luce e colore vs materia

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luce e colore vs materia
LUCE E COLORE VS MATERIA
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Luisa Mauro
L’attenzione verso il reale posta dai filosofi del
“newrealism”, dopo l’orgia delle interpretazioni che
ha caratterizzato particolarmente il postmoderno, induce a chiedersi, prima ancora della domanda sul
“perché esiste qualcosa e non il nulla”, sulla consistenza del “qualcosa”, sulla struttura delle cose autonoma rispetto alle interpretazioni. L’interrogativo,
naturalmente, non è nuovo e si pone all’origine stessa del pensiero. Nei termini più generali, se per il
soggetto può assumere valore reale anche la più eterea delle fantasie, ciò che invece distinguerebbe in
sé il mondo delle cose è, già per i filosofi greci, la
sua materia, e del resto ancora per noi il termine
“materia”, derivante dal latino mater, conserva
nell’etimo il senso dell’origine, della nascita, di tutti
i corpi: la sostanza prima di cui tutto è formato. Ma,
anche riferendo il reale alla sua consistenza materiale, la domanda sulla sua struttura viene solo rinviata
e la nozione stessa di materia finisce con l’apparire
problematica. In particolare ci si chiede, partendo
dal principio che la materia presente nell’universo
permane in quantità costante, come si originino i diversi enti che la utilizzano. A ciò risponde Empedocle, secondo cui i principi della materia sono da identificare in quattro elementi, terra, acqua, aria e
fuoco, tutti presenti in ogni essere in una dose quantitativa variabile dalla quale dipende la qualità diversa che gli enti presentano. Empedocle anticipa in tal
modo la concezione di una composizione chimica
degli esseri materiali, costituiti dalla mescolanza, dal
composto di elementi primordiali, sebbene, secondo
Anassagora, egli, basandosi sul principio che la materia sia caratterizzata dall’estensione, e quindi procedendo alla sua divisione, onde rintracciare gli elementi primari, si sia fermato troppo presto nel processo, dal momento che le infinite qualità delle cose
non possono risalire solo a quattro elementi, laddove, sulla base del principio “tutto è in tutto”, appare
possibile ritenere vi siano “semi”, ovvero molteplici
elementi infinitesimali che, mantenendo la loro qualità originaria, costituiscono, componendosi in maniera diversa, ogni parte del cosmo. Il pluralismo originario della materia che induce il molteplice delle
cose già determina però una loro inafferrabilità, una
possibile incomprensibilità del reale proliferante in
enti diversi oltre ogni conoscenza. Sarà quindi nel
Timeo di Platone che viene chiarito, in termini metafisici, il ruolo fondante della materia: “Perciò non
diremo che la ‘madre’ è il ricettacolo di ciò che è
generato, visibile e in genere sensibile, sia terra o
aria o fuoco o acqua, né altra cosa nata da queste o
da cui queste siano nate. Ma non ci sbaglieremo di-
cendo che è una specie invisibile e amorfa, che tutto
accoglie e che in qualche modo molto problematico,
partecipa dell’intelligibile ed è molto difficile a
comprendersi”. Ad indicare tale carattere amorfo
Platone utilizza il termine Khora (χώρα) che vuol
dire spazio, luogo, regione, secondo un senso che
sarà ripreso da Aristotele il quale, per spiegare il
molteplice delle cose, ovvero il loro darsi nella forma, pensa esserci un sostrato originario, una materia
“prima”, sempre presente in ogni ente. L’uomo stesso è costituito da elementi corporei (sangue, ossa
ecc.) che a loro volta derivano dagli elementi fondamentali come l’acqua e il fuoco per cui, procedendo a ritroso, si perviene ad una materia prima iniziale, informe, che è difficile definire proprio perché assolutamente priva di caratteri, tale da avere
solo una definizione “negativa” come ciò “di cui
non si dice più che è fatto di qualche altra cosa”.
Ebbene, per quanto la filosofia, potremmo dire
sino al materialismo di Feuerbach e dello stesso
Marx, abbia offerto al reale la struttura fondante, più
che ontologica, metafisica, della materia, è proprio
questa, nella definizione originaria di Khora, ad essere ricondotta da Jacques Derrida all’atto del nominare, se si vuole dell’interpretare, che ne perde ogni
consistenza. Il testo del filosofo francese sul tema
esordisce in questo modo: “Khora ci giunge, come il
nome. Quando un nome viene, esso dice subito più
del nome, l’altro del nome e l’altro come tale, di cui
annuncia per l’appunto l’irruzione”. Oltre a richiamare il tema dell’evento, queste righe ci informano
che per Derrida la questione della Khora ha a che
fare con il nome o meglio, con l’innominabile. In
particolare Khora assume il valore esemplare di
qualcosa che riguarda ogni atto di denominazione
dal momento che il non esservi un significato definitivo per Khora, che è l’origine stessa del reale, implica che non vi è altresì per nessun nome, sì che per
nessun “oggetto” vi è un nome “giusto”. Derrida intende la Khora platonica appunto come qualcosa che
non possiede un’essenza determinabile e la cui presenza appare sempre differita; Khora, secondo tale
filosofo “è l’anacronia nell’essere o, meglio, l’anacronia dell’essere” e questo comporta il venir meno
di ogni essenza stabile per cui ogni possibile presenza deve essere pensata a partire da questa instabilità,
da questa différance. Platone, ovvero il platonismo,
ne risulta capovolto ed ogni traduzione di Khora in
“luogo”, “posto”, “area”, “regione”, “contrada” come ogni figura di “madre”, “nutrice”, “ricettacolo”,
“porta-impronta”, resta impigliata nell’attività interpretativa e, con essa ogni cosa,
Appare superfluo dire che, alla problematicità
che accompagna nei filosofi la definizione della materia e, quindi, del reale, si unisce l’evaporazione
della stessa materia posta dalla scienza. Le scoperte
della fisica relativistica e quantistica contemporanea,
infatti, hanno eliminato, come è noto, la distinzione
newtoniana di materia ed energia, sì che perda di
senso ogni definizione che voglia intendere il reale
in una consistenza materiale.
In architettura, se appare paradossale che gli architetti “realisti” degli anni settanta sfuggano del tutto la materia, annegandola, come accade a Rossi, nel
bianco degli intonaci, in una luce piena cioè che ne
perde la consistenza, è indicativo, di come la relazione con essa sia problematica, il fatto che, proprio
quando più si esalta il suo valore costruttivo, la sua
necessaria presenza reale cioè, questa tende ad attenuarsi e svanire nella luce o nei colori che si danno
nelle definizioni formali.
Se consideriamo che il Partenone e l’architettura
greco-romana in genere erano policromi, così come,
in seguito, le chiese romaniche dove muri, pavimenti, finestre, soffitti, colonne, capitelli, timpani, sculture erano coloratissimi, può dirsi che sin dalla origine e fino al Barocco l’intera città costruita e, quindi, la sua evidente materialità, fu, in opposizione alla
campagna, il luogo della luce e del colore, si direbbe
quello di una vita astratta, convenzionata, non naturale. Anche dopo le scoperte newtoniane sulle emissioni luminose corpuscolari, dalla seconda metà del
XVIII secolo, l’arte neoclassica, sfuggendo lo spettro cromatico ed imponendo invece il candore degli
intonaci, fece della stessa materia il luogo della luce,
quella della ragione, certo, ma anche quella della
propria evanescenza in cui era perduta la consistenza
della pietra. Del resto è di poco successivo, l’edificio tutto di luce del Crystal Palace di Joseph Paxton, il quale, a rendere meno consistente la struttura, colorò a strisce rosse, gialle e blu le membrature
di acciaio, gli impalcati di legno e le fasce di tamponamento tra i vuoti vetrati, interpretando il colore,
così come è dalla definizione latina, colorem, quale
modo del celare, nascondere.
Successivamente, l’eredità dei pittori impressionisti francesi, che concentrano i propri studi sulle
potenzialità spaziali del colore, influenzerà la produzione pittorica di cubisti e astrattisti, giungendo tra
le pareti della Bauhaus e nel movimento olandese
De Stijl, che, attraverso il pittore-architetto Theo van
Doesburg, teorizza l’uso del colore in architettura
onde destrutturare ogni fissazione formale degli edifici e di ogni oggetto. L’idea però di associare luce e
colore alla materia è già rintracciabile in Gottfried
Semper, vero iniziatore dell’architettura moderna,
riferimento costante degli architetti tedeschi che costituiscono il nucleo fondante del modernismo architettonico. Appare cioè significativo che proprio chi,
come Semper, offre all’architettura le basi per interpretarla nella sua consistenza costruttivìva, materiale, consideri altresì la luce, ed i suoi derivati cromatici, quale elemento costruttivo in cui, di fatto,
l’elemento materiale tende ad annullarsi.
La luce, dunque, anche per i moderni, è a tutti gli
effetti un materiale da costruzione con una insostituibile funzione compositiva, ed è proprio all’interno
di questo filone di ricerca che confluiscono i lavori
di due architetti contemporanei, pure di generazione
diversa e del tutto distanti nelle configurazioni formali, i quali, pur utilizzando la materialità costruttiva dell’architettura sino alle più estreme conseguenze, derealizzano la stessa pietra nella variabilità del
luminoso: Louis Kahn e Daniel Libeskind.
Nato nel 1901 in Estonia da una famiglia di origini ebraiche trasferitasi nel 1906 negli Stati Uniti,
Kahn intende come fondamento dell’architettura il
farsi degli spazi nell’aura del silenzio e della luce
dove l’aspirazione ad essere, fare ed esprimere, riconosce le leggi che dischiudono il possibile. In uno
scritto del 1968, infatti, afferma: “Ritengo che la luce sia la fonte di ogni presenza e la materia sia luce
consunta. Ciò che la luce crea, proietta un’ombra e
l’ombra appartiene alla luce. Percepisco la presenza
di una soglia, che separa la luce dal silenzio, che
porta dal silenzio alla luce, immersa in un’atmosfera
ispirata, dove il desiderio di essere e di esprimere
incontra il possibile. La roccia, il corso d’acqua, il
vento sono fonti di ispirazione. Prima con stupore e
poi consapevolmente, osserviamo ciò che di bello vi
è nella materia. Nel santuario dell’arte, la luce incontra il silenzio e il silenzio la luce”.
Nell’opera di Louis Kahn la forma stessa crea la
luce ed anche un ambiente pensato per essere buio
ha bisogno di almeno una lama di luce per comunicare la sua oscurità. Parlando in particolare del proprio progetto per il Kimbell Art Museum, egli altresì
afferma: “Sapevamo che il museo sarebbe stato ricco di sorprese. Seguendo il mutare della qualità della
luce, gli azzurri sarebbero stati diversi da un giorno
all’altro. Niente a che vedere con la staticità della
illuminazione prodotta da una lampadina elettrica,
che dà solo un barlume di quella che è la qualità della luce”. Il museo, infatti, vive tanti stati d’animo
quanti sono gli istanti del tempo e mai, nel corso
della sua vita come costruzione, trascorrerà un giorno uguale all’altro. La volta, elemento che deriva
dalla venerazione di Kahn per l’architettura romana,
è parte essenziale di questa costruzione, e la luce che
scende da una sorgente in alto, ricavata allo Zenith,
sebbene essa non si sollevi a grande altezza, le conferisce modi maestosi, tuttavia appropriati alla scala
umana, evocando così, insieme alla tensione verso la
sorgente luminosa, la sua incommensurabile altezza,
un senso di familiarità e di sicurezza. In Kahn hanno
sicuramente rilievo, a proposito del rapporto mate-
ria-forma-luce, che, nel rinvio delle pareti vuote e
delle ombre, allude ad un messianesimo, le sue origini ebraiche e sono forse queste stesse origini che
determinano la prossimità, pur nella interpretazione
di quello stesso rapporto in termini del tutto differenti, di Daniel Libeskind.
Nato in Polonia nel 1946 da genitori sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, Libeskind ha trascorso l’infanzia in patria, dove si è dedicato allo studio
della musica. Trasferitosi in Israele, a Tel Aviv, con
la famiglia, nel 1960, fruisce di una borsa di studio
negli Stati Uniti dove frequenta la facoltà di architettura della Cooper Union for the Advancement of
Science and Art e conosce Peter Eisenman. Recatosi
a Londra per specializzarsi presso l’Università
dell’Essex, in Storia e Teoria dell'Archittetura, redige i primi progetti che gli consentono di partecipare
alla mostra del 1988 “Deconstructivist Architecture”
al Museum of Modern Art di New York. Due anni
dopo vince il concorso per l’ampliamento del Museo
Ebraico di Berlino dove offre al suo progetto il motto “Between the lines” (tra le linee), essendo esso il
risultato dell’incontro, o meglio dello scontro, tra
una linea diritta e frammentata con una saetta.
L’edificio si sviluppa per un’altezza di quattro piani,
ha una superficie di diecimila metri quadrati e non
ha un accesso indipendente. Per entrarvi, è necessario scendere una scalinata che si trova nell’adiacente
palazzo barocco della Kollegienhaus, sede del Museo della Città di Berlino, e poi risalire un tunnel
sotterraneo. Da qui si sviluppa un sistema labirintico
di “pieni” e “vuoti” che si divide in tre diverse strade. La prima è quella del percorso espositivo in senso stretto. La seconda conduce al giardino, il cui
spazio è tutt’altro che confortevole in quanto è costituito da 49 alte colonne di cemento posate su un piano inclinato, tali da rendere uno squilibrato spaesamento. La terza via, infine, conduce a una torre a
forma di triangolo acuto, con una feritoia in alto che
illumina lo spazio, come la lama di un coltello. È la
Torre dell’Olocausto, lasciata volutamente priva di
impianto di riscaldamento per accrescere il senso di
orrore che attanaglia chiunque vi entri. Dentro la luce è indiretta, penetra da una stretta feritoia in alto
da cui non è possibile vedere fuori e capire dove si
è, così come accadeva agli Ebrei nei campi di concentramento. L’accesso è uno squarcio nella parete
bianca. Muri neri, spigolosi, inclinati fuoriescono.
Le scale sono molto scure. Dalla luce esterna diffusa
all’interno attraverso sottili aperture poste oltre la
vista si passa alla luce dei neon, algida, senza modulazioni, fredda, ed infine a quella piena
dell’esterno del giardino, ma tutte le tre modulazioni
del rapporto tra la luce e le forme, che all’esterno si
rivestono di metallo grigio, sembrano voler indicare
una inaccessibilità, l’assenza di un vero chiarore, si
direbbe, proprio, l’assenza di Dio, cui si può solo
alludere. Con l’inaugurazione del Museo Ebraico
Libeskind è diventato uno dei maggiori architetti dei
nostri tempi e per lui è iniziata un’altra grande serie
di eccezionali progetti: l’Imperial War Museum
North, a Trafford, in Inghilterra; lo Studio Weill,
Port d'Andratx, a Mallorca; nel 2002 il progetto del
Creative Media Center ad Hong Kong e del Militärhistorisches Museum di Dresda; nel 2004 la London
University Post Graduate Center a Londra e la riprogettazione di Ground Zero, dopo la caduta delle
torri gemelle. Tra questi lavori si fanno spazio anche
opere minori, definite tali solo per le caratteristiche
dimensionali in quanto l’autore dedica ad esse la
stessa devozione e lo stesso impegno che infonde in
opere maggiori. Nel Settembre del 2005, infatti, realizza a Padova un monumento in memoria delle vittime dell’attentato dell’11 Settembre 2001 intitolato
“Memoria e Luce”. Il monumento, unico in Europa,
è stato concepito intorno ai resti contorti di una trave
del World Trade Center, esposta al padiglione americano della Biennale di Venezia del 2002 e quindi
donata dalla città di New York alla Regione Veneto.
La struttura si compone di una parete in vetro satinato, lunga 50 metri con una altezza variabile da 2 a 5
metri, che termina in un cuneo alto 17 metri, formato anch’esso da due pareti di vetro a forma di libro
aperto. All’interno di una di queste due pareti è incastonato il frammento, lungo quasi sei metri, del
World Trade Center. L’opera cambia luce e caratteristiche a seconda dell’angolo di osservazione. La
luce si fa materia e ridisegna gli spazi e le forme per
farsi improvvisamente buia, ancora a dire l’assenza
di ogni luminosità, sia trascendente che razionale e
scritta nella sofferenza di vita degli uomini, accettabile solo in vista di una parola indicibile. Il significato di quest'opera è spiegato chiaramente dalle parole di Libeskind: “La luce della libertà splende attraverso il Libro della Storia. L’eterna affermazione
di Libertà è iscritta nella Statua della Libertà, come
è stata vista da milioni di emigranti che arrivavano
in America. La latitudine di New York è connessa al
centro di Padova dalla cerniera verticale del Libro. Il
Libro è luminoso, come il basso ed espressivo muro
che crea un luogo intimo per la meditazione”.
Luce vuole dire anche trasparenza che, con l’uso
sempre più diffuso ed esteso del vetro, un materiale
che in un certo senso si autonega, assume dalla seconda metà dell’Ottocento un ruolo determinante sia
nello spazio interno che nel rapporto tra edificio ed
esterno, tra materia e infinito. La luce infatti è diventata nel tempo protagonista di molte esperienze architettoniche, dai progetti per i grattacieli in vetro di
Mies van der Rohe alla monumentale parete concava
del fronte est della sede del Partito comunista francese a Parigi di Oscar Niemeyer, dalla casa Spiller
di Frank Owen Gehry, in cui la luce del sole, che
piove dall’alto e lateralmente, gioca con le strutture
in legno e ferro creando intrecci e arabeschi sempre
diversi, alle innumerevoli coperture trasparenti, utilizzate nei luoghi di vita associata.
Proprio Libeskind, il 18 aprile 2004, è invitato a
tenere una conferenza, in occasione del centenario
della nascita, sull’opera di uno degli architetti che
maggiormente si è affidato al vetro ed alla luce,
Giuseppe Terragni, al quale molto spesso egli sostiene di essersi ispirato. Nell’ambito di questa conferenza Libeskind, nel parlare del lavoro di Terragni,
si sofferma su due elementi che ne hanno caratterizzato l’intera attività: il rapporto con la luce, da cui
ne consegue la rivoluzione del vetro, e l’utilizzo
dell’elemento colore. Egli dice tra l’altro: “Da Terragni possiamo imparare che l’architettura è un’arte
sociale che appartiene ad ogni cittadino e influenza
ogni essere umano, ogni famiglia, ogni bambino e la
memoria di ogni nazione. La riduzione all’essenziale
e la purificazione dell’architettura come smantellamento del lavoro della memoria sono due elementi
essenziali sempre presenti nella sua architettura. La
memoria fa parte dell’architettura. Terragni intendeva l’architettura non un’arte silenziosa ma una forma
di comunicazione”. Memoria e ombra sono argomenti assolutamente propri a Terragni e la trasparenza, la riflessività e le ombre sono anche in lui un
modo per alludere alla trascendenza sebbene, come
è evidente, mentre in Libeskind, allo stesso modo
che in Kahn, la luce, simbolo appunto del trascendente, non si offre mai in una pienezza, in Terragni,
cattolico, la luce è tentata sin dentro il suo nucleo.
Massimo Cacciari ha mostrato come il tema
della luce domini la cultura filosofica e le tradizioni
religiose, non solo europee, sin dall’inizio. Basti
pensare al ruolo simbolico che la luce svolge nella
Genesi, nella filosofia greca e nel platonismo, dove
si fondono sia aspetti religiosi che filosofici. In questi contesti emerge in un duplice aspetto. Una dimensione è quella per cui la luce è condizione generale dell’apparire, e quindi un inizio sovra essenziale
dove non è l’elemento dell’apparire bensì la condizione dell’apparire stesso. In secondo luogo, la luce
emerge anche come ciò che noi vediamo, tanto che
Euripide diceva ‘dolce è vedere la luce’.
Il platonismo, secondo l’indagine speculativa che
Cacciari conduce, si riconosce in ogni pensiero, filosofico o religioso, che pone nell’Essere, in Dio, nel
Fondamento, tutto ciò di cui non possiamo fare a
meno senza rinnegare noi stessi, la nostra essenza
più profonda che si riflette nella illuminazione delle
cose. La luce rappresenta quindi, anche nel pensiero
cristiano, il potere divino che ci apre al mondo, così
come è scritto nel “Vangelo” di Giovanni, che riprende il tema di Dio come luce. Dio è in esso lux,
la sorgente; il figlio è lumen, ovvero la luce che scaturisce dalla sorgente. Il rinvio del padre al figlio
dominante nell’iconologia cristiana che fa riferimen-
to alla luce illustra pertanto anche la relazione tra
Dio e il mondo, Dio e gli esseri terreni, nel senso
che la lux, creando l’universo, si fa lumen essendo i
raggi le creature e, generalmente, il molteplice apparire delle cose. Sarà per questo che, così come non
intende Libeskind, e lo stesso Eisenman che pure offre una lettura dell’opera di Terragni, mentre per gli
architetti ebrei il differimento di muro in muro della
forma, con quello di ombra in ombra della luce, interpreta l’infinito sfuggire del divino, nell’architetto
italiano il medesimo differire di pareti ed elementi
statici possiede il senso della crisi di chi tenta, nel
ritenere di poter risalire, con Dante, dal lumen alla
lux, giungere oltre l’empireo, sino alla impossibile
comprensione dell’intero abitare, dell’intero essere.
Tale aspirazione è sicuramente riconoscibile nella
vetrata di ingresso della casa del fascio di Como dove si riflette la cattedrale, o nel Danteum, che non è
semplicemente un intervento rivolto ad interpretare
la città di Roma o il poema di Dante, quanto un modo per tentare l’assunzione dell’architettura, della
sua stessa materia costruttiva, al Paradiso, sebbene
proprio in tale progetto emerga già la sfiducia, nel
vetro posto in alto a tentare il cielo, di poter catturare, nelle definizioni costruttive, le cose. Ed è anzi il
colore, in cui si differisce ulteriormente la luce, a
mostrare il declinare di Terragni nella crisi e nella
sfiducia circa la trasparenza e la luminosità del moderno. L’errore derivante, infatti, dalla rappresentazione in bianco e nero delle sue opere ha avuto un
grande potere di dissimulazione, mostrando architetture immacolate sotto il velo di un colore bianco uniforme, il quale nella sua purezza accecante ha avvicinato inesorabilmente la sua architettura a
un’opera di pittura concettuale, al bianco su bianco
di Kasimir Malevich, o al rigore di una architettura
funzionale. Giuseppe Terragni ci ha invece tramandato opere ricche di materia e di colori che, dopo
l’iniziale gioia cromatica comune ai suoi amici astrattisti, sono confluiti nelle più corrusche atmosfere di Sironi e di Novecento. Nella Casa del Fascio di
Como, scolorita dal tempo, le ampie superfici vetrate sono lo strumento incolore per esplorare tutto lo
spettro dei colori della materia. L’assonanza, la coerenza e la rispondenza di materia e colori suscita qui
una vera emozione michelangiolesca: graniti rosso
di Baveno, sienite nera, marmi di pietra di Trani a
filetto rosso, marmi giallo Adriatico, marmi neri Col
di Lana, marmi neri del Belgio, marmi di Musso,
porfiriti ocra, cristalli colorati in pasta, vetri opalini
azzurri, vetri opalini verdi, profilati ebanizzati. Alle
grigie pietre della città medievale Giuseppe Terragni
sembra voler contrapporre l’ottimismo della materia
colorata del Novocomum e della Casa del Fascio e
la ricchezza di materia e colore emerge in tali progetti, tra i documenti originali, dal modello in scala
1:50 del primo, che riporta i colori scelti per la fac-
ciata, e da due fotografie della seconda confermate
da alcune minuziose descrizioni nella corrispondenza intercorsa con le ditte costruttrici oltre che da
campioni di colori ritrovati nelle murature. Si intravede in tale aspirazione a ricondurre la luce ai colori
della materia tutto il senso della fiducia di Terragni,
manifestata nei primi progetti, nella possibilità, per
l’architettura, di ordinare il mondo, di offrire agli
uomini una chiave onde ricercare la sintonia con esseri e cose. Fiducia che appare del tutto smarrita,
dopo il concorso per il Palazzo Littorio, proprio nei
nuovi modi coloristici del progetto del Danteum,
dove ai tenui acquerelli con cui definisce il progetto,
i quali già ne dispongono la dispersione, corrisponde
il ricorso alla materialità oscura delle “terre” propria
alla pittura di Sironi chiamato ad illustrare l’edificio
onde lasciarlo sconfinare nell’illusione.
Una sfiducia, non solo ad irretire il reale nelle
trame dell’architettura, quanto anche a riconoscere il
senso di concretezza dello stesso costruire, la quale,
prima che a Terragni, appartiene già a quei protagonisti del moderno che, con l’esito della prima guerra
mondiale, riconoscono, pur nelle nuove occasioni di
lavoro, la fine degli entusiasmi dell’avanguardia. E’
il caso di Bruno Taut il quale, partendo da un uso
istintivo del colore, ha dato vita a realizzazioni architettoniche policrome con l’intento di migliorare
la qualità della vita. Ed anche in lui, alla fantasmagoria del Glaspavillon, il padiglione per l’industria
vetraria al Werkbund di Colonia, del 1914, antecedente la guerra, corrispondono i colori squillanti, e
pure privi di festosità, degli alloggi popolari di Magdeburgo, progettati tra il 1921 ed il 1924, dove lo
stanco ricorso ai temi cromatici e formali espressionisti, utilizzati negli anni venti nei quartieri di Berlino, si perdono nella uniformità funzionalista. In un
certo senso può ritenersi che l’uso del colore in intonaci e serramenti a Magdeburgo, rivolto ad attenuare
la rigidità delle tecnologie utilizzate e l’uso di volumi e tipologie edilizie omologate, finisca von il ricondurre la variabilità cromatica ad una funzionalità,
quella di rendere più accettabile il cupo grigiore della vita del dopoguerra manifesto anche nei modi abitativi. E’ indicativo che, alla fuga di Taut, il quale
tentò di ritrovare la gioia rivoluzionaria prima
nell’unione sovietica e dopo in Turchia, dove morì,
abbiano trovato corrispondenza le trasformazioni attuate in epoca nazista, soprattutto sul colore degli
intonaci, cui si sono sovrapposti negli anni Sessanta
e Settanta interventi destinati alla riqualificazione
abitativa degli alloggi, ormai divenuti obsoleti, che
hanno finito con il modificarne radicalmente
l’assetto tipologico, tecnologico e compositivo sino
ai più recenti interventi di restauro filologico, condotti che hanno riproposto la loro originaria configurazione.
Kahn, Libeskind, Terragni, Taut, architetti differenti di epoche diverse che hanno tentato in modi
vari di offrire realtà alla stessa costruzione, esaltandola nella luce o rilevandola nel colore, i quali proprio in tale tentativo hanno scontato il silenzio. Forse la stessa realtà, oltre ogni divino, è indicibile, anche se non si può non tentare, pure nel progetto di
architettura, di dirla.
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