luce e colore vs materia
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luce e colore vs materia
LUCE E COLORE VS MATERIA 57 Luisa Mauro L’attenzione verso il reale posta dai filosofi del “newrealism”, dopo l’orgia delle interpretazioni che ha caratterizzato particolarmente il postmoderno, induce a chiedersi, prima ancora della domanda sul “perché esiste qualcosa e non il nulla”, sulla consistenza del “qualcosa”, sulla struttura delle cose autonoma rispetto alle interpretazioni. L’interrogativo, naturalmente, non è nuovo e si pone all’origine stessa del pensiero. Nei termini più generali, se per il soggetto può assumere valore reale anche la più eterea delle fantasie, ciò che invece distinguerebbe in sé il mondo delle cose è, già per i filosofi greci, la sua materia, e del resto ancora per noi il termine “materia”, derivante dal latino mater, conserva nell’etimo il senso dell’origine, della nascita, di tutti i corpi: la sostanza prima di cui tutto è formato. Ma, anche riferendo il reale alla sua consistenza materiale, la domanda sulla sua struttura viene solo rinviata e la nozione stessa di materia finisce con l’apparire problematica. In particolare ci si chiede, partendo dal principio che la materia presente nell’universo permane in quantità costante, come si originino i diversi enti che la utilizzano. A ciò risponde Empedocle, secondo cui i principi della materia sono da identificare in quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, tutti presenti in ogni essere in una dose quantitativa variabile dalla quale dipende la qualità diversa che gli enti presentano. Empedocle anticipa in tal modo la concezione di una composizione chimica degli esseri materiali, costituiti dalla mescolanza, dal composto di elementi primordiali, sebbene, secondo Anassagora, egli, basandosi sul principio che la materia sia caratterizzata dall’estensione, e quindi procedendo alla sua divisione, onde rintracciare gli elementi primari, si sia fermato troppo presto nel processo, dal momento che le infinite qualità delle cose non possono risalire solo a quattro elementi, laddove, sulla base del principio “tutto è in tutto”, appare possibile ritenere vi siano “semi”, ovvero molteplici elementi infinitesimali che, mantenendo la loro qualità originaria, costituiscono, componendosi in maniera diversa, ogni parte del cosmo. Il pluralismo originario della materia che induce il molteplice delle cose già determina però una loro inafferrabilità, una possibile incomprensibilità del reale proliferante in enti diversi oltre ogni conoscenza. Sarà quindi nel Timeo di Platone che viene chiarito, in termini metafisici, il ruolo fondante della materia: “Perciò non diremo che la ‘madre’ è il ricettacolo di ciò che è generato, visibile e in genere sensibile, sia terra o aria o fuoco o acqua, né altra cosa nata da queste o da cui queste siano nate. Ma non ci sbaglieremo di- cendo che è una specie invisibile e amorfa, che tutto accoglie e che in qualche modo molto problematico, partecipa dell’intelligibile ed è molto difficile a comprendersi”. Ad indicare tale carattere amorfo Platone utilizza il termine Khora (χώρα) che vuol dire spazio, luogo, regione, secondo un senso che sarà ripreso da Aristotele il quale, per spiegare il molteplice delle cose, ovvero il loro darsi nella forma, pensa esserci un sostrato originario, una materia “prima”, sempre presente in ogni ente. L’uomo stesso è costituito da elementi corporei (sangue, ossa ecc.) che a loro volta derivano dagli elementi fondamentali come l’acqua e il fuoco per cui, procedendo a ritroso, si perviene ad una materia prima iniziale, informe, che è difficile definire proprio perché assolutamente priva di caratteri, tale da avere solo una definizione “negativa” come ciò “di cui non si dice più che è fatto di qualche altra cosa”. Ebbene, per quanto la filosofia, potremmo dire sino al materialismo di Feuerbach e dello stesso Marx, abbia offerto al reale la struttura fondante, più che ontologica, metafisica, della materia, è proprio questa, nella definizione originaria di Khora, ad essere ricondotta da Jacques Derrida all’atto del nominare, se si vuole dell’interpretare, che ne perde ogni consistenza. Il testo del filosofo francese sul tema esordisce in questo modo: “Khora ci giunge, come il nome. Quando un nome viene, esso dice subito più del nome, l’altro del nome e l’altro come tale, di cui annuncia per l’appunto l’irruzione”. Oltre a richiamare il tema dell’evento, queste righe ci informano che per Derrida la questione della Khora ha a che fare con il nome o meglio, con l’innominabile. In particolare Khora assume il valore esemplare di qualcosa che riguarda ogni atto di denominazione dal momento che il non esservi un significato definitivo per Khora, che è l’origine stessa del reale, implica che non vi è altresì per nessun nome, sì che per nessun “oggetto” vi è un nome “giusto”. Derrida intende la Khora platonica appunto come qualcosa che non possiede un’essenza determinabile e la cui presenza appare sempre differita; Khora, secondo tale filosofo “è l’anacronia nell’essere o, meglio, l’anacronia dell’essere” e questo comporta il venir meno di ogni essenza stabile per cui ogni possibile presenza deve essere pensata a partire da questa instabilità, da questa différance. Platone, ovvero il platonismo, ne risulta capovolto ed ogni traduzione di Khora in “luogo”, “posto”, “area”, “regione”, “contrada” come ogni figura di “madre”, “nutrice”, “ricettacolo”, “porta-impronta”, resta impigliata nell’attività interpretativa e, con essa ogni cosa, Appare superfluo dire che, alla problematicità che accompagna nei filosofi la definizione della materia e, quindi, del reale, si unisce l’evaporazione della stessa materia posta dalla scienza. Le scoperte della fisica relativistica e quantistica contemporanea, infatti, hanno eliminato, come è noto, la distinzione newtoniana di materia ed energia, sì che perda di senso ogni definizione che voglia intendere il reale in una consistenza materiale. In architettura, se appare paradossale che gli architetti “realisti” degli anni settanta sfuggano del tutto la materia, annegandola, come accade a Rossi, nel bianco degli intonaci, in una luce piena cioè che ne perde la consistenza, è indicativo, di come la relazione con essa sia problematica, il fatto che, proprio quando più si esalta il suo valore costruttivo, la sua necessaria presenza reale cioè, questa tende ad attenuarsi e svanire nella luce o nei colori che si danno nelle definizioni formali. Se consideriamo che il Partenone e l’architettura greco-romana in genere erano policromi, così come, in seguito, le chiese romaniche dove muri, pavimenti, finestre, soffitti, colonne, capitelli, timpani, sculture erano coloratissimi, può dirsi che sin dalla origine e fino al Barocco l’intera città costruita e, quindi, la sua evidente materialità, fu, in opposizione alla campagna, il luogo della luce e del colore, si direbbe quello di una vita astratta, convenzionata, non naturale. Anche dopo le scoperte newtoniane sulle emissioni luminose corpuscolari, dalla seconda metà del XVIII secolo, l’arte neoclassica, sfuggendo lo spettro cromatico ed imponendo invece il candore degli intonaci, fece della stessa materia il luogo della luce, quella della ragione, certo, ma anche quella della propria evanescenza in cui era perduta la consistenza della pietra. Del resto è di poco successivo, l’edificio tutto di luce del Crystal Palace di Joseph Paxton, il quale, a rendere meno consistente la struttura, colorò a strisce rosse, gialle e blu le membrature di acciaio, gli impalcati di legno e le fasce di tamponamento tra i vuoti vetrati, interpretando il colore, così come è dalla definizione latina, colorem, quale modo del celare, nascondere. Successivamente, l’eredità dei pittori impressionisti francesi, che concentrano i propri studi sulle potenzialità spaziali del colore, influenzerà la produzione pittorica di cubisti e astrattisti, giungendo tra le pareti della Bauhaus e nel movimento olandese De Stijl, che, attraverso il pittore-architetto Theo van Doesburg, teorizza l’uso del colore in architettura onde destrutturare ogni fissazione formale degli edifici e di ogni oggetto. L’idea però di associare luce e colore alla materia è già rintracciabile in Gottfried Semper, vero iniziatore dell’architettura moderna, riferimento costante degli architetti tedeschi che costituiscono il nucleo fondante del modernismo architettonico. Appare cioè significativo che proprio chi, come Semper, offre all’architettura le basi per interpretarla nella sua consistenza costruttivìva, materiale, consideri altresì la luce, ed i suoi derivati cromatici, quale elemento costruttivo in cui, di fatto, l’elemento materiale tende ad annullarsi. La luce, dunque, anche per i moderni, è a tutti gli effetti un materiale da costruzione con una insostituibile funzione compositiva, ed è proprio all’interno di questo filone di ricerca che confluiscono i lavori di due architetti contemporanei, pure di generazione diversa e del tutto distanti nelle configurazioni formali, i quali, pur utilizzando la materialità costruttiva dell’architettura sino alle più estreme conseguenze, derealizzano la stessa pietra nella variabilità del luminoso: Louis Kahn e Daniel Libeskind. Nato nel 1901 in Estonia da una famiglia di origini ebraiche trasferitasi nel 1906 negli Stati Uniti, Kahn intende come fondamento dell’architettura il farsi degli spazi nell’aura del silenzio e della luce dove l’aspirazione ad essere, fare ed esprimere, riconosce le leggi che dischiudono il possibile. In uno scritto del 1968, infatti, afferma: “Ritengo che la luce sia la fonte di ogni presenza e la materia sia luce consunta. Ciò che la luce crea, proietta un’ombra e l’ombra appartiene alla luce. Percepisco la presenza di una soglia, che separa la luce dal silenzio, che porta dal silenzio alla luce, immersa in un’atmosfera ispirata, dove il desiderio di essere e di esprimere incontra il possibile. La roccia, il corso d’acqua, il vento sono fonti di ispirazione. Prima con stupore e poi consapevolmente, osserviamo ciò che di bello vi è nella materia. Nel santuario dell’arte, la luce incontra il silenzio e il silenzio la luce”. Nell’opera di Louis Kahn la forma stessa crea la luce ed anche un ambiente pensato per essere buio ha bisogno di almeno una lama di luce per comunicare la sua oscurità. Parlando in particolare del proprio progetto per il Kimbell Art Museum, egli altresì afferma: “Sapevamo che il museo sarebbe stato ricco di sorprese. Seguendo il mutare della qualità della luce, gli azzurri sarebbero stati diversi da un giorno all’altro. Niente a che vedere con la staticità della illuminazione prodotta da una lampadina elettrica, che dà solo un barlume di quella che è la qualità della luce”. Il museo, infatti, vive tanti stati d’animo quanti sono gli istanti del tempo e mai, nel corso della sua vita come costruzione, trascorrerà un giorno uguale all’altro. La volta, elemento che deriva dalla venerazione di Kahn per l’architettura romana, è parte essenziale di questa costruzione, e la luce che scende da una sorgente in alto, ricavata allo Zenith, sebbene essa non si sollevi a grande altezza, le conferisce modi maestosi, tuttavia appropriati alla scala umana, evocando così, insieme alla tensione verso la sorgente luminosa, la sua incommensurabile altezza, un senso di familiarità e di sicurezza. In Kahn hanno sicuramente rilievo, a proposito del rapporto mate- ria-forma-luce, che, nel rinvio delle pareti vuote e delle ombre, allude ad un messianesimo, le sue origini ebraiche e sono forse queste stesse origini che determinano la prossimità, pur nella interpretazione di quello stesso rapporto in termini del tutto differenti, di Daniel Libeskind. Nato in Polonia nel 1946 da genitori sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti, Libeskind ha trascorso l’infanzia in patria, dove si è dedicato allo studio della musica. Trasferitosi in Israele, a Tel Aviv, con la famiglia, nel 1960, fruisce di una borsa di studio negli Stati Uniti dove frequenta la facoltà di architettura della Cooper Union for the Advancement of Science and Art e conosce Peter Eisenman. Recatosi a Londra per specializzarsi presso l’Università dell’Essex, in Storia e Teoria dell'Archittetura, redige i primi progetti che gli consentono di partecipare alla mostra del 1988 “Deconstructivist Architecture” al Museum of Modern Art di New York. Due anni dopo vince il concorso per l’ampliamento del Museo Ebraico di Berlino dove offre al suo progetto il motto “Between the lines” (tra le linee), essendo esso il risultato dell’incontro, o meglio dello scontro, tra una linea diritta e frammentata con una saetta. L’edificio si sviluppa per un’altezza di quattro piani, ha una superficie di diecimila metri quadrati e non ha un accesso indipendente. Per entrarvi, è necessario scendere una scalinata che si trova nell’adiacente palazzo barocco della Kollegienhaus, sede del Museo della Città di Berlino, e poi risalire un tunnel sotterraneo. Da qui si sviluppa un sistema labirintico di “pieni” e “vuoti” che si divide in tre diverse strade. La prima è quella del percorso espositivo in senso stretto. La seconda conduce al giardino, il cui spazio è tutt’altro che confortevole in quanto è costituito da 49 alte colonne di cemento posate su un piano inclinato, tali da rendere uno squilibrato spaesamento. La terza via, infine, conduce a una torre a forma di triangolo acuto, con una feritoia in alto che illumina lo spazio, come la lama di un coltello. È la Torre dell’Olocausto, lasciata volutamente priva di impianto di riscaldamento per accrescere il senso di orrore che attanaglia chiunque vi entri. Dentro la luce è indiretta, penetra da una stretta feritoia in alto da cui non è possibile vedere fuori e capire dove si è, così come accadeva agli Ebrei nei campi di concentramento. L’accesso è uno squarcio nella parete bianca. Muri neri, spigolosi, inclinati fuoriescono. Le scale sono molto scure. Dalla luce esterna diffusa all’interno attraverso sottili aperture poste oltre la vista si passa alla luce dei neon, algida, senza modulazioni, fredda, ed infine a quella piena dell’esterno del giardino, ma tutte le tre modulazioni del rapporto tra la luce e le forme, che all’esterno si rivestono di metallo grigio, sembrano voler indicare una inaccessibilità, l’assenza di un vero chiarore, si direbbe, proprio, l’assenza di Dio, cui si può solo alludere. Con l’inaugurazione del Museo Ebraico Libeskind è diventato uno dei maggiori architetti dei nostri tempi e per lui è iniziata un’altra grande serie di eccezionali progetti: l’Imperial War Museum North, a Trafford, in Inghilterra; lo Studio Weill, Port d'Andratx, a Mallorca; nel 2002 il progetto del Creative Media Center ad Hong Kong e del Militärhistorisches Museum di Dresda; nel 2004 la London University Post Graduate Center a Londra e la riprogettazione di Ground Zero, dopo la caduta delle torri gemelle. Tra questi lavori si fanno spazio anche opere minori, definite tali solo per le caratteristiche dimensionali in quanto l’autore dedica ad esse la stessa devozione e lo stesso impegno che infonde in opere maggiori. Nel Settembre del 2005, infatti, realizza a Padova un monumento in memoria delle vittime dell’attentato dell’11 Settembre 2001 intitolato “Memoria e Luce”. Il monumento, unico in Europa, è stato concepito intorno ai resti contorti di una trave del World Trade Center, esposta al padiglione americano della Biennale di Venezia del 2002 e quindi donata dalla città di New York alla Regione Veneto. La struttura si compone di una parete in vetro satinato, lunga 50 metri con una altezza variabile da 2 a 5 metri, che termina in un cuneo alto 17 metri, formato anch’esso da due pareti di vetro a forma di libro aperto. All’interno di una di queste due pareti è incastonato il frammento, lungo quasi sei metri, del World Trade Center. L’opera cambia luce e caratteristiche a seconda dell’angolo di osservazione. La luce si fa materia e ridisegna gli spazi e le forme per farsi improvvisamente buia, ancora a dire l’assenza di ogni luminosità, sia trascendente che razionale e scritta nella sofferenza di vita degli uomini, accettabile solo in vista di una parola indicibile. Il significato di quest'opera è spiegato chiaramente dalle parole di Libeskind: “La luce della libertà splende attraverso il Libro della Storia. L’eterna affermazione di Libertà è iscritta nella Statua della Libertà, come è stata vista da milioni di emigranti che arrivavano in America. La latitudine di New York è connessa al centro di Padova dalla cerniera verticale del Libro. Il Libro è luminoso, come il basso ed espressivo muro che crea un luogo intimo per la meditazione”. Luce vuole dire anche trasparenza che, con l’uso sempre più diffuso ed esteso del vetro, un materiale che in un certo senso si autonega, assume dalla seconda metà dell’Ottocento un ruolo determinante sia nello spazio interno che nel rapporto tra edificio ed esterno, tra materia e infinito. La luce infatti è diventata nel tempo protagonista di molte esperienze architettoniche, dai progetti per i grattacieli in vetro di Mies van der Rohe alla monumentale parete concava del fronte est della sede del Partito comunista francese a Parigi di Oscar Niemeyer, dalla casa Spiller di Frank Owen Gehry, in cui la luce del sole, che piove dall’alto e lateralmente, gioca con le strutture in legno e ferro creando intrecci e arabeschi sempre diversi, alle innumerevoli coperture trasparenti, utilizzate nei luoghi di vita associata. Proprio Libeskind, il 18 aprile 2004, è invitato a tenere una conferenza, in occasione del centenario della nascita, sull’opera di uno degli architetti che maggiormente si è affidato al vetro ed alla luce, Giuseppe Terragni, al quale molto spesso egli sostiene di essersi ispirato. Nell’ambito di questa conferenza Libeskind, nel parlare del lavoro di Terragni, si sofferma su due elementi che ne hanno caratterizzato l’intera attività: il rapporto con la luce, da cui ne consegue la rivoluzione del vetro, e l’utilizzo dell’elemento colore. Egli dice tra l’altro: “Da Terragni possiamo imparare che l’architettura è un’arte sociale che appartiene ad ogni cittadino e influenza ogni essere umano, ogni famiglia, ogni bambino e la memoria di ogni nazione. La riduzione all’essenziale e la purificazione dell’architettura come smantellamento del lavoro della memoria sono due elementi essenziali sempre presenti nella sua architettura. La memoria fa parte dell’architettura. Terragni intendeva l’architettura non un’arte silenziosa ma una forma di comunicazione”. Memoria e ombra sono argomenti assolutamente propri a Terragni e la trasparenza, la riflessività e le ombre sono anche in lui un modo per alludere alla trascendenza sebbene, come è evidente, mentre in Libeskind, allo stesso modo che in Kahn, la luce, simbolo appunto del trascendente, non si offre mai in una pienezza, in Terragni, cattolico, la luce è tentata sin dentro il suo nucleo. Massimo Cacciari ha mostrato come il tema della luce domini la cultura filosofica e le tradizioni religiose, non solo europee, sin dall’inizio. Basti pensare al ruolo simbolico che la luce svolge nella Genesi, nella filosofia greca e nel platonismo, dove si fondono sia aspetti religiosi che filosofici. In questi contesti emerge in un duplice aspetto. Una dimensione è quella per cui la luce è condizione generale dell’apparire, e quindi un inizio sovra essenziale dove non è l’elemento dell’apparire bensì la condizione dell’apparire stesso. In secondo luogo, la luce emerge anche come ciò che noi vediamo, tanto che Euripide diceva ‘dolce è vedere la luce’. Il platonismo, secondo l’indagine speculativa che Cacciari conduce, si riconosce in ogni pensiero, filosofico o religioso, che pone nell’Essere, in Dio, nel Fondamento, tutto ciò di cui non possiamo fare a meno senza rinnegare noi stessi, la nostra essenza più profonda che si riflette nella illuminazione delle cose. La luce rappresenta quindi, anche nel pensiero cristiano, il potere divino che ci apre al mondo, così come è scritto nel “Vangelo” di Giovanni, che riprende il tema di Dio come luce. Dio è in esso lux, la sorgente; il figlio è lumen, ovvero la luce che scaturisce dalla sorgente. Il rinvio del padre al figlio dominante nell’iconologia cristiana che fa riferimen- to alla luce illustra pertanto anche la relazione tra Dio e il mondo, Dio e gli esseri terreni, nel senso che la lux, creando l’universo, si fa lumen essendo i raggi le creature e, generalmente, il molteplice apparire delle cose. Sarà per questo che, così come non intende Libeskind, e lo stesso Eisenman che pure offre una lettura dell’opera di Terragni, mentre per gli architetti ebrei il differimento di muro in muro della forma, con quello di ombra in ombra della luce, interpreta l’infinito sfuggire del divino, nell’architetto italiano il medesimo differire di pareti ed elementi statici possiede il senso della crisi di chi tenta, nel ritenere di poter risalire, con Dante, dal lumen alla lux, giungere oltre l’empireo, sino alla impossibile comprensione dell’intero abitare, dell’intero essere. Tale aspirazione è sicuramente riconoscibile nella vetrata di ingresso della casa del fascio di Como dove si riflette la cattedrale, o nel Danteum, che non è semplicemente un intervento rivolto ad interpretare la città di Roma o il poema di Dante, quanto un modo per tentare l’assunzione dell’architettura, della sua stessa materia costruttiva, al Paradiso, sebbene proprio in tale progetto emerga già la sfiducia, nel vetro posto in alto a tentare il cielo, di poter catturare, nelle definizioni costruttive, le cose. Ed è anzi il colore, in cui si differisce ulteriormente la luce, a mostrare il declinare di Terragni nella crisi e nella sfiducia circa la trasparenza e la luminosità del moderno. L’errore derivante, infatti, dalla rappresentazione in bianco e nero delle sue opere ha avuto un grande potere di dissimulazione, mostrando architetture immacolate sotto il velo di un colore bianco uniforme, il quale nella sua purezza accecante ha avvicinato inesorabilmente la sua architettura a un’opera di pittura concettuale, al bianco su bianco di Kasimir Malevich, o al rigore di una architettura funzionale. Giuseppe Terragni ci ha invece tramandato opere ricche di materia e di colori che, dopo l’iniziale gioia cromatica comune ai suoi amici astrattisti, sono confluiti nelle più corrusche atmosfere di Sironi e di Novecento. Nella Casa del Fascio di Como, scolorita dal tempo, le ampie superfici vetrate sono lo strumento incolore per esplorare tutto lo spettro dei colori della materia. L’assonanza, la coerenza e la rispondenza di materia e colori suscita qui una vera emozione michelangiolesca: graniti rosso di Baveno, sienite nera, marmi di pietra di Trani a filetto rosso, marmi giallo Adriatico, marmi neri Col di Lana, marmi neri del Belgio, marmi di Musso, porfiriti ocra, cristalli colorati in pasta, vetri opalini azzurri, vetri opalini verdi, profilati ebanizzati. Alle grigie pietre della città medievale Giuseppe Terragni sembra voler contrapporre l’ottimismo della materia colorata del Novocomum e della Casa del Fascio e la ricchezza di materia e colore emerge in tali progetti, tra i documenti originali, dal modello in scala 1:50 del primo, che riporta i colori scelti per la fac- ciata, e da due fotografie della seconda confermate da alcune minuziose descrizioni nella corrispondenza intercorsa con le ditte costruttrici oltre che da campioni di colori ritrovati nelle murature. Si intravede in tale aspirazione a ricondurre la luce ai colori della materia tutto il senso della fiducia di Terragni, manifestata nei primi progetti, nella possibilità, per l’architettura, di ordinare il mondo, di offrire agli uomini una chiave onde ricercare la sintonia con esseri e cose. Fiducia che appare del tutto smarrita, dopo il concorso per il Palazzo Littorio, proprio nei nuovi modi coloristici del progetto del Danteum, dove ai tenui acquerelli con cui definisce il progetto, i quali già ne dispongono la dispersione, corrisponde il ricorso alla materialità oscura delle “terre” propria alla pittura di Sironi chiamato ad illustrare l’edificio onde lasciarlo sconfinare nell’illusione. Una sfiducia, non solo ad irretire il reale nelle trame dell’architettura, quanto anche a riconoscere il senso di concretezza dello stesso costruire, la quale, prima che a Terragni, appartiene già a quei protagonisti del moderno che, con l’esito della prima guerra mondiale, riconoscono, pur nelle nuove occasioni di lavoro, la fine degli entusiasmi dell’avanguardia. E’ il caso di Bruno Taut il quale, partendo da un uso istintivo del colore, ha dato vita a realizzazioni architettoniche policrome con l’intento di migliorare la qualità della vita. Ed anche in lui, alla fantasmagoria del Glaspavillon, il padiglione per l’industria vetraria al Werkbund di Colonia, del 1914, antecedente la guerra, corrispondono i colori squillanti, e pure privi di festosità, degli alloggi popolari di Magdeburgo, progettati tra il 1921 ed il 1924, dove lo stanco ricorso ai temi cromatici e formali espressionisti, utilizzati negli anni venti nei quartieri di Berlino, si perdono nella uniformità funzionalista. In un certo senso può ritenersi che l’uso del colore in intonaci e serramenti a Magdeburgo, rivolto ad attenuare la rigidità delle tecnologie utilizzate e l’uso di volumi e tipologie edilizie omologate, finisca von il ricondurre la variabilità cromatica ad una funzionalità, quella di rendere più accettabile il cupo grigiore della vita del dopoguerra manifesto anche nei modi abitativi. E’ indicativo che, alla fuga di Taut, il quale tentò di ritrovare la gioia rivoluzionaria prima nell’unione sovietica e dopo in Turchia, dove morì, abbiano trovato corrispondenza le trasformazioni attuate in epoca nazista, soprattutto sul colore degli intonaci, cui si sono sovrapposti negli anni Sessanta e Settanta interventi destinati alla riqualificazione abitativa degli alloggi, ormai divenuti obsoleti, che hanno finito con il modificarne radicalmente l’assetto tipologico, tecnologico e compositivo sino ai più recenti interventi di restauro filologico, condotti che hanno riproposto la loro originaria configurazione. Kahn, Libeskind, Terragni, Taut, architetti differenti di epoche diverse che hanno tentato in modi vari di offrire realtà alla stessa costruzione, esaltandola nella luce o rilevandola nel colore, i quali proprio in tale tentativo hanno scontato il silenzio. Forse la stessa realtà, oltre ogni divino, è indicibile, anche se non si può non tentare, pure nel progetto di architettura, di dirla. 61