molto… un copione sempre limitato, sempre uguale identico che
consiste in un saluto ‘Come stai, fai la brava, ti vogliamo bene’… sempre le solite
parole. La bambina cerca ogni tanto di deviare un attimino gli argomenti, ma
loro non ne hanno la possibilità, diciamo.”
“Ci sono rapporti scanditi dagli incontri protetti che sono calendarizzati dal
servizio affidi. Quindi ci si vede, ci si incontra… una volta ogni due settimane, per
un’ora… c’è soltanto stato un momento più intenso in una settimana in cui è stato
ricoverato in ospedale il bambino, dove la mamma tutti i giorni veniva a
trovarlo… e lì c’è stata magari anche una conoscenza della madre nei nostri
confronti più intensa, tant’è che, se prima aveva un rapporto con noi molto più
distaccato, di critica, conoscendoci meglio ha cambiato un po’ opinione, è
diventata un po’ più accondiscendente e siamo un po’ più entrati nelle sue grazie.
E da lì c’è soltanto questo rapporto.”
Nella maggior parte dei casi, i genitori affidatari riportano esperienze deludenti
per i bambini, di inquietudine e confusione sia prima che dopo gli incontri,
emozioni difficili da contenere e rendere più accettabili; le vicende narrate
segnalano vissuti di grande agitazione, di tensioni che si ripercuotono sui membri
della famiglia, ansie che pervadono anche le giornate successive alle visite, alle
telefonate programmate, o agli incontri in spazio protetto.
72
“Eran sempre momenti difficili. Il grande, soprattutto, iniziava ore prima, se non
giorni prima a destabilizzarsi e a destabilizzare tutto l’universo intorno a se.”
“La mamma la incontra in uno spazio neutro, inizialmente una volta ogni
quindici giorni, adesso una volta al mese. Perché poi la mamma spesso ha fatto
saltare gli appuntamenti per malesseri, per problemi fisici suoi o del nuovo
marito, e quindi era pesante per N. ricevere questi cambi di programma,
normalmente un’ora prima… Ecco quando era il momento di prepararci per
andare, riceveva dei no.[…] Di questi dolori, un po’ alla volta ha dovuto
parlarne.”
“Poi, quando c’era il problema che loro si rendevano conto che i genitori,
diciamo così… come dire, quando per esempio avevano degli appuntamenti, che
dovevano vedere i genitori, che i genitori non venivano, per qualche motivo, eh
lì… i ragazzi erano scossi e cercavi, magari non subito, però, di affrontare, di
dire, insomma… cercavi di parlarne, senza giudicarli, senza denigrarli.”[…] “S.
quando doveva incontrarla stava male due giorni prima di partire e stava ancora
male due giorni dopo. Per cui passava la settimana… però noi non potevamo far
niente.”
“Chi ha pochi strumenti per elaborare la propria storia, ha degli agiti più
emotivi. Il piccolino è molto disturbato sempre, sia quando si deve avvicinare il
momento che nei giorni successivi. Poi tutto si calma e siamo già pronti per
l’incontro successivo [...]. Ai piccoli è difficile spiegare ‘la tua mamma non è
capace di prendersi cura di te’ per cui all’inizio ci si aggancia a delle motivazioni
più alla loro portata. Ma abbiam visto che è fondamentale essere sinceri.”
“Le loro modalità sono di attaccarti, di metterti in discussione, non è che tornano
e, come nei film, si buttano sul letto a piangere. Magari, apparentemente
sembrano tranquilli, poi per una sciocchezza scatta il putiferio… e poi loro sanno
che cosa dire e fare per ferirti, per colpirti, a volte anche in modo molto preciso e
pesante.” “[…] Alla fine la fanno pagare a chi c’è, non a chi non c’è. Quindi devi
73
essere pronto e sapere che stanno cercando di buttarti fuori, ma invece stanno
cercando di tirarti dentro.”
La parola ricorrente utilizzata nelle narrazioni degli affidatari per descrivere la
condizione dei figli, ma anche dei genitori naturali, è “difficoltà”. Difficoltà ad
accettare che la situazione da cui arrivano li ha portati a essere allontanati dalla
famiglia, e inseriti in nuovo mondo sociale. Difficoltà a capire se stessi: chi si è,
su quali forze si può contare, a quali persone si possa davvero fare riferimento e
per quanto tempo. Un vissuto, questo, che si riflette sulla quotidianità dei minori,
i quali si trovano a fare i conti con una parte di vita che non possono escludere,
ma che li angoscia e costantemente riattiva emozioni e sentimenti dolorosi come
inquietudine, confusione, rabbia, paura e insicurezza (in merito al proprio presente
e, nei bambini più grandi, anche al proprio futuro).
“La bambina era andata in tilt perché aveva bisogno di certezze. Non capiva, si
trovava questa responsabilità sulle spalle, perché proprio mi diceva ‘Ma io vorrei
avere solo una mamma, solo un papà, perché due è troppo pesante… perché non
riesco a scegliere’. […] La sua angoscia era non sapere se stava con noi, o se
doveva tornare là.”
Poter contare su una base sicura nella costruzione di un’appartenenza familiare
conduce i bambini ad avere maggiore fiducia in se stessi, nella propria corporeità,
nelle relazioni interpersonali, nelle attività ludiche e di apprendimento. La
mancanza di una base sicura porta a una limitazione dell’autostima e una costante
ansia che nega la possibilità di un confronto sereno con la realtà esterna (Schofield
& Beek, 2013). Un bambino che non si percepisce parte, o non sente di avere il
diritto di vivere in una famiglia, porterà un forte senso di dislocamento
psicologico e sociale. Al contrario, la certezza di appartenenza incondizionata alla
famiglia fornisce l'ancoraggio e la rassicurazione attraverso la quotidianità e le
esperienze emotive.
74
I racconti dei genitori narrano, infatti, del tentativo di stabilizzare e arricchire il
mondo del bambino, non nascondendo le difficoltà e gli ostacoli connessi, ma
contemporaneamente anche la valorizzazione del loro impegno genitoriale. A tale
proposito è stato chiesto come questo impegno è diventato parte della quotidianità
delle famiglie, nel corso del tempo, considerando anche l’opinione delle persone
che fanno parte della vita degli affidatari. Sono stati esplorati, come si vedrà in
seguito, i vissuti legati alle reazioni di supporto, o disaccordo provenienti dalle
persone vicine ai genitori affidatari.
3.5.3
Come avete percepito la vostra scelta, vista dagli occhi degli
altri?
Nella metà dei casi le risposte rimandano a un rifiuto dell’affido come
opportunità, come percorso familiare arricchente in cui il nucleo si apre, anche
temporaneamente, a un nuovo membro. La rappresentazione emergente
sull’affido, da parte di chi sta intorno ai genitori affidatari, è quella di un percorso
carico di difficoltà e sofferenze; di disarmonie e nuovi problemi da affrontare per
la famiglia, un cammino disseminato di incognite e complicazioni evitabili.
Come affermato da vari studi svolti in molti Paesi, in diversi periodi, l’immagine
condivisa sul piano sociale di cosa debba essere considerato “famiglia”, infatti,
corrisponde all’immagine della famiglia nucleare tradizionale, in cui le relazioni
sono definite da scambi affettivi e parità tra i partner, conviventi ed eterosessuali
(Fruggeri, 1997). È probabile che questo stereotipo condizioni anche la
rappresentazione sociale dell’istituto dell’affido, interpretato come minaccia alla
stabilità e alla struttura di una famiglia con relazioni stabili.
“Dai nostri genitori, un po’ di resistenze, nel senso che temevano che sarebbe
stato troppo faticoso. Temevano che avremmo fatto tanto per non avere niente,
nel senso di avere dei guai, perché è difficile sperare che possa avere
un’evoluzione positiva. Dal loro punto di vista vedevano solo le problematiche: il
carico nostro attuale e un adolescente problematico in casa… il timore di
75
portarci in casa dei guai.[…] Avremmo sperato in qualche disponibilità
maggiore, però capiamo che la scelta è nostra e ce la dobbiamo giocare noi. ”
“Ci hanno detto tutti che eravamo pazzi, fuori di testa, nessuno ci ha sostenuto,
dicevano che eravamo matti a fare una roba del genere.”
“Dalla parte della mia famiglia abbastanza contrari, diciamo a parole, dopo
‘guai guai’, si interessavano sempre. Ma la guerra più pesante è stata fatta da
sempre dagli insegnanti dei bambini, cioè chi frequentava il nido o l’asilo trovava
questa cosa in contrasto. Cioè ci contrastava. Molte volte ci hanno detto ‘Va bè,
ma adesso basta. Ma quanto dura? Guarda che lei ce l’ha la sua mamma’.
Sembrava quasi che noi ci accaparrassimo questi bambini per un po’ di giorni…
e questa è stata una cosa molto triste. C’è stata molta ostilità.”
“Son stata molto sconsigliata da molti amici intorno, mi han dato abbastanza
della pazza, devo dire. Mia mamma era molto perplessa, mio papà è rimasto
abbastanza taciturno…”
“La mia famiglia era preoccupata per quello che poteva succedere in un
prossimo futuro… la paura che io soffrissi, che trovassi fin troppe difficoltà.
Quindi non ha espresso molto favore alla decisione.”
Tuttavia, ogni genitore ha affermato che dopo l’inizio dell’affido, la rete sociale
della famiglia affidataria ha offerto comunque il suo supporto, lasciandosi
coinvolgere maggiormente dai bisogni di cura dei bambini. Nonostante l’incontro
con l’affido possa suscitare paure e perplessità anche nelle persone non
direttamente coinvolte, il contatto con i minori ha visto la creazione di reti di
sostegno inizialmente non garantite. I nonni, gli zii, i cugini non hanno chiuso la
loro famiglia e questo si è rivelato una delle caratteristiche che più ha contribuito
a sviluppare il senso di appartenenza dei bambini.
76
3.5.4
Le dimensioni della genitorialità
Dopo aver esplorato gli aspetti sopracitati, è stato possibile approfondire più
dettagliatamente le singole esperienze di affido facendo riferimento agli episodi
della quotidianità, alle capacità genitoriali nello sviluppare le autonomie dei
bambini, alle strategie utilizzate per migliorare la condizione di partenza e
divenire base sicura per i figli in affido. Le dimensioni emergenti sono state
analizzate alla luce dei risultati presenti in letteratura (con riferimento specifico ai
lavori sul Parenting plus (figura 1) e sulla multidimensionalità della genitorialità
di alto livello (figura 2), facendo attenzione agli elementi di novità riscontrabili
nelle risposte delle famiglie affidatarie.
FORNIRE CURE DI ALTA
QUALITÀ
RISPOSTE
AFFETTIVE
RISPOSTE
COMPORTAMENTALI
1) PARTECIPARE
ALL’ESPERIENZA DI
INTEGRAZIONE IN UNA
NUOVA FAMIGLIA
Essere genitori
come lo si è con i
propri figli
2) CONSIDERARE LA
RELAZIONE TRA IL
BAMBINO,
LA FAMIGLIA
D’ORIGINE E QUELLA
AFFIDATARIA
Attutire i colpi
Essere genitori considerando
emotivi delle
l’influsso reciproco di ogni
esperienze dolorose relazione sull’altra, tra i vari
attori coinvolti
Essere rispettosi e
umili
3) RISPONDERE
AI BISOGNI SPECIALI E
DI SVILUPPO DEL
BAMBINO
Mantenere un
approccio centrato
sul bambino
Proporre attività per facilitare la
transizione
Sostenere il bambino
Avvicinare il bambino al nuovo
modello di genitorialità
Predisporre il bambino alle
cure
Fig. 1 Le dimensioni del Parenting plus (Berrick & Skivenes, 2012).
77
Fig. 2 Fornire una base sicura (Schofield & Beek, 2005b)
1) Partecipare all’esperienza di integrazione del bambino promuovendo il senso
di appartenenza
Nel corso delle interviste per questa indagine, è emersa una tendenza a far sentire i
bambini accolti e il desiderio di renderli parte delle abitudini della famiglia
affidataria, tuttavia è parsa forte anche la volontà di non confondere la condizione
dei figli biologici con quelli affidatari. Secondo lo schema di Berrick e Skivenes
(2012), le risposte affettive nella dimensione della partecipazione all’esperienza
d’integrazione sono rintracciabili soprattutto nel mettere in atto comportamenti
che collochino il bambino alla pari di eventuali altri figli presenti. Contrariamente
a quanto esplicitato dagli autori del Parenting plus, per i genitori intervistati,
essere buoni affidatari non si è concretizzato seguendo un modello assistenziale
indifferenziato rispetto agli altri membri della famiglia, bensì affiancando
prontamente i minori affidati in quella parte di percorso in cui il loro passato li ha
portati a camminare e dare loro garanzie di maggiori stabilità e calore. I gesti e i
pensieri rivolti ai figli in affido non hanno avuto l’obiettivo di essere genitori
come lo si è con i propri figli, ma di accoglierli e accompagnarli, tenendo
78
comunque presente che il loro passato non poteva essere dimenticato, o nascosto e
che i loro genitori non venivano sostituiti negli affetti.
“Noi cerchiamo di proteggere molto le differenze, nel senso che riteniamo che sia
rispettoso nei confronti di tutti che i ruoli siano chiari. Quindi lui è nostro figlio e
gli altri no. E questo si deve vedere per non creare aspettative sbagliate nei
ragazzi, per non creare ambiguità… che dopo quando diventano grandi crollano
un’altra volta… e perché, nello stesso tempo, da una parte dai un modello di
famiglia, ai ragazzi… quindi il fatto che loro possano vedere com’ è una relazione
tra due genitori e un figlio in senso positivo, comunque normale… di una famiglia
normale, pensiamo che sia un buon modello. E d’altro canto è importante per noi
proteggere lui e sottolineare a lui che lui non è uguale agli altri.”
“La mia idea è cambiata in base alla differenza che c’è e ci deve essere tra la
genitorialità naturale e l’affido. È stata sbagliata l’impostazione da parte nostra
nel voler accogliere questi bambini ‘come se’ fossero figli nostri. ‘Come se’.
Abbiamo capito in corsa di aver sbagliato. È una bella cosa dirla, però farla fa
più danni che bene.”
“Comunque ci sono delle estraneità. Questa differenziazione… ci lavori un po’
su. Da una parte, svolgi la funzione del genitore. Dall’altra parte, comunque,
continui a non esserlo. Lo diventi sempre un pochino di più, probabilmente, però
non lo sei. C’è un livello di rapporto con i miei figli che con lui non c’è, pur non
essendo io una madre troppo viscerale.”
“Non posso paragonare l’essere genitori di nostro figlio con l’essere genitori dei
ragazzi. Sono due tipi di genitorialità molto diversa. Anche la vicinanza e la
dimensione affettiva è molto diversa. Insomma, la biologia, il sangue comprende
delle parti che non possono essere vissute con dei figli che non hai partorito e
soprattutto ci sono delle cose che con tuo figlio sono istintive, forse di più per la
madre che per il padre, è più di sangue, e che con i ragazzi non vivi. Rimane una
striscia di distanza tra te e loro che in questo caso non è un limite, ma è un
vantaggio, perché ti permette di provare a pensare a loro, a prendertene cura in
79
una dimensione dove l’equilibrio tra la testa e la pancia forse è un pochino più
possibile che con i tuoi figli.”
A livello affettivo, un altro concetto rilevato è quello di fornire modelli di
genitorialità positivi, instaurare relazioni di aiuto, di cura costruttive, che
potessero rassicurare il giovane in affido.
A livello comportamentale, secondo il modello degli studiosi del Parenting plus, è
importante proporre attività che facilitino la transizione nel nuovo nucleo.
Compatibilmente a questo, nella maggior parte dei casi i genitori hanno risposto
di voler creare abitudini per facilitare l’integrazione nella famiglia. Anche
l’inserimento nella rete sociale della famiglia è parso un comportamento efficace
e diffuso.
“Un’altra cosa importante è che comunque, come dicono sempre, l’affido non è
gestito solo dai genitori… molto, sicuramente, dalla madre, perché comunque,
essendo bambini piccoli, l’attenzione è più materna. Molto fanno anche i figli,
cioè, l’accoglienza è proprio dei figli. Noi abbiamo fatto diversi affidi in cui i
nostri bambini avevano ancora l’età delle elementari, e anche dell’asilo, e
effettivamente il bambino piccolo si sentiva uno di loro.”
“Una delle cose importanti è metterlo sempre seduto nello stesso posto. Da noi,
di abitudine naturale, i maschi stanno di qua, le femmine stanno di là. In genere,
con la scusa di questi affidi, abbiamo iniziato a comprare delle posate colorate,
non so, la femmina rosa, il maschio blu, e un po’ di colori per noi… e dargli
sempre lo stesso posto, con le stesse posate. Anzi, al limite, si comprava il
bicchierino rosa per lei.. e quindi quello è il suo bicchierino rosa. Quindi avere il
punto di riferimento, ma anche un’abitudine, perché loro non avendo mai
abitudini… l’orario, sempre quello quando si va a cena… dargli degli orari! Una
giornata scandita.”
80
“Lui ha fatto la nostra vita. Si è inserito a pieno titolo in tutto quello che noi
facevamo… delle cene, la festa degli Scout del mio figlio più grande, cioè si è
completamente plasmato e adattato ai nostri ritmi… cercando noi di rispettare i
suoi.”
E ancora, molte le risposte in cui si dettagliano comportamenti messi in atto, al
fine di creare un ponte, un legame, aprire un varco ed entrare insieme al bambino
nella nuova dimensione familiare, creata per lui dai genitori affidatari. Lo scopo
delle attività è quello di rassicurare il minore, far sentire che c’è un posto per lui
lì, nella nuova casa.
“Lui era molto chiuso e una delle cose di cui mi sono accorto, è stata la cosa più
banale di questo mondo, è stato il Milan. Questo oggetto d’amore che era ‘la
squadra’. Questa specie di surrogato dell’amore materno… ed era così. Lui era
innamorato di questa squadra… e io che non sono particolarmente sportivo, sono
diventato uno sportivo juventino… in questo gioco-contrasto che mi appartiene
forse anche un po’ per carattere… per cui abbiamo lottato, discusso sul tema
della squadra. Era uno dei modi per entrare nella sua affettività, nel suo mondo
interiore. Si pensava e si giocava al calcio dalla mattina alla sera, che non ne
potevo più.”
“Il nostro ruolo e il nostro impegno, è stato quello di… con grande pazienza e
dolcezza, mi vien da dire… farlo sentire accolto e voluto, amato, anche in questi
momenti difficili, non forzandolo, non puntando sulle criticità. Quindi la
possibilità di sentirsi ancora sicuro nonostante lo scombussolamento interiore
che lui sentiva. Questo, nel tempo, l’ha fatto arrivare a un equilibrio, e a trovare
un riferimento nella nostra famiglia, salvando, tenendo buono e poi recuperando
il rapporto con il papà.”
Far sì che anche questi bambini abbiano i loro spazi, i loro oggetti, significa
consentire anche a loro di trovare ciò che sono, di identificarsi in qualcosa, di
inserirsi a pieno titolo negli spazi familiari, insieme a tutti gli altri membri. Questo
81
tipo di partecipazione all’integrazione nel nucleo, non si esaurisce meramente
nella ricerca del posto a tavola, nel dare loro il bicchiere, comprare i vestiti,
riservare l’armadio e la libreria. Si tratta di far capire che possono avere qualcosa
solo per loro, in cui si ritrovano e si rispecchiano nei vari momenti della giornata,
che hanno quindi una loro identità personale che li distingue; significa anche che
sono importanti per qualcuno, che spende le sue energie e le sue attenzioni per
loro e li identifica come persone meritevoli del proprio affetto, quindi accettabili e
accoglibili per come sono. Tale trasmissione di messaggi di accettazione
incondizionata aiuta il bambino a costruire e rafforzare l’autostima (Schofield &
Beek, 2013).
La dimensione di partecipazione all’esperienza di integrazione in una nuova
famiglia descritta da Berrick e Skivenes (2012) come l’essere genitori come lo si è
con i propri figli, e proporre attività che facilitino questo passaggio, ovvero
l’ingresso nel nuovo nucleo, è descritto diversamente secondo l’esperienza dei
genitori della presente ricerca. Si esplica più precisamente nella garanzia di quel
calore famigliare che in un nucleo stabile si può incontrare, pur agendo nella
considerazione del fatto che il rapporto biologico non è assimilabile a quello
affidatario. Questa considerazione, tuttavia è vista come rispetto delle origini
diverse, come alimentazione delle attese di rientrare in un nucleo, quello di
origine, con le sue diversità.
Il passaggio nella famiglia affidataria, comunque, viene visto come momento
importante a cui ogni genitore dedica particolari attenzioni. I comportamenti
attuati nella maggior parte dei casi hanno riguardato vari ambiti e momenti della
quotidianità legati a:
- costruzione di abitudini comuni
- creare e immortalare momenti felici di attività collettive
- condivisione della rete sociale e della parentela allargata degli affidatari
- svolgimento di “attività ponte”, che rappresentino punti d’incontro
- riservare spazi e posizioni costanti e specifiche
- offrire oggetti che diventassero “di proprietà” e “di identificazione” del bambino
- far scegliere il bambino, sostenere e manifestare interesse verso le sue attitudini
82
Tali attività descrivono molto bene ciò che Schofield e Beek definiscono come
promozione dell’appartenenza alla famiglia, in cui sentimenti di solidarietà,
accettazione incondizionata e identità condivisa offrono l’ancoraggio e la
rassicurazione di poter avere un sostegno concreto ed emotivo permanente.
All’interno della famiglia si deve creare uno spazio fisico ed emotivo specifico
per il bambino e ogni membro dovrebbe andargli incontro comprendendo il
proprio ruolo nei suoi confronti.
Partendo dalla concettualizzazione di Beek e Schofield (2013) e di Berrick e
Skivenes (2012), con i risultati ottenuti attraverso interviste è stato possibile
sviluppare il seguente modello interpretativo (Figura 3).
Creare
abitudini
Creare legami
con attivitàponte
Risposte
comportamentali
Fornire modelli di
cura e di relazione
positivi
Partecipare
all’integrazione
promuovendo
il senso di
appartenenza
Riservare spazi e
oggetti personali
nella dimensione
collettiva
Risposte
affettive
Garantire
calore e stabilità
familiare
Inserire i
bambini nella
vita sociale
Fig. 3 Prima dimensione che unisce la partecipazione all’integrazione e
la promozione del senso di appartenenza
83
2) Riflettere sulla relazione tra il bambino, la famiglia di origine e quella
affidataria promuovendo la capacità riflessiva.
Molto difficile è risultato comprendere come la relazione tra i tre poli veniva presa
in considerazione e gestita. Nella maggior parte dei casi c’è stata l’affermazione di
una presa di coscienza che il rapporto tra gli affidatari e la famiglia naturale non
poteva giungere a esiti positivi per nessuno, principalmente per i bambini.
“Siamo dell’idea che pensare di aiutare anche i genitori non è possibile. Farsi
coinvolgere diventa insopportabile. Poi non concludi niente. Poi spesso
l’educazione è opposta su certe cose, quindi sti ragazzi non sanno più a chi fare
riferimento. Allora, qui con noi la cosa è così, si fa così. Quando sei con tuo papà
e tua mamma, se a loro va bene così, va bene…”
“Adesso che abbiamo più esperienza avremo un altro bambino in affido e non
commetteremo più l’errore di mischiarci troppo con la situazione di origine del
bambino. Per aiutarlo non possiamo fare come prima. Infatti adesso abbiamo
scelto il full time, perché vederlo rientrare ogni giorno in un mondo
completamente diverso dal nostro è destabilizzante per lui e non fa bene a
nessuno.”
“Con i genitori biologici avevam sempre cercato di avere un rapporto di
distacco. Cioè, noi ci occupiamo dei bambini, dei genitori se ne occupano i servizi
sociali… senza denigrarli… però anche le decisioni da prendere, sempre filtrate
dagli assistenti sociali.” “Noi abbiam provato all’inizio ad avere un rapporto
anche coi genitori, abbiam visto che era negativa la cosa, perché facevi male al
bambino, il bambino non sapeva più a chi fare riferimento.”
“La madre aveva rinunciato alla potestà genitoriale. Ogni tanto lo
accompagnavo a vedere suo padre. Dopo un paio d’anni viene fuori che
bisognava tagliare con questo padre, poverino, che io ho incontrato qualche
volta… faceva molta tenerezza, faceva anche molta fatica a capire come questo
bambino fosse in situazione di difficoltà con questo padre […]Avevamo anche
84
dichiarato la nostra disponibilità ad avere un po’ di rapporti con questo padre,
anche se la relazione tra le due famiglie… abbiamo visto subito che il problema
stava lì.”.
“Bisognava trovare il modo e i tempi in cui poter, diciamo, avere rapporti con
questa famiglia, senza che questi diventassero troppo… compromettessero il
rapporto con noi. Bisognava regolarizzare un pochino. Quindi avevamo
concordato con i servizi sociali questi rientri in famiglia, oppure incontri in
spazio neutro. Nel caso delle ragazze, lì purtroppo, da parte della mamma era
quasi assente questo rapporto. Col papà, quando c’è stato, andava bene a parte
quelle volte che non si presentava, ma tutto sommato… invece col ragazzo
avevamo avuto delle difficoltà… siccome era stato consensuale l’affido, la
mamma spingeva coi servizi sociali per vederlo di più. Noi credevamo che invece
non fosse positivo questo. Però dovevamo in ogni caso adeguarci.”
Alcune famiglie affidatarie hanno lamentato un’invadenza crescente nei primi
momenti dell’affido, che li ha portati in vari casi ad allontanarsi e filtrare, tramite i
Servizi, i rapporti tra le famiglie, per evitare di lasciarsi coinvolgere dalle
problematiche degli adulti e per non dare messaggi fuorvianti ai bambini affidati.
“Io ho contatti anche abbastanza frequenti [con la madre]... le telefonate…
adesso risponde lui, ma per molti anni ho risposto io, quindi dovevo fare da
tramite, quindi risponderle, dirle, raccontarle, soprattutto quando era più piccolo,
ovviamente mi chiamava molto molto spesso. Poi è stato messo un po’ un freno,
perché era diventato molto pesante per me… questa gestione.”
“O per esempio il fatto che noi, all’inizio, andavamo a portare le bambine dalla
mamma, e poi andavamo anche a prenderle. Poi abbiam detto ‘No, noi a
prenderle non andiamo più’, perché era come strappare i bambini dalla mamma.
Noi non vogliamo essere quelli che strappano i bambini dalla mamma. Noi ve li
portiamo, però qualcuno [dei servizi sociali] va a prenderli e ce li riporta.”
85
Le famiglie affidatarie spesso hanno affermato di non condividere i
comportamenti dei genitori naturali verso i figli e, talvolta, di gestire con difficoltà
le conseguenze di tali comportamenti.
“Facevano delle cose sapendo che c’era la mamma lì, sapevano che non
dovevano fare, però facevano lo stesso e ti guardavano… la mamma diceva il
contrario di quello che dicevi te.”
“Dopo poco tempo sono venuto a sapere che il bambino a Natale è andato a casa
del papà… il bambino dal papà, perché la mamma aveva già abbandonato la
famiglia, e il papà l’ha portato indietro il 28 di dicembre… non il 6 gennaio…
perché non ce la faceva a tenerlo. M’aveva colpito sto fatto, dicevo, come può un
papà avere fatica a mantenere… purtroppo era così. Il papà non aveva molte
capacità genitoriali.”
“Ogni sera tornavano a casa loro per dormire e quando le riaccompagnavamo, si
percepiva un clima di freddezza infinito. La mamma aveva avuto un’altra figlia
col nuovo compagno e loro tre giocavano a fare la ‘famigliola felice’ escludendo
le bambine, quindi secondo noi, questa formula di affido per loro era più
traumatica di tutto. Le andavamo a prendere, le lavavamo, le aiutavamo a fare i
compiti, le sistemavamo… insomma, si mangiava tranquilli, e poi… poi
tornavano lì dove non erano accolte. Era devastante vederle così.”
“Anche il padre ci cercava… era quasi soddisfatto, ma allo stesso tempo era
quasi conflittuale con noi. Un esempio di conflittualità è stato quando il figlio
torna dall’incontro col padre con uno scatolone con dentro un computer…
erano i primi piccoli computer. Assurdo. Non sapevamo neanche dove metterlo.
Gli ha regalato un dono, non potendo dare nell’affettività, nell’emotività… E
portiamo questa cosa nel gruppo, l’abbiamo elaborato e l’abbiamo letto in questo
senso: che il padre, forse voleva essere adottato anche lui… voleva essere
accolto, affidato, perché si accorgeva del suo fallimento. Con questo gesto
manifestava il suo disagio di un desiderio paterno che gli sfuggiva.”
86
Tuttavia, i genitori affidatari hanno ritenuto importante la tutela dell’immagine dei
genitori naturali, cercando di non soffermarsi sulle carenze e le problematicità che
hanno causato l’allontanamento, né disilludendo aspettative, o sogni del bambino
legati a un ricongiungimento futuro con la propria famiglia di origine.
Compatibilmente con lo studio sul Parenting plus, il rispetto e l’umiltà dei
genitori affidatari intervistati sono emersi nei loro racconti, in cui troviamo anche
l’intenzione di attenuare emotivamente l’impatto dei colpi derivanti dalla
consapevolezza dei limiti dei genitori biologici, dalla mancanza di stabilità e dal
vivere una doppia appartenenza dolorosa.
“Si tratta di non cambiare troppo noi, perché altrimenti è destabilizzante di
nuovo. Cioè, almeno in un posto devono trovare che le cose sono sempre uguali e
quindi ‘tu hai le tue ragioni, ma adesso non puoi mandare all’aria tutto questo
pezzo della tua vita perché sei arrabbiato.[…] Però riteniamo che sia molto
importante che loro ritrovino che le regole rimangono sempre le regole, che il
tipo di relazione è sempre la stessa, che io non cambio perché sei cambiato tu, o
perché tu hai fatto un’esperienza difficile. La garanzia per te di reggere nella tua
esperienza difficile è perché io adulto che sto facendo quest’esperienza con te,
rimango sempre io, e quindi ti puoi appoggiare. Perché se anch’io altalenassi
come te non ti sarei di nessun aiuto.”
Nella genitorialità umile, rispettosa, che intende attutire i colpi delle esperienze
negative, sono rintracciabili agiti che intendono rappresentare positivamente le
figure genitoriali. Quest’ultima è parsa una strategia positiva, che ha consentito di
rendere più accettabili alcune prese di coscienza sui limiti e le carenze
effettivamente riscontrate. Sottolinearne i punti di forza e ricordare le difficoltà
che hanno portato i genitori a non potersi occupare dei figli sono parse le risposte
migliori, sia per non screditare tutto quello che è stato il passato dei bambini, sia
per rendere più accettabile anche loro la realtà, che per predisporli nel migliorie
dei modi a un eventuale futuro rientro.
87
“Partiamo dal presupposto di mantenere alta l’immagine dei loro genitori.
Questo è fondamentale, questo lo ripetiamo. […] Quindi non sminuire mai, o dare
delle colpe. E comunque l’idea è quella di non sostituirsi.”
“Mai giudicare i genitori. ‘È tuo papà, è tua mamma’. Non son capaci, non sono
stati in grado, magari non sappiamo cos’hanno avuto quando erano più piccoli,
eccetera… però non giudicarli, accettarli come sono e andare avanti con quella
cosa lì.[…] Però dire le cose chiare.”
“Io cerco di tenere sempre al centro loro [i genitori]. Nel senso che da sempre io
spero di avergli dato la consapevolezza che i suoi genitori sono loro e che questa
situazione si è creata non perché il papà e la mamma non sono capaci, ma perché
c’era una situazione che li ha portati a… so che arriverà il momento in cui dovrò
anche dire ‘in questo momento mamma e papà non possono ancora, non ce la
fanno ancora’ perché credo la verità poi debba essere detta, certo in termini
adatti.”
“Io ho sempre cercato di essere neutra, lasciar la mamma il più tranquilla
possibile, lei aveva sempre le lacrime agli occhi… a me mi straziava. Cioè, mi
spiaceva, m’immaginavo io, mamma, con mia figlia in braccio a un’altra…
sapendo che ho commesso uno sbaglio, un errore… è umano, tutti possono
sbagliare… Poi, piano piano, ho cercato di andargli incontro e sono riuscita; era
più la mamma, il papà no. Va bè, mi metto nei suoi panni, la capisco. E piano
piano, con il tempo, sono riuscita a creare un bel rapporto con loro, di fiducia,
vedevano che parlavo con la bambina. Vedevano che a casa parlavo della
mamma.”
Dalle risposte si è compresa
la volontà implicita di essere maggiormente
comprensivi verso i figli in affido, intuendo l’impatto che varie esperienze
traumatizzanti avevano avuto sull’infanzia del minore; quindi utilizzare lo stesso
stile educativo usato con i figli naturali avrebbe potuto instillare sensi di colpa che
avrebbero causato una perpetrazione di insicurezze, emozioni negative e
88
rafforzamento della convinzione di essere “sbagliati”, e causa delle proprie
sventure. Questa maggiore comprensione, che costituisce la base di risposte
comportamentali specifiche, si qualifica prettamente a livello affettivo come
forma di attenzione e disponibilità verso il bambino, similmente alla volontà di
attutire i colpi emotivi delle esperienze dolorose.
Al livello comportamentale, secondo Berrick e Skivenes risulta importante
considerare l’influsso reciproco che le relazioni di ciascuno hanno sulle altre.
Questo è stato fatto mantenendo ferma la cognizione sul fatto che l’affidatario non
si deve sostituire al genitore, ma deve facilitare i contatti tra la famiglia naturale e
il bambino.
Considerare l’influsso reciproco delle relazioni ha significato anche cercare di
fornire modelli che aiutassero a modificare la visione sulle relazioni
destabilizzanti, ovvero riportare in una routine stabilizzante il bambino, senza
manifestare riferimenti espliciti al suo passato. In realtà è proprio la
considerazione del suo passato che porta a mettere al primo posto il modello
famigliare positivo, per non confermare le modalità patologiche del contesto di
origine. Infatti, le menti e i comportamenti dei bambini potrebbero essere stati
distorti da precedenti esperienze di maltrattamento e perdita (Schofield & Beek,
2013). La volontà di intervento in questa direzione è stata descritta facendo
riferimento sia ad attività quotidiane generiche, che ad attività mirate a migliorare
la condizione dei minori e affrontare emozioni e ricordi.
“Si è sconosciuti gli uni agli altri e nel giro di poche ore devi tentare di entrare in
una routine […]. Un po’ l’esigenza è quella di entrare velocemente nei ritmi di
una famiglia, tenendo conto del fatto che ci sono loro, che sono spaventati, che
sono disorientati.”
“Con il piccolo, con il quale dopo poche settimane ci era stato detto il motivo
dell’allontanamento d’urgenza, e quindi la persona causa di queste cose gravi,
che era una persona che lui nominava spesso, abbiamo un po’ giocato con lui a
tentare di liberarlo dal mostro, facendo delle attività, delle cose che potevano
89
essergli utile a liberarsi da questa cosa che aveva dentro, stando attenti a certi
argomenti, a certi nomi...”
“Secondo noi è importante che loro piano piano entrino in contatto anche con
questa cosa, cioè ‘ho visto la mamma e questo mi fa arrabbiare’. E quindi, il
rimando in qualche modo va dato. ‘Lo so che sei arrabbiato perché hai incontrato
la mamma e c’era qualcosa che non ti piaceva, o sei triste… però questo non
cambia che non si picchia tutto il mondo. Questa regola rimane anche se io ti
capisco’.”
L’aspetto di porosità dei rapporti (Berrick & Skivenes, 2012), ovvero
dell’importanza di lasciare aperte le relazioni che interessano ogni individuo
coinvolto nella triangolazione dell’affido familiare, emerge anche dai dati raccolti.
Infatti, dalle interviste si comprende come per i genitori sia fondamentale non
chiudersi nel rapporto con il minore in affido, ma lavorare con lui alla
ricostruzione di una fiducia verso il prossimo, in particolare verso il genitore
naturale. Minore spazio viene riservato, comunque, alla relazione tra le due
famiglie: talvolta è stata descritta come controproducente l’eccessiva vicinanza tra
la famiglia affidataria e quella naturale. Oltre all’apertura della relazione, anche
l’importanza di riflettere su di essa e sulle sua conseguenze è un dato riscontrabile
nelle risposte. Da quanto emerge, questa dimensione che prende in considerazione
le relazioni tra i vari attori coinvolti e i loro influssi, può essere ricondotta alla
descrizione della funzione riflessiva di Schofield e Beek (2013), che riguarda la
capacità del caregiver di essere sensibile al mondo interiore del bambino, mettersi
nei suoi panni, comprenderne i vissuti, le sensazioni e riflettere su di essi. Si tratta
di tradurre in pratica l’apertura comunicativa (Brodzinsky, 2005), ovvero la
capacità di essere riflessivi, consapevoli e aperti verso il bambino, le sue origini e
l’influsso che le occorrenze del suo passato hanno sul presente. Rispecchiare e
rimandare a lui i vissuti in una forma più accettabile, consente al bambino di
imparare a riflettere a sua volta sulle proprie emozioni, ma anche su quelle altrui,
gestirle, padroneggiare i propri comportamenti, sia quando ci si mette in relazione
con gli altri, sia quando autonomamente si rielaborano le esperienze vissute con
90
gli altri. Questa è la capacità di riflettere sulle esperienze pregresse del bambino e
sull’impatto che queste hanno nel suo presente e nelle sue relazioni attuali,
collegando gli accadimenti presenti, con quelli che hanno caratterizzato il suo
passato. E’ anche la capacità del caregiver di riflettere sull’attuale stato mentale
del bambino tanto quanto sul proprio stato mentale, perché esso influenza gli stati
mentali del bambino e la relazione genitore-bambino. Significa, inoltre, fornire il
modello d’azione idoneo per far fronte a qualunque sentimento, positivo o
negativo e promuovere in lui la capacità di rielaborarlo.
Partendo dalle concettualizzazioni di Beek e Schofield e di Berrick e Skivenes
sulle dimensioni caratterizzanti una genitorialità di alto livello, fondendole e
integrandole, con questa ricerca si giunge a identificare in figura 4
la dimensione della riflessività, dell’empatia e della considerazione dei vari
influssi sul mondo interiore dell’altro.
Far conoscere la
routine stabilizzante
all’interno delle
dinamiche familiari
Svolgere attività
mirate a rielaborare
e affrontare
emozioni specifiche
Risposte
comportamentali
Svolgere funzioni
genitoriali in
modo umile e
rispettoso
Considerare la
relazione
bambino-famiglia
naturale-famiglia
affidataria
promuovendo la
capacità riflessiva
Facilitare i
contatti tra
bambino e
genitore
Risposte
affettive
Attenuare
l’impatto delle
esperienze
dolorose
Comprendere
l’impatto delle
esperienze passate sul
presente
Fig. 4 Seconda dimensione che unisce la considerazione del rapporto
tra gli attori dell’affido e la promozione della capacità riflessiva
91
3) Rispondere ai bisogni del bambino promuovendo l’autoefficacia e la fiducia
nell’altro
Le interviste hanno mostrato come nel corso dell’affido familiare, l’approccio è
sempre stato centrato sulle esigenze del bambino. In vari modi, e a seconda delle
diverse tipologie di affidi in corso, i genitori affidatari hanno affermato di
prendere in considerazione le necessità dei bambini e cercare la modalità migliore
per rispondere a esse. In alcuni casi, la decisione è stata presa con il servizio di
affidi, reso partecipe delle problematiche. In altri casi si è discusso del problema
portandolo nel gruppo di genitori con l’esperto formatore. Altre volte si è fatto
ricorso a professionisti esterni a seconda dei diversi problemi riscontrati, o al
supporto della rete sociale e familiare circostante, la cui partecipazione ha
agevolato il superamento di alcuni ostacoli. In altre situazioni, è stata la
collaborazione con le agenzie scolastiche ed educative esterne alla famiglia a
rivelarsi preziosa. L’interessamento, l’impegno costante e l’attenzione attivati e
mantenuti dai genitori sono state la risposta affettiva principalmente riscontrata
difronte ai bisogni dei bambini. Come nella ricerca sul Parenting plus, il childcentered approach in cui le esigenze del bambino sono state anteposte alle
proprie, è stato l’orientamento genitoriale utilizzato anche dalle famiglie coinvolte
in questo studio. Se nello studio di Berrick e Skivenes è stato affermato di aver
ampiamente posticipato, e in alcuni casi annullato i propri bisogni in favore di
quelli dei bambini, nella presente ricerca è parsa evidente la concentrazione sui
bisogni del minore, il “tenere in mente” il bambino e considerare centrale il suo
benessere, ma non la rinuncia alla propria vita sociale o alle altre esigenze
famigliari; piuttosto un ricollocamento temporale, rispettoso delle sensibilità dei
bambini in affido, per rimandare a un momento migliore le attività legate ai
bisogni della famiglia affidataria. Per esempio, molte famiglie hanno affermato di
aver ricercato spazi per rigenerare l’equilibrio familiare e rivivere le dinamiche, i
tempi, il clima preesistenti, che venivano percepiti importanti per il benessere di
tutti i membri. Ciò che è emerso è, pertanto, il desiderio di mantenere le routine e
le consuetudini caratterizzanti la famiglia prima dell’affido, perché è anche grazie
92
a quelle che viene conservata la stabilità familiare utile alla buona riuscita
dell’affidamento, quindi al benessere dei minori affidati.
“L’anno scorso noi siamo stati in vacanza solo con [la figlia biologica], perché
lei ne aveva bisogno. C’è questo bisogno di ritornare un po’ quello che eravamo,
per ricostruirci un attimo, per dare un po’ un senso, per ricaricare un po’ le
energie, perché N. [figlio affidato] comunque ne prosciuga tantissime. Nel bene e
nel male, volendo o non volendo, comunque condizione il clima e l’equilibrio
familiare.”
“Comunque, alcuni momenti in cui ci han chiamato di nuovo [per proporre un
affido] e nostra figlia ha detto ‘Ma no, forse è meglio che ricominciamo a
ricostruire un po’ il nostro contesto familiare’… perché comunque ti viene
sconvolto… da tutto, dalle cose del quotidiano e tutto il resto.”
“Abbiamo dei momenti durante la giornata o durante il mese, in cui stiamo noi
tre da soli e ci sono gli amici, i volontari, gli educatori che si occupano degli altri
[figli in affido], e cerchiamo di fare con lui [figlio naturale] delle cose che non
facciamo con gli altri… Alla sera loro vanno a letto a un certo orario, I. [figlio
naturale] può stare in piedi un’oretta in più, che è quello spazio che ci
dedichiamo anche per stare insieme.”
A livello comportamentale, in tutti i racconti è stata evidente la volontà di
sostenere i bambini nella loro unicità, nelle loro scelte, per evidenziare a loro
stessi il personale valore umano, intrinseco, e stimolare la loro crescita, nonché la
personale autostima. In tutti i casi, la volontà di riavvicinare i bambini alle
abitudini familiari tipiche, ad un clima familiare sereno, ai modelli di relazione
positivi ha rappresentato la strategia comportamentale utilizzata per sostenere il
bambino, predisponendolo al nuovo modello di genitorialità. Questo perché i
vissuti di perdita, di abbandono, di trascuratezza dove non ci sono figure di
riferimento pronte ad accogliere e far sentire protetto il piccolo, aumentano la
probabilità di difficoltà nello sviluppo, di mancanza di fiducia verso sé e gli altri. I
bambini affidati, spesso portano con sé una gamma di esperienze che possono
93
indurli a prendere le distanze dai nuovi caregiver, a sentirsi impotenti, o assumere
forti comportamenti di controllo. Farli sentire protetti, contenuti e accettati, far
loro scoprire che esiste un modo altro di relazionarsi, che le dinamiche a cui
avevano assistito non sono le uniche e che esistono figure di riferimento sulle
quali poter contare stabilmente e a alle quali poter comunicare i bisogni, sempre e
comunque meritevoli di ascolto, sono stati gli obiettivi descritti dalle famiglie,
parlando del tema della risoluzione dei bisogni.
“Bisogna dare loro un minimo di stabilità affettiva… insomma, sentire che c’è un
legame, che sono importanti per qualcuno, che continuano a esserlo nonostante
la baraonda, nonostante tutto quello che possono combinare. Per loro è
fondamentale.”
Tale intenzione è andata, quindi, di pari passo con la volontà promuovere la
fiducia nella disponibilità dell’altro. Per un sano sviluppo emotivo, tutti i bambini
hanno bisogno di confidare nella disponibilità di un caregiver pronto a fornire
qualsiasi risposta. L’aumento del senso di autoefficacia e la riduzione dell’ansia
sono gli effetti di tale disponibilità, che si manifesta con mezzi adatti a rispondere
alle esigenze contestuali. La volontà di intervento in questa direzione è stata
descritta facendo riferimento sia ad attività quotidiane generiche, che ad attività
mirate a migliorare la condizione dei minori.
Questi risultati sono confermati in letteratura in cui risulta centrale la promozione
della fiducia nella disponibilità altrui e lo sviluppo del senso di autoefficacia
(Schofield & Beek, 2013); altrettanto importante è stato fornire risposte affettive
che dimostrino un approccio centrato sul bambino, risposte comportamentali di
sostegno, di riavvicinamento alle cure e a modelli genitoriali positivi (Berrick &
Skivenes, 2012).
Conformemente a quanto esplicitato nello studio sul Parenting plus, mantenere un
approccio centrato sul bambino è stato confermato come aspetto importante che
permette di carpire informazioni sul bambino e individuare le strategie più adatte
da utilizzare con lui.
94
“Noi cogliamo cose che quando fa l’incontro protetto di un’ora, i servizi non
colgono.”
“Noi relazionavamo costantemente le problematiche che emergevano soprattutto
con R.”
“Soprattutto l’attenzione quando arrivano. La prima attenzione e… segnarci tutto
quello che fanno, quello che dicono… che può servire a noi per ricordarci come
sono e poi ai servizi per capire tante cose della situazione. Come accoglierli, cosa
dire, alcune frasi, alcune parole sono importanti. ‘Che begli occhi azzurri; che
begli occhi marroni; ti stavo aspettando; guarda, avevo proprio comprato un
peluche per te!’ Cioè, alcune parole che sappiamo già che fanno bene al
bambino. E poi, dopo, c’è l’esperienza che ci ha portato a non impaurirci”
I bisogni riscontrati dai genitori sono stati principalmente connessi alle seguenti
aree:
-
disturbi dell’apprendimento
-
capacità logiche
-
strategie metacognitive
-
gestione del tempo
-
capacità decisionale
-
comportamento oppositivo-provocatorio
-
ritardo nell’acquisizione del linguaggio
-
difficoltà scolastiche
-
svolgere azioni in sequenza per completare un compito (per esempio:
preparare la cartella; organizzare il necessaire per fare la doccia)
-
incapacità di interagire con più di un adulto per volta
-
incapacità di costruire e mantenere relazioni stabili con i pari
-
autostima (smarcarsi dalle loro storie, abbandoni)
95
Tra gli interventi messi in atto per fornire soluzioni ai bisogni specifici e di
sviluppo dei giovani in affido, è stato possibile identificare alcune scelte
genitoriali:
-
supporto psicologico
-
valutazione delle capacità cognitive
-
intervento sulla psicomotricità
-
ripristino dei ritmi giornalieri basati sulle esigenze infantili tipiche
-
garanzia della presenza di adulti di riferimento stabili
-
collaborazione con le figure educative
-
affiancamento nello svolgimento delle attività quotidiane
In figura 5 viene rappresentata questa terza dimensione rilevata.
Affiancamento
nelle attività
quotidiante
Predisporlo alle cure
e a nuovi modelli
familiari
Risposte
comportamentali
Sostenere il
bambino
Rispondere ai bisogni
del bambino
promuovendo la
fiducia nell’altro
e il senso di
autoefficacia
Mantenersi
disponibili in quanto
figure di riferimento
stabili
Risposte
affettive
Mantenere un approccio
centrato sul bambino
Fig. 5 Terza dimensione che unisce la necessità di rispondere ai bisogni del
bambino, la promozione della fiducia nell’altro e del senso di autoefficacia
96
4) Accettare il bambino promuovendo la costruzione dell’autostima
Partendo dal tema dei bisogni, le descrizioni dei genitori hanno considerato aspetti
quali l’identificazione e l’accettazione di tutte le caratteristiche che caratterizzano
i bambini. L’articolazione del discorso sulle attenzioni rivolte a tale aspetto, ha
superato e approfondito la definizione del tema iniziale, andando a delineare una
nuova dimensione saliente. Fin dai primi momenti è risultato importante
dimostrarsi accoglienti in modo totale verso i bambini. In molti casi le descrizioni
hanno raccontato la scarsa autostima, le insicurezze, il bisogno di essere
riconosciuti e accettati per quello che si è.
“Non esiste un essere migliori, o essere peggiori, esiste capire che cosa sta
succedendo in quel momento e cercare di rassicurare il bambino. Nel senso che
effettivamente quello che ci siamo accorti è che i bambini che vanno in affido
sono bambini che, proprio perché vengono da situazioni difficili, in realtà non ti
chiedono altro di accoglierli per quello che sono.”
Proprio questa è risultata una delle ragioni del malessere e della chiusura dei
bambini che, a causa di vissuti di abbandono e trascuratezza, costruiscono muri e
indifferenze verso il mondo esterno; questi si rivelano, talvolta, nell’assenza di
reazioni, di manifestazioni, come nella convinzione di non essere oggetto di
interesse per nessuno.
“All’inizio era catatonica… aveva solo questi due occhi neri grandi… ma sempre
immobile, senza espressione. Mio marito mi ha detto se ero sicura che era
normale. Poi per fortuna ha recuperato tutto. È rinata.”
“Quando è arrivato, è stato difficile. Non un sorriso, non un pianto, non reagiva a
niente. Probabilmente per come era stato trattato fino a quel momento. Non so…
non farà parte della loro cultura avere tanto contatto con i bambini…”
97
L’accettazione incondizionata e l’agire per il recupero da situazioni a rischio,
permette la crescita, l’inserimento nella società, quindi l’autonomia del giovane.
Questa si è rivelata un’importante area di intervento, descritta attraverso modalità
che permettono di guadagnare la sensazione di essere buoni genitori e mettendo
contemporaneamente il bambino nella condizione di avere un’immagine positiva
di sé stesso.
“Ho scelto questa scuola che è abbastanza particolare… perché c’è un maestro
maschio di cui lui aveva secondo me assoluta necessità, che ha una didattica
molto inclusiva, molto accogliente, che non dà valutazione nei primi due anni…
siccome lui [bambino in affido] ha pochissima autostima… e devo dire che sta
riuscendo molto bene. Non avendo il senso della competizione lui dà il massimo
che può dare e ha avuto un cambiamento nelle autonomie, nella
consapevolezza…”
“Lui prima aveva delle grosse difficoltà in ambito scolastico, ma data l’enorme
curiosità e attenzione che mette su alcuni temi sappiamo che potrebbe dare molto
di più di quello che dà. E qui la sfida è quella di far leva sulla curiosità, sulla sua
voglia di imparare, invece che sottolineargli le sue difficoltà, nello scrivere,
nell’imparare a memoria la poesia…”
Qualunque sia l’umore dei bambini, qualsiasi siano i progressi e i comportamenti,
gli affidatari devono tenere in mente l’idea di accettarli e volerli per quello che
sono. Adottata questa logica diviene possibile trovare le modalità corrette per
trasmettere i messaggi. Intervenire nelle aree che rappresentano un problema per il
bambino, senza sostituirsi a lui, ma accompagnandolo e facendo leva sui suoi
punti di forza è stata la modalità tratteggiata dai genitori per aumentare la sua
autostima e, quindi, la capacità di proseguire più autonomamente nel superamento
delle difficoltà. Con la crescita dell’autostima, i bambini diventano più
consapevoli di se stessi, accettando anche i propri limiti, senza dimenticare i
propri punti di forza. Questi risultati, rappresentati sinteticamente in figura 6, sono
confermati negli studi di Schofield e Beek (2013) in cui risulta centrale
98
l’accettazione del bambino nella sua totalità, favorendo lo sviluppo della sua
autostima attraverso strategie adattate alle sue possibilità e al contesto familiare.
Accompagnare il
bambino nella
risoluzione delle
difficoltà
Risposte
comportamentali
Indicare percorsi
che lo portino a
scoprire le proprie
potenzialità
Sottolineare le
capacità e i punti
di forza
Accettare il
bambino
promuovendo
la costruzione
dell’autostima
Risposte
affettive
Accettare i
bambini
incondizionatamente
Fig. 6 Quarta dimensione che unisce l’accettazione del
bambino nella sua unicità e la costruzione dell’autostima
99
5) Fornire modelli positivi promuovendo la costruzione di una visione fiduciosa
sul proprio avvenire
Tra le varie storie che hanno costituito il materiale elaborato in quest’analisi, in
vari modi e attraverso diverse narrazioni emerge una comprensione dei limiti che i
genitori percepiscono circa l’esercizio delle funzioni genitoriali verso i figli in
affido. La presa di coscienza sul fatto di non poter cambiare il passato, e
nemmeno stravolgere il presente, ma di dover costruire a piccoli passi una
quotidianità fatta di tentativi per riequilibrare e riadattare, hanno connotato tutte le
storie di affidi, incontrate lungo questo percorso. Le consapevolezze sul fatto di
non poter nemmeno conoscere a pieno i vissuti e l’assenza di garanzia sul poterci
essere nel futuro prossimo di questi bambini, sono gli aspetti entro cui è confinata
la genitorialità nella maggioranza dei contesti di affido. Nelle finalità educative è
sempre stato descritto un accompagnamento verso una meta sconosciuta e
tentativi per avvicinare i bambini a una visione più ottimistica di sé e del proprio
avvenire.
È stato possibile delineare una quinta e ultima dimensione emergente, in cui si
afferma che la costruzione del cambiamento avviene attraverso le piccole scelte di
tutti i giorni. Questa dimensione conduce i giovani a comprendere il senso della
famiglia, del vivere relazioni stabili, consente di respirare e vivere il clima
familiare, la quotidianità e poter avere uno sguardo più confidente sul proprio
futuro.
“La genitorialità verso questi ragazzi è una genitorialità molto di
compensazione… devi cercare di mettere in campo delle cose di cui loro hanno
bisogno; e di accompagnamento… cioè di fare un pezzo di strada con loro,
sapendo che non salvi nessuno, che non sei determinante, ma che puoi essere lì
vicino. Che non significa ‘fate quello che volete’, anzi, dal punto di vista
educativo sono molto più impegnativi loro che non nostro figlio. Nel senso che
devi ricostruire con loro dei patti, delle cose in comune che prima non avevi […].
Il vantaggio rispetto alla genitorialità biologica è che forse ci permette di saper
100
fare delle scelte di priorità che con nostro figlio magari non avremmo fatto.
Perché ti aiuta a spendere molte energie e risorse sulla alla relazione educativa,
che magari invece non avresti fatto.”
“Non sappiamo quanto resteranno e se ci saremo nei loro problemi futuri. Non
sappiamo neanche cosa possiamo fare esattamente per loro adesso. Bisogna
avere pazienza, fare un passo alla volta. Intanto loro respirano l’aria di una
famiglia in cui c’è affetto, serenità… Male non gli fa. Non possiamo cambiare
tutto il loro mondo con la bacchetta magica.”
Sono i piccoli cambiamenti e i gesti di affetto e attenzione nella vita quotidiana
che hanno il potere di dirottare il percorso verso esiti più positivi, evitando il
pericolo. A livello comportamentale emerge che sono le modifiche specifiche
nella vita del bambino, come una nuova relazione di attaccamento, un
cambiamento di scuola, o la scoperta di un particolare talento ad avere il
potenziale per alterare la direzione in modo significativo, nel bene e nel male
(Schofield & Beek, 2005a): nell’immagine di Gibran (1926), una breve ma
potente folata di vento potrebbe cambiare la traiettoria di una freccia verso il
terreno accidentato.
In alcuni casi, però, la volontà di fare troppo, come per risarcire delle perdite
subite, ha portato a un eccesso, riconosciuto dagli affidatari come una smisurata
integrazione di attenzioni e benessere difficilmente tollerati dai bambini, proiettati
in realtà troppo lontane, quasi irrealistiche, quindi ancora meno stabilizzanti.
“Non si parla solo di affetto, ma anche di aspettative. Noi abbiamo innestato una
marcia troppo alta, nel senso che la qualità a cui li abbiamo sottoposti era
esageratamente alta per il loro standard. Abbiamo investito veramente come se
quei bambini avessero dovuto restare chi sa quanto tempo con noi. Era tutto
esageratamente spinto. Siamo arrivati a spingere talmente tanto che alla fine
abbiamo stressato tutta la nostra situazione, compresi i bambini.”
101
Ciò che però non è mai stato perso di vista è la volontà di dare gli esempi migliori,
fornire un modello familiare di serenità da poter poi recuperare nel proprio futuro,
dove le dinamiche tra fratelli, tra genitori e figli e tra i genitori stessi fossero
caratterizzate da interazioni in cui non prevalessero violenza, aggressività, dove il
clima non fosse di paura e tensione. La risposta, a livello affettivo, si sostanzia nel
vivere un ambiente sereno in cui potersi sentire protetti, dove percepire la stabilità
anche tra le relazioni che uniscono i membri della famiglia. Tutto ciò viene di
seguito schematizzato (figura 7).
“Da una parte dai un modello di famiglia, ai ragazzi… quindi il fatto che loro
possano vedere com’ è una relazione tra due genitori e un figlio in senso positivo,
comunque normale… di una famiglia normale, pensiamo che sia un buon
modello.”
“Cerchiamo di fargli avere più esperienze, più bagaglio possibili, perché poi se li
porteranno dietro e potrà essere l’occasione di riscatto per loro per vedere che
un’altra famiglia e un altro modo di interpretare la vita è possibile.”
Risposte
affettive
Accompagnare il
bambino verso il
proprio avvenire
Fornire modelli
positivi
promuovendo la
costruzione di una
visione fiduciosa sul
proprio avvenire
Offrire modelli
rassicuranti di
relazioni affettive
familiari
Risposte
comportamentali
Fig. 7 Quinta dimensione che unisce l’importanza di fornire modelli
positivi e la costruzione di una visione positiva sul proprio avvenire
102
Quanto emerge, conferma che vivere in una quotidianità pervasa da modelli
positivi rappresenta un importante aiuto nella crescita sociale, domestica e
personale (Carmignani & Tonna, 2007).
3.6 Discussione
L’obiettivo conoscitivo della presente ricerca è stato quello di comprendere da
vicino l’esperienza umana dell’affido familiare, conoscere le rappresentazioni e i
vissuti caratterizzanti tale percorso rappresentato da una molteplicità di aspetti e,
potenzialmente, analizzabile da una vasta pluralità di prospettive, dati tutti gli
attori e le dinamiche coinvolti. Si è compreso quanto l’affido ampli la
rappresentazione di genitorialità che le famiglie hanno, introducendo una serie di
consapevolezze e pratiche prima non considerate.
Ci si è accostati alla realtà delle singole famiglie, cercando di evitare un’indagine
vincolata a concetti pre-catalogati che limitassero le direzioni verso cui orientarsi
nel corso dei colloqui. Sono state considerate, pertanto, le dimensioni studiate da
Berrick & Skivenes (2012), e da Schofield & Beek (2005b), come concetti
sensibilizzatori (Blumer, 1969), ovvero immagini che guidassero la ricerca,
rimanendo comunque flessibili e aperti alla possibilità di incontrare elementi
innovativi, processi emergenti, o aspetti non individuati nei precedenti studi. In
questo senso, le dimensioni da cui si è partiti hanno guidato la realizzazione della
ricerca, senza rappresentare schemi rigidi oltre i quali null’altro potesse essere
indagato e rilevato.
È bene specificare che la prospettiva con cui si guarda all’intervento genitoriale
nello studio sul Parenting plus si differenzia dalla prospettine nel lavoro sulla
base sicura (Schofield e Beek, 2005b; 2013). In particolare, il primo lavoro
descrive un modello in cui l’intervento avviene attraverso attività “con” e “per” il
bambino (partecipare con lui, considerare gli effetti che alcune relazioni hanno su
di lui, agire per rispondere alle sue necessità). La prospettiva dell’altro lavoro, è
rivolta soprattutto alla stimolazione di capacità personali, sentimenti e
consapevolezze. Un agire verso l’interno del bambino, verso il suo mondo
103
interiore. L’intenzione del presente lavoro è stata quella di fondere gli aspetti
comuni, unendo le prospettive in una dimensione unitaria, integrandole con aspetti
nuovi rilevati dall’esperienza di ricerca.
Partendo da tali presupposti è stato effettuato un confronto, con cui è stato
possibile constatare che la dimensione di partecipazione all’esperienza di
integrazione nel nuovo nucleo familiare descritte nel lavoro sul Parenting plus si
sovrappone per finalità alla dimensione dell’appartenenza familiare spiegata da
Schofield e Beek, intesa come accoglienza da parte del genitore, diretta allo
sviluppo di una maggiore serenità e alla percezione di rassicurazione e calore nel
contesto di vita. Tale dimensione è stata ritrovata e confermata anche dai risultati
ottenuti nello studio qui presentato.
Un altro elemento su cui è stato possibile riflettere è l’importanza di considerare la
relazione tra i tre principali attori coinvolti nell’esperienza di affido familiare
(bambino, famiglia di origine, famiglia affidataria) suggerita da Berrick &
Skivenes. Tale aspetto è riconducibile alla dimensione della funzione riflessiva
negli studi sulla garanzia di una base sicura di Schofield e Beek ed è stata ritrovata
e confermata anche dai risultati ottenuti in questo studio. Inoltre, gli aspetti
connessi al bisogno di rispondere alle necessità specifiche dei bambini e a quelle
legate al loro sviluppo (la terza dimensione nello studio sul Parenting plus),
richiamano le dimensioni di autoefficacia e fiducia nella disponibilità altrui
descritte da Schofield e Beek. Infatti, l’attenzione verso le necessità dei bambini,
spesso legate ai disagi vissuti nel loro passato, non può trascurare l’importanza di
favorire nel bambino la fiducia nella disponibilità degli altri ad aiutarlo. Questi
deve infatti essere sereno e fiducioso verso la puntualità del caregiver nel
raccogliere il suo bisogno e trovarvi risposta. In tutto questo, non deve però
percepirsi inadeguato e costantemente bisognoso di aiuto, l’intervento non può e
non deve provocare il sentimento di non riuscire a superare le proprie difficoltà in
autonomia. Tale connessione tra il bisogno di rispondere alle necessità dei
bambini e la promozione del sentimento di autoefficacia e di fiducia è evidente nei
racconti dei genitori intervistati. Viene a delinearsi così un costrutto più articolato
in cui il sostegno dell’autoefficacia per la costruzione delle autonomie è coinvolto
104
nel perseguimento di un sano sviluppo, insieme alla fiducia nella disponibilità
altri. Questa più complessa dimensione del caregiving si esprime con modalità
affettive e comportamentali strettamente connesse.
Conformemente a quanto appurato negli studi di Schofield e Beek legati
all’importanza di accettare incondizionatamente il bambino, facendolo sentire
voluto per come è, e accettato nella sua unicità, nella presente ricerca sono stati
ottenuti risultati che confermano questa dimensione. Dal punto di vista delle
famiglie affidatarie, operare sia a livello affettivo che comportamentale, con
l’obiettivo di costruire l’autostima del bambino, ha significato intraprendere strade
e modalità diverse a seconda del caso, della tipologia di affido e delle peculiarità
del bambino stesso, puntando sui talenti posseduti.
In aggiunta alle sopracitate dimensioni rilevate anche di Berrick e Skivenes, e alle
dimensioni studiate da Schofield e Beek, è stato possibile rilevare un nuovo
elemento, caratterizzante una grande quantità di agiti e riflessioni. Particolare
interesse è stato posto, infatti, sulla volontà e l’importanza di fornire modelli
positivi, attraverso la partecipazione alla vita domestica, fatta di relazioni sane ed
equilibrate; nonché la promozione di una visione fiduciosa, nei bambini, verso il
proprio futuro che, proprio a causa della difficile condizione che ha portato
all’affido, sarà probabilmente più tortuoso e costellato da sfide ardue. Secondo
tutte le famiglie intervistate, la partecipazione alla vita familiare sarebbe
l’elemento centrale attorno al quale costruire una genitorialità di alto livello, fatta
sì di pratiche, ma anche di riflessioni e spunti tratti dall’osservazione della
quotidianità e utili per il proprio futuro.
Con questa ricerca è stato possibile individuare cinque dimensioni definenti una
genitorialità di alto livello, mediante le quali sia possibile ripartire e
accompagnare il minore in uno sviluppo più armonico e predisponente le
condizioni migliori per il suo futuro. Il concetto di stimolazione della resilienza
parte dalla valutazione del potenziale dei bambini. Parlando delle storie di vita di
un
bambino
esperienze
si
avverse
rivela
necessario
affrontate
riflettere
abbiano
sulla
possibilità
che
le
avuto un effetto sensibilizzante
105
predisponendo o meno il bambino al superamento delle sfide presenti e future
(Schofield e Beek, 2005a).
Il modello emergente descrive, pertanto, le dimensioni di
-
partecipazione all’integrazione nel nuovo nucleo, promuovendo il senso di
appartenenza alla famiglia
-
considerazione della relazione tra il bambino, la famiglia affidataria e
quella di origine, promuovendo la capacità riflessiva
-
risposta ai bisogni del bambino, promuovendo il sentimento di
autoefficacia e la fiducia nella disponibilità altrui
-
accettazione
totale
del
bambino
promuovendo
la
costruzione
dell’autostima
-
contatto con modelli positivi, promuovendo la costruzione di una visione
fiduciosa sul mondo e sul proprio avvenire.
Queste
dimensioni
possono
essere
descritte
nel
seguente
modello
multidimensionale (Modello 1).
Mod. 1 Le cinque dimensioni fondamentali per una buona genitorialità
nei contesti di affido familiare
106
Tale modello viene a definirsi come sintesi dei modelli di partenza, confermando
e fondendo le dimensioni già identificate che definiscono una genitorialità di alto
livello. In aggiunta, viene presentata una nuova dimensione, per certi aspetti
sottesa nei modelli precedenti, nei quali, tuttavia, non si fa riferimento in modo
esplicito ad una pratica che mira a cambiare la prospettiva dalla quale il minore
osserva sé e il suo futuro. Tale dimensione è risultata centrale dall’elaborazione
dei dati raccolti, in quanto sempre presente nei racconti dei genitori affidatari che
hanno parlato delle loro esperienze di affido. Il concetto riguarda valore che il
contatto con i modelli positivi della famiglia affidataria ha sul futuro del bambino.
In questo senso il fatto di non conoscere abbastanza il suo passato e non poter
garantire una vicinanza nel futuro (da sempre stato rappresentato come un limite
dell’affido) viene rivestito di un nuovo significato. L’importanza della costruzione
di abitudini e i vissuti di calore e protezione non perdono di valore se trasportati
nel futuro, ma diventano elementi generatori, capaci di fornire i modelli da cui,
poi, il giovane partirà per costruire la propria vita. Oltre ad agire nelle sue
esperienze future, questi modelli positivi hanno un valore anche nel suo presente:
il bambino si sente, infatti, protetto e al riparo nell’ambiente familiare e
circondato dalle cure dei genitori affidatari. Tale vissuto contribuisce, come
confermano i racconti delle famiglie, alla stabilizzazione e al mantenimento di una
serenità e della percezione di sicurezza del minore che, pertanto, costruisce
un’immagine di sé più positiva, capace, meritevole di successi, quindi più
fiduciosa verso ciò che l’aspetterà.
107
Conclusioni
Come già rilevato in precedenti ricerche (Mazzucchelli, 1993; Milani, 2007;
Berrick, 2008; Seveso, 2010), i risultati confermano che una genitorialità di alta
qualità nei contesti di affido è caratterizzata non solo da efficaci capacità
genitoriali in generale, ma da una serie di riflessioni e agiti che consentono di
superare le sfide incontrate e i disagi connessi ai vissuti, quelli dei minori, di cui
non si può avere piena conoscenza. Aiutare i bambini ad affrontare le loro
difficoltà derivanti da esperienze dolorose e abbandoniche, significa aprire la
propria genitorialità a dimensioni educative articolate a livello affettivo e
comportamentale, che sempre si devono adattare alla condizione specifica del
bambino in affido.
Dalle risposte dei genitori è emerso un arricchimento della loro rappresentazione
delle funzioni genitoriali, secondo cui una genitorialità di alto livello non si
definisce tale attraverso la mera pratica di specifiche azioni prescritte e sempre
valide. La considerazione della condizione specifica di ciascuno e della
provenienza originaria sono fondamentali nell’orientare l’accoglienza e le
strategie educative. Individualizzare, nella buona pratica genitoriale, significa,
quindi, comprendere chi si ha di fronte e tenere in mente il meglio per lui.
Con questa ricerca è emersa chiaramente la linea educativa dei genitori che
portano avanti affidi di successo costruendo piccole abitudini, rassicurando i
bambini con calore famigliare e rendendoli partecipi delle relazioni quotidiane tra
i membri. L’obiettivo di questi affidi è la percezione di sicurezza del minore che si
sente parte di un sistema, coinvolto e degno di attenzione e amore, e costruisce
un’immagine di sé più positiva, capace, meritevole di successi, quindi più
fiduciosa verso ciò che l’aspetterà. L’originalità di tale risultato sta soprattutto nel
superamento dei limiti che l’indeterminatezza dei confini temporali pone per
percorsi come quello dell’affido, in cui non ci sono evoluzioni certe.
La tenacia e la fiducia che ho trovato nelle famiglie mi ha fatto comprendere
quanto sia difficile costruire e alimentare il rapporto con i bambini affidati,
sapendo che questi non saranno lì per sempre, che non li si potrà proteggere, né si
potrà sapere come le loro esistenze evolveranno. La forza che sta alla base di una
108
scelta come quella dell’affido è tutto ciò su cui i bambini possono contare e senza
la quale un affido non potrebbe durare e concludersi positivamente: l’insistenza
delle famiglie nell’inserire i bambini nella quotidianità più prevedibile, ma anche
ricca di tutte quelle richieste ambientali che una famiglia è tenuta a soddisfare per
mantenersi unita e integra, è fondamentale per il futuro del minore. Infatti non è
possibile pensare soltanto al momento difficile che il bambino si trova ad
affrontare, in assenza dei suoi genitori biologici, ma bisogna considerare la
ripercussione che questo ha sul suo avvenire, sia al livello di opportunità
materiali, ma soprattutto al livello delle personali convinzioni su chi si è e chi si
può diventare. In momenti determinanti per la crescita del sé, molte persone
potrebbero essersi sentite non autenticamente riconosciute da chi le stava
accudendo, aver patito una profonda dissintonia con chi costituiva un riferimento
affettivo e ideale, o aver avuto esperienze di scarsa protezione, come bambini
provenienti da contesti affettivamente deprivati, bambini abusati, denigrati,
abbandonati. Tali eventi concreti hanno una ricaduta sull’autostima e sul senso di
agency (Young & Klosko, 2004) per cui le persone credono che ciò che succede
loro nel presente, sia ciò che meriteranno anche nel futuro e se così non sarà si
attiveranno perché questo si perpetui per sempre. In conclusione è possibile
affermare che l’azione diretta dei genitori affidatari, costituisce nel presente il
contesto all’interno del quale maturare una visione fiduciosa sul proprio avvenire,
godendo della protezione del contesto affidatario. Allo stesso tempo, essa
rappresenta il modello da utilizzare, quindi da riproporre per sé stessi, nella
propria vita, anche lontano nel tempo e nello spazio dall’esperienza dell’affido e
dai suoi attori. La conferma dell’essere meritevoli di affetto, successi,
soddisfazioni rappresenta la possibilità di uscita dalla trappola della convinzione
di essere predestinati a sorti sfavorevoli.
Interessante, fra gli sviluppi futuri della ricerca, la possibilità di esplorare il
vissuto degli stessi bambini, coinvolti negli affidi. Attraverso ricerche
longitudinali potrebbe essere utile, coinvolgere chi è stato al centro dell’affido,
anche dopo il termine dello stesso. Conferme ai risultati potrebbero provenire,
infatti, dai loro racconti su come il loro percorso sia proseguito e di come,
109
secondo il loro punto di vista, tale esperienza abbia influito positivamente. I
risultati consentirebbero di mettere a confronto le due prospettive, dirigere più
consapevolmente le nuove decisioni di collocamento e le scelte educative delle
famiglie affidatarie, imparando dalle esperienze pregresse.
Limite della presente ricerca è stata, per l’appunto, la considerazione del solo
punto di vista delle famiglie: aver valutato anche il parere dei Servizi sociali sui
casi di affido in oggetto avrebbe potuto ampliare gli orizzonti, rileggendo
l’operato del genitore più oggettivamente, alla luce di quelle che sono le reali
possibilità migliorative nel corso dell’affido e delle problematiche del minore.
Anche estendere numericamente il campione di famiglie, quindi di bambini
coinvolti nell’affido, risulta essenziale.
Inoltre, il confronto tra le evoluzioni e gli esiti degli affidi nelle diverse aree
geografiche, potrebbe essere arricchente per tutti gli attori coinvolti, darebbe
indicazioni sulla strada migliore da intraprendere e su quelle che si sono rivelate
meno fruttuose, orientando al meglio il lavoro dei professionisti (assistenti sociali,
psicologi, formatori, educatori).
110
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120
Allegato 1

Cosa vi ha spinto a pensare all’affido?
Quale esperienza cercavate?
Avevate paure?
Avevate perplessità?
Avete pensato all’affidamento come un percorso che prevede un distacco
finale, anche doloroso?

Quando è iniziato l’affidamento, quali sono state le reazioni nel primo
contatto?
Primi pensieri?
Prime emozioni?

In quale modo la/il bambina/o mantiene il legame con la sua famiglia
d’origine? E come questo si ripercuote nelle relazioni con voi?

Come avete percepito la vostra scelta, vista dagli occhi degli altri?
Qualcuno si è opposto, o vi ha restituito punti di vista negativi?
Qualcuno vi ha agevolato in questo percorso?

Cosa avete fatto per
Partecipare all’esperienza di integrazione in una nuova famiglia?
Considerare la relazione tra minore, famiglia d’origine e famiglia
affidataria?
Rispondere ai bisogni speciali del minore?
121
DIMENSIONI
RISPOSTE
RISPOSTE
AFFETTIVE
COMPORTAMENTALI
Partecipazione
all’esperienza di
integrazione in una nuova
famiglia
Considerazione della
relazione tra minore,
famiglia d’origine e
famiglia affidataria
Risposte ai bisogni speciali
e di sviluppo del minore

In che modo siete intervenuti per favorire il suo sviluppo, migliorare la sua
situazione, promuovere le sue capacità in riferimento a diverse dimensioni:
L’autonomia? (Difficoltà riscontrate; reazioni; attività proposte; esiti)
………………………………………………………………………………………
La fiducia negli altri? (Difficoltà riscontrate; reazioni; attività proposte; esiti)
………………………………………………………………………………………
L’autostima? (Difficoltà riscontrate; reazioni; attività proposte; esiti)
………………………………………………………………………………………
Il percepirsi parte della famiglia? (Difficoltà riscontrate; reazioni; attività
proposte; esiti)
………………………………………………………………………………………
Rielaborare i propri vissuti? (Difficoltà riscontrate; reazioni; attività proposte;
esiti)
………………………………………………………………………………………

La vostra idea di genitorialità è cambiata?
Se sì come interpretate l’essere genitori adesso?
Se la vostra rappresentazione si è ampliata, di quali elementi si è arricchita?
122