RASSEGNA STAMPA

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venerdì 5 settembre 2014
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Da Redattore Sociale del 05/09/14
Non profit, arriva la beffa di Imu e Tasi:
“Distruggerà le piccole associazioni”
Nuova puntata nei rapporti tesi fra fisco e non profit. Mentre è in corso
la campagna contro l’Iva sulle donazioni, all’orizzonte si profila
“l’ennesimo disastro” causato da regole confuse e criteri incerti: “Sarà
un calvario e un salasso”. Approfondimento su RS
ROMA – La battaglia contro l’Iva sulle donazioni è in pieno corso, quella contro l’Imu e la
Tasi è sulla rampa di lancio. Sono a dir poco effervescenti, in queste settimane, i rapporti
fra il fisco e il mondo del non profit italiano, e per una protesta che sta ormai sfondando il
muro del silenzio che per anni l’ha caratterizzata, una seconda si prepara ad essere
lanciata con forza. Di mezzo ci sono Imu e Tasi, le imposte sugli immobili che anche gli
enti non commerciali dovranno versare di qui a poco: una tassazione le cui regole
vengono definite dai diretti interessati quanto meno pasticciate e che si tradurrà in un altro,
l’ennesimo, colpo al cuore per l’esistenza stessa di molte piccole realtà associative. La
protesta dunque, che già a luglio era stata lanciata dal Forum del terzo settore e che nei
prossimi giorni sarà rilanciata a dovere, mira ad evitare “l’ennesimo disastro” per un
mondo non profit che si sente sempre più tartassato e sempre meno aiutato nello svolgere
quelle attività che pure – secondo quanto viene riconosciuto - hanno ricadute sociali
positive.
La lotta contro l’Iva sulle donazioni, che di tanto in tanto in passato aveva fatto capolino,
per poi ritornare in breve tempo nel dimenticatoio, ha ricevuto un’energica (e chissà se
decisiva) scossa dalla campagna promossa negli ultimi giorni dal Corriere della Sera e dal
Tg La7, che dopo aver raccolto circa tre milioni di euro con l’iniziativa “Un aiuto subito”
(seguita al terremoto che ha colpito l’Emilia nel 2012) si sono resi conto che su quella
somma – spesa quasi totalmente per realizzare un polo scolastico a Cavezzo, uno dei
paesi più colpiti – bisognava pagare l’Iva. Iva “agevolata”, certo (aliquota al 10%), ma pur
sempre Iva: e alla cassa, lo Stato ha preteso 300 mila euro. Contro lo Stato “esoso
esattore” è così partita una campagna (sui social network con l’hashtag #NoProfitNoIva) al
grido di “la solidarietà non va tassata”, che ha trovato numerose sponde e che è destinata
a giocare un ruolo dentro il grande cantiere della riforma del terzo settore, nella quale è
previsto un generale riordino della normativa fiscale sul non profit (dentro questa partita,
per dirne una, c’è un’altra annosa questione, quella dei vantaggi fiscali – oggi non proprio
così vantaggiosi… - riconosciuti a chi effettua donazioni ad associazioni e organizzazioni: i
confronti con le norme per i partiti o per la cultura sono eloquenti).
La battaglia contro Imu e Tasi è invece solo ai nastri di partenza ma è a suo modo
indicativa di come il non profit si senta ormai quasi accerchiato da un fisco capace di
diventare un vero ostacolo alle sue attività. Un ostacolo non solo economico, ma anche e
soprattutto burocratico. I criteri e le regole per calcolare l’imposta dovuta da ogni ente non
commerciale sono stati definiti dal ministero dell’Economia, ma il provvedimento – ed è un
eufemismo - non brilla proprio per chiarezza. Il Forum del terzo settore sottolinea
l’assoluta incertezza del criterio base, quello che fa ruotare la tassazione (o la non
tassazione) sul concetto di “attività svolta con modalità commerciale” (o non commerciale);
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dubbi e incertezze che tali erano e tali sono rimasti anche dopo i “chiarimenti”, o presunti
tali, del ministero dell’Economia.
Ma alle regole oggi in vigore vengono rimproverati anche degli errori grossolani di calcolo
sulla determinazione della base imponibile, con la chicca, davvero notevole, di una
sommatoria diretta di percentuali che fa a pugni con la matematica e che sarebbe motivo
di grossi guai, se non proprio di una sonora bocciatura, per ogni semplice studente della
scuola dell’obbligo. Insomma, fra criteri incerti, errori di calcolo, basi imponibili che si
gonfiano come per magia e un modello da compilare le cui istruzioni più che semplificare
complicano ulteriormente le cose, la certezza è che fare le dichiarazioni Imu e Tasi sarà
per le realtà del non profit un vero e proprio calvario, cui seguirà (se il calcolo non sarà
corretto) il vero e proprio salasso dell’effettivo esborso.
Il provvedimento del ministero dell’Economia che ha approvato il modello di dichiarazione
Imu e Tasi per gli enti non commerciali è dell’inizio di luglio, e il grido di dolore e di stupore
del Forum terzo settore è stato immediato: “Basta penalizzazioni per il non profit”, tuonava
il giorno dopo il portavoce Pietro Barbieri. Un grido che però – e intanto sono passati due
mesi - non ha ancora trovato ascolto. Si ipotizza un tavolo tecnico al ministero
dell’Economia per affrontare la questione, ma la materia appare complessa, l’estate è
passata e le scadenze di pagamento si avvicinano (la prima è il prossimo 16 ottobre).
Insomma, ancora qualche settimane e poi sarà la solita lotta contro il tempo.
In tutto questo, l’aspetto che dal Forum del terzo settore mettono in evidenza è che la
problematica Imu–Tasi è destinata ad abbattersi, nel giro di qualche settimana, su realtà
portate avanti molto spesso dal volontariato, che in genere non hanno grandi disponibilità
finanziarie e soprattutto non hanno la possibilità di affidarsi ad una figura strutturalmente
preparata, sia esso un commercialista o un fiscalista. “Se tu scarichi tutte queste difficoltà
su una piccola associazione che fonda la sua attività sul volontariato, la prima cosa che
succede è che le persone pensano: io non voglio più grane, ma chi me lo fa fare, lascio
perdere tutto. E così stai distruggendo un patrimonio”.
A parlare così è Giuliano Rossi, responsabile dell’Ufficio studi dell’Arci, coordinatore del
tavolo tecnico legislativo del Forum nazionale del terzo settore: è lui che ha seguito da
vicino l’intera partita della tassazione Imu e Tasi per gli enti non commerciali e che –
nell’approfondimento di RS, l’agenzia di Redattore sociale (area abbonati) – ci aiuta a
mettere in evidenza le ambiguità e gli errori della normativa attuale. (ska)
Da Repubblica.it (Napoli) del 05/09/14
Scampia, torneo nazionale di calcio dedicato
al ragazzo disabile vittima innocente della
camorra: in centinaia da tutta Italia
di ANNA LAURA DE ROSA
Scampia, torneo nazionale di calcio dedicato al ragazzo disabile vittima innocente della
camorra: in centinaia da tutta Italia(lapresse)
Un campeggio nel cuore di Scampia per accogliere centinaia di ragazzi giunti da tutta
Italia. Sono i giovani che fino a domenica disputeranno "Libera in goal", il torneo calcistico
nazionale dedicato a una vittima innocente di camorra. Nel quartiere a Nord di Napoli si
ricorderà così Antonio Landieri, il 25enne diversamente abile ucciso nel novembre 2004
durante la faida tra scissionisti e Di Lauro.
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I ragazzi hanno già sistemato le tende nel centro sportivo "Arci Scampia" gestito da
Antonio Piccolo, che per il terzo anno consecutivo ospiterà il torneo promosso
dall'associazione VodiSca e dalla triestina Rime in collabrazione con Libera. Per 4 giorni i
giovani giocatori si sfideranno in campo di mattina, mentre nel pomeriggio gireranno per il
quartiere e la città per incontrare realtà del territorio impegnate a raccontare un'altra
Scampia.
E' "un ponte straordinario tra Trieste e Scampia nel ricordo di Antonio Landieri - spiega
Rosario Esposito La Rossa dell'Associazione Vodisca - Una manifestazione utile a livello
nazionale per sfatare miti sul quartiere Scampia, per valorizzare realtà poco raccontate dai
media. Decine di artisti scenderanno in campo, associazioni, teatri, scuole calcio, catering,
librerie e fattorie. Sarà una vera e propria festa per il quartiere".
Il programma è fitto. Il 4 settembre le mamme dei ragazzi dell'Arci Scampia offriranno una
cena ai partecipanti nel centro sportivo. Seguirà uno showcase del sassofonista Pino
Ciccarelli, che presenterà il suo ultimo cd Trasparenze. Il giorno seguente si visiterà "La
Kumpania", servizio di catering sociale di Scampia che unisce napoletane e donne rom.
Seguirà la piantumazione dell'Albero Landieri presso le Fattorie Vodisca, progetto di
agricoltura sociale a Chiaiano. Il 6 settembre lo sportello anticamorra di Scampia, gestito
dall'associazione Resistenza, sarà dedicato ad Antonio Landieri. Nel pomeriggio il gruppo
visiterà il bene confiscato di Chiaiano dedicato ad Amato Lamberti e la libreria
Marotta&Cafiero Store presente nel teatro Bellini, dove sarà presentato il libro di Luca
Bifulco e Francesco Pirone "A tutto campo".
La manifestazione si concluderà con la premiazione dei vincitori del torneo e una festa di
saluto all'ivoriano Dada Ismaila Traorè, membro dell'Associazione Vodisca che dopo 7
anni in Italia tornerà in Africa per attivare una Fattoria Sociale, grazie al sostegno dello
chef Pietro Parisi.
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/09/04/news/scampia-95021118/
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ESTERI
del 05/09/14, pag. 6
Obama striglia gli Alleati “Sicurezza
minacciata adeguare le missioni Nato”
Contro Putin pronte nuove sanzioni americane, europei cauti Usa irritati
con Hollande, al vertice oggi si parla di Siria-Iraq
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO INVIATO
NEWPORT .
Barack Obama richiama gli alleati europei perché si adeguino alle «nuove missioni della
Nato sui fronti vicini, Ucraina e Iraq-Siria, dove la sicurezza dell’Occidente è minacciata».
L’America ha già pronte nuove sanzioni contro la Russia, l’Europa si adegua almeno in
linea di principio «perché Vladimir Putin ci veda uniti, senta nei fatti l’efficacia della nostra
condanna ». Nuovi aiuti anche militari all’Ucraina, con forniture di armi e assistenza
all’addestramento delle sue truppe, anche se la soluzione privilegiata resta quella politicodiplomatica. La vocazione della Nato si estende al nuovo fronte in Medio Oriente, e anche
qui l’Europa è in prima linea: «Centinaia di jihadisti con passaporti europei sono pronti a
tornare sul Vecchio continente per attentati terroristici, l’attacco al centro ebraico di
Bruxelles a maggio è stata un’avvisaglia, il segno precursore di quello che può avvenire».
«Per dieci anni la Nato ha combattuto in Afghanistan, ora le missioni tornano ad essere
vicinissime, è la sicurezza dell’Europa in prima linea». Il consigliere per la sicurezza di
Obama, Ben Rhodes, dà il senso di questo summit «storico» a Newport nel Galles. Ne
sente tutta l’importanza anche Putin che proprio in coincidenza di questo vertice ha
lanciato il suo piano per una tregua. Il segretario della Nato Rasmussen e la Casa Bianca
diffidano. Il sospetto è che il cessate il fuoco da parte della Russia sia «fumo negli occhi»
(Rasmussen), il tentativo di bloccare la reazione atlantica e soprattutto di impedire che
l’Ucraina finisca nell’orbita dell’Occidente. La
Nato «appoggia il presidente ucraino Poroshenko nella sua azione per raggiungere una
tregua che salvaguardi la sovranità del suo paese». E’ il punto-chiave: sovranità. Guai se
la tregua avviene sulla base dei diktat di Putin, con l’Ucraina di fatto divisa, preludio per la
secessione e l’annessione delle regioni orientali alla Russia. Per aumentare il potere
negoziale di Poroshenko, si «rafforza il rapporto di associazione
tra la Nato e Kiev». Diversi paesi dell’Alleanza atlantica, a livello bilaterale, garantiscono
forniture all’esercito ucraino: tra questi Usa, Italia, Inghilterra, Francia.
Obama vigila sui segnali di sfilacciamento del fronte europeo. Non lo convince il
comportamento di Francois Hollande. Il presidente francese si è esibito in un balletto di
dichiarazioni sulle forniture di portaerei Mistral
a Mosca: prima bloccate, poi solo “rinviate”, con la promessa a Putin che «saranno
consegnate non appena c’è la tregua in Ucraina». Poi lo stesso Hollande lancia l’idea di
un vertice in Francia con Putin, Merkel, Poroshenko. Rischia di dividere il fronte Nato?
Anche sul nuovo giro di sanzioni, l’America è già pronta ma aspetta ad annunciare i
dettagli perché vuole una decisione altrettanto rapida e determinata
da parte Ue. Dovrebbero scattare sanzioni “settoriali” contro interi settori dell’economia
russa, dalla finanza all’energia, più sanzioni ad personam come quelle contro il ministro
della Difesa russo. «Quando ci muoviamo insieme — sottolinea Rhodes — abbiamo il
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massimo impatto». L’Europa accontenta Obama: in linea di principio dà il suo accordo di
massima alle sanzioni, ma ne rinvia l’applicazione nel caso arrivi la firma della tregua. Poi
chi verificherà l’effettivo ritiro delle truppe russe? Ancora la Casa Bianca: «La Russia deve
continuare a pagare un prezzo per la sua escalation, deve sentire che noi aumentiamo la
pressione». La pressione economica finora ha avuto effetto zero: Putin non si è lasciato
impressionare dalle sanzioni precedenti. Da Newport arriva anche l’inizio di un riarmo Nato
sul fronte orientale. Sono atti limitati per la portata militare, anche per mancanza di mezzi;
hanno un significato simbolico, un segnale politico. C’è la creazione della forza di rapido
intervento, cinquemila uomini a rotazione tra i Paesi Baltici; la base militare in Polonia; il
rafforzamento delle pattuglie aeree e navali nel Baltico. L’Alleanza «apre la porta a
un’associazione sempre più stretta» per tre paesi cruciali: la Svezia e la Finlandia, due ex
neutrali; la Georgia, ex satellite sovietico che fu la prima ad assaggiare l’espansionismo di
Putin con la guerra del 2008. E’ proprio questo allargamento di fatto, che Putin vuole
bloccare.
L’Oriente vicinissimo cioè il confine russo. Il Medio Oriente e il Sudafrica. Sono i fronti caldi
che esigono un ripensamento di quello che la Nato era stata negli ultimi 25 anni. «Adesso
si fa un passo indietro — spiega la Casa Bianca — le nuove sfide sono qui nell’immediata
periferia dell’Europa. Dobbiamo adattarci velocemente alla realtà». Per «ricacciare indietro
e distruggere lo Stato islamico di Is», nella giornata finale del summit la Nato mette a
punto una visione strategica comune. Coinvolgendo le due potenze regionali che qui sono
state invitate: Obama ha già visto a Newport il re dell’Arabia saudita Abdallah, oggi
incontra il presidente della Turchia Erdogan. Ognuno avrà compiti diversi, nel caso che
Obama decida i raid aerei sulle basi di Isis in Siria è probabile che vi partecipi anche la
Gran Bretagna. Altri paesi Nato annunciano aiuti militari e addestramento per i peshmerga
curdi. Tra Putin e i jihadisti, la responsabilità della Nato viene ingigantita, il suo ruolo
rilanciato come ai tempi della guerra fredda. Obama richiama gli europei alle conseguenze
che devono trarne cioè l’adeguamento delle loro spese militari, in declino da anni: con
un’Europa che è in prima linea, il contribuente americano non vuole continuare a pagare il
70% del conto.
Del 05/09/2014, pag. 2
Vertice Nato: armi a Kiev, sanzioni a Mosca
Vertice di Newport. Il vertice Nato a Newport ribadisce il sostegno a
Poroshenko. Al via esercitazioni militari in Ucraina. Renzi: «Pronti a
nuove misure economiche»
Simone Pieranni
In quello che è stato presentato come il vertice Nato più importante degli ultimi
cinquant’anni, è giunta la notizia di una probabile tregua, prevista per oggi, in Ucraina.
Questo evento ha decisamente reso meno truce il vertice in corso in Galles, annunciato
nei giorni scorsi alla stregua di un appuntamento di «tutti contro la Russia». Nelle ore che
hanno preceduto l’incontro, erano arrivate inoltre avvisaglie circa dispiegamenti di forze,
esercitazioni, «truppe di intervento rapido».
La Nato, sempre più impegnata a corteggiare la possibilità di un suo allargamento anche
in Ucraina (pronti 15 miliardi «atlantici» per la «sicurezza» di Kiev), aveva specificato
e sottolineato il proprio appoggio incondizionato al governo di Kiev, attraverso azioni precise: aiuto al governo uscito dalla Majdan, presenza militare massiccia nell’Europa orien6
tale, nuove sanzioni contro la Russia di Putin. Ieri un articolo sul The Times a firma Cameron e Obama, spiegava in modo preciso le intenzioni dell’Alleanza atlantica. «La Russia ha
violato le regole con la sua annessione illegale della Crimea e con l’invio di truppe minacciando le fondamenta di uno Stato sovrano», hanno scritto i leader di Stati uniti e Gran
Bretagna. «Con la Russia che prova a forzare uno Stato sovrano ad abbandonare il suo
diritto alla democrazia e che decide il suo avvenire con le armi, dovremo sostenere il diritto
dell’ Ucraina a decidere del suo proprio avvenire democratico e proseguire nei nostri sforzi
per rafforzare i mezzi dell’ Ucraina».
Nell’intervento è scritto che l’Alleanza dovrebbe mettere in piedi una presenza «permanente» nell’Europa dell’ est sostenuta da una forza di reazione rapida composta da forze
speciali terrestri, aeree e marittime che potrebbero «essere dispiegate ovunque nel mondo
in tempi molto rapidi». Obama e Cameron hanno poi richiamato gli altri membri della Nato
a rispettare l’obiettivo di consacrare almeno il 2% del loro Pil alle spese militari, al fine di
mostrare che «la nostra risolutezza collettiva è più forte che mai». Per quanto riguarda il
dispiegamento delle forze, ieri è arrivata l’ufficialità: saranno circa 1.300 i militari provenienti da 15 paesi della Nato e non (Georgia, Azerbaijan e Moldavia) che parteciperanno
alle manovre «Rapid Trident» in Ucraina. Gli Usa schiereranno circa 200 parà.
L’esercitazione è stata programmata dal 15 al 26 settembre. Nelle manovre, ufficialmente
guidate da Ucraina e Usa, anche rappresentanti della Nato e soldati di Bulgaria, Germania, Gb, Lettonia, Lituania, Norvegia, Polonia, Romania, Spagna e Canada. Per l’Italia, sul
tema, è intervenuto il primo ministro Matteo Renzi, accodatosi alla posizione comune europea, a traino degli Usa e della Nato. «Gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco devono
essere sostenuti con forza. C’è una priorità umanitaria da indirizzare. Spero che un effettivo e durevole cessate il fuoco possa realizzarsi presto sulla base dei colloqui del presidente Poroshenko con il presidente Putin. Putin, dal canto suo, deve portare fatti e non
parole». Renzi avrebbe specificato queste opinioni, insieme ad un consenso a nuove sanzioni contro Mosca («Siamo pronti ad allargare il campo di misure restrittive nella finanza,
nella difesa, tecnologie sensibili e beni dual use»), nonostante gli allarmi di imprenditori
italiani, gravemente colpiti dalle misure economiche anti Cremlino e dalle reazioni di
Mosca. Le posizioni italiane sono state espresse durante l’incontro a cui hanno partecipato
Barack Obama, i leader Ue e il presidente ucraino Petro Poroshenko.
In serata l’Ue ha frenato sulle sanzioni:«Aspettiamo il corso degli eventi». Il segretario
generale Rasmussen ha infine illustrato alcune caratteristiche dell’eventuale sostegno militare dei paesi dell’Alleanza a Kiev, confermato in giornata dal leader ucraino Poroshenko:
«La Nato, ha detto il segretario generale, in quanto alleanza, non è coinvolta nella consegna di forniture militari, perché non possiede capacità militari. Sono invece i singoli Paesi
alleati che le possiedono e queste decisioni sono nazionali e non non interferiremo». Sul
fronte dei rapporti europei-russi, infine, da sottolineare l’apparente dietrofront francese per
quanto riguarda la vendita dei portaelicotteri Mistral.
Mercoledì l’Eliseo aveva annunciato di aver bloccato la consegna del primo Mistral, già
pagato da Mosca. Ieri invece, al primo vagito di una possibile tregua, Hollande ha precisato: «Se arriverà una soluzione politica, consegneremo la nave alla Russia». Con un
sospiro di sollievo, visto il miliardo e duecentomila euro già incassati e il rischio di multe
successive alla mancata consegna.
del 05/09/14, pag. 7
A Donetsk si continua a combattere
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DAL NOSTRO INVIATO
PAOLO BRERA
MOSCA .
Si muore così, a un incrocio a Donetsk, con la pace dietro l’angolo ma le bombe ancora
sulla testa. Un’auto in fiamme, palazzi distrutti, un lenzuolo sul corpo di una donna. Il
copione si ripete identico, come il 26 agosto dopo la stretta di mano decisiva tra Putin e
Poroshenko a Minsk: l’annuncio di una svolta nei negoziati si traduce sul campo di
battaglia in uno sforzo in più per spostare l’asticella a proprio vantaggio, per conquistare
ettari di vite umane prima che un vero accordo di pace — se mai arriverà — fotografi lo
status quo, surgelando la linea del fronte. Si combatte ancora attorno alla povera Lugansk,
devastata dal lungo assedio dell’esercito ucraino e dei volontari lealisti: «La città odora di
morte. I civili stanno morendo nel fuoco incrociato», twittava ieri sera il direttore tedesco di
Human Right Watch, Wenzel Michalski. E si combatte duramente intorno a Donetsk, e giù
fino all’angoscia di Mariupol, circondata dai carrarmati ribelli.
Dal disunito, incerto e litigioso governo della “Nuova Russia”, ieri è arrivata la conferma:
tutto è pronto per firmare oggi l’ordine di cessare il fuoco, «se si troverà l’accordo» nella
riunione a Minsk del “gruppo di contatto” cui partecipano inviati dei ribelli, del governo di
Kiev e dell’Osce. La telefonata di pace tra Poroshenko e Putin rivelerà presto la sua reale
forza: il presidente ucraino ha ribadito che firmerà il «cessate il fuoco permanente» per le
sue truppe già oggi, se arriverà l’accordo. Non ha alternative: l’aiuto militare concesso
dalla Russia ai ribelli quando rischiavano di essere sconfitti ha fatto fallire senza appello il
suo “Piano di pace”, basato sulla riconquista militare del Donbass per poi concedere una
minima autonomia a Est. Firmare un accordo oggi è l’ultima chance per non presentarsi
alle elezioni anticipate — che lui stesso ha convocato — come l’artefice di un disastro
ancora più grave.
Ecco perché i cannoni urlano come mai, prima che a Minsk si decida il destino del
Donbass e della sua povera gente. A Mariupol, nel crocevia strategico che collega la
frontiera russa alla Crimea, è una notte drammatica: i ribelli hanno lanciato blitz sfidando le
difese e minacciando l’assalto finale che potrebbe scattare all’alba, l’ultimo grande trofeo
di guerra da posare sul tavolo a Minsk. La speranza dei cinquecentomila abitanti della città
sul mar D’Azov è che si limitino a minacciare, senza attaccare in forza provocando una
carneficina. Ieri i colpi di artiglieria sono stati molti, e per la prima volta da giorni i check
point tra Mariupol e Novoazovsk non hanno lasciato passare nessuno: «Troppo
pericoloso, succede di tutto». L’intera strada tra Mariupol e Donetsk sarebbe tornata sotto
il controllo dei ribelli. Da oggi tutto questo potrebbe finire, ma il sentiero è accidentato e
insidioso.
del 05/09/14, pag. 15
Renzi cerca una linea d’equilibrio
Da Roma 90 mezzi corazzati per Kiev
Il premier: ma l’Alleanza non diventi un elemento di conflitto
DAL NOSTRO INVIATO CARDIFF — Il «balancing act», l’azione di riequilibrio di Matteo
Renzi è tutta in due frasi del suo intervento all’incontro preliminare tra i leader del «Quint»
(Usa, Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna) e il presidente ucraino Poroshenko.
«Dobbiamo evitare che la Nato venga percepita come ulteriore elemento conflittuale», dice
il presidente del Consiglio nel mini-vertice che precede l’inizio di quello atlantico. E
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invitando l’ospite venuto da Kiev a lanciare un «effettivo processo di riconciliazione
nazionale», aggiunge: «Riforme inclusive come quella costituzionale, la protezione delle
minoranze e una soluzione di lungo periodo per i rapporti con le regioni orientali del Paese
sono importanti».
Sul fondo, Renzi non concede nulla. I partner occidentali sono «uniti nel condannare il
comportamento della Russia». Le violazione e i principi della legge internazionale sono
inaccettabili. La risposta all’escalation militare di Mosca in Ucraina «dev’essere ferma e
pronta»: alle nuove sanzioni già approvate, stanno per aggiungersene altre in settori come
la finanza, la difesa e le tecnologie sensibili, cui l’Unione Europea sta lavorando. Quanto a
Vladimir Putin, «deve produrre fatti e non parole».
La Nato, secondo Matteo Renzi, può e deve giocare un ruolo politico, offrendo appoggio
concreto a Kiev. E l’Italia è pronta a fare la sua parte. Fonti diplomatiche dell’Alleanza
indicano che il nostro Paese potrebbe contribuire al Trust Fund atlantico per l’Ucraina e
anche considerare l’avvio di negoziati per la vendita al governo di Kiev di 90 veicoli
corazzati. Ma tutto questo potrebbe essere evitato se le parti in conflitto concordassero e
soprattutto mettessero in pratica una tregua effettiva e duratura, sulla base dei colloqui
odierni tra Poroshenko e il leader del Cremlino a Minsk.
La fermezza di Renzi si sposa però ad alcuni punti irrinunciabili — riconciliazione
nazionale, riconoscimento dei diritti delle minoranze, tutela dei civili, autonomie regionali
— totalmente condivisi sia da Germania e Francia, che confermano una differenza
quantomeno tattica con gli Usa e la Gran Bretagna. Di più, di fronte a Barack Obama e
David Cameron che di nuovo ieri, in un articolo sul Times di Londra, hanno riproposto il
tema di una «presenza persistente» della Nato nell’Europa dell’Est, il premier italiano
mette in guardia dal rischio che l’Alleanza si proietti, pur senza volerlo, come fattore di
ulteriore discordia.
Accenti diversi non possono però nascondere il forte messaggio di sostegno che viene dal
vertice atlantico, in favore dell’Ucraina e degli sforzi del suo presidente di trovare una
soluzione politica. Se questo rafforzerà oggi Poroshenko nella difficile partita di Minsk è
presto per dirlo. Ma la prospettiva di nuove e più dure sanzioni potrebbe rivelarsi un
argomento molto importante nelle trattative con Vladimir Putin.
Anche perché, lo ha spiegato ieri il ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini, anche
se oggi in Bielorussia un accordo venisse sottoscritto, «difficilmente sarebbe sufficiente»
da solo a fermare la macchina delle sanzioni, che già ora stanno mordendo l’economia
russa e sollevando molte perplessità fra gli oligarchi alleati del Cremlino. «Molto dipenderà
— ha detto il capo della Farnesina — dalla situazione sul campo e dalla capacità di
implementarlo, già altre volte abbiamo visto intese raggiunte rimanere senza
conseguenze. Bisognerà anche passare dalle parole ai fatti, a partire dal ritiro della
presenza militare russa sul territorio ucraino, dal blocco del flusso di armi attraverso la
frontiera e da una serie di altre questioni, come il rilascio degli ostaggi».
A Bruxelles il lavoro sul nuovo pacchetto di misure quindi procede senza soste, «perché le
sanzioni devono continuare a rimanere uno degli elementi della strategia complessiva».
Ma al vertice di Cardiff, così Mogherini, «abbiamo registrato l’accordo generale e la
consapevolezza che non ci sia soluzione militare alla crisi in Ucraina e che l’unica strada
sia quella della diplomazia e del dialogo, per mettere pace nell’Est del Paese».
Paolo Valentino
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del 05/09/14, pag. 15
E alla Davos dell’Est tornano i veleni della
Guerra fredda
Walesa: «Ma aiutare Kiev con le armi avrebbe portato allo scontro
nucleare»
DALLA NOSTRA INVIATA KRYNICA-ZDRÓJ (Polonia) — Babele all’improvviso. I
polacchi accusano, i tedeschi condannano, gli americani protestano, gli ucraini zittiscono i
russi a suon di applausi, gli interpreti neanche traducono. Smarrita la lingua comune,
saltati i codici del dialogo, resta un velenoso impasto di sospetti, equivoci, propaganda e
rabbia. Danno collaterale della più grave crisi tra Mosca e l’Occidente dalla Guerra fredda,
la regressione comunicativa dopo due decenni di faticose ricuciture è apparsa evidente al
Forum economico di Krynica, l’appuntamento che dal 1990 riunisce nella «Davos dell’Est»
i protagonisti della politica e del business dell’Europa centro-orientale e che quest’anno ha
fotografato un’incomunicabilità tornata ai tempi di Winston Churchill: «La Russia? Un
rebus avvolto nel mistero dentro a un enigma».
È la ricerca di «un sistema culturale e politico alternativo al nostro» a destabilizzarci, dice
l’ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski, una ricerca che contraddice il principio
universalmente accettato nell’era post-sovietica: il primato della via occidentale alla
democrazia. Principio oggi apertamente messo in discussione a Mosca come a Budapest
e Pechino. Eppure, è con questi interlocutori che l’Occidente dovrà cercare un nuovo
ordine mondiale dopo aver superato la «grande delusione», nelle parole dell’eurodeputato
Janusz Lewandowski, ex commissario Ue per la Programmazione finanziaria e il Bilancio.
«Dopo il 1989 — sostiene Lewandowski — l’Europa ha creduto di poter accogliere la
Russia nella propria sfera di valori lasciandosi alle spalle muri e confini. Ora sappiamo che
era un’utopia».
Sfere di valori e d’influenza che scontrandosi sul terreno ucraino hanno fatto esplodere le
contraddizioni di un rapporto appesantito dallo storico senso di colpa europeo — in primis
tedesco — nei confronti dei «liberatori» della Seconda guerra mondiale. C’è anche questo,
oltre agli interessi economici e strategici, dietro certe resistenze ad andare allo scontro
aperto con Mosca. «Distruggersi a vicenda non può essere la soluzione», ribatte agli
appelli ad armare l’Ucraina il combattente Lech Walesa: «Un aiuto militare ai governativi
avrebbe aperto la strada a una guerra nucleare». Come sostenere Kiev? «Appoggiando la
modernizzazione economica e soprattutto quello spirito repubblicano dal quale sta
emergendo la nostra nuova identità nazionale», dice Taras Voznyak, politologo e direttore
della rivista ucraina «Ï».
Dall’altra parte, il sentimento russo di una costante demonizzazione. Tra fischi e applausi
di protesta, negli interventi dell’editore Igor Korotchenko o del giornalista Maxim
Shevchenko torna la contrapposizione tra «i legittimi interessi russi e le ipocrisie
dell’Occidente che non ha fatto nulla per fermare il bagno di sangue in Ucraina», fino al
paragone tra le aspirazioni dei separatisti armati del Donbass e le rivendicazioni
autonomiste di baschi e catalani. Toni esasperati che fanno perdere di vista lo sforzo di un
popolo per risollevarsi dopo il comunismo, l’implosione dell’Unione Sovietica, la perdita
dello status di grande potenza sempre inseguito nella storia russa. «È questa oggi la sfida
di Vladimir Putin — dice Hynek Kmonicek, capo del Dipartimento Esteri della Presidenza
ceca — restituire ai russi il rispetto per il loro Paese. Dimenticando però che il futuro della
Russia siamo noi».
Il sogno di un’Unione Europea che travalichi gli Urali non è tramontato.
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Maria Serena Natale
Del 05/09/2014, pag. 3
Ucraina. I ribelli «pronti alla tregua»
Guerra. Previsti corridoi umanitari per il transito di profughi e di aiuti
umanitari
Fabrizio Poggi
Mentre le agenzie riportavano ieri, tra le 15 e le 17 (ora italiana), fasi alterne di azioni di
guerra attorno a Mariupol — a est della città le milizie attaccavano; i soldati ucraini respingevano l’attacco; le milizie attaccavano a sud e il comandante del battaglione «Azov»
accusava di tradimento i propri comandi che non aprivano fuoco di copertura — più
o meno alla stessa ora Interfax scriveva che Poroshenko, dal Galles, e le «Repubbliche
popolari» (le fonti russe usano sempre il virgolettato o il termine autoproclamatesi) si dicevano pronti al cessate il fuoco, che potrebbe entrare in vigore già oggi pomeriggio, se questa mattina il gruppo di contatto si riunirà a Minsk e se il piano di pace prenderà il via.
Molti i «se», che si aggiungono ai dubbi espressi l’altro ieri dalle milizie del Donbass, al
primo annuncio di accordo tra Putin e Poroshenko: «Non ho notizia di nessun accordo con
la Repubblica Popolare di Donetsk riguardo alla cessazione delle azioni di guerra», aveva
dichiarato il responsabile del dipartimento politico del Ministero della difesa della Rpd Vladislav Brig. «Poroshenko non ha il controllo dei battaglioni punitivi; essi non sottostanno
alle sue decisioni». In ogni caso, Interfax assicurava che i piani di pace di Putin e Poroshenko in alcune parti «si intersecano», pur se Poroshenko continua a chiedere che la
Russia cessi i rifornimenti di armi e di uomini alle «repubbliche» e la Russia continua
a negare il proprio coinvolgimento nel Donbass. D’altra parte, Putin chiede che Kiev allontani le proprie artiglierie dalle città (ancora ieri mattina Ntv mostrava il cratere provocato da
una granata vicino al posto di frontiera di Voloshino, in territorio russo, nella regione di
Rostov) per evitare di colpire i civili, non usi l’aviazione contro i centri abitati e apra corridoi
umanitari per i profughi. Per parte sua, il Governo ucraino sembra per ora rimanere fermo
sul proprio piano di «Ricostruzione dell’Ucraina», che di pacifico sembra avere ben poco,
facendo perno su tre punti: il progetto «Muraglia», da attuarsi in sei mesi; la proclamata
intenzione di voler ricevere lo status di partner speciale della Nato e alleato-chiave, entro
fine anno; e, sempre da qui al 31 dicembre, ricevere aiuti militari da G7, Ue e Nato.
Da parte delle Repubbliche di Donetsk e Lugansk, il piano di pace (che, secondo quasi
tutti gli osservatori, coincide in molti punti con quello di Putin) ufficializzato ieri in una
dichiarazione dei due rispettivi capi, Aleksandr Zakharcenko e Igor Plotnitskij, consiste
nell’avvio del «regime di temporaneo cessate il fuoco», a partire dalle 15 (locali) di oggi, da
parte sia dell’esercito che delle milizie popolari e nel divieto di intervento dell’aviazione
militare sopra il territorio delle due repubbliche. Secondo la proposta, l’Osce controllerà
l’osservanza del cessate il fuoco nella «zona di sicurezza divisa in 5 settori, in ciascuno
dei quali opereranno 40 osservatori». Il piano prevede anche l’apertura, dalle 10 del 7 settembre, di corridoi umanitari per il transito di profughi e di aiuti umanitari alle regioni di
Donetsk e Lugansk. Comunque, una buona dose di scetticismo sulla possibilità di giungere a uno «stabile cessate il fuoco» rimane e che Poroshenko, per sua stessa ammissione, sia stato spinto alla trattativa dai ripetuti successi sul campo da parte delle milizie
popolari (da oltre un mese si hanno notizie quotidiane di diserzioni, rese di interi reparti,
sconfinamenti in territorio russo per sottrarsi all’accerchiamento, da parte di drappelli o di
interi reparti delle truppe di Kiev) potrebbe far pesare l’ago della bilancia, a Kiev, a favore
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del partito degli irriducibili; primi fra tutti i combattenti dei battaglioni filofascisti e neonazisti, sponsorizzati dai magnati che, tra l’altro, non hanno che da guadagnare da un indebolimento del Presidente, loro concorrente in affari. Ancora ieri mattina Novorossija scriveva
che il deputato della Rada Aleksandr Brighinets minacciava di far saltare la centrale elettrica che serve Lugansk e il territorio circostante, in caso di offensiva delle milizie. In questo senso, significative le parole del Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, pronunciate
ieri in un colloquio telefonico col suo omonimo francese Laurent Fabius: i due, sottolineando che «i fautori delle soluzioni di forza» non devono prendere il sopravvento, né
a Kiev né in altre capitali, hanno evidenziato l’importanza dell’incontro di oggi a Minsk, con
l’augurio che il piano di Putin possa servire di base per un lavoro proficuo del gruppo di
contatto tra i rappresentanti di Russia, Osce e delle parti ucraine. Ma, d’altro canto, in una
conferenza stampa al termine di colloqui col suo collega kirghiso Erlan Abdyldaev, lo
stesso Lavrov dichiarava che proprio il «partito della guerra a Kiev» è sostenuto da
Washington: lo conferma «l’intreccio di retorica antirussa nel momento in cui si intraprendono attivi sforzi alla ricerca di una soluzione politica».
Del 5/09/2014, pag. 14
Il Kosovo, fucina dell’integralismo
Di Luigi Spera
Mentre le forze armate internazionali entravano in territorio kosovaro dopo la guerra del
1999, specularmente, sotto la superficie iniziava a penetrare, scorrendo come un fiume
carsico, il fanatismo religioso. Avanzando indisturbato, sottotraccia, l’Islam radicale ha
potuto così fare proselitismo: costruire decine di moschee ed educare al ‘wahabi - smo’
generazioni di imam finanziandone gli studi in Arabia Saudita, pagare famiglie perché
mostrassero simboli di integralismo e riuscire a reclutare, al momento opportuno, i
combattenti da inviare nei vari scenari di guerra internazionali. Il tutto spesso attraverso
l’attività mascherata di ong con sede nei Paesi del Golfo. Quando le crisi mediorientali
caratterizzate da una forte componente religiosa hanno toccato Siria e Iraq, il nome di
combattenti kosovari è finito sempre più spesso sui giornali. È così emerso quanto il
problema, mentre la comunità internazionale si occupava delle questioni post- belliche,
fosse diventato forte. Al punto da far rientrare il Paese tra i primi 25 nella lista dei maggiori
contribuenti alla causa jihadista in Siria e Iraq con oltre 100 combattenti. Il video della
decapitazione di un uomo in Siria da parte di un kosovaro dell’Isis, inizio della nuova triste
notorietà internazionale del Paese, non è stato altro che la proiezione esterna di un
problema molto noto a Pristina. Negli ultimi mesi si è cercato di mettere una pezza, ma i
41 arresti di estremisti da parte della polizia poche settimane fa, ha solo fatto aumentare la
discrezione delle azioni portate avanti dai più radicali.
LA PREOCCUPAZIONE è tanta, e a parlare di estremismo islamico in molti fanno fatica.
Non tutti. Engjiell Berisha, direttore della biblioteca di Gjakova, ha perso 3 fratelli tra le 376
vittime della pulizia etnica delle milizie serbe. “Noi albanesi siamo stati uccisi insieme e
sepolti nelle stesse fosse comuni, cristiani e musulmani. Siamo un’unica famiglia con due
religioni. Questi estremismi non ci appartengono. Abbiamo vissuto una guerra terribile,
non vogliamo più morti e omicidi”. I primi a criticare l’avanzata degli estremisti in Kosovo
sono molti imam, hanafiti e moderati. Coraggiosi che sfidano la violenza e le ritorsioni dei
fondamentalisti. Zuhdi Hajzeri, trent’anni, è l’imam della moschea di Tahtali a Peja. La sua
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lotta contro gli jihadistilo ha fatto già finire nel mirino più volte, l’ultima pochi giorni fa.
“Dopo un’intervista a Rtk nella quale ho criticato gli estremisti, la sera, quando stavo
rincasando sono stato seguito e hanno tentato di investirmi con l’auto. Alla guida c’era il
cugino del capo degli imam di Peja, e suo vice”. Il pericolo di estremismo islamico invade
tutto il Kosovo, “in quasi tutte le moschee – afferma Hajizeri - si sono infiltrati elementi che
ascoltano le prediche, riportano quello che si dice e cercano anche di fare proselitismo.
Cercano persone che vadano a combattere in Siria manipolando il pensiero islamico.
Dicono che per chi muore martire ci saranno premi all’aldilà. I mediatori nel reclutamento
spesso sono imam che hanno studiato in Arabia Saudita e hanno rapporti con le milizie sul
campo”. Quanto l’obiettivo dei radicali sia rinfoltire le milizie dell’Isis, lo conferma anche
l’imam della moschea rossa di Peja, Emir, “A ogni preghiera e il venerdì spingiamo le
persone a non andare combattere. Ma non basta. Il problema è antico, precedente alle
crisi siriane e irachene. La penetrazione degli integralisti in Kosovo è avvenuta subito dopo
la guerra. In un paese dove lo stipendio medio è 300 euro al mese e la disoccupazione al
50%, sfruttare la disperazione elargendo aiuti economici è facile. Ottenere riconoscenza,
ancor di più. Così le Ong arabe hanno veicolato il messaggio della jihad”. La domanda è
come sia possibile che questo sia accaduto in un Paese dove la presenza militare,
economica e strategica straniera, ufficialmente in aiuto alla popolazione locale, è stata tra
le più pesanti della storia contemporanea.
del 05/09/14, pag. 13
"Onu delle Religioni"
L'idea di Shimon Peres piace a Papa
Francesco
L’ex presidente israeliano: troppe guerre in nome della fede
Andrea Toninelli
Ha ricevuto a lungo l'ex presidente israeliano Shimon Peres e si è sentito rivolgere la
proposta di creare l'Orni delle religioni. Quindi ha parlato con il principe giordano El
Hassan bin Talal, che nei giorni scorsi, prima di partire per Roma, aveva voluto far visita ai
profughi cristiani esuli da Mosul ospitati dalla Caritas presso il centro Nostra Signora della
Pace di Amman. Quella di Papa Francesco è stata una mattinata interamente dedicata al
Medio Oriente, ai suoi conflitti e alle sue tragedie. A Bergoglio, il leader israeliano che nel
giugno scorso era stato protagonista con Abu Mazen della preghiera per la pace in
Vaticano, ha fatto una proposta, cosi sintetizzata in un colloquio con «Famiglia Cristiana»:
«Preso atto che l'Onu ha fatto il suo tempo, quello che ci serve è un'Organizzazione delle
Religioni Unite, un'Onu delle religioni. Sarebbe il modo migliore per contrastare questi
terroristi che uccidono in nome della fede, perché la maggioranza delle persone non è
come loro, pratica la propria religione senza uccidere nessuno, senza nemmeno
pensarci». Peres ha quindi aggiunto: «Penso che dovrebbe esserci anche una Carta delle
Religioni Unite, esattamente come-c'è la Carta dell'Orni. La nuova Carta servirebbe a
stabilire a nome di tutte le fedi che sgozzare la gente, o compiere eccidi di massa non ha
nulla a che vedere con la religione».
L'ex presidente e premio Nobel per la pace ha proposto che Francesco assuma la guida
del nuovo organismo: «E Santo Padre è un leader rispettato come tale non solo da tante
persone ma anche dalle più diverse religioni e dai loro esponenti. Per questo mi è venuta
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l'idea che ho proposto a Papa Francesco». Bergoglio da parte sua ha espresso interesse,
spiegando a Peres che ai questi temi si occupano diversi uffici della Santa Sede, «che
seguiranno con attenzione la proposta». Nel colloquio con il principe Hassan, come
fondatore di un Centro interreligioso per la pace e i diritti umani, si è parlato «dell'impegno
contro la violenza, in favore della dignità della persona, della fratellanza, dell'aiuto ai
poveri nel mondo globalizzato, facendo leva sui valori comuni delle religioni, cioè del "non
fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te"». Intanto ieri «La Civiltà Cattolica »,
l'autorevole rivista dei gesuiti le cui bozze sono riviste dalla Segreteria di Stato vaticana,
ha pubblicato un'approfondita analisi della situazione irachena: «Analisti militari attestano
che l'attuale soluzione armata non è efficace. Limitarsi a questo mezzo può continuare a
permettere all'Isis spazi di conquista e occasioni di atrocità maggiori». «È cruciale - si
legge nell'articolo - studiare e comprendere perché e come l'Isis combatte. La sua è una
guerra di religione e di annientamento.- Strumentalizza il potere alla religione e non
viceversa». Ai miliziani del Califfato «vanno interdetti i rifornimenti di armi, l'arruolamento e
l'addestramento di nuovi combattenti, i canali di finanziamento, le infrastrutture
energetiche" e logistiche ».
del 05/09/14, pag. 1/27
Non ci serve l'ONU delle religioni
di ENZO BIANCHI
Serve davvero un’ONU delle religioni? Magari affiancata da una Carta delle Religioni
unite? I termini con cui viene riassunta la proposta di Shimon Peres a papa Francesco
sono di sicuro effetto mediatico, ma siamo convinti di sapere esattamente di cosa si sta
parlando? Siamo concordi nell’interpretazione da dare a queste parole e a questa
proposta? Nessuno mette in dubbio la sincera intenzione di pace che anima l’iniziativa
assunta dall’ex-presidente israeliano, ma non possiamo esimerci dall’interrogarci sulle
motivazioni che ne dà e sulle letture che ne possono derivare.
Se infatti il motivo principale – come sembra di capire dalle parole con cui è presentata la
proposta di Peres – è il fallimento dell’ONU, della sua Carta fondatrice e, implicitamente,
della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, non si vede come una nuova struttura,
a composizione religiosa e non statuale, e una nuova dichiarazione di principi,
confessionali e non di etica universale, possano riuscire là dove riteniamo abbiamo fallito
le migliori risorse che l’umanità ha saputo investire all’indomani della seconda guerra
mondiale. Forse che le affermazioni etiche della Carta delle Nazioni unite o i diritti
fondamentali di ogni essere umano sanciti nel 1948 sono ritenuti non più validi? O non è
piuttosto in discussione l’incapacità a metterli in pratica e la mancanza di volontà nel farli
rispettare? E se mancano risorse e strumenti coercitivi per imporre tali valori e per fermare
chi li conculca, crediamo davvero che un appello in cui il linguaggio religioso sostituisce
quello diplomatico possa avere successo? Inoltre, in base a cosa riteniamo che chi non
aderisce a nessuna religione sia privo di istanze etiche?
Ma vi è una lettura più immediata di questa iniziativa, ed è quella che stuzzica subito
l’enfasi da parte dei media: un ipotetico nuovo organismo mondiale potrebbe stabilire una
sorta di minimo comune denominatore delle fedi, di ciò che è permesso e che è proibito in
ambito etico secondo i dettami delle diverse credenze religiose. Ora, in questa ottica, non
si può evitare l’impressione di un appiattimento sincretista, di uno sfumare della
rivelazione in una nebulosa in cui tutte le verità si equivalgono e ogni professione di fede è
vittima dell’“indifferenza”. Certo è più facile addossare a un’entità interreligiosa oggi
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inesistente – e difficilmente realizzabile – le responsabilità cui il consesso delle nazioni
non ha saputo far fronte degnamente, che non richiamare ai loro doveri etici e civili le
nazioni e i loro governanti, la politica e l’etica pubblica. Forse che oggi chi ha le leve del
potere politico ed economico ignora ciò che è bene e ciò che è male per l’umanità? Sta
davvero aspettando ansioso che le religioni del mondo gli diano suggerimenti in proposito?
O non è vero piuttosto che trascura consapevolmente questa chiara distinzione in base ai
propri interessi?
La prospettiva cambierebbe se l’iniziativa mirasse a trovare modalità e spazi per garantire
continuità e regolarità al confronto tra le religioni su tematiche etiche, se i responsabili
delle diverse confessioni di fede potessero dialogare tra loro e aiutarsi reciprocamente nel
trasmettere ai loro fedeli e nel testimoniare agli appartenenti alle altre fedi i principi
fondamentali del proprio credo, se avessero un ambito autorevole e condiviso in cui
manifestare le proprie convinzioni e trovare stimolo, conforto e arricchimento nel
conoscere in profondità le convinzioni dell’altro. Si tratterebbe allora di uno spazio in cui
avverrebbe nella franchezza e nel rispetto il riconoscimento della dignità umana ed etica
del credente appartenente a un’altra religione così come della persona che non ritiene di
fare riferimento a un ambito di fede per normare la propria vita e il proprio relazionarsi con
il mondo. Come pure cambierebbe la prospettiva se prendessimo maggiormente sul serio
la dimensione della preghiera come componente della storia, i cui effetti nella vita dei
popoli e delle persone non si misurano mai nell’immediato. Come ha sottolineato papa
Francesco dopo l’incontro di preghiera per la pace in Medioriente, si tratta di “aprire una
porta” e di non lasciare più che si chiuda: una porta aperta anche grazie ai nostri sforzi,
ma una porta che tale rimane solo grazie a Colui che è più grande e che, in risposta alla
nostra preghiera, converte il cuore umano e lo dilata alla dimensione del suo amore
misericordioso e compassionevole.
Non abbiamo di un’ONU delle religioni, bensì di reimparare l’arte dell’ascolto, del rispetto
dell’altro, del dialogo cordiale, del riconoscimento della qualità umana e spirituale sia di chi
incontriamo nelle nostre esistenze sia di chi vorremmo evitare di incontrare per non essere
richiamati alle nostre responsabilità personali e collettive.
del 05/09/14, pag. 10
Sfida nella Jihad globale Al Zawahiri rincorre
l’Is “Ora ci prendiamo l’India”
Video dell’erede di Bin Laden dopo i successi di Al Baghdadi
L’incubo: Al Qaeda ha bisogno di firmare un super attentato
JASON BURKE
NEW DELHI
LE IMMAGINI sono familiari: il leader militante con la barba che fa un discorso; una mappa
del mondo islamico. Neanche le parole sono nuove: un riferimento al Califfato, l’annuncio
di un nuovo tentativo da parte di Al Qaeda di aprire una nuova branca, una filippica contro
gli Usa e il loro «oppressivo sistema globale». Malgrado quindi assomigli a numerose
precedenti produzioni, l’ultimo filmato di Ayman Al Zawahiri — il 63enne egiziano alla
guida di Al Qaeda da quando nel 2011 Bin Laden è stato ucciso — non mostra la forza
duratura di quella che è stata a lungo considerata la più importante organizzazione
jihadista al mondo, ma ne svela la debolezza.
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Per i gruppi militanti la pubblicità è rischiosa come per qualsiasi altra organizzazione, in
particolare per le multinazionali. Il peggior insuccesso di tutti è quando il prodotto non
rispetta ciò che la pubblicità ha promesso. È il caso dell’ultimo filmato, il più significativo
diffuso da Al Qaeda da quando un gruppo autonomo ha dichiarato lo Stato islamico e un
nuovo Califfato in Iraq e in Siria. Il nuovo filmato annuncia la nascita di un nuovo ramo di
Al Qaeda, che copre “Al Hind”, termine che designa più o meno i territori a Est del fiume
Indo e a Ovest dell’odierna Birmania. In termini moderni, significa India — Paese di 150
milioni di musulmani che vivono in una repubblica seculare guidata da maggio da un
governo nazionalista hindu — e il Bangladesh, con altri 150 milioni di musulmani. A capo
del nuovo assetto vi sarà un religioso jihadista semisconosciuto.
Sebbene l’India sia da tempo afflitta da un amalgama di militanti islamici nati e cresciuti in
loco e di ingerenze da parte di elementi residenti nel vicino Pakistan, un gruppo che non
ha nessuna presenza reale nell’emergente potenza economica è proprio Al Qaeda. Né è
verosimile che essa riesca ad affermarsi lì in un immediato futuro. La stessa cosa vale per
il Bangladesh. Possiamo di conseguenza concludere che la nuova organizzazione — che
secondo Al Zawahiri sarebbe il frutto dei «tentativi degli ultimi due anni di unire i gruppi
jihadisti del subcontinente» — di fatto è un’ambizione, non una realtà.
Al Zawahiri (ancora una volta come farebbe l’ad di una multinazionale) considera “Al Hind”
un mercato potenzialmente enorme per il suo prodotto: la jihad globalizzata. Dichiarando
che una manciata di minuscole cellule disseminate su una vasta area costituisce ormai
un’ala di “Al Qaeda”, di fatto il veterano spera di stimolare la domanda e dunque trasformi
una visione in realtà.
Il problema per Al Zawahiri è che il panorama della jihad è cambiato drasticamente negli
ultimi anni e Al Qaeda appare sempre più antiquata. Al Qaeda fu formata nel 1988 per
unire insieme tutte le disparate fazioni degli islamisti estremisti attivi dopo la guerra contro
i sovietici in Afghanistan. Negli Anni ‘60, Bin Laden lavorò per canalizzare e focalizzare le
loro energie, usando gli Usa e gli alleati occidentali (“il nemico lontano”) come un comune
nemico che li unisse. Gli attacchi dell’11 settembre furono il culmine di quella strategia. Ma
nei 15 anni seguiti a quegli attentati, il processo di unificazione si è invertito. Oggi la
situazione ricorda lo scenario frammentato di 25 anni fa. La guerra civile siriana sta
aggravando il caos. Attualmente ci sono pochi affiliati di “Al Qaeda” ancora tenacemente
legati dalla comune lealtà ad Al Zawahiri — Al Qaeda nello Yemen, Al Qaeda nel Maghreb
e Jabhat Al Nusra in Siria sono tra queste — ma la maggior parte dei gruppi attivi oggi non
giurano obbedienza a nessun comando centrale. Boko Haram in Nigeria, i gruppi in Libia o
Egitto, i Taliban pachistani, il Movimento islamico nell’Uzbekistan, gli Uighuri musulmani
della Cina sudoccidentale, i cosiddetti “lupi solitari” in Europa o nell’Occidente, sono tutti
attivi indipendentemente o, sempre più, stanno sviluppando legami laterali individuali e
fazioni che non passano attraverso nessun gruppo più grande.
Questo scenario frammentato generale non si confà ad Al Zawahiri. Come neppure la
natura della nuova militanza praticata da questi vari gruppi disseminati. Laddove Al Qaeda
preferiva colpire “il nemico lontano”, i gruppi militanti più contemporanei in tutto il mondo
islamico sono focalizzati quasi esclusivamente sui nemici più vicini: le forze in campo a
Damasco, Bagdad, Kabul, Sana’a, Lagos o l’esercito pachistano. Laddove Bin Laden
evitava o cercava di impedire la violenza settaria, i militanti odierni considerano la lotta agli
“eretici della Shia” altrettanto valida della lotta ai membri dell’“alleanza tra sionisti e
crociati”, specialmente in Europa o negli Usa. Bin Laden in particolare ha perseguito una
strategia finalizzata alla radicalizzazione e alla mobilitazione di decine di milioni di
musulmani tramite una campagna di violenza plateale che ha fatto enorme affidamento sui
media, eludendo così i combattimenti più duri sul terreno. L’Is confida di mettere in
sicurezza il territorio e lanciare operazioni militari semi-convenzionali contro nemici bene
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armati. Se l’ultimo decennio è stato dominato da organizzazioni terroristiche che
saltuariamente partecipavano alle insurrezioni, in questo decennio è probabile che
assisteremo al predominio degli insorti che saltuariamente indulgeranno nel terrorismo.
L’annuncio è chiaramente un tentativo di contrastare il successo recente di concorrenti
come l’Is, che non solo ha esplicitamente ripudiato l’autorità personale di Al Zawahiri
l’anno scorso, ma si è anche costruito uno status paragonabile a quello di Al Qaeda.
«Questo nuovo gruppo si fa portabandiera del messaggio globale dello sceicco Osama
Bin Laden che mirava a unire l’“umma” (la comunità musulmana globale) nella jihad contro
il nemico, a liberare i territori occupati e a instaurare il Califfato», ha detto Al Zawahiri nel
filmato, rammentando così agli spettatori che l’agenda dell’Is è da tempo quella di Al
Qaeda.
Ma il suo obiettivo primario è di ricordare che il gruppo che ha superato enormi ostacoli
per portare a termine il più significativo attacco terroristico della storia è ancora una forza
con cui fare i conti e una potenziale fonte di logistica, fondi, guida e autorità. Questa non è
una rivendicazione forzata. La relativa debolezza di Al Qaeda di oggi paragonata a un
decennio fa ha reso alcuni analisti ciechi dinanzi alla sua continua potenzialità di causare
gravi danni. È ancora troppo presto per scrivere il necrologio di Al Qaeda, per quanto
possa essere pieno di problemi. C’è la possibilità che nei prossimi mesi o anni alcune
cellule che Al Zawahiri dichiara far parte della nuova “Al Qaeda in India” possano mettere
a segno uno spettacolare attentato di massa. Un evento del genere potrebbe far muovere
“la vecchia Al Qaeda” — denominazione con la quale i funzionari della sicurezza
chiamano la leadership centrale dell’organizzazione — e farla tornare verso il trend più in
voga della militanza sunnita globale odierna. Una serie di tali attacchi collocherebbe Al
Qaeda nuovamente come il “leader di mercato” della jihad globale. È certamente
improbabile, ma non è impossibile. L’equilibrio di potere si è certamente allontanato da Al
Qaeda negli anni recenti, ma è sempre possibile che il più famoso gruppo terroristico al
mondo possa tornare sulla scena. C’è molto spazio nel mondo attuale della jihad per
entrambi: il nuovo tipo di estremismo incarnato dall’Is e il vecchio incarnato dall’uomo il cui
più recente annuncio, seppure possa sembrare poco convincente, oggi ha nondimeno
attirato così tanta attenzione. ( Traduzione di Anna Bissanti)
Del 05/09/2014, pag. 2
Rasmussen: «Interveniamo solo se lo chiede
Baghdad»
Iraq. Londra sul piede di guerra scarica il governo di Assad e valuta raid
e invio di truppe a sostegno dei curdi. Dall’Occidente nessuna
prospettiva: il timore è una soluzione «alla libica»
Chiara Cruciati
La Nato potrebbe intervenire in Iraq, se Baghdad lo chiederà: «Non abbiamo ricevuto nessuna chiamata dall’Iraq. Sono certo che se il governo muovesse richiesta di assistenza,
sarebbe presa seriamente in considerazione dagli alleati», ha detto ieri il segretario generale Rasmussen dal Galles, dove i membri del Patto atlantico stanno discutendo delle svariate crisi in corso. Poco prima un editoriale pubblicato sul Times of London e firmato dal
premier britannico Cameron – da settimane attivissimo sul fronte anti-Isis – e il presidente
Usa Obama lanciava all’Alleanza un chiaro appello al confronto con lo Stato Islamico.
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I discorsi occidentali sono scevri di una reale analisi delle responsabilità del caos iracheno
e siriano, ovvero le ragioni dell’anormale crescita dei gruppi jihadisti finanziati dai paesi del
Golfo e radicati dalle politiche settarie imposte dall’invasione Usa. E sono scevri anche di
una visione di lungo periodo: bombardare l’Isis in Iraq e in Siria a sostegno di quale autorità politica? E forse il timore di Baghdad, che sta lavorando ad un governo maggiormente
inclusivo quando sul terreno la guerra civile impazza (un’autobomba ha ucciso 12 persone
ieri nel quartiere sciita Kadhamiya), è una “soluzione” alla libica: l’ultimo intervento atlantico sono stati i raid contro la Tripoli di Gheddafi, la distruzione delle istituzioni statali
e l’armamento dei gruppi anti–rais, che hanno provocato sanguinarie lotte intestine tra
tribù, islamisti e militari.
Sul tavolo resta l’opzione di una coalizione internazionale che argini l’avanzata di alBaghdadi, ma – sottolinea Cameron – senza alcuna possibilità di coordinamento con il
governo di Damasco: eventuali raid non avranno bisogno del consenso «dell’illegittimo
governo» del presidente Assad – seppur da tre anni impegnato a combattere i gruppi islamisti – che la scorsa settimana aveva aperto alla cooperazione con l’Occidente. Si muove
anche il segretario di Stato Usa Kerry che ha contattato Italia, Australia, Israele, Giordania,
Qatar e Emirati Arabi per discutere sulle più efficaci modalità di confronto dell’Isis e le conseguenze della sua offensiva, dal rifornimento di armi alla consegna di aiuti umanitari ai
civili. Armi che arrivano già copiose nelle mani dei paesi del Golfo – in passato finanziatori
indiretti dei gruppi islamisti, oggi considerati non più valido strumento contro i regimi sciiti
di Damasco e Baghdad, ma minaccia agli equilibri regionali – e della regione autonoma
del Kurdistan, secondo uno schema che sta allargando le divisioni settarie irachene. Lo
stesso governo britannico si è detto pronto a partecipare ai bombardamenti e ad inviare
forze militari per addestrare peshmerga e soldati governativi, all’interno di un’eventuale
missione della Nato. Fin dai primi passi mossi dall’Isis in Iraq, Baghdad aveva inutilmente
chiesto un intervento immediato contro i qaedisti che direttamente non è mai arrivato: le
bombe sganciate dai jet militari Usa interessano le zone ufficiose di confine tra le aree
occupate dall’Isis e il Kurdistan iracheno, rifornito di armi che l’esercito governativo non ha
mai ricevuto. Al contrario armamenti e veicoli militari di cui i jihadisti hanno fatto razzia nei
primi due mesi di avanzata, presi dalle basi militari irachene abbandonate in fretta da un
esercito allo sbando, sono brutalmente efficaci. Ieri Human Rights Watch ha denunciato
nuovi casi di esecuzioni di massa, condotte a giugno nell’ex base Usa di Camp Speicher,
presa durante l’assalto alla vicina città di Tikrit: almeno 770 le persone uccise dall’Isis, per
lo più soldati iracheni sciiti catturati nell’offensiva.
L’unico a scampare a quell’orgia di violenza – per la quale le famiglie dei soldati scomparsi
hanno occupato la sede del parlamento martedì – è stato Ali Hussein Khadim, militare di
23 anni: coperto di sangue, circondato da corpi senza vita, si è finto morto e dopo tre settimane in fuga è riuscito a tornare a casa e a raccontare la sua storia a Hrw. Una violenza
che prosegue: ieri i jihadisti hanno catturato 50 residenti del villaggio di Tal Ali, provincia di
Kirkuk, dopo che la comunità aveva reagito all’occupazione appiccando il fuoco a una
postazione abbandonata dell’Isis.
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INTERNI
del 05/09/14, pag. 14
Forze dell’ordine in rivolta contro il blocco dei
salari “Sarà sciopero generale”
Carabinieri e Polizia: “Primo stop nella storia della Repubblica” Renzi:
no ai ricatti. Poi l’apertura: dialogo nella legge di stabilità
ROMA .
Sciopero generale unitario di polizia e forze dell’ordine contro il blocco del contratto degli
statali, partito nel 2010 e prorogato anche per il 2015. «Per la prima volta nella storia della
Repubblica siamo costretti a dichiarare lo sciopero generale — scrivono in una nota i
sindacati di categoria — verificata la totale chiusura del
governo ad ascoltare le nostre esigenze per garantire sicurezza, soccorso pubblico e
difesa del Paese». Le diverse sigle si vedranno oggi per decidere il da farsi. E intanto
incassano una prima apertura di Palazzo Chigi. «Riceverò personalmente gli uomini in
divisa, ma non accetto ricatti», fa sapere in serata il premier Renzi, in contatto continuo
con il ministro dell’Interno Alfano. «Volentieri apriamo un tavolo di discussione su tutto con
le forze di sicurezza che sono fondamentali per la vita dell’Italia», prosegue il presidente
del Consiglio. «Ma siamo l’unico Paese che ha cinque forze di polizia. Non tocchiamo lo
stipendio né il posto di lavoro di nessuno. Ne riparleremo nella legge di Stabilità». Il
governo cerca poi di sminuire la notizia del blocco degli stipendi pubblici, ricordando che
era già previsto nel Def, il Documento di economia e finanza. E dunque «non c’è niente di
nuovo». Dimenticando però di precisare che quella notizia è stata già smentita due volte,
in aprile dal ministero dell’Economia e il mese scorso da Renzi stesso. Per poi essere a
sorpresa confermata mercoledì dal ministro della pubblica amministrazione Marianna
Madia. «Certo, con il 43% dei giovani disoccupati — insiste Renzi — minacciare lo
sciopero è ingiusto». Chiusura incendiaria, dunque, di una giornata già rovente, iniziata
con il tweet della Madia in cui si fa un parallelo tra il bonus da 80 euro e il mancato rinnovo
contrattuale. Il bonus va «a un lavoratore pubblico su quattro», digita la Madia. Come a
dire: hanno già quello. E dunque viene «prima chi guadagna meno, usciamo tutti insieme
dalla crisi». Frase che scatena i sindacati. «Il blocco dei contratti è incomprensibile», tuona
Susanna Camusso, leader Cgil. «Si continua a colpire i soliti noti senza toccare altri
interessi». «Pensate che tre milioni di lavoratori possano accettare questa condizione a
lungo?», incalza Luigi Angeletti, segretario Uil. «La stragrande maggioranza non è
d’accordo e avrà il diritto di dirlo: questo è l’autunno che ci aspetta». «Questa mannaia è
uno scandalo intollerabile — esplode Raffaele Bonanni, segretario Cisl — ci mobiliteremo
in tutta Italia». ( v. co.)
del 05/09/14, pag. 14
“Rischiamo la vita per 1.400 euro al mese, ora
basta umiliazioni”
ALBERTO CUSTODERO
19
ROMA .
«Un poliziotto, in stato di indigenza, è stato costretto a dormire in macchina». Franco
Maccari, segretario del Coisp, racconta la vita in diretta dello “sbirro” costretto alla povertà.
«È un “agente scelto” di Milano, 20 anni di anzianità, 1400 di stipendio, il salario bloccato d
5 anni, l’impossibilità di fare un secondo lavoro. Dopo la separazione, è rimasto senza
casa, assegnata alla moglie e ai figli, e con mezzo stipendio. Abbiamo dovuto soccorrerlo.
E trovargli una stanza di emergenza». Come l’”agente scelto” di Milano, ce ne tanti, tra le
forze dell’ordine. La guardia di finanza ha addirittura creato un sistema di welfare interno
per soccorrere chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese. A farne le spese anche un
leader sindacale come Giueppe Tiani, del Siap. «Sono stato promosso da ispettore capo a
ispettore superiore. Mi hanno “rapinato” 200 euro al mese su uno stipendio, dopo 29 anni
di servizio, di 1800. Noi rischiamo la vita per pochi soldi al mese. Facciamo straordinari
che non ci pagano, prendiamo le botte degli immigrati».
Le divise sono in subbuglio e «chiedono le dimissioni dei ministri della Difesa Roberta
Pinotti e dell’Interno Angelino Alfano». A farle infuriare è stato l’ulteriore proroga del blocco
dei tetti salariali previsto da una legge dell’ultimo governo Berlusconi che avrebbe dovuto
congelare i salari solo per il triennio 2010-13. «Poi, però — si lamenta Tiani — il blocco è
stato prorogato per il 2014 e ora il ministro Madia lo ha annunciato per il 2015. Ciò che era
provvisorio, sta diventando perpetuo». Maccari risponde a Renzi, che accusa i poliziotti di
fare ricatti. «Noi non chiediamo — spiega — il rinnovo del contratto, fermo dal 2009. Ma lo
sblocco dei tetti salariali, ovvero quel meccanismo perverso per il quale non possiamo
guadagnare più dell’anno precedente. Questo vuol dire che se uno viene promosso,
guadagna come quando aveva il grado inferiore». Dal 2010, da quando è entrata in vigore
la norma, 125 dirigenti superiori (questori o dirigenti di compartimento), hanno assunto
l’incarico, le responsabilità, gli oneri, ma con lo stipendio che avevano prima. Tra queste
vittime del blocco che non percepiscono lo stipendio adeguato al loro attuale incarico,
anche funzionari che oggi fanno i questori a Crotone, L’Aquila, Isernia, Arezzo, Siracusa,
Catanzaro, Cagliari, Genova, Perugia, Cosenza, Matera, Pistoia, Reggio Emilia e Varese.
«Dal 2010 — rincara la dose Lorena La Spina, segretario dei Funzionari — al comparto
sicurezza sono stati tagliati 5 miliardi di euro, 3,2 dei quali riguardano i nostri stipendi». Lo
sciopero, va detto, è vietato per legge agli uomini in divisa e con le stellette. Ma fatta la
legge, trovato l’inganno. Lo spiega Felice Romano, leader del Siulp. «Vero. Non possiamo
fare sciopero. Ma è nostro diritto, però, applicare il contratto. E noi chiederemo di
applicarlo alla lettera, senza più concedere deroghe». Così, si bloccherà la giustizia. Ecco
un esempio che spiega come e perché. «Da Reggio Calabria - dice Romano - parte un
pullman con 50 migranti e 4 poliziotti diretti al Nord, un viaggio a volte di 18, 20 ore. Visto
che Renzi e Madia sostengono che noi siamo statali come tutti gli altri, ci comporteremo
da tali. Anziché fare il viaggio tutto in una volta, allo scadere del nostro orario, dopo sei
ore, ci fermeremo. E quindi, il viaggio di un giorno durerà due o tre. Con costi alle stelle
perché bisognerà dare alloggio ai poliziotti. Ma anche ai 50 migranti ». Questo «no agli
orari in deroga», come viene chiamato tecnicamente, è già scattato in mezza Italia, da
Aosta a Varese, Verona, Vicenza, Genova, Bologna Brindisi Catania, Napoli Pavia e altre
città. In questo modo sarà paralizzata la gestione dell’ordine pubblico. «Partita di calcio?
— chiosa Felice Romano — manifestazione No-Tav? Black bloc infiltrati nei cortei? Dopo
sei ore, qualunque cosa succeda, fine del servizio: tutti a casa».
«I nostri uomini — denuncia Daniele Tissone, Cgil — non ne possono più. E l’indifferenza
del presidente del Consiglio dimostra profonda ingratitudine nei confronti di chi serve il
Paese». «Ci fanno fare migliaia di ore di straordinari — sostiene Filippo Girella, dell’Ugl —
ma lo straordinario ci viene riconosciuto la metà di quanto guadagna una colf, 7 euro e 50
centesimi. Siamo costretti a subire situazioni impietose, come il poliziotto che dopo
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l’operazione Mare Nostrum è stato trovato positivo alla Tbc. Dobbiamo gestire il fenomeno
degli immigrati senza presidi sanitari adeguati per proteggerci da eventuali contagi. Di fatto
siamo diventati mano d’opera a basso costo per garantire un minimo di presidio del
territorio. Ma non è questa la nostra mansione di forze dell’ordine». Insieme ai poliziotti,
protestano, compatti, anche i militari delle quattro forze armate, Esercito, Marina,
Aeronautica, Carabinieri, più la guardia di finanza. «Quello che certamente non
credevamo — dichiara Alessandro Rumore, del Cocer dell’Arma — è che venisse negata
dai politici la riconoscenza a chi, per poco più di 1300 euro al mese, è disposto a
sacrificare la propria vita per il Paese».
del 05/09/14, pag. 18
Lavoro, tagli e Italicum sfida della minoranza
Pd “Renzi dovrà ascoltarci”
Bersani: discutere nel partito anche se governiamo No al superamento
dell’articolo 18: “Roba di destra”
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA .
I venti miliardi di tagli alla spesa pubblica sono «irrealizzabili e dannosi», il superamento
dell’articolo 18 è una «ricetta di destra», il nuovo Statuto dei lavoratori «non può essere
scritto con una delega in bianco al governo», sulla legge elettorale ci sono tre nodi tutti da
sciogliere: premio di maggioranza, quorum per i piccoli partiti e preferenze. La minoranza
pd si ricompatta e si riorganizza sui tre fronti che scalderanno i prossimi mesi in
Parlamento.
Così, ieri, mentre Pier Luigi Bersani incontrava l’unico dei suoi al governo, il ministro
dell’Agricoltura Maurizio Martina, al caffè Illy vicino a Montecitorio, gli esponenti di Area
riformista (da Roberto Speranza a Stefano Fassina, da Nico Stumpo ad Alfredo D’Attorre)
mettevano a punto la strategia delle prossime settimane. Chiedono autonomia e
promettono lealtà. Stanno preparando un secondo incontro nazionale per fine mese, dopo
quello di inizio estate a Massa Marittima. Vogliono tre o quattro posti nella nuova
segreteria (probabile che arrivi per loro Enzo Amendola come responsabile Esteri), ma
non perché servano loro degli strapuntini: se si vuole l’impegno di tutti in questa fase
nuova - è il ragionamento - noi si siamo, chiediamo però di essere ascoltati.
«La sinistra deve saper discutere, la sinistra è fatta così, in un altro modo rispetto a quel
‘padrone’ che c’è di là» ha detto ieri Pier Luigi Bersani a una festa del Pd alludendo a
Berlusconi. «La sinistra non esisterebbe senza discutere, poi sa essere anche leale». L’ex
segretario è tornato all’attacco sul doppio ruolo di Renzi: «È un fatto strutturale, quando il
tuo segretario è capo del governo devi stare attento a quel che dici. La discussione è un
pochino inibita». Questo, secondo Bersani, è «il cuore del problema» per il quale è
necessario aprire «una riflessione larga entro fine anno ». Non perdonano, i bersaniani,
l’esclusione dalla festa nazionale di Bologna di Gianni Cuperlo e Pippo Civati: «Una scelta
politica precisa - dice Fassina - e lo dico con cognizione di causa».
Altrettanto dure, da Ravenna, le parole di Massimo D’Alema: «Sono rimasto colpito dalla
violenza, in qualche caso perfino dalla volgarità delle repliche », ha detto riferendosi alle
interviste dei vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini che criticavano le sue
prese di posizione sul governo in difficoltà. Risposte che - ha aggiunto - «confermano le
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mie preoccupazioni. Perché se uno dice che è preoccupato perché c’è la disoccupazione,
non gli si può rispondere che vuole le poltrone ».
Secondo i bersaniani, il ritardo nella formazione della nuova segreteria (che ha perso
molte pedine tra ministri e incarichi in Europa) non è dovuto alla riottosità della minoranza
sulle riforme, ma a una nuova debolezza della dirigenza: «I rapporti tra Graziano Delrio e
Luca Lotti nel governo non sono idilliaci, così come sono esplosi quelli tra Lotti e Guerini
nel partito - racconta un deputato -. Ne è la prova il pasticcio delle primarie in Emilia
Romagna, dove finiranno per scontrarsi due renziani».
I fedelissimi del premier fanno spallucce. «Fassina ha con sé 50 di noi? - chiede ironico
Ernesto Carbone a chi gli ricorda che ci sono 54 democratici a sostegno del referendum
anti-fiscal compact -. Io finora ne ho visti solo tre». Ma l’ex viceministro all’Economia non si
scompone: «Se per la legge di stabilità i provvedimenti sono quelli annunciati, se si pensa
davvero di poter far sopportare a questo Paese altri 20 miliardi di tagli alla spesa pubblica,
sono certo che saremo di più».
Del 05/09/2014, pag. 3
F35, mozione di Sel per cancellare il
programma
Presentata ieri alla Camera dei deputati la mozione di Sel che chiede la cancellazione del
programma F35. La discussione è iniziata nel pomeriggio alla Camera e si concluderà con
il voto tra mercoledì e giovedì della prossima settimana. Anche il M5S ha presentato una
mozione analoga, mentre il Pd non ha ancora deciso (il deputato Amendola ha rinunciato
ad intervenire in aula), diviso tra «linea Scanu» (il capogruppo Pd in commissione difesa
che vuole il dimezzamento degli F35) e «linea Pinotti», la ministra che vuole il mantenimento del programma. Si era già votato alla Camera nel giugno del 2013 ed era stata
approvata la mozione di Pd-Forza Italia che rinviava ad una indagine conoscitiva la scelta
definitiva, indagine che si è conclusa a maggio con un altro rinvio che rischia di prolungarsi
alle calende greche: ora bisognerà aspettare per una decisione finale sugli F35 – secondo
la Pinotti — la stesura finale del «libro bianco sulla difesa» che vedrà la luce solo nel 2015.
Intanto la produzione continua: sono già 6 – ma secondo Sel sono invece 8 — i cacciabombardieri in via di assemblaggio nella base di Cameri. «Ma Renzi non aveva detto
a San Rossore al raduno degli scout che gli F35 non sono uno strumento di pace? E allora
sia coerente», ha ricordato Giulio Marcon, firmatario della mozione, alla conferenza
stampa. E Michele Piras, di Sel, membro della Commissione della difesa ha ricordato: «I
costi lievitano in continuazione. Siamo passati dai 12,6 miliardi dell’anno scorso ai 14
miliardi di quest’anno ed è inaccettabile». Un valore sicuramente impressionante. «In termini assoluti – ha ricordato il capogruppo di Sel Arturo Scotto — una mole di risorse finanziarie del tutto ingiustificata, a maggior ragione in tempi di crisi economica durissima».
I soldi degli F35 per i deputati di Sel, basterebbero a sbloccare il contratto dei lavoratori
del pubblico impiego e a mettere in sicurezza le oltre 10mila scuole che hanno bisogno di
interventi urgenti per rispettare le normative esistenti. Avevano detto che avrebbero portato 10mila posti di lavoro, poi 3mila, dopo 2mila. Invece non sono più di trecento: il ritorno
occupazionale è bassissimo. «Sarebbe opportuno – ha ricordato ancora Marcon — aprire
una consultazione online, che piace tanto al premier, per capire cosa ne pensano gli italiani: la bocciatura sarebbe sonora». Intanto parte la mobilitazione e la campagna «Taglia
le ali alle armi» (www.disarmo.org) ha lanciato le prime iniziative: raccolte di firme, manife22
stazioni, mail ai parlamentari. Si vedrà se Renzi avrà il coraggio di fare la spending review
anche ai cacciabombardieri o se si piegherà agli interessi delle lobbies degli americani
e delle forze armate. L’appuntamento è per la prossima settimana.
Del 5/09/2014, pag. 6
PROVINCE I NOMINATI SE LI SPARTISCONO
IL PD E FORZA ITALIA
ENTRO IL 12 OTTOBRE VERRANNO RINNOVATI 64 CONSIGLI E COSTITUITE 8
CITTÀ METROPOLITANE: NIENTE ELETTORI, SOLO LOGICHE DI PARTITO.
AZZERATE LE LISTE CIVICHE
Di Carlo Tecce
Un po’ ristrette, un po’ insolventi, molto disordinate, però le Province stanno bene. E tra un
paio di settimane, senza che le piazze siano invase da ingombranti palchetti per i comizi e
senza consultare i cittadini con relativo scrutinio notturno e le proiezioni dei sondaggisti,
saranno persino rinnovate, rimpinguate. Ci saranno presidenti (64), consiglieri (760);
presidenti di città metropolitane (8) e consiglieri di città metropolitane (162): una carovana
un po’ ridotta, rispetto all’epoca di elezione di primo livello, questa è di secondo livello,
politici votati votano politici: ce n’erano 2500, adesso saranno 986, ma si scelgono tra loro.
Entro il 12 ottobre e non vi sentite in difetto se la notizia non vi tocca, sparse e con regole
miste, ciascuna applica un decreto su misura, le Province si fanno simbolicamente più
snelle (anche di democrazia). Così “leggere” che Vincenzo Bernazzoli di Parma non riesce
a scovare 30.000 euro (trentamila euro, avete letto bene) per la manutenzione ordinaria di
fatiscenti edifici scolastici. E ancora covano nei bilanci gli effetti dei continui mancati
trasferimenti statali, e ancora le buche attendono una toppa, e i servizi un po’ di
carburante: all’improvviso, oggi il problema non è risolto, bensì scomparso. Il governo di
Matteo Renzi, che ha spinto la Costituzione in sala operatoria con l’assistenza di un (ex)
Cavaliere, non promette (pardon, non annuncia) nulla sul destino di queste 64 Province:
forse un domani saranno abolite davvero, adesso i presidenti si prendono un mandato di 4
anni, i consiglieri s’accontentano di un biennio e sindaci, assessori e sconosciuti membri
dei comuni s’apprestano a spartirsi un piccolo, desolante, eremo di potere. ANCHE SE LE
PIAZZE non pullulano di manifesti, la campagna elettorale è cominciata da settimane. E le
campagne elettorali locali, proverbialmente faticose e cervellotiche, svolte dai politici per i
politici non sono nient’altro che riunioni condominiali per distribuire le poltrone con
maggiore comodità. Lo spirito riformista accompagna le trattative di queste ore, al
centrosinistra (cioè al Partito democratico) e al centrodestra (cioè a Forza Italia) non pare
vero: possono dividersi la Puglia e la Liguria, siglare patti più o meno segreti, senza
temere la bocciatura popolare. Azzerate le liste civiche: pesano poco. A Taranto il sindaco
è di Sel, Ippazio Stefano, la Regione di Sel, di Nichi Vendola. E allora democratici e
forzisti, giocando a campo largo sull’intera regione, volevano assegnare la Provincia
tarantina al partito di Berlusconi, al primo cittadino di Massafra, Mario Carmelo detto
Martino Tamburrano. Il coordinatore Michele Emiliano ha protestato, i dem pugliesi l’hanno
seguito, e l’inciucio pare evitato. A La Spezia, dove i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni
detengono egregie quote elettorali e la concorrenza è fragile da qualsiasi punto di vista e
per chiunque (nessuno ha voglia di prendersi questa incombenza), i dem hanno cercato
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l’approccio con i forzisti: reazione freddina. Neanche quattro mesi fa, i padovani hanno
incoronato sindaco il leghista Massimo Bitonci: dopo il centrodestra e il centrosinistra, la
città ha scelto un leghista. A Forza Italia non piace più. E così Manuel Bianzale,
capogruppo di Forza Italia al Comune di Padova, rivendica la presidenza. Per spaventare
il Carroccio, i forzisti minacciano alleanze con il Nuovo Centrodestra di Alfano: direte, che
minacce pericolose. Sbagliato, perché il movimento di Angelino sarà quasi ininfluente se
votano i cittadini, ma determinante se votano i politici. A Bergamo, anche per continuità
storica, i democratici sostengono il consigliere uscente Matteo Rossi che, commosso, ha
presentato il simbolo e divulgato un messaggio (non ai cittadini, semmai ai colleghi): “Fin
dall’oratorio, la mia passione è quella di tenere insieme e di fare insieme”. I LEGHISTI
dovevano ratificare la linea di Matteo Salvini, il segretario contestatore che, appunto,
voleva contestare la farsa di queste Province mezze vive e mezze morte: il partito locale
l’ha smentito. E la Lega lancia Giuseppe Pezzoni da Treviglio, quasi 30.000 abitanti.
Occhio alla Toscana, dialogo fitto tra i democratici e l’emis - sario di Denis Verdini,
Massimo Parisi. Nessun ostacolo, come abitudine, a Firenze: i forzisti si apparentano con i
leghisti. I sindaci capoluogo di 8 città metropolitane (mancano Reggio Calabria e Venezia
commissariate) si prendono l’intera provincia, estendono il territorio. Il chirurgo Ignazio
Marino potrà operare sino a Frascati. I grandi vincono dove lo spazio è grande, i piccoli
s’azzuffano. Chi vuole conquistare la Provincia di Avellino deve trattare con Ciriaco De
Mita, 86 anni, sindaco di Nusco, elettore.
Del 5/09/2014, pag. 7
Violante alla Consulta, è l’altro patto del
Nazareno
ROTTAMATORE E CONDANNATO SI SPARTISCONO CORTE E CSM.
L’EX PM E MASSIMO BRUTTI PER IL PD, CASELLATI E LA RUSSA PER
BERLUSCONI
Di Fabrizio D’Esposito
C’è persino il noto ghigno mefistotelico di Ignazio La Russa nel patto del Nazareno tra il
Pregiudicato e lo Spregiudicato sulla giustizia. La novità riguarda il Csm e rimbalza nel
primo giorno di “scuola” della Camera dopo la pausa estiva. Il grosso dei deputati ancora
manca ma i pochi che arrivano sono concentrati sulla doppia intesa Bierre (copyright
Formica) per i due componenti politici della Consulta e gli otto laici del Consiglio superiore
della magistratura. E l’ex camerata La Russa, già reggente di An e triumviro del Pdl e oggi
nella meloniana Fratelli d’Italia, è uno dei nomi più quotati per il Csm. L’accordo prevede
che al centrodestra vadano due posti (in totale: quattro al Pd, compreso il vicepresidente;
uno a Sel; uno ai centristi) e il ticket berlusconiano è composto da Elisabetta Casellati, ex
sottosegretario, e da La Russa, appunto. Ma l’ostacolo maggiore all’operazione potrebbe
essere lo stesso interessato. Spiega un forzista che segue la trattativa: “La Russa ha 67
anni e vuole garantirsi una poltrona di spessore per il futuro. Ma non quella del Csm, che
dura solo 4 anni. La sua preferenza è per la Corte costituzionale, dove il mandato è di
nove anni”. Per la Consulta i due candidati favoriti sono però altri. Il primo sicuro di farcela,
dopo altri tentativi andati a vuoto, è l’ex dalemiano Luciano Violante, in quota Pd. Sul
fronte di B., invece, il giannilettiano Antonio Catricalà avrebbe più possibilità del previtiano
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Donato Bruno. Senza dimenticare, va precisato, che potrebbe ritornare in pista, dopo
essere stato bruciato due mesi fa, lo storico legale dell’ex Cavaliere: Niccolò Ghedini. LE
AMBIZIONI di La Russa hanno un effetto anche sulla guerra scoppiata per il Csm dentro
Forza Italia e che contemplano le speranze di alcuni primi non eletti alla Camera. Nella
rosa azzurra per l’organo di autogoverno dei magistrati ci sono infatti Antonio Marotta e
Carlo Sarro, due deputati campani. Nel primo caso, l’elezione nel Csm libererebbe il
seggio per Amedeo Laboccetta, rimasto fuori dalla Camera nella circoscrizione Campania
1. Viceversa, se dovesse andare Sarro, già legato a Nicola Cosentino, a tornare in
Parlamento sarebbe Michele Pisacane (Campania 2). A completare il quadro degli
aspiranti c’è poi Francesco Paolo Sisto, altro deputato forzista, vicinissimo al leader della
fronda interna, Raffaele Fitto. Il patto tra Berlusconi e Renzi avrebbe trovato una soluzione
anche per la questione del vicepresidente. Al momento il nome su cui è stato chiuso l’ac cordo è quello di Massimo Brutti, altro ex dalemiano. Più basse, quindi, le quotazioni di
Giovanni Fiandaca, il giurista negazionista della trattativa Stato-mafia. Sugli altri nomi del
Pd, la sensazione è che Renzi alla fine spariglierà le proposte arrivate sul suo tavolo e
imporrà personalità rimaste coperte. Per esempio, Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo e
nipote del fu leader democristiano. Fanfani vanta una credenziale decisiva in questa fase:
è amico e compaesano di Maria Elena Boschi, vestale di governo del renzismo. In ogni
caso, in vista della fatidica data del 10 settembre, i tasselli del mosaico vanno riunendosi
dopo un lungo stallo che ha costretto Napolitano a un ultimatum.
del 05/09/14, pag. 18
L’ordine del Tar: “Regione Calabria subito al
voto”
Le elezioni andranno indette entro 10 giorni o deciderà il prefetto Senza
guida da marzo, quando Scopelliti fu condannato a 6 anni
GIUSEPPE BALDESSARRO
CATANZARO .
L’ultima parola l’ha pronunciata il Tar della Calabria imponendo ad Antonella Stasi,
presidente facente funzioni della Regione, di indire elezioni entro dieci giorni. Un
pronunciamento che mette fine ai continui rinvii, ai balletti di date e alla melina che da
mesi vanno avanti. Questa volta non dovrebbero esserci ulteriori “imprevisti” anche perché
gli stessi giudici hanno fin d’ora nominato commissario ad acta il prefetto di Catanzaro,
Raffaele Cannizzaro, che in caso di mancata adozione del decreto di indizione deciderà
«in luogo del vicepresidente della giunta regionale entro i successivi cinque giorni».
Il ricorso al Tar era stato presentato da un gruppo di associazioni rappresentate dagli
avvocati Francesco Pitaro e Gianluigi Pellegrino (che già si era occupato del ricorso contro
la Polverini nel Lazio). I giudici Salemi, Iannini e Raganella hanno chiesto di fissare la data
del voto «entro il più breve termine tecnicamente compatibile con la normativa». Si andrà
alle urne dunque entro 55 giorni (10 più i 45 previsti dalla legge), ossia l’ultima domenica
di ottobre. Per l’avvocato Pitaro «il muro di cemento armato, costruito con l’utilizzo di cavilli
e furbizie, per impedire ai cittadini di tornare alle urne è stato abbattuto».
La Calabria non ha più una guida da fine marzo, data nella quale il governatore Giuseppe
Scopelliti presentò dimissioni a seguito di una condanna in primo grado a sei anni di
reclusione per falso in atto pubblico e abuso d’ufficio (reato commesso quando era
sindaco di Reggio Calabria). Da allora uno stillicidio di rinvii, mentre in Consiglio e Giunta
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si è continuato a firmare decreti, assegnare finanziamenti e annunciare progetti. L’ultimo
appiglio a cui si erano attaccati i politici calabresi era la legge elettorale approvata il 3
giugno scorso. Un atto che avrebbe dovuto chiudere la partita ed aprire la campagna
elettorale. Invece no. La maggioranza ci aveva messo dentro lo sbarramento al 15% per i
partiti che non si presentano in coalizione e l’introduzione del consigliere regionale
supplente, che va a ricoprire il posto di quello chiamato in giunta come assessore. Due
elementi poi impugnati dal Governo e sui quali deve ancora pronunciarsi la Corte
Costituzionale.
Tra i primi a esultare per l’esito del Tar il segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno:
«Chiedevamo da tanto, troppo tempo, di ridare voce ai calabresi ». La Stasi dal canto suo
ha fatto buon gioco a cattiva sorte affermando che «la sentenza del Tar non
aggiungerebbe nulla rispetto alle procedure già avviate dalla Regione».
Del 5/09/2014, pag. 9
L’AQUILA, NELLE CASE DI CARTAPESTA È
VIETATO ANDARE SUI BALCONI
GLI APPARTAMENTI COSTRUITI DAL GOVERNO BERLUSCONI DOPO IL SISMA
NON SONO AFFATTO SICURI. DOPO IL CROLLO DI TRE GIORNI FA, IL SINDACO
HA EMANATO UN’ORDINANZA DI DIVIETO
Di Sandra Amurri
A Preturo, a soli undici chilometri da L’Aquila, una delle frazioni devastate dal sisma del
2009, di finanziamenti pubblici ne sono arrivati molti per l’aeroporto, dove sono sbarcati i
Grandi della Terra, ma oggi di aerei che decollano e atterrano neppure l’ombra. Mentre,
anche per mancanza di manutenzione, crollano, come fossero di carta pesta, i balconi
delle C.a.s.e. costruite per dare un tetto agli sfollati. “Abbiamo sentito un boato e la prima
cosa a cui abbiamo pensato è stato il terremoto e siamo usciti in strada” raccontano i
condomini di via Volonté, una delle 19 new town volute dall’allora premier Silvio
Berlusconi, che ospitano oltre 16 mila famiglie.
MOLTE DI LORO, da ieri, come recita l’ordinanza emessa dal sindaco, non potranno più
affacciarsi sui balconi finché non terminerà il sopralluogo che ne dovrà constatare la non
pericolosità. La causa? “Tutta da accertare” ci spiega il Procuratore capo Fausto Cardella
che ha assegnato il fascicolo dell’indagine appena aperta alla dottoressa Roberta
D’Avolio. Reato ipotizzato: crollo colposo di costruzioni. Nel frattempo che vengano
accertate le responsabilità penali, il sindaco Massimo Cialente punta il dito sulla mancanza
di risorse per la manutenzione delle C.a.s.e. realizzate con 500 milioni di finanziamento
dell’Unione europea che dallo Stato sono passate di proprietà del Comune. A realizzare i
23 palazzi dislocati tra Preturo, Collebrincioni, Sassa e Arischia era stato un
raggruppamento di imprese su bando indetto dalla Protezione civile allora capeggiata da
Bertolaso. Ma “la ditta che ha realizzato la palazzina dove è avvenuto il crollo del balcone
è fallita” come fa notare il sindaco. Tra i condomini c’è chi ancora ricorda quel 19 agosto
2009 quando Silvio Berlusconi con le braccia aperte rivolte alla folla al di là delle
transenne “benedì” il cantiere incassando un fiume di applausi. “Eravamo disperati e lui ci
restituiva una casa, dovevamo fischiarlo? Ma se tornasse oggi la musica sarebbe diversa”.
Erano quelli i tempi della distribuzione delle dentiere e dello spumante sul tavolo della
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cucina da stappare appena varcata la soglia della nuova vita offerta dal governo
Berlusconi. L’importante è fare e il “come” lo vede chi si trova di nuovo senza una casa.
Monica spinge il passeggino della sua piccola Cristina, nata tre anni dopo il terremoto. È
giovane ma i suoi occhi sono tristi nel guardare il palazzo dove è venuto giù il balcone a
pochi metri da quello dove abita lei. Occhi che la morte l’hanno vista troppo da vicino,
sotto le macerie ha perduto la sua più cara amica, per poterla dimenticare: “Sono
indignata e allo stesso tempo stanca di indignarmi”. Rabbia e rassegnazione due
sentimenti che si respingono e si mescolano fino a togliere la forza per sperare ancora in
una vita dignitosa e soprattutto sicura. Ne sa qualcosa il signor Leonardis, 88 anni, che
dorme nella camera che dà sul balcone su cui si è schiantato quello del piano di sopra.
“Era appena mezzogiorno quando sono rientrata in casa e poco dopo un boato ci ha
riportato indietro di cinque anni” racconta la figlia Luciana Leonardis proprietaria di un noto
ristorante.
“MIO PADRE È VIVO per miracolo, era stato sul balcone fino a qualche minuto prima
come fa ogni giorno per annaffiare le piante. Questo è quello che dobbiamo continuare a
sopportare, un’angoscia senza fine”. Due famiglie di nuovo sfollate e molte altre costrette
a vivere con la paura finchè tutti i sopralluoghi disposti non accerteranno che non vi è
pericolo di altri crolli. E dire che sono state realizzate senza guardare a spese visto che le
C.a.s.e., acronimo di antisismiche, sostenibili, ecocompatibili, sono costate 2.800 euro al
metro quadrato. Case dove vengono giù i balconi, dove anche le caldaie non sono a
norma, dove volano via pezzi di tetto, dove gli isolatori antisismici (cilindri posti alla base
delle case per rafforzare l’effetto antisismico) sono difettosi come ha dimostrato l’inchiesta
sui Grandi Rischi. A Sassa, altra frazione terremotata, ne sono state evacuate 30 perché
ritenute inagibili. Un dono della Protezione civile di Guido Bertolaso, costruite attraverso
un bando di 500 milioni di euro finanziato dall’Unione europea. È una furia l’assessore al
bilancio Lelio De Santis: “Il crollo conferma quello che in tanti avevano detto sul progetto
C.a.s.e.: costi pesanti, realizzazioni superficiali e fatte con i piedi, sicurezza poco e nulla e
affari per le imprese” che pensa a come mettere in sicurezza le persone prima che
vengano giù altri balconi visto che la pioggia continua a cadere e le previsioni non sono
benevoli. E infine si rivolge al governo, reo di non aver stanziato risorse per la
manutenzione: “Noi abbiamo messo in bilancio un milione di euro, ma c’è bisogno di fondi
straordinari. Poi dobbiamo accelerare le procedure per il soggetto che deve gestire per
una manutenzione seria altrimenti il patrimonio cadrà a pezzi”. Manutenzione ordinaria che
il Comune aveva affidato alla società Manutencoop e che richiede almeno nove milioni.
Mentre il tempo continua a dimostrare che il terremoto non è stata la sola disgrazia che si
è abbattuta su L’Aquila.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 05/09/14, pag. 24
E Riina scomunicò l’erede che si dedica solo
agli affari
Il boss in cella: Messina Denaro non combatte lo Stato
Forse Totò Riina sapeva, o poteva immaginare, di essere intercettato nei suoi colloqui
all’«ora d’aria», come pensa qualcuno; o forse, come ritiene qualcun altro, non lo sapeva
ma confidava che quel compagno di detenzione così insistente nel suggerirgli argomenti di
discussione, avrebbe poi trasmesso all’esterno le sue «rivelazioni». Oppure niente di tutto
questo: parlava solo ad uso e consumo del suo Ego e dell’immagine che voleva dare di sé
all’interno del carcere. In ogni caso - che comunicasse per veicolare i suoi messaggi o per
sfogo personale - le parole del capomafia hanno un peso. Fuori dall’organizzazione
criminale, ma soprattutto dentro. Per le minacce e gli improperi contro i suoi nemici, dai
magistrati ai preti antimafia, e forse anche per la ricostruzione di certi episodi.
Tuttavia l’aspetto più rilevante, qualunque fosse il grado di consapevolezza del boss sulle
microspie che lo stavano registrando, è probabilmente quello che coinvolge i rapporti
interni a Cosa nostra. In primo luogo i giudizi del Capo corleonese sugli altri padrini, e in
particolare su uno, il super-latitante (tra i responsabili delle stragi in continente del 1993)
considerato il suo successore al vertice della mafia del terzo millennio: Matteo Messina
Denaro, il primo ricercato d’Italia, uccel di bosco da oltre vent’anni. Magistrati e
investigatori lavorano senza sosta alla sua cattura, convinti che questo cinquantaduenne
originario di Castelvetrano, in provincia di Trapani, sia il vero erede del «capo dei capi». Il
quale però, nei colloqui intercettati un anno fa nel cortile del carcere milanese di Opera,
esprime opinioni e considerazioni tutt’altro che lusinghiere sull’ex ragazzo che l’ha
sostituito in cima alla lista dei «pericoli pubblici».
Il 30 ottobre 2013, Riina quasi si rammarica di quello che sta per affermare, ma poi non si
contiene: «A me dispiace dirlo questo... questo signor Messina (cioè proprio lui, Matteo
Messina Denaro, ndr ), questo che fa il latitante, che fa questi pali... queste...». Lorusso gli
viene subito in soccorso: «Pali eolici», riferendosi agli investimenti del boss trapanese
nelle energie alternative svelati da inchieste giudiziarie, notizie di stampa e trasmissioni
televisive. E Riina riprende: «Eolici... i pali della luce... se la potrebbe mettere nel...» e giù
espressioni volgari. Poi prosegue: «Questo si sente di comandare, si sente di fare luce
dovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di...».
Pensa solo a se stesso, lo accusa in sostanza il Corleonese; non dà più affidamento dal
punto di vista dell’organizzazione mafiosa: «Se ci fosse suo padre buonanima (il boss
«Ciccio» Messina Denaro, ndr ), un bel cristiano, che ha fatto tanti anni di
capomandamento a Castelvetrano, a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero».
Matteo invece no. Lui stesso lo ha cresciuto, sostiene Riina, e all’inizio prometteva bene.
Ma poi ha preso un’altra strada: «Questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo
fare. E’ stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia, tutto in una volta.... Si è
messo a fare la luce... E finì, e finì... Fa luce! (...) E a noi ci tengono in galera, sempre in
galera, però quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare».
La scomunica del Capo sembra netta, anche alla luce della considerazione che segue:
fuori dal carcere non c’è più nessuno deciso a continuare la guerra allo Stato che lui aveva
cominciato. «Se ci fosse stato qualche altro avrebbe continuato - dice Riina -. E non hanno
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continuato, e non hanno intenzione di continuare». A cominciare dall’ex ragazzo di
Castelvetrano, di cui ha perso il controllo: «Una persona responsabile ce l’ho - spiega il 4
settembre 2013 - e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo, che io non so
più niente». E in un’altra conversazione, due settimane più tardi: «Potrebbe essere pure
all’estero... L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto... Non ha fatto
niente... un carabiniere... io penso che se n’è andato all’estero». Come un vero capomafia
non dovrebbe fare. Vero o falso che sia, Totò Riina ha sconfessato il suo presunto erede.
Checché ne pensi l’interessato, il popolo di Cosa nostra — o quel che ne resta — ora è
avvisato.
Giovanni Bianconi
Del 5/09/2014, pag. 8
Riina parla di grazia
Poi minaccia Di Matteo
IL BOSS INTERCETTATO FANTASTICA, POI SPIEGA: “NON MI FARANNO MAI
USCIRE”. E TORNA STRAGISTA QUANDO ACCENNA AL PM CHE INDAGA SULLA
TRATTATIVA
Che vuole Totò Riina alla fine della sua carriera criminale? La grazia dal presidente della
Repubblica, anche se è consapevole che nessuno gliela darà mai. “Io cerco la grazia, ma
chi me la deve dare la grazia? Come me la devono dare la grazia?”, dice parlando con
Alberto Lorusso. Intanto dal cilindro delle sue rivelazioni nel carcere di Opera salta fuori un
tentativo di “aggiustamento” del maxiprocesso: “Pagammo un munseddu (un mucchio), ho
duecentosettanta milioni ...”, dice il boss parlando con Lorusso il 20 agosto 2013. E
aggiunge: “Minchia quando l’avvocato è venuto... come hanno gestito questo processo,
l’avvocato Maramma (fonetico), il padre di questo avvocato di Perugia era professore
dell’Università a Perugia per cui... mi aveva gestito parecchi processi... mi ha detto un
giorno. Dice: il presidente è bello, mi arriva questa... il fatto, veramente per dire la verità...
O dice tranquilli siamo”.
FINO ALLA FINE i boss mafiosi hanno sperato in un esito positivo della Cassazione, ma
temevano l’intervento di Falcone, da un anno ormai trasferito a Roma al ministero della
Giustizia. “Quello non vorrebbe fare abusi o... di mettere lui perché, c’era questo, questo
Falcone pure lo sapeva... minchia... ci mette in galera –prosegue Riina –è un bravo
cristianu... tenetevi a lui”. E infatti l’esito è segnato, il Guardasigilli Martelli allertato da
Falcone dispone la rotazione dei presidenti di sezione della Cassazione e si decide di
affidare il processo alle Sezioni Unite: al posto di Carnevale, detto l’ammazza-sentenze,
va Arnaldo Valente. Riina racconta di essere stato contattato da qualche altro boss per
“aggiustare” il processo: “Minchia quando mi viene a dire... è venuto l’avvo - cato... o la
presidente... o ah... non si preoccupi avvocato... tutto vedevano... o cioè, forse non c’è
niente da fare. Avete capito che gli ho dato? Gli ho dato un po’ di strada, per dire... datevi
da fare che io non posso fare niente, per dire io non posso fare niente. Quando lui
invece, gli ha detto: tutto a posto? Ho detto: a posto non c’è niente... e la condanna è
arrivata... il presidente dice... ne ha messo un altro. Andiamo a fare il processo. Abbiamo
fatto il processo... conferma le condanne”. Per nulla ridimensionato dall’età nelle sue
aspirazioni stragiste (“pure se ho cento anni sono un uomo e so quello che devo fare’’),
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chiacchierando con Lorusso il 26 ottobre 2013, Riina sogna di realizzare nuovi attentati
(“inizierei domani mattina: perché, me lo sono tolto il vizio?’’), e finisce col vagheggiare
la grazia: “Dice: ma questo di nuovo incom… (incomincia, ndr?). Fai uscire a questo di
docu (da qua), esci di qua. Io cerco la grazia, ma chi me la deve dare la grazia? Come
me la devono dare la grazia?’’ Lorusso, senza nascondere la sua sorpresa, gli fa notare:
“La grazia non ve la danno, ma chi ve la deve dare la grazia? In quanto anziano vi
devono uscire’’. Riina recupera il senso di realtà e risponde: “Neanche se ho altri
trent’anni... Minchia... non sanno, non sanno, ma il signore gliela paga, gliela ricambia
pure a loro’’. Fantasticando la sua vendetta, il boss si ricorda del pm Nino Di Matteo:
“Questo Di Matteo, questo disonorato, questo prende pure il presidente della
Repubblica... Lo sapete come gli finisce a questo la carriera? Come gliel’hanno fatta
finire a quel palermitano, a quello, il pubblico ministero palermitano’’. E Lorusso:
“Castiglio - ne’’ (il procuratore Pietro Scaglione, ucciso a Palermo il 5 maggio del ’71).
Riina: “Sì. A questo gli finisce lo stesso’’.
LORUSSO LO INCALZA: “Crollano di carriera e ci finisce così… vengono emarginati
perché hanno fallito, portano un sacco di danno allo Stato, sprecano di soldi…”. Riina si
rammarica: “Quanto danno, quanti soldi, quanto, quanto….”. Poi torna a concentrarsi su
Di Matteo e sulla testimonianza di Napolitano nel processo sulla trattativa: “Mi guarda,
mi guarda proprio, negli occhi mi guarda, ma con quale coraggio…Que - sto è proprio
accanito…questo capo della Repubblica vorrebbe…’’ Lorusso gli fa notare che il
vicepresidente del Csm Michele Vietti ha espresso la sua contrarietà alla citazione di
Napolitano e Riina concorda: “Quello è un magistrato, fa bene a consigliarlo così, per
dire… minchia ma questo dove vuole andare?’’. Infine, il boss fa un autentico proclama
contro la magistratura: “Se io conosco una magistratura – dice Riina – se io attacco la
magistratura, se io penso che è un nemico da combattere, ma che la combatto
scherzandoci, giocandoci? Io combatto con tutti i sensi nel corpo che ho, tutte le forze
che mi danno’’. Per poi concludere: “Io sono stato un nemico pericoloso. Non gliene
capiteranno più. Per dire, come quello non ce n’è. Se lo ricorderanno sempre’’.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 05/09/2014, pag. 1-6
L’estrema destra ora parla «padano»
Lega nord. La torsione radicale di Matteo Salvini ha attratto nell’orbita
del Carroccio sia Casa Pound che Forza Nuova
Saverio Ferrari
L’etrema destra in Italia si sta ridisegnando. Un processo in realtà in atto da tempo. L’esito
delle ultime europee ha però impresso un’accelerazione decisa e cambiato il corso delle
cose. L’elemento di forte novità consiste nell’ultima mutazione della Lega Nord che nei fatti
sta sostituendo le altre destre (da Forza Italia a Fratelli d’Italia) nello storico ruolo di garanti
per la galassia neofascista nei termini di coperture istituzionali, sdoganamenti e alleanze
elettorali. Sotto la guida di Matteo Salvini la Lega ha ripreso vigore invertendo un trend
pesantemente negativo. Centrale da questo punto di vista è stata la decisa virata a destra,
una sorta di torsione radicale che ha oscurato tutti gli altri progetti coltivati nella precedente gestione maroniana, dall’idea di una macroregione del Nord all’ipotesi dell’attuale
sindaco di Verona, Flavio Tosi, incentrata su un nuovo partito tipo Csu bavarese, regionalista e conservatore, da collocare nell’ambito del centro-destra, superando in prospettiva la
stessa Lega. La svolta è consistita, in primo luogo, nel recupero pieno di tutti i temi di
impianto razzista che avevano caratterizzato il partito al tempo del congresso di Assago.
In quell’occasione, era il 2002, si assunsero ufficialmente da parte di Umberto Bossi tutti
i tratti tipici di una formazione di estrema destra, dal rifiuto della «società multirazziale»
alla «difesa della cristianità minacciata dall’invasione extracomunitaria». La «Padania», in
quel contesto, quasi diveniva “una cittadella assediata” entro cui arroccarsi. In compenso
ai migranti si addebitava la responsabilità di ogni male, dalla crescita della criminalità al
dilagare delle droghe e della prostituzione, fino al diffondersi di malattie vecchie e nuove.
La lettura di tipo apocalittico, si vedano le conclusioni di quel congresso, si sostanziava in
un atto di accusa finale nei confronti dei «poteri forti» e delle lobby finanziarie intente
a manovrare, secondo una visione complottista, i flussi migratori per sradicare le tradizioni
culturali e religiose di interi territori, in primis delle regioni nordiche. Nel rideclinare da parte
di Salvini queste ossessioni razziste si è però provveduto a cambiare i destinatari del messaggio, non più circoscritti ai «padani» ma comprendenti l’insieme degli italiani. Una svolta
di tipo “nazionalista” con la quale la Lega si è presentata alle europea, ribadita, pur con
qualche articolazione, al recentissimo congresso straordinario di luglio a Padova. In ciò un
elemento di indubbia novità. Per la prima volta nella sua storia la Lega ha tenuto e organizzato in una campagna elettorale iniziative nelle regioni del centro-sud. In prima fila lo
stesso segretario. Anche il taglio degli slogan è mutato per indicare il nuovo corso: «Basta
tasse, basta immigrati, no Euro, prima gli italiani!». La traduzione in pratica delle posizioni
del Front national francese con il quale il partito di Salvini ha stretto un’alleanza in occasione del voto. Da qui il superamento del secessionismo (vedremo fino a che punto) che
ha fortemente impattato nel mondo dell’estrema destra, che incapace di presentare proprie liste è rifluito in larga parte in quelle della Lega. È stato il caso di Casa Pound, che ha
sostenuto apertamente nel centro Italia la candidatura di Mario Borghezio, poi eletto con
poco più di 5mila preferenze.
L’azione della Lega nei prossimi mesi si incentrerà sul rilancio dei “forconi” da porre, questa volta, sotto le sue ali. Diversi sono stati gli annunci in questa direzione. L’idea è quella
di una rivolta fiscale, da Nord a Sud, anche come leva per la costituzione di nuovi soggetti
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associativi e politici locali da federare alla Lega stessa, magari, come preannunciato, con
nel simbolo l’Alberto da Giussano. Già si parla di “leghisti” siciliani, calabresi o della
Tuscia. In questo quadro il deposito in Cassazione a fine giugno di 3 milioni di firme in
calce alla richiesta di 5 referendum accompagnerebbe su scala nazionale questa campagna. A far da traino nella raccolta delle sottoscrizioni è stata indubbiamente la cancellazione della “legge Fornero”, anche per richiedere lo stop ai concorsi aperti agli immigrati
e la soppressione di due leggi invise ai fascisti, la legge Merlin e soprattutto la legge Mancino con il reato di istigazione all’odio razziale, etnico e religioso.
A finire nell’orbita della Lega è anche Forza nuova, attraverso un percorso diverso. Il partito di Roberto Fiore è in forte difficoltà. Tutti gli obiettivi prefissati sono stati mancati,
anche in modo clamoroso, dalle politiche del febbraio 2013 (0,26%) alla non presentazione alle europee di maggio data l’incapacità di raccogliere le firme. L’idea di contendere
da destra, in particolare sui temi dell’immigrazione e dell’uscita dall’euro, consensi alla
Lega, si è risolta in unadébacle. Da qui un’emorragia, ancora in corso, specie al nord, di
quadri e militanti proprio verso Salvini, con la chiusura spesso di sezioni storiche. Non
indifferenti, in questo scenario, anche l’accumularsi di debiti e le accuse a Fiore di
gestione verticistica. Per tutti l’approdo si sta sostanziando nell’adesione all’associazione
Patriae, costituita da un ex esponente de La Destra, Alberto Arrighi, finanziata dalla stessa
Lega, la cui funzione, al momento, sembrerebbe proprio quella di ospitare singoli militanti
e realtà collettive provenienti dal neofascismo in crisi. Il sostanziale fallimento di chi pensava di poter trapiantare in Italia esperienze come Alba dorata o Jobbik si sta nei fatti risolvendo guardando alla “nuova” Lega. Anche alcuni vecchi “arnesi” sembrerebbero interessati. Non a caso due tra i principali protagonisti della strategia della tensione, Stefano
Delle Chiaie, l’ex capo di Avanguardia nazionale, e Mario Merlino, noto provocatore, nonché esperto in infiltrazioni, nel tentare di rieditare, pur solo in forma associativa, la vecchia
sigla di An, hanno provveduto a omaggiare ostentatamente il “vecchio camerata”
Borghezio. Un panorama nuovo, quello che si sta delineando, destinato a incidere in profondità nell’estrema destra. La prima verifica sarà il 18 ottobre quando a Milano sfileranno
in un corteo nazionale, promosso dalla Lega «Contro gli immigrati», tanto i leghisti quanto
tutte le principali sigle del neofascismo.
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SOCIETA’
del 05/09/14, pag. 13
Arriva la marijuana di Stato: sarà prodotta
dall’Esercito
Via libera alla coltivazione della cannabis per uso terapeutico La scelta
è caduta sullo stabilimento chimico militare di Firenze
Amedeo La Mattina
Lo Stato produrrà marijuana a uso terapeutico. Per un paradosso della storia, a produrla
sarà l’esercito italiano: verrà coltivata dallo stabilimento chimico militare di Firenze. Le
origini dell’istituto farmaceutico risalgono al 1853, quando a Torino fu istituito un deposito
di Farmacia militare.
Oggi lo stabilimento fiorentino, nato con l’obiettivo di produrre medicamenti per il mondo
militare, ha esteso la sua attività anche al settore civile. E ora produrrà i farmaci derivati
dalla cannabis attualmente importati dall’estero a costi elevati. Il via libera è stato dato dai
ministri della Difesa e della Salute Roberta Pinotti e Beatrice Lorenzin, dopo varie
polemiche e rallentamenti. La notizia verrà ufficializzata entro settembre.
Pinotti (Pd) aveva dato da tempo il suo ok. Lorenzin (Ncd) è stata più prudente, non solo
per un approccio culturale diverso: soprattutto perchè le questioni che il suo ministero
deve affrontare sono diverse e molto delicate dal punto di vista tecnico. Era stato istituito
un tavolo di lavoro dove la questione è stata esaminata anche con l’istituto farmaceutico
militare. Adesso, spiegano al dicastero della Salute, sono in via di stesura i protocolli
attuativi. A questo punto, non è escluso che entro il 2015 i farmaci cannabinoidi saranno
già disponibili nelle farmacie italiane.
Eppure questa conclusione non sembrava così pacifica: si temeva da una parte della
maggioranza che si aprissero le porte alla liberalizzazione delle droghe leggere. Ma
chiarito che non è questo il caso, l’accordo è decollato. Il ministro Lorenzin ha sempre
detto che «dal punto di vista farmacologico, non ci sono problemi all’uso terapeutico della
cannabis: nessuno mette in dubbio gli effetti benefici, ma va trattato come un farmaco».
Insomma, non si tratta di fumarsi una canna, ma di coltivazione e produzione controllata e
monitorata da una struttura, addirittura militare.
Il ministro della Salute, che si definisce una persona «open mind» e non chiusa in
preconcetti ideologici, come ha dimostrato pure sulla fecondazione eterologa, non accetta
che su questa materia si agitino battaglie culturali con l’obiettivo di liberalizzare le droghe
leggere. «La mia impressione è che in questo Paese non si riesca a parlare in temi in
termini laici e asettici, senza ricominciare a parlare di liberalizzazione».
Diverso è il caso di agevolare l’uso della cannabis a uso terapeutico, in particolare il
ricorso ai cosiddetti farmaci cannabinoidi per lenire il dolore nei pazienti oncologici o affetti
da HIV e nel trattamento dei sintomi di patologie come sclerosi multipla, sla, glaucoma.
Perchè questo è l’obiettivo che porta la svolta di affidare a una struttura militare la
coltivazione della marijuana e la produzione dei farmaci derivati.
Molte diffidenze nei confronti del ministro Lorenzin erano venute da ambienti Radicali e
anche del Pd. Era stato detto che la responsabile della Salute frenava, rallentava questa
soluzione, che invece aveva visto la sua collega Pinotti subito d’accordo.
Il senatore Luigi Manconi del Pd è stato uno dei più critici: rimane ancora diffidente perchè
vuole vedere se si andrà fino in fondo in questa scelta. Era stato lui a proporre una legge
per consentire la coltivazione della cannabis da parte di soggetti autorizzati, come appunto
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lo stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze. «In condizioni, quindi, di assoluta
sicurezza, ma il ministro Lorenzin ha ritardato nel dare una risposta positiva a fronte di una
dichiarazione di consenso da parte del ministro Pinotti».
Adesso la risposta positiva c’è stata e nei prossime settimane verrà dato l’annuncio
ufficiale.
Chi in questi anni ha insistito per questa soluzione, come la radicale Rita Bernardni, ha
fatto presente i costi altissimi e la difficoltà di reperire i farmaci cannabinoidi. Infatti solo 60
persone in Italia hanno avuto accesso alla cannabis per uso terapeutico attraverso le Asl.
del 05/09/14, pag. 25
Cambia l’oratorio sempre meno preti più
cinema e musica e tra i ragazzi è boom
Crescono le strutture e le presenze in tutta Italia. Perché aggregano
(“C’è vita oltre la play-station”), sono economici, creativi e creano posti
di lavoro. Come quelli dei giovani animatori che sostituiscono i religiosi
JENNER MELETTI
ASSISI .
Sono orgogliose, Valentina e Federica. Assieme all’amico Cristian, quest’anno hanno
inventato un nuovo gioco, il «Calcetto ramazzato ». «Si gioca col pallone ma invece dei
piedi si usa una scopa. E abbiamo organizzato anche la Dama umana». Arrivano da
Cerfignano, in Puglia. Età compresa fra i 16 ed i 18 anni. «Nel nostro paese di 1.600
abitanti alla festa organizzata dall’oratorio hanno partecipato quasi in mille, fra piccoli,
ragazzi e ragazze e adulti. Insomma, c’erano tutti.
E pensare che fino a cinque anni fa, quando non c’era l’oratorio, l’estate era solo una
pausa vuota fra la fine delle scuole e l’inizio del nuovo anno fra i banchi». «L’oratorio —
dice il parroco, don Pasquale Fracasso — è diventato il cuore e il motore della parrocchia
e non solo. Ci vengono anche le nonne, a preparare i pasti dei bambini. Da noi, se non ti
inventi qualcosa, d’estate puoi solo guardare i turisti che vanno verso il mare». Strano
mondo, quello degli oratori. Ci trovi ragazzi come Simone, 16 anni, di Tor Bella Monaca a
Roma, che ti spiega come «un giovane non può vivere solo di playstation.
Anch’io ci giocavo, da piccolo. Ma poi all’oratorio scopri che il mondo vero è più bello e
soprattutto più vivo. Ci trovi amici in carne e ossa, e se giochi a calcio o pallavolo non usi
solo i pollici. Io ci sono quasi nato, in un oratorio: sono un utente e poi operatore di terza
generazione. Mi diverto, soprattutto, ma mi sento anche utile. In un quartiere difficile come
il nostro, c’è bisogno di molte mani, per cambiare le cose».
Non sono casi isolati, Simone e gli altri. Quest’anno i bambini e ragazzi accolti nel Grest
(Gruppo estivo) e negli altri oratori sono stati 2 milioni, mezzo milione in più rispetto a due
anni fa. Settemila le strutture aperte, 300mila gli animatori. Millecinquecento di loro sono
ad Assisi, per il secondo happening nazionale, a discutere di “LabOratori di comunità”.
Molte cose sono cambiate, in questi ultimi anni. E non è finita.
«Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa… Ora mi annoio più di allora,
nemmeno un prete per chiacchierar». Le parole di “Azzurro” in fondo erano una profezia.
«Abbiamo sempre avuto — dice infatti don Marco Mori, presidente del Forum degli oratori
— i sacerdoti come responsabili. È forse l’ora di decidere che ci siano anche i laici a fare
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questa cosa. Ci vogliono figure preparate e responsabili, in grado di portare avanti questa
storia che è ancora da scrivere ».
In alcune realtà l’oratorio senza prete è già una realtà. «A Milano, secondo la tradizione —
racconta don Samuele Marelli — i sacerdoti giovani non solo seguivano l’oratorio, ma ci
abitavano anche. Dopo il Concilio è nata una corresponsabilità fra laici e presbiteri. Ora
una fondazione cura la formazione dei “direttori laici di oratorio”, che hanno un contratto
full time, con stipendi da 1.100, 1.200 euro al mese per 38 ore di lavoro».
Mille gli oratori nella diocesi milanese aperti tutto l’anno, 150 a Roma quelli organizzati
almeno d’estate. Nella gran parte del Paese a guidare i ragazzi è però ancora il sacerdote,
che non indossa più la talare — doveva tirarla su per tirare due calci al pallone o fare
l’arbitro — ma resta guida e responsabile di ogni attività.
«La sua presenza non è più necessaria — dice don Marco Mori — perché l’oratorio è
cambiato. Un tempo si pensava che l’educazione dovesse arrivare dall’alto e il sacerdote
era il fulcro di tutto. Ora vogliamo invece che gli stessi ragazzi diventino protagonisti,
diventando operatori già a 14 o 15 anni. Il segreto del boom dell’oratorio? È diventato
simpatico, fruibile, vicino ai ragazzi che vengono volentieri perché non “usano” un servizio
già preparato ma sono chiamati a inventarlo. “Ci interessa il teatro” e allora lo facciamo
assieme. Così per lo sport, i giochi, la musica, il cinema… Tutto questo alla luce del sole.
Gli oratori sono nel centro dei paesi, le famiglie conoscono programmi e progetti. Certo,
nella nostra crescita ha pesato anche la crisi economica. In estate se vai a un centro
sportivo ti chiedono 250, 300 euro alla settimana, l’oratorio in media costa 30 euro,
quaranta se è previsto anche il pasto».
Per i baby operatori si fanno incontri di formazione. Per i direttori senza tonaca c’è anche
un corso di perfezionamento all’università di Perugia, dedicato a “Progettazione, gestione
e coordinamento dell’oratorio”. Un anno di studio, riservato ai già laureati. «Tutto cambia»,
dice Marco Moschini, docente di filosofia teoretica e direttore del corso. «Per insegnare
alle elementari un tempo bastavano quattro anni di Magistrali e adesso serve una laurea
quinquennale. Se lo guardi da fuori, l’oratorio sembra avere una gerarchia, con il
responsabile, gli animatori e sotto ancora i bambini ed i ragazzi. È invece un solo universo,
un unico progetto, che deve rapportarsi con esigenze sociali, ecclesiali e territoriali. È un
presidio educativo e ha bisogno di figure specializzate. Accoglie gli individui e forma una
comunità. Per questo è necessaria una progettazione didattica e serve anche una
pedagogia dell’inclusione».
Il corso è iniziato due anni fa, 50 iscritti in media. «Quest’anno abbiamo anche 3 frati e 4
sacerdoti, ovviamente già laureati. Loro sono venuti per fare meglio un lavoro già sicuro,
ma anche altri giovani hanno trovato un mestiere e anche uno stipendio». Andrà avanti
fino a domenica, l’happening. Canzoni, cori, preghiere, incontri con vescovi e cardinali,
caccia alle idee da portare a casa. A salire per primi sul palco del grande teatro Lyrick
sono stati i Big, Brother in God, fratelli in Dio.
Cena con due panini e una pesca. Meglio l’oratorio, in cucina resistono ancora le nonne.
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CULTURA E SCUOLA
del 05/09/14, pag. XI (Roma)
La mobilitazione dopo lo sfratto Il sostegno dei big del grande schermo
in campo anche Scamarcio
Cinema America la sfida continua “Pronti a
occupare altre sale in città”
MAURO FAVALE
«TORNIAMO subito», scrivono sui social network i ragazzi del Cinema America. Il giorno
dopo lo sgombero della storica sala in via Natale dal Grande, nel cuore di Trastevere, gli
ex occupanti proseguono la mobilitazione, forti del sostegno delle associazioni dei
residenti e dei nomi più in vista del cinema italiano. Dopo le prese di posizione di Paolo
Sorrentino, Paolo Virzì, Elio Germano, Daniele Vicari, ieri è stato il turno
di Riccardo Scamarcio.
L’attore, a Venezia per il festival del cinema, su Twitter scrive: «Grande sostegno a tutti gli
attivisti che in questo periodo stanno subendo gli sgomberi come al Teatro Valle e al
Cinema America», tenendo insieme le due esperienze culturali di autogestione che, nel
giro di un mese, sono state costrette a chiudere i battenti in città. Per entrambe, però,
prosegue un’interlocuzione con le istituzioni cittadine. Perché se il percorso della
Fondazione Teatro Valle occupato prevede già una serie di incontri con il Teatro di Roma
per stilare una bozza di convenzione (il primo c’è stato tre giorni fa), oggi è prevista una
riunione tra i giovani del Cinema America e l’assessore all’Urbanistica Giovanni Caudo. Un
appuntamento programmato prima dello sgombero di due giorni fa, durante il quale
dovrebbe fare qualche passo in avanti la proposta di “azionariato popolare” per acquistare
lo stabile di via Natale dal Grande lanciata l’altro ieri in piazza San Cosimato. Un’idea
fissata anche nella frase che campeggia sull’home page del sito dell’America: «È stato
sgomberato ma Trastevere lo ha rivendicato, occupato, restaurato... e ora se lo compra».
Per ora tutto è bloccato fino alla definizione del vincolo posto dal ministero, dopo la
sollecitazione della Regione Lazio. «Il Comune farà la sua parte», ricordano anche in
Campidoglio. La proprietà dello stabile, però, la Progetto Uno srl, è pronta a fare ricorso
proprio contro il vincolo che conserverebbe la destinazione d’uso di quella sala. Intanto, i
ragazzi del Cinema America hanno rispolverato la loro “antica” attività, la “mappatura”
degli spazi abbandonati a Roma. «L’ambizioso progetto, iniziato a settembre 2012 — si
legge sul blog romabbandonata. org — ha lo scopo di catalogare sia edifici pubblici che
privati (purché di interesse collettivo), di raccoglierne la storia e le informazioni, e di
rendere aperte a tutti queste risorse».
La filosofia di fondo è spiegata così: «Abbiamo maturato la convinzione che quando la
proprietà, pubblica o privata che sia, lascia per anni un edificio abbandonato per mala
gestione del patrimonio pubblico o per logiche speculative, sta a noi riprendercelo ». In
tutta la città, soprattutto in centro, gli spazi abbandonati (specie ex cinema) sono decine,
dall’ex “Paris” in via Magnagrecia, all’ex “New York all’Appio, a un cinema parrocchiale in
zona piazza Cavour.
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Del 05/09/2014, pag. 7
Da Renzi una lenzuolata per la scuola
postfordista
Scuola . Con qualche decennio di ritardo, la «fabbrica del sapere» passa
dal «modello toyotista» a quello post-fordista. La ricattabilità del lavoro
è la chiave del "patto educativo" presentato dal governo
Marco Bascetta
A dire il vero centotrenta pagine per spiegare con l’ossessiva, defatigante ripetizione di
pochi scarni concetti ciò che poteva, con maggiore chiarezza, essere esposto in una
decina di cartelle, non è proprio esempio di agilità e incisività. Può darsi che a forza di correre, i consulenti di Renzi non abbiano avuto il tempo di essere brevi. La «sbrodolata»
rivela tuttavia in controluce quale debba essere l’idea di «produttività» che ispira il progetto
governativo per la scuola. La stessa che suggerisce di lasciare accese le luci alle finestre
dei ministeri fino a tarda notte.
«Scrivete, scrivete!» «Riunitevi, riunitevi!» «Lavorate, lavorate!» Non aveva detto il Filosofo che la quantità si trasforma in qualità? Insomma, se dalle catene di montaggio alle
filande pakistane l’idea di «produttività» è rimasta piuttosto costante e chiara, non altrettanto può dirsi per il mondo dell’insegnamento.
Cosicché bisognerà ripetere per decine e decine di pagine le paroline magiche che infestano ormai da lunghi anni bipartisan i discorsi sulla controriforma della scuola: innovazione, merito, miglioramento, formazione permanente, competenza, professionalità. Il cui
significato resta appannaggio di un ipertrofico e arbitrario apparato di valutazione, il cui terminale, arricchito dalle inevitabili simpatie e antipatie, sarà il «dirigente scolastico», il
preside-manager. Tra reti di istituti, autonomie e «modello toyotista», con tanto di
professore-mentore per lo sviluppo e la circolazione delle competenze, la «fabbrica del
sapere» dovrebbe finalmente passare, con qualche decennio di ritardo, alla fase «postfordista». Il tutto accompagnato dall’eterno sventolio della bandiera inglese e di quella informatica, rimedi universali a ogni male. E, naturalmente, da quel «rafforzamento del rapporto col mondo del lavoro» del quale i pianificatori ministeriali, che lo evocano senza
sosta, ignorano quasi del tutto.
E più di ogni altra cosa il fatto che le aziende, della scuola, se ne infischiano altamente,
come hanno ampiamente dimostrato nel corso degli anni. L’entità degli investimenti privati
su formazione, ricerca e innovazione in Italia non lascia molti dubbi. Ma sarà solo incrociando il «patto per la scuola» (in italiano) con il «jobs act» (in inglese) che risulterà più
chiaro il destino riservato alle giovani generazioni e alle «competenze» che vengono loro
promesse.Tuttavia, purtroppo, non dobbiamo nutrire eccessive illusioni. Il progetto renziano per la scuola piacerà e convincerà. I numerosi «sì ma», «si però», che lo hanno
accolto sono le prime testimonianze di un sostanziale gradimento. Con facile astuzia, dopo
anni di «riforme» la cui sostanza consisteva nei tagli e nelle strette disciplinari che hanno
reso la parola «riforma» assolutamente impronunciabile, il premier si è premurato di sostituirla con «patto». Nel frattempo, dai grillini ha appreso come le vaste consultazioni (famiglie, insegnanti, studenti, aziende) suonino assai bene e disturbino assai poco il manovratore. Con qualche emendamento «dal basso» il feticcio della partecipazione è servito.
Ma la chiave del successo (come già gli 80 euro in busta paga) è la più magica di tutte le
parole: «assunzioni». Coi tempi che corrono la prospettiva di un posto di lavoro, dopo
estenuanti attese e speranze frustrate, sovrasta qualsivoglia preoccupazione sulle condizioni di questo lavoro. Che si richieda mobilità, sottomissione ai «valutatori» (detta
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«merito»), aumento degli orari, imposizione dei contenuti, tutto passa in secondo piano
rispetto alla necessità di portare a casa un salario. E lo si può capire.
La ricattabilità del lavoro è l’arma decisiva nelle mani di questo governo. E anche qui
aspettiamo il jobs act per completare un quadro che si annuncia nel suo insieme piuttosto
tenebroso. Altro che «vocazioni», «voglia di fare» e «desideri di realizzazione»! Che poi gli
impegni e il «cronoprogramma» vengano rispettati è tutt’altra faccenda. Ma, intanto, indietro non si torna. Ultimo elemento di forza del «patto» renziano sono le condizioni decisamente grame in cui versa l’istituzione scolastica. Che queste siano state prodotte da
ricette e ideologie non molto dissimili da quelle proposte da Renzi, e accompagnate da
parole d’ordine quasi identiche è una circostanza che la memoria sempre più corta degli
italiani permetterà facilmente di lasciare in ombra. Il premier viaggia in un clima culturale,
quello del «capitale umano», dell’«imprenditore di se stesso» e della «competizione» che
debitamente sottoposto a uno slittamento semantico dalla ruvida terminologia economicistica a quella più suadente dell’etica patriottica, contribuirà, ahinoi, a spianargli la strada.
Agli insegnanti, blanditi con la retorica più stucchevole, il «patto» attribuisce il dovere (e
l’onore) di forgiare il paese del futuro. Anche se a «forgiarlo» sarà piuttosto la cementificazione delle Grandi opere, la perdita dei diritti e gli interessi delle oligarchie. Confidiamo che
stia per entrare alla materna il finanziere etico che tra quarant’anni ci regalerà un capitalismo dal volto umano. Auguriamo all’allora ottantenne Matteo Renzi di godersi, passo dopo
passo, lo spettacolo.
del 05/09/14, pag. 1/27
I posti in classe? Li decide il ministro
di ELVIRA SERRA
Separare gli amici e impedire che i disturbatori si nascondano nelle ultime file: sono due
dei suggerimenti dati dal ministero dell’Istruzione inglese ai professori per mantenere la
disciplina in classe. La soluzione all’irrequietezza degli studenti starebbe anzitutto nel non
far scegliere loro il posto in cui sedersi, evitando «cricche» di quartiere.
La soluzione all’irruenza degli studenti potrebbe essere comiciare a far scrivere le frasi alla
lavagna a quelli più pestiferi, come fa Bart Simpson: «Non griderò “al fuoco” in una classe
affollata». Un altro sistema, di sicuro effetto secondo il sottosegretario all’Educazione
inglese, Lord John Nash, dei Tory, è quello di non far scegliere agli allievi il posto in cui
sedersi, evitando così le «cricche» di quartiere, capannelli di chiacchieroni e ultime file
trasformate in trincee da teppisti in erba.
Le indicazioni del ministero inglese seguono i risultati del sondaggio che avverte: un
insegnante su tre della scuola media non ha fiducia nella propria capacità di mantenere la
disciplina in classe. Le linee guida servono quindi a suggerire ai professori gli strumenti
essenziali per far rigare dritti i loro ragazzini. Come punirli, per esempio? Con i lavori
socialmente utili: pulire il parco oppure cancellare i graffiti. E poi basta con l’approccio
morbido alla didattica: le poesie si devono imparare a memoria già a cinque anni, e undici
anni è l’età giusta per cominciare a fare i test di matematica senza usare la calcolatrice.
Ancora, l’informatica deve far parte del programma scolastico dai cinque ai 14 anni e le
lingue straniere bisogna impararle già alle elementari.
«Un invito al rigore giustificato dai problemi sociali del Paese, e di Londra in particolare,
che si trova nella condizione di alcune città statunitensi, come Washington o New York,
con un grosso problema di controllo dei comportamenti», avverte Lucio Guasti, già
presidente dell’Indire, l’Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica.
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«Insomma, è un provvedimento legato al forte disagio comunitario, ma credo che questi
provvedimenti siano totalmente marginali rispetto alla sostanza».
Impedire a un alunno di scegliere il banco in cui sedersi non sembra una grande idea a
uno come Eraldo Affinati, scrittore e insegnante alla Città dei Ragazzi di Roma. Nel suo
Elogio del ripetente , pubblicato l’anno scorso con Mondadori, ha scelto proprio il punto di
vista dell’adolescente che ha fallito. «Soltanto lui può aiutarci a capire dove noi adulti
abbiamo sbagliato», spiega. Ammette di aver da sempre una predilezione per quelli che si
siedono in ultima fila. «Sono i miei preferiti: come diceva don Milani, la scuola non deve
essere un ospedale che vuole curare i sani, ma i malati». Né, in trent’anni di esperienza
con i ragazzi più difficili, gli è mai passato per la testa di separare forzatamente qualcuno.
«È diverso spostare quelli che chiacchierano, ma anche lì dipende dalle situazioni. Il punto
è che quando si parla di educazione le norme generali valgono poco. Semmai, un
insegnante deve cercare di essere maestro e amico, vale a dire condividere gli sconforti
degli studenti, ma stabilire il limite da non superare».
Senza entrare nel merito delle indicazioni inglesi, la psicopedagogista dell’Università
Bicocca di Milano, Susanna Mantovani, considera questi temi «niente affatto irrilevanti»:
«Riflettono preoccupazioni che stiamo vivendo in tutto il mondo. Mi piacerebbe che gli
insegnanti ne discutessero e che la scelta del posto diventasse oggetto di dibattito, ma
non per arginare i teppistelli, piuttosto per porci delle domande sul percorso educativo. A
volte succede a me di dover chiedere ai miei studenti di venire avanti dai posti in fondo, e
siamo all’Università. Però non direi mai: tu stai lì e tu spostati là. Di per sé è una cosa
stupida».
Quando si parla della relazione educativa c’è sempre un pendolo che oscilla tra la totale
libertà dei ragazzi e l’autoritarismo degli insegnanti. «La scelta migliore è l’assertività dei
docenti», suggerisce Pierpaolo Triani, pedagogista della Università Cattolica di Piacenza.
Per lui è giusto che gli insegnanti scelgano la disposizione degli studenti. «Purché non
diventi un’arma di potere. Mentre ha senso che il docente si assuma la responsabilità della
gestione delle dinamiche di relazione all’interno della classe, magari facendo ruotare i
bambini per sfruttare il miglior contributo di ciascuno».
Del 05/09/2014, pag. 4
Scuola, Gelmini canta vittoria: “La riforma
Renzi è nostra”
Istruzione. Quando la sinistra impone le riforme della destra liberista.
L'ex ministro dell'Istruzione rivendica il "patto educativo" presentato
dall'attuale presidente del Consiglio. Merito, valutazione,
aziendalizzazione e privati, la critica del 68. Valori "berlusconiani"
applicati dal Pd
Roberto Ciccarelli
Chiamatela riforma Renzi-Gelmini. Perché ieri l’ex ministro dell’Istruzione Maria Stella Gelmini, colei che ha tagliato 8,4 miliardi di euro alla scuola e 1,1 all’università nel 2008, ha
assimilato il «patto educativo» proposto dall’attuale presidente del Consiglio e dal suo
ministro dell’Istruzione Stefania Giannini alla «tradizione di Forza Italia».
«Alla fine il tempo ci ha dato ragione: dopo anni di battaglie per risollevare un sistema educativo intorbidito dalla coda del ’68, ora anche la sinistra finalmente ha dovuto dare atto ai
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governi Berlusconi di aver agito nella direzione giusta per riportare la scuola italiana ai
fasti che merita — ha detto Gelmini — Parole quali merito, carriera dei docenti, valutazione, premialità, raccordo scuole-impresa, modifica degli organi collegiali della scuola,
sono state portate alla ribalta dal centrodestra, seppur subendo le censure e le aspre critiche da parte di sinistra e sindacati».Gelmini fa torto alla «sinistra» che nel suo linguaggio
viene assimilata all’attuale Partito Democratico. Nel 2008, quando presentò la doppia proposta di riforma dell’università e della scuola (la legge Aprea) il centro-sinistra era
d’accordo. Ma cambiò idea solo perchè milioni di insegnanti, maestri, studenti scesero in
piazza. Stesso discorso vale per la seconda parte di una vicenda che terminò con il voto in
Senato del 23 dicembre 2010. Invece di contestare il voto irregolare su alcuni emendamenti, autorizzati da una memorabile Rosi Mauro (Lega Nord) allora in presidenza
dell’aula, la capogruppo Pd Anna Finocchiaro si distinse per un lungo discorso auto-critico
sul 68. Quello della «sinistra» non è dunque uno «sdoganamento» dell’ideologia del merito
e della valutazione, ma il compimento di un lungo percorso iniziato nel 2006 quando
a viale Trastevere c’era Fabio Mussi. Forza Italia resta scettica sulle coperture finanziarie
per l’assunzione di 150 mila precari nel 2015, in tempi in cui il governo non riesce a trovare 416 milioni per mandare in pensione i «Quota 96». «Se Renzi pensa di cavare un
solo centesimo da nuove tasse — sostiene Gelmini — troverà in Fi un’opposizione
irriducibile». Gelmini riesce anche a identificare una vecchia regola delle politiche
dell’istruzione, del lavoro e della conoscenza in Italia. Le “riforme” ci sono quando è la sinistra a stare al governo. Quella “sinistra” che si vanta ancora di avere un rapporto di concertazione o contiguità con i sindacati, o comunque un potere di interdizione. Senza contare — particolare non secondario — che molti degli insegnanti come dei precari continuano a votarla. Nelle prossime settimane si capirà se reggerà questo legame con le
“vestali del ceto medio”, citando il titolo dispregiativo di un’analisi in realtà classica di Marzio Barbagli sulla scuola italiana negli anni Sessanta. Ci sono altri fattori da considerare.
Nel 2008 il mondo dell’istruzione insorse, ma c’era al governo Berlusconi (da poco tornato
a Palazzo Chigi) e l’anti-berlusconismo (e le campagne anti-casta) stavano diventando la
grammatica dell’opposizione. Oggi c’è Renzi che gode di una buona salute mediatica, sebbene gli editorialisti di tutti i giornali non abbiano nascosto critiche e perplessità sul suo
modo di governare. Nel frattempo l’opposizione studentesca e sindacale è stata fiaccata,
anche dalla crisi e dalla precarietà dilagante. Elementi problematici che non lascerebbero,
al momento, spazio per un movimento paragonabile al 2008 e, ancor più, al 2010. In ogni
caso, gli studenti medi confermano la loro prima data di contestazione: il 10 ottobre in centinaia di piazze in tutto il paese.
Del 05/09/2014, pag. 10
Ferrara/Pasolini, la vita è politica
Venezia 71. In gara il film di Abel Ferrara che mette in scena le ultime 24
ore dell’intellettuale italiano - interpretato da un incredibile Willem Dafoe
- rinunciando all’agiografia del personaggio e di Roma, senza però
tradire la fedeltà al suo quotidiano, di giorno e di notte
Cristina Piccino
I ragazzi del Teatro Marinoni bene comune resistono nel magnifico spazio dell’ex Ospedale al Mare del Lido Venezia recuperato qualche anno fa (www.teatromarinonibeneco
mune.com) dove si arriva seguendo le candele, e si balla e si beve a prezzi normali (2.50
40
euro una birra) fino a tarda notte, qualità musicale alta contro la pessima play list che si
diffonde nell’aria dalle parti del Palazzo del cinema. A Roma invece il cinema America
è stato sgombrato nonostante i tanti complimenti e promesse (anche del ministro Franceschini), la sala trasteverina vintage chiusa da anni, che un gruppo di ragazzi appassionati
e cinefili aveva fatto rivivere, è destinata a diventare un condominio di 22 miniappartamenti
milionari. Palazzinari contro immaginario, vecchia storia nella capitale divorata dal
cemento del boom che continua imperterrito a dilagare nonostante i tempi di deflazione
e di spread. «Possedere e distruggere» diceva Pasolini nell’intervista a Furio Colombo rilasciata ai tempi di Salò, che sarà il suo ultimo film, messo sotto sequestro dai censori italiani, con processo al produttore Grimaldi, gridando allo scandalo e all’offesa alla morale.
Pasolini era morto e non poteva replicare ma forse quanto aveva da dire lo aveva detto
già, nel film e negli scritti. Anche Abel Ferrara è un regista che fa dell’intelligenza provocazione, – basta pensare al geniale Welcome to New York sul caso Strauss Kahn rifiutato in
concorso al Festival di Cannes nei suoi vertici troppo spaventato solo dalle reazioni di
famiglia e benpensanti. Pasolini (in sala il prossimo 25 settembre) era dunque il titolo più
atteso della Mostra, soprattutto perché la sua figura, non solo in Italia, è divenuta nel
tempo un mito e persino un monumento forse (per lo più) in senso contrario a ciò che lui
avrebbe voluto. Ed invece Ferrara che ha scritto la sceneggiatura insieme a Maurizio
Braucci elimina radicalmente l’agiografia pasoliniana del personaggio e della sua città,
Roma, (non solo Mamma) senza però «tradire» la fedeltà ai luoghi, al suo universo intimo,
alle figure che appartengono al suo quotidiano di giorno e di notte, ai suoi conflitti, alle sue
intuizioni. «Volevo raccontare la vita di Pasolini e non la sua morte», dice il regista.
Che questa dissonante partitura di anarchia e lucidità (orchestrata dall’ottimo montaggio di
Fabio Nunziata), in cui Merola sfuma nella voce della Callas, segue in una manciata di
giorni prima della morte, rovesciando la «realtà» della ricostruzione nelle intuizioni
di Petrolio, il suo smascheramento caustico dei salotti borghesi che balenano come in un
sogno oscuro di corruzione e poteri, le notti barocche che sfumano nei bar di angeli caduti.
Gli occhi dei ragazzetti coi giubbini e i pantaloni stretti sul culo dietro ai quali corre
Carlo, il personaggio di Petrolio che il poeta trova «ripugnante», in cerca di un pompino.
E l’ultima sera di Pasolini, quel novembre del 1975, prima di essere ammazzato sulla
spiaggia di Ostia, tra Pommidoro, il ristorante dove era di casa, — il proprietario ne conserva ancora l’assegno — e il Biondo Tevere, dove offrì la cena a Pino Pelosi, il meccanico a cui i soldi non bastavano mai. Ferrara come il Martone de Il giovane favoloso la
«corrispondenza» la cerca più che nei documenti (peraltro studiati con estrema accuratezza) nella parola poetica pasoliniana, Salò e Petrolio, a cui Pasolini stava lavorando,
e il PornoTeo Kolossal ‚il film mai girato. Nei corpi pasoliniani, Ninetto Davoli che interpreta
Epifanio, e insieme a Riccardo Scamarcio, che invece è lui stesso, insegue la cometa per
scoprire che il Paradiso non esiste e la fine non c’è. Il volto di Adriana Asti, meravigliosa
icona del desiderio in Prima della rivoluzione, dell’amico e «pupillo» di Pasolini Bernardo
Bertolucci, le lettere del poeta che scrivendo agli amici cerca di illuminare la sua opera.
E nella violenza, disseminata tra piazze e privato, che esplode feroce nel nostro Paese in
cerca di una possibile rivolta. Tra i tasti della sua lettera 22, e nel sesso, che è «sempre
politico», con una scena di orgia davanti alla quale arrivano Ninetto e Epifanio, in un cortile
di Roma fuori dal tempo, dove si affrontano a colpi di scopate i gladiatori maschi e femmine di «cazzo vaffanculo» «figa vaffanculo». La casa, le camicie, la macchina, l’agenda
di Pasolini sono però ricostruiti con estrema precisione, come le sue giornate di pubblico
e privato, il momento sereno di un pranzo con le persone amate, la madre, il cugino Nico
Naldini (Valerio Mastrandrea), Grazia (Giada Colagrande), l’amica amatissima Laura Betti
che arriva dal set di Jancso e ride con la grazia di Maria De Medeiros mentre racconta
come ha spiegato il sesso alle attrici comuniste.
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Forse per questo il Pasolini di Ferrara appare straniato rispetto all’immagine dominante
che lo racchiude, alle «teorie del complotto» intorno alla sua morte che avviene qui per
soldi, per rabbia, per quel cinismo proletario sfrontato e implacabile che punteggiava le
sue corse notturne. O quelle dei suoi personaggi. Pasolini è un incredibile Willem Dafoe
(nella versione italiana a doppiarlo sarà Fabrizio Gifuni, mentre De Medeiros avrà la voce
di Chiara Caselli), mai predicatorio nelle sue affermazioni che scorticano i sistemi sociali,
i moralismi, il pensiero come luogo comune. «Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere, rifiutare di essere scandalizzati è moralista» dice Pasolini/Dafoe in
un’intervista in Francia per l’uscita di Salò che apre il film. Ma lo scandalo in sé non significa nulla se non è un gesto estetico e politico, e questo Pasolini ferrariano è il film più politico del festival e non nel senso di «impegno» o di denuncia, di svolgimento dei «grandi
temi» della cronaca o dell’attualità con cui oggi sembra coincidere l’idea di un’immagine
politica. Lo è per il sentimento di viscerale libertà che lo attraversa, e per quel suo sguardo
commuovente sul cinema, e forse su di noi o su se stesso, che non può essere più come
un tempo. Nell’interrogare il personaggio Pasolini attraverso la sua opera, e la sua vita,
Ferrara interroga la sostanza profonda di ogni gesto artistico, arte e vita, relazione difficilissima e ambigua, che ha bisogno di un equilibrio perfetto, che rivendica una presa di posizione: correre rischi, esporsi. «Essere vivo è per me fare film», dice Dafoe/Pasolini in uno
dei momenti più sentiti del film, laddove si sente anche più forte l’affinità con l’autore. Ferrara però non «fa» Pasolini, lo moltiplica nei frammenti dei testi, nella sua narrazione non
lineare, stridente, in cui l’immagine non asseconda una storia ma ne contiene infinite. Il
suo Pasolini come il personaggio del precedente 4:44 va con consapevolezza verso
l’apocalisse, assume i rischi di arte e vita che sono quelli dell’intellettuale, dell’artista
rispetto al conformismo del proprio tempo. E in questo corpo a corpo personalissimo Ferrara ci restituisce l’essenza di Pasolini, la sostanza destabilizzante di un pensiero che non
cessa di interrogare il gesto artistico.
Del 5/09/2014, pag. 19
La solitudine di Faber
QUINDICI ANNI SENZA DE ANDRÉ, L’“ANIMA” CHE SCOPRÌ CHE LA STRADA
MAESTRA È QUELLA “CATTIVA”
Di Andrea Scanzi
A più di 15 anni dalla sua scomparsa, Fabrizio De André continua a essere il cantautore
italiano più amato. La celebrazione talora acritica che ha caratterizzato molti tributi, volti
a levigare ogni suo spigolo fino a tramutarlo in una sorta di santino, probabilmente lo
infastidirebbe. De André non ha mai voluto piacere a tutti. Andandosene anzitempo si è
consegnato al mito e ha lasciato un’assenza non colmabile.
PERCHÉ manca così tanto? Perché aveva un talento non comune, certo. Perché aveva
una voce unica, certo. C’è però almeno un altro motivo. I cantautori – quelli più ispirati,
quelli meno modaioli – sono stati figure artistiche assai atipiche. Non riuscivano ad
appartenere, non politicamente almeno, ritrovandosi quasi sempre cani sciolti e
anarcoidi. È il caso di De André come di Gaber. Al tempo stesso, entrambi –pur non
riuscendo ad appartenere – generavano appartenenza. Li si andava a vedere
consapevoli che non sarebbe mai stato soltanto un concerto. Sopra quel palco, più che
un artista, lo spettatore avrebbe trovato un fratello maggiore, capace di dirti – e dirtelo
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bene – quello che gli altri non dicevano. Solo De André sapeva metterti in guardia così
bene dalla maggioranza, quella che coltiva tranquilla “l’orribile varietà delle proprie
superbie (..) come una malattia”. E solo De André rivelava che spesso i diamanti si
trovano dove nessuno mai li cercherebbe, in quel “letame” che è poi l’humus – più subìto
che scelto – dei “servi disobbedienti alla legge del branco”. Ovvero le “anime salve”,
coloro che sapranno consegnare “alla morte una goccia di splendore”. Ecco perché De
André manca così tanto: perché era appartenenza e perché con lui la solitudine era più
tollerabile, o addirittura invidiabile. Ricordarlo, senza retorica e con rispettosa gratitudine,
è anche una maniera per lenire quell’assenza. Giulio Casale e io lo facciamo da quasi
un anno con Le cattive strade, spettacolo che domenica (ore 21.30) chiuderà la festa del
Fatto alla Versiliana. Sarà la 43esima replica, delle 90 da qui a giugno, e sarà
ovviamente particolare. IL TEMA del “diverso”, dell’emarginato è centrale in De André.
L’artista genovese intuisce, apprendendolo anzitutto da Brassens, che la via maestra è
quella “cattiva”, battuta da coloro che hanno lambito la morte (i condannati, i drogati) e
inseguito la pietà per restare in qualche modo salvi. Poiché non esistono poteri buoni, la
salvezza coincide spesso con una inseguita emarginazione che tenga al riparo l’anima e
permetta che qualche raggio di sole arrivi a scaldarti, oltrepassando quelle nuvole –
citazione da Aristofane – che sono poi un’altra rappresentazione del potere opprimente.
I salvi di De André sono Geordie, sono Piero, sono Princesa. In un paese fatalmente
tendente all’ipocrisia, questa insistita vicinanza agli ultimi – e questo smisurato rigore
morale – sono un approccio rivoluzionario. E la rivoluzione è un altro elemento della
longevità del messaggio deandreiano, ormai un classico e dunque reinterpretabile come
chiedono – e anzi esigono – i classici. Era rivoluzionario parlare di Sessantotto
riprendendo non il Maggio francese (che sarebbe arrivato dopo in De André) ma i
Vangeli Apocrifi, applicando a quel presente ribelle l’ossimoro della laicità cristiana. Gli
dicevano: “Che c’entra la Buona Novella? Perché parli di Gesù mentre noi siamo sopra
le barricate?”. E lui: “Perché nessuno è stato più anarchico e rivoluzionario di Gesù”.
Ancor più il Gesù “umanizzato” dei Vangeli non autorizzati. In De André era
rivoluzionario anche l’approccio con il mercato: negli ultimi anni incise un disco ogni sei
anni. Un tempo lentissimo e kubrickiano, per nulla commerciale, che non poteva non
assecondare: De André incideva dischi solo quando aveva qualcosa da dire.
Terrorizzato dai concerti, a cui si avvicinò soltanto nel 1975, De André è stato
rivoluzionario anche in un aspetto che molti volutamente dimenticano: quello musicale.
Spesso la canzone d’autore italiana ha buoni testi ma musiche non all’altez - za. DE
ANDRÉ era il primo a sapere che quella “balbuzie musicale” doveva essere superata,
perché le sue parole sarebbero comunque evaporate – in una nuvola rossa, va da sé –
senza vestiti sonori all’altezza. Per questo, sin dall’inizio e più ancora dalla seconda
metà dei Settanta dopo la tournée con la Pfm, accanto a De André c’è sempre qualcuno.
I fratelli Reverberi, Mannerini, Giuseppe Bentivoglio, New Trolls, Piovani, De Gregori,
Bubola, Pfm, Pagani, Fossati. In quegli Anni Ottanta che videro impantanarsi molti
colleghi, lui – depositario della lingua italiana in musica – rinunciò all’italiano per cantare
in dialetto genovese. Se il mondo era cambiato, e se già si intuivano i prodromi di quella
“pace terrificante” che avrebbe portato alla “do - menica delle salme”, occorreva
cambiare lo strumento della narrazione e inseguire un nuovo (o vecchio) esperanto. De
Gregori ha sostenuto che De André è stato “un grande organizzatore del lavoro altrui”.
Ed è vero che, da solo, ha scritto poche canzoni. Ma non è un limite. Al contrario:
conscio tanto della sua forza quanto delle sue lacune, si è sempre fatto accompagnare
da compagni di viaggio –che spesso hanno toccato il loro apice con lui accanto – proprio
per raggiungere quell’idea altissima di arte che aveva. Chiedersi se sia stato o no un
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poeta è capzioso: musica e cantautorato sono sport diversi. Di sicuro è stato artista
rigoroso, intellettuale inquieto e uomo libero. Anima salva, ieri come oggi.
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ECONOMIA E LAVORO
del 05/09/14, pag. 1/2
L’avviso al premier
FEDERICO FUBINI
MAGARI dipende dal suo retroterra, un’istruzione fra i gesuiti completata da un dottorato a
Boston. O forse è il frutto dell’esperienza accumulata da direttore del Tesoro, nel ‘92,
durante il crollo del Sistema monetario europeo.
MA NEI suoi tre anni alla guida della Bce, Mario Draghi ha maturato un uso delle parole
che ha pochi precedenti fra i banchieri centrali.
Alan Greenspan era deliberatamente oscuro, sempre in cerca di enigmi da lasciare al
pubblico. Ben Bernanke, suo successore alla presidenza della Federal Reserve, preferiva
appoggiarsi sui fatti a ogni passaggio. Draghi invece disse una volta che il modo di
comunicare di un uomo che accentra un tale livello di potere finanziario dev’essere « crisp
»: netto, preciso. Ed in questo stile che il presidente della Bce ieri ha consegnato una serie
di messaggi percepibili, più che nelle parole, negli accenti che le accompagnano. Quando
per esempio Draghi osserva che di flessibilità nelle regole di bilancio europee si discute
solo dopo le riforme interne dei Paesi — «approvate in forma di legge», non solo proposte
— la sua non è solo una generica opinione. È un intervento di precisione chirurgica nel
dibattito europeo di queste settimane.
Per l’8 ottobre Matteo Renzi ha convocato in Italia un vertice dei leader europei sulla
crescita e l’occupazione. La data ha l’aria di non essere lasciata al caso: una o due
settimane dopo il governo dovrà presentare la legge di Stabilità, cioè la manovra di
bilancio sul 2015, che poi va subito sottoposta all’esame della Commissione Ue. Il vertice
europeo in Italia è dunque l’ultima occasione per Renzi di strappare un po’ di “flessibilità”
utilizzabile subito. Dopo quell’incontro con i capi di Stato e di governo Ue, probabilmente
non riuscirà più a ridurre la portata della stretta al bilancio sul 2015 senza rischiare un
conflitto con Bruxelles. Renzi ha bisogno di un accordo con la cancelliera tedesca Angela
Merkel al Consiglio europeo fra un mese.
Si colloca qui il riferimento di Draghi al fatto che la flessibilità va chiesta dopo aver fatto
certe riforme, non quando queste vengono semplicemente annunciate. E per l’Italia il
terreno di prova resta sempre quello sul quale si sono già arenati gli esecutivi di Silvio
Berlusconi, Mario Monti e Enrico Letta: il lavoro. Renzi ieri ha applaudito alle mosse della
Bce per facilitare ancora il credito in Europa. Ma se il premier dovesse arrivare al “suo”
vertice Ue di ottobre con una bozza di progetto sul lavoro ancora poco chiara, per lui
rischierà di far testo l’osservazione di Draghi: in assenza di riforme realmente già messe
sui binari anche l’idea di rallentare il ritmo del risanamento, dunque di approvare una
finanziaria meno pesante, non farebbe molta strada. Può non piacere che in Eurolandia si
possa spingere l’arte del negoziato al confine del ricatto politico. Ma esiste anche un altro
lato della medaglia, che ieri Mario Draghi ha lasciato balenare nelle sue parole. Il
banchiere centrale italiano ha detto chiaramente che il consiglio direttivo dell’Eurotower ieri
ha parlato dell’ipotesi di lanciarsi in acquisti su larga scala, almeno mille miliardi di euro, di
titoli privati e di Stato. Sarebbe la risposta più forte al peso della deflazione dei prezzi che
rischia di schiacciare i Paesi più indebitati, Italia inclusa. Ieri non c’era una maggioranza
per una scelta del genere ma Draghi, deliberatamente, ha ripetuto per ben due volte lo
stesso concetto: un gruppo di governatori è già a favore delle misure più radicali, creare
moneta in enormi quantità e immetterla nell’economia. Per adesso la decisione presa dalla
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Bce di comprare pacchetti di prestiti alle piccolemedie imprese e di mutui immobiliari
promette, nel lungo periodo, di agire in profondità sull’economia. L’Eurotower è ormai
vicina a creare euro dal nulla per prestarli a una famiglia che vuole comprare casa o a un
imprenditore che pensa di investire in un macchinario. Ma gli acquisti su larga scala di titoli
di Stato restano una frontiera diversa. Per ora è lontana. Ma è l’unica che rimane a Draghi
da conquistare.
del 05/09/14, pag. 3
Supermario fissa l’agenda “Prima leggi sulle
riforme la flessibilità solo dopo”
ELENA POLIDORI
ROMA .
«Le riforme strutturali, a questo punto, devono chiaramente prendere slancio». Batte e
ribatte sul concetto, Mario Draghi. Vuole che i governi «emettano e attuino» le misure,
senza inutili chiacchiere. E’ convinto che «nessuno stimolo può bastare da solo» se la
politica non fa la sua parte. Anche per questo, prima della svolta della Bce, ha incontrato o
sentito i leader più influenti, inclusi la tedesca Merkel, il francese Hollande e l’italiano
Renzi. Con quest’ultimo, in piena estate, ha avuto «una conversazione confidenziale »:
«Non ho nulla da aggiungere a quanto detto», taglia corto.
Però è chiaro che per Draghi la questione delle riforme strutturali è cruciale, nel momento
in cui l’economia europea rimane debole, la disoccupazione altissima e l’inflazione
pericolosamente bassa. «Non parlo con i leader politici per chiedere rassicurazioni su
quello che intendono fare: non è questo il dialogo istituzionale corretto. E dunque, non c’è
nessun grande compromesso. Il fatto è che ognuno deve fare il proprio lavoro. Noi
facciamo la politica monetaria, gli altri altre cose». Ovvero, «passi in avanti decisivi» sul
terreno appunto delle riforme strutturali che invece, in molti casi, necessitano ancora di
«passi legislativi » e «dell’attuazione» vera e propria.
Non fa nomi, il presidente della Bce. Ma è evidente che parla anche all’Italia, che detiene
la presidenza di turno in Europa. Nel suo ragionamento, ora che i tassi sono ridotti al
minimo e sta per partire il programma Abs, tocca alla politica dare le risposte che
mancano, pena il rischio di restare impantanati.
Draghi riconosce che le riforme strutturali hanno «molti costi ». Ma si chiede: «La
mancanza di crescita non è già un costo in sé?». Poi aggiunge: «Questo è quello che
vediamo al momento: disoccupazione alta, in molti Paesi ai massimi storici; crescita bassa
da anni con diversi partner ancora lontanissimi dai livelli di sviluppo del 2005». E, non
ultimo, «in alcuni Paesi i salari di ingresso sul mercato del lavoro sono quelli registrati negli
anni ‘80». E allora, se così stanno le cose «non sarebbe meglio portare anche questa
area, quella delle riforme strutturali, entro lo stesso tipo di cornice che abbiamo già per la
disciplina di bilancio? Non si tratta di perdita di sovranità nazionale ma di una condivisione
di regole comuni con altri come è già successo nella politica monetaria con la Bce e l’euro
». Una impostazione del genere «avrebbe molti benefici».
Perciò, basta annunci. Ci vuole invece un Patto per le riforme. Bisogna accelerare «gli
sforzi» per attuarne di vere, che puntino «al raggiungimento di una crescita sostenibile e di
un’occupazione più elevata». Il tutto, senza «tornare sui propri passi» né «disfare» i
risultati ottenuti in termini di risanamento. Anche tutte le richieste di maggiore flessibilità
sono in qualche maniera mal poste. Spiega: «Dal punto di vista di un rafforzamento della
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fiducia, che è una delle ragioni per cui in diverse aree manca la crescita, sarebbe meglio
se facessimo prima una discussione seria sulle riforme strutturali e poi sulla flessibilità: è
questo il mio suggerimento». Secondo Draghi, inoltre, una certa flessibilità esiste già, è
«insita nelle regole».
Del 05/09/2014, pag. 4
Sacconi a capofitto sull’articolo 18
Jobs Act. Il ddl delega da ieri in Senato. Damiano (Pd) contrario alla cancellazione
della tutela: "Per il governo sarebbe un harakiri". Ma l'Ncd ha pronta l'esca per un
possibile accordo: far costare meno il tempo indeterminato
Antonio Sciotto
È così il Jobs Act ha avuto ieri il suo battesimo di fuoco, alla Commissione Lavoro del
Senato. Il presidente Maurizio Sacconi, già ministro del Lavoro nel governo Berlusconi
e uno dei padri della legge 30, fiero nemico dell’articolo 18, è deciso a ottenere il massimo:
ovvero l’intera riscrittura dello Statuto dei lavoratori, facendo sparire – se possibile irreversibilmente – la sua “bestia nera”, ovvero la tutela dai licenziamenti per ingiusta causa.
Per questo ieri Sacconi ha lanciato un’“esca” al Pd, l’alleato dell’Ncd da convincere: facciamo costare meno i contratti a tempo indeterminato, in modo da indurre così le imprese
ad accenderne di più. Principio di per sé condivisibile, auspicato dallo stesso centrosinistra, che potrebbe rappresentare una buona merce di scambio con l’addio all’articolo
18. «C’è un nodo politico da sciogliere, che riguarda la riforma dello Statuto lavoratori, di
cui ha parlato Renzi – ha spiegato ieri Sacconi – Quel testo recepisce ciò che leggi e contratti hanno prodotto negli anni Cinquanta e Sessanta. È giunta l’ora di cambiarlo». In particolare, per l’ex ministro vanno modificate le norme sul tempo indeterminato, che «deve
rimanere il modello principe, ma va reso più conveniente per i datori di lavoro».
Si deve fare una delega «ampia», secondo Sacconi, «che riguardi tutto lo Statuto: e quindi
anche il recesso, le mansioni, il controllo a distanza». Insomma, l’Ncd vuole mettere mano
su temi delicatissimi. Ieri pomeriggio i lavori si sono fermati in attesa del parere della commissione Bilancio. «Confido che giovedì prossimo potremo varare gli articoli diversi da
quello dedicato ai rapporti di lavoro. La settimana successiva dovremo concludere l’esame
per consegnare il testo all’aula attorno a giovedì 18», ha concluso Sacconi.
Ma nel Pd l’idea di cancellare l’articolo 18, come vorrebbero l’Ncd e Pietro Ichino (che
sostituirebbe la reintegra obbligatoria con un risarcimento monetario) non piace: il Partito
democratico, o almeno una sua parte, sarebbe più propenso, in accordo con la Cgil,
a posporre l’applicazione dell’articolo 18 (reintegra inclusa) alla fine del terzo anno del
contratto, come da proposta sulle «tutele crescenti» degli studiosi Boeri e Garibaldi.
Renzi due giorni fa, sul Sole 24 Ore, aveva aperto alla possibilità che si eliminasse la reintegra obbligatoria, facendo capire di propendere per la “via” di Ichino.
Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro della Camera, spiega di essere
«contrario al fatto che si possa cancellare l’articolo 18. Sarebbe un harakiriper il governo
e alimenterebbe il conflitto sociale». «Se qualcuno pensa che al governo ci sia ancora il
centrodestra, sbaglia indirizzo. Sullo Statuto dei lavoratori si possono ipotizzare modifiche
mirate: finora la destra ha messo l’accento su controlli a distanza e demansionamento dei
lavoratori, argomenti di non facile soluzione; io ritengo, invece, che si possa modificare
l’articolo 19 dello Statuto allineandolo alla recente intesa tra le parti sociali su rappresentanza e rappresentatività».
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del 05/09/14, pag. 3
Alle banche italiane 75 miliardi, una spinta
dell’1% sul Pil
ROMA — L’effetto sui tassi di interesse sarà positivo, come pure sui cambi, e il bilancio
pubblico ne trarrà benefici. Ma più che sulla riduzione dei tassi, le attese del ministro
dell’Economia che ha «molto apprezzato» la manovra di ieri della Bce, e del presidente del
Consiglio, secondo il quale «un altro tassello è andato a posto», sono rivolte ai nuovi
meccanismi di rifinanziamento della banca centrale. I disincentivi previsti per le banche
che non “girano” il denaro raccolto dalla Bce alle imprese, e la volontà di acquistare anche
Abs e covered bond, prodotti finanziari emessi dalle imprese, dicono a via XX settembre e
a Palazzo Chigi, potrebbero essere decisivi per l’economia reale e far ripartire la crescita.
Le penalità per chi non impiega i fondi raccolti, per il governo, sono la miglior garanzia che
la nuova liquidità finisca davvero al settore produttivo. Le banche italiane hanno prenotato
75 miliardi di euro presso la Bce da qui alla fine dell’anno (200 miliardi nel prossimo
biennio). Sarebbero una boccata d’ossigeno preziosissima per la ripresa dell’economia,
capace di smuovere anche il prodotto interno lordo. Secondo il governatore della Banca
d’Italia, Ignazio Visco, se tutti i fondi chiesti dalle banche italiane finissero nell’economia
reale, sarebbe lecito attendersi un incremento aggiuntivo dell’1% del pil nel biennio.
Il governo, che sta giocando tutte le sue carte sul rilancio della crescita, ci spera
ardentemente. Inutile dire che per Renzi e Padoan la manovra varata ieri da Mario Draghi
è anche un punto d’appoggio politico fondamentale per spingere in Europa l’idea di
politiche di bilancio meno restrittive accompagnate da investimenti e grandi riforme
strutturali. «Bene così» dice Renzi a proposito di Draghi, mentre il Tesoro sottolinea come
anche «la reazione positiva dei mercati e del cambio» dimostri l’efficacia dell’intervento.
Anche dal deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro, che la riduzione dei tassi della Bce
accelera, il governo si attende effetti positivi sull’economia reale. Una crescita importante
delle esportazioni e del loro contributo al prodotto interno lordo, ma anche un po’ di
inflazione importata attraverso gli acquisti sui mercati esteri.
Al di là dei risvolti politici e degli effetti sull’attività economica, le mosse della Bce avranno
comunque anche una serie di conseguenze sulla politica di bilancio. La riduzione dei tassi
ed il suo impatto sui cambi e sul differenziale di interesse tra i titoli di Stato modificheranno
in modo importante il quadro macroeconomico, e le previsioni sulle quali si costruirà la
legge di bilancio del 2015.
Nel vecchio Documento di Economia di aprile il livello dei tassi di interesse sui titoli a dieci
anni, per il 2014-15, era stimato al 3,6%. Già nei mesi scorsi, però, i tassi erano scesi più
in basso, e dopo gli annunci di Francoforte ieri sono ulteriormente diminuiti, con il
rendimento dei Btp al 2,3%. Stesso discorso per i titoli a breve. Per il bilancio pubblico
significa una minor spesa per gli interessi. Solo tra gennaio e fine luglio sono stati
risparmiati 1,1 miliardi di euro rispetto alle attese iniziali, ma la flessione potrebbe
accelerare con un’ulteriore riduzione dello spread. Nello scenario di aprile il governo lo
prevedeva intorno ai 250 punti base per il 2014. Ma nel corso dell’estate era già sceso
intorno a 150 (il livello medio previsto per il 2015), e ieri ha rotto anche quell’argine.
Mario Sensini
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Del 05/09/2014, pag. II sbilanciamoci
Politica economica europea, che fare?
Claudio Gnesutta
In un contesto internazionale di crescente incertezza, l’Europa presenta una situazione di
disoccupazione e deflazione che preoccupa per la potenziale instabilità politica e sociale.
La pretesa di rilanciare la crescita attraverso l’austerità si è dimostrata, come peraltro previsto, come lo strumento che ha indebolito l’impianto economico tanto da risultare il mezzo
attraverso il quale la recessione si è estesa anche ai paesi più austeri.
L’attuale classe dirigente europea, pur segnata dal disastroso (per lei) risultato elettorale,
non sembra mutare sostanzialmente i suoi orientamenti di fondo, anche se vi sono segnali
per una gestione più «flessibile» del passato. Vanno in questa direzione la proposta di
Draghi sulla necessità di un ruolo maggiore della politica fiscale, l’impegno di Junker di
rilanciare la crescita e l’occupazione in Europa, la nuova agenda di politica economica di
Renzi nel programma Europa, un nuovo inizio della Presidenza Italiana del Consiglio
dell’Ue; si tratta comunque di iniziative da realizzare, come esplicitamente dichiarato, «nel
quadro di importanti riforme strutturali». In presenza di una strategia fondata su una politica fiscale restrittiva e una politica monetaria accomodante, le condizioni depresse della
domanda e l’incertezza sull’evoluzione futura innalza il rischio di credito deprimendo il
finanziamento del settore non-finanziario; ne deriva la spinta a ricercare all’estero sia gli
sbocchi alla propria produzione, sia le opportunità di investimento a scapito degli investimenti interni. Come previsto, la politica di austerità ha sospinto l’economia e la società in
un circolo vizioso recessivo dove la deflazione sociale e la sopravvalutazione del cambio
ha pesanti effetti sui soggetti economicamente più deboli; è dubbio che un processo avvitatosi così su se stesso possa invertire la tendenza attraverso una «limitata flessibilità»
delle politiche economiche. Di fronte ad esiti lontani dalle attese, la risposta politica è che
«bisogna perseverare» nel mettere ordine nell’economia. Non si può sostenere che le
posizioni ufficiali dell’Unione Europea non riconoscano la crisi sociale in corso, ma certamente l’azione al riguardo si presenta debole come attesta lo scarto tra le proposte contenute in Europa2020 e gli strumenti utilizzati per contrastare la crescente disoccupazione,
povertà, precarietà. Andrebbe invece attribuita assoluta priorità a una politica
dell’occupazione che promuova la crescita di posti di lavoro socialmente e ambientalmente
desiderabili accompagnata da una politica del welfare che, avendo come bussola la Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione, contenga impegni altrettanto prescrittivi di quelli imposti
dal fiscal compact. Un social compact che sia una prospettiva comune sul welfare (sui
diritti del lavoro, previdenza e assistenza sociale e abitativa, tutela della salute, diritto
all’istruzione) che abbia al centro un sistema articolato di salario minimo, un piano di assicurazione sociale riguardante tutti i potenziali lavoratori, un sostegno sistematico dei redditi più bassi, anche nella forma di un reddito di esistenza. L’obiettivo è quello di contrastare l’attuale concorrenza (fiscale, salariale, normativa) al ribasso tra i paesi-membri la
quale, per attrarre capitali dall’estero, deprime l’accumulazione produttiva e i conti pubblici
dei propri partner e riduce le risorse pubbliche necessarie ad affrontare le tensioni sociali
che essa provoca. Alla competitività istituzionale va sostituita una cooperazione solidale
a sostegno di quell’aspirazione di civiltà che, con il suo modello sociale, l’Europa dovrebbe
incarnare. La politica di valorizzazione del lavoro e di promozione sociale necessita di una
coerente accumulazione, di una politica industriale non confinata alle politiche della concorrenza. La performance industriale europea di lungo periodo richiede una trasformazione dell’apparato produttivo in senso socialmente e ambientalmente sostenibile con
investimenti pubblici in particolare nelle attività a conoscenza intensiva, elevata compe49
tenza e buona occupazione nei settori della tecnologia dell’informazione e comunicazione,
della tutela dell’ambiente, delle energie rinnovabili. Oltre a stimolare la domanda europea,
questi interventi dovrebbero rilanciare l’accumulazione industriale necessaria a riassorbire
gli attuali squilibri esterni all’interno dell’eurozona. È l’investimento pubblico, e non i salari,
a costituire la variabile di aggiustamento dell’economia. Per quanto riguarda la politica
macroeconomica europea essa va ridefinita: una politica fiscale meno rigida, una politica
monetaria diversamente accomodante, una politica finanziaria di riregolamentazione. Il
fiscal compact va rivisto, mettendo in discussione il concetto di deficit strutturale che non si
è dimostrato — nelle sue basi concettuali e applicative – adeguato come guida della politica macroeconomica. Non essendo il mercato in grado di garantire livelli accettabili di
occupazione, il bilancio pubblico deve tornare ad essere strumento di governo della
domanda aggregata con il compito di sostenere un processo produttivo riqualificato. Va
ampliata la dimensione del bilancio europeo e ridefinita la struttura del prelievo fiscale,
armonizzando l’imposizione fiscale diretta, rafforzando la progressività delle aliquote, non
solo per contrastare la concorrenza sleale, ma per riattivare la redistribuzione richiesta da
una società welfare-led; anche considerato che il favore goduto finora dai profitti e dalle
rendite non ha garantito un’adeguata accumulazione interna, né quantitativamente né
qualitativamente. L’intervento pubblico va finanziato a livello europeo mobilizzando i fondi
delle istituzioni esistenti, ricorrendo alla monetizzazione della banca centrale, sfruttando la
sua moral suasion sul credito bancario. Per quanto essa non possa trascurare la stabilità
finanziaria, la liquidità creata va riorientata verso il circuito industriale, verso l’attività produttiva anche con una diretta monetizzazione dei titoli emessi dai soggetti non-finanziari
per finanziare la loro spesa. Ciò vale per il settore pubblico, per le istituzioni finanziarie
impegnate nei piani di investimento europei, per le imprese private i cui crediti siano cartolizzati dalle banche. Ne sarebbe favorito il processo di reflazione per riportare l’inflazione
a livelli più desiderabili. La ristrutturazione dei debiti pubblici va favorita dalle istituzioni
europee; il loro riassorbimento va facilitato, oltre che con l’espansione del prodotto, con
forme di mutualizzazione quali l’emissione di titoli a firma collettiva in modo da impedire il
concentrasi della speculazione sui paesi finanziariamente più deboli. Vanno regolate le
pratiche speculative della finanza, con l’imposizione fiscale sulle transazioni finanziarie,
i controlli sui movimenti di capitali con i centri finanziari offshore, il blocco dei rapporti con
i paradisi fiscali; va reintrodotta la separazione tra banche commerciali e banche
d’investimento. In presenza di politiche di austerità che promuovono una società strutturalmente più disuguale, la risposta politica deve essere «bisogna cambiare» per evitare il
definitivo deterioramento della tradizione costituzionale europea fondata sull’eguaglianza
nei diritti e nei doveri di tutti i cittadini. L’attuale politica economica europea non è infatti
una politica congiunturale, ma è la gestione consapevole di una transizione verso un
modello di società europea di mercato sulla cui prospettiva non vi è un dibattito esplicito,
e tanto meno democratico. La visione alternativa di politica economica non può essere
ridotta alla mera strumentazione tecnica, ma va interpretata quale espressione di una prospettiva di società fondata sull’inclusione sociale e sullo sviluppo delle persone e come
tale impone di ridefinire i meccanismi di produzione-distribuzione del reddito al fine di
sostenere il sistema di welfare, anche se a costo di un ridimensionamento della crescita.
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